L'Italia di Trento, l'Italia senza Trento

Cristiani d'Italia (2011)

L'Italia di Trento, l'Italia senza Trento

Vincenzo Lavenia

Illiade per le cose di Germania, Italiade

A più di cento anni dalla chiusura del concilio, la città di Trento meritò una descrizione a stampa al pari di altre nella penisola. Obbedendo quasi a una moda letteraria del tempo, il reverendo Michel’Angelo Mariani tracciò la storia della sede illustre dell’assise ecumenica, ne esaltò l’antichità, la qualità e le ricchezze, ne raccontò le curiosità, ne elencò le famiglie più influenti e ricordò le intricate circostanze che avevano portato alla decisione di riunire i padri della Chiesa in quel luogo dopo lunghi conflitti tra i pontefici e l’imperatore:

«prima d’eleggersi il luogo del congresso, passarono anni intieri di contrasto; perché, doppo essersi proposte varie città, e tutte rigettate, come tra l’altre Mantova, e Vincenza, dove erasi anche già promolgato, ben si vidde che gli eretici non altro più chiedevano, che un Concilio; non altro men volevano, che un Concilio, o se pur lo volevano, era a modo loro».

L’accordo, alla fine, si era potuto trovare indicando Trento, principato vescovile italiano ma soggetto all’impero tedesco, che Mariani definiva efficacemente come «città contermina e promiscua»1. Collocazione geografica e demografia, in sostanza, erano sufficienti per significare che quella scelta era stata il frutto di un abile compromesso che gli storici, non ultimo Hubert Jedin, hanno ricostruito minuziosamente2. Ma prima di Mariani una penna più acuta era stata altrettanto icastica: narrando del braccio di ferro tra Roma e Carlo V, Paolo Sarpi aveva scritto che il papato aveva dichiarato di non potere consentire di celebrare il concilio in Germania perché l’Italia non avrebbe sopportato «di essere posposta» «per la prerogativa del pontificato, che è proprio di quella». Un’assise tedesca, era stato fatto notare alla corte asburgica, non avrebbe potuto riunire la cristianità fedele ai pontefici perché, oltre che dagli italiani, sarebbe stata disertata dai francesi e dagli spagnoli, «che nelle cose ecclesiastiche cedono all’Italia»3. Quel concilio, nel giudizio di Sarpi, era stato un caso patente di eterogenesi dei fini, un «chiaro documento per rasignare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana». Infatti, che della lenta politica di rafforzamento della monarchia papale il Tridentino fosse una tappa vittoriosa, non vi era dubbio:

«desiderato e procurato dagl’huomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma e ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato maggiore disformazione che sia mai stata».

Soprattutto,

«dalli vescovi adoperato per racquistar l’auttorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente [...] temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezzo per moderare l’essorbitante potenza da piccioli principii pervenuta con vari progressi ad eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata [...], che mai fu tanta né così ben radicata»4.

È un giudizio classico, formulato da un uomo di parte; ma resiste all’usura del tempo. Si potrà pensare che la categoria di Controriforma sia un po’ desueta (lo è anche quella di ‘Riforma cattolica’, da sempre preferita dalla tradizione cattolica); che il concilio abbia costituito un momento di piena mutazione e di svolta sulla via della modernizzazione del cattolicesimo, per il suo collocarsi nell’alveo europeo del disciplinamento e della confessionalizzazione; ed è senz’altro così5. Ma Sarpi coglieva nel segno: il concilio chiuse con ogni tentativo di mediazione teologica con la parte avversa; ristabilì il primato del corpo clericale e di Roma nella gestione delle assisi ecumeniche della Chiesa (diversamente da quanto era accaduto durante la stagione, più politica, di Costanza e di Basilea); impose ai vescovi la cura delle anime senza alcun compenso sul piano dei poteri (la riforma sarebbe stata gestita da Roma); rafforzò quello stesso papato che aveva temuto il ritorno della stagione conciliarista avversata dai pontefici come spina nel fianco.

L’imperatore aveva pensato di risolvere le cose di Germania, di accantonare le armi in virtù del compromesso teologico, salvando la sua autorità (e quella della Chiesa) nelle aree dell’impero tedesco; e tuttavia il papato era un ‘totato’, una monarchia che si identificava con l’Italia, di cui era la prerogativa. Per di più, la gestione centralizzata dell’applicazione dei decreti conciliari, sotto l’occhio vigile delle congregazioni romane, avrebbe avuto in Italia il suo terreno di elezione, anche se non mancò l’iniziativa delle Chiese locali di più robusta tradizione (basti citare il caso di Milano). Ciò spiega perché la storia di quel concilio ha suscitato nella penisola pareri tanto contrastanti nel quadro di una storia religiosa, quella italiana, da sempre condizionata dalla presenza dei papi a Roma.

«Dalla metà del XIX secolo – ha scritto di recente John O’Malley – forse in nessuna altra parte d’Europa gli studi sul XVI secolo sono stati così chiaramente e costantemente divisi in due campi: laici e cattolici. In nessun altro paese come in Italia tali studi sono stati altresì pretesto per discutere aspramente di questioni politiche contemporanee»6.

Per dargli ragione, ma anche per identificare confini ideologici meno rigidi di quanto appaia fuori d’Italia, basti leggere una pagina di Benedetto Croce, apparsa nel 1929, in un anno cruciale per lo Stato unitario: in un quadro di decadenza spirituale, si osserva nella Storia dell’età barocca in Italia, la Chiesa cattolica assolse comunque al compito di evitare all’Italia i conflitti di religione e di mantenere «una forte disciplina etica nei popoli sui quali si stese la sua tutela [...]. Ancora oggi l’opera dellaControriforma matura frutti di utilità sociale»7. In tal senso il Tridentino è apparso – come in realtà fu – un passaggio cruciale, la cui lettura ha segnato momenti importanti dell’Italia fascista e di quella repubblicana8.

Ma come si applicò nelle realtà diocesane della penisola? Che impatto ebbe sul clero e sui laici? Con quale geografia, con quale storia? Se i pontefici, a Trento, intesero reagire al lungo processo di costituzione di Chiese nazionali con una forte ipoteca politica (un fenomeno che ebbe effetti soprattutto in Spagna e in Francia e che in Inghilterra si risolse in scisma), e se l’origine della Riforma si spiega anche e soprattutto in quel clima, l’Italia della prima età moderna era senz’altro un caso a sé non meno della Germania: il papato (al tempo di Paolo III molti umanisti lo percepirono nitidamente)9 era l’unica istituzione di dimensioni nazionali, il cardinalato una sorta di holding in mano alle famiglie che reggevano la penisola, in un quadro di frammentazione e di debolezza politica che favoriva il tramonto della libertà italiana e di una stagione di protagonismo cittadino e principesco nell’esercizio della fede: l’ascesa e il controllo dei vertici della Curia pontificia sulla stessa applicazione delle norme tridentine scaturivano da questo contesto. Quella vigilanza si accompagnò subito alla messa in campo di uno strumento temibile come quello dell’Inquisizione centralizzata papale, che testò i suoi primi effetti proprio contro l’episcopato e i cardinali della corrente degli spirituali, persino a Trento10, e non si estese, se non in minima parte, fuori dalla penisola: l’ortodossia tridentina ebbe così una polizia nuova, efficiente, che limitava o metteva sotto tutela quella ordinaria dei vescovi e degli ordini religiosi, simile e diversa rispetto a quella iberica, interamente clericale e destinata a sorvegliare (prima che i laici) i frati, le monache, i sacerdoti, i prelati, imponendo i confini del dogma ma, con il passare del tempo, anche una severa regolamentazione morale. Per altro verso, proprio in Italia, nella Milano spagnola del cardinal nepote Carlo Borromeo, si sperimentò quel modello di vescovo conciliare che avrebbe goduto di enorme fortuna in tutta l’Europa cattolica al fianco di altri idealtipi (iberici) come quello di Pedro Guerrero a Granada e di Bartolomeu dos Mártires a Braga11.

De Reformatione

La presenza di chierici italiani alle fasi del concilio (1545-1549, 1551-1552, 1562-1563) fu, insieme alla rappresentanza spagnola, la più numerosa; ma non si trattava certo del fronte più aperto al rinnovamento, anche se nelle ultime sessioni si fece sentire la voce di un partito di Curia determinato a dare qualche segnale di discontinuità: un «gruppetto degli innovatori», guidato dalla sapiente mano dei legati pontifici (tutti italiani). La definizione è di Alberigo, che ha posto in evidenza come taluni ecclesiastici, «provenienti sia dal clero secolare che dai grandi ordini mendicanti, non avevano spesso che un legame molto sottile con le condizioni religiose italiane»12. Inoltre mentre le nazioni d’Oltralpe agivano di concerto, consultando i loro principi13, e i teologi ‘stranieri’ ebbero un ruolo determinante nel corso dei lavori preparatori, nelle votazioni l’Italia contava non poco, pur senza ipotecarne gli esiti (del resto, i gruppi provenienti dalla penisola erano divisi al loro interno in modo assai sensibile). Appare dunque caricaturale una pagina vergata anni più tardi dal libertino Gregorio Leti che prese di mira il rapporto tra Roma e il clero della penisola scrivendo che

«la politica de’ Pontefici nell’introdurre in Italia si gran numero di Vescovi non è stata cattiva, havendo preteso con questo di fare in modo, che la Natione Italiana potesse contrapesare ne’ Concilii tutto il resto dell’altre Nationi; e veramente il Concilio di Trento non haverebbe havuto un fine si avantagioso al Pontefice, se il numero de’ Vescovi Italiani non fosse stato di gran lunga maggiore a quello de gli altri Regni»14.

Vi fu un primo decreto super Reformatione già durante la sessione VII del concilio (3 marzo 1547): il suo contenuto, ed è significativo, riguardava quasi esclusivamente il tema dei benefici ecclesiastici, del loro cumulo, dello scandalo che derivava dal mancato legame tra la cura e le risorse in cui era invischiata gran parte del clero e che era stato favorito dai meccanismi di patronato laicale, dagli interventi del potere civile e, soprattutto in Italia, dal papato come vero dominus beneficiorum, come centro di distribuzione di laute o povere prebende senza alcun vincolo con i doveri pastorali. Altri decreti de Reformatione seguirono poi nelle sessioni successive, man mano che si definiva il quadro dottrinale e la materia dei sacramenti: nella sessione XIII (11 ottobre 1551, sulla residenza dei vescovi e il rafforzamento della giurisdizione ordinaria), nella XIV (25 novembre 1551, sulla disciplina del clero), nella XXI (16 luglio 1562, ancora sul clero, sul decoro del culto, sulle elemosine) e nella XXII (17 novembre 1562, sul controllo vescovile di confraternite, scuole e ospedali, ma anche sul dovere di correggere un clero che doveva obbligarsi «a fuggire il lusso, i banchetti, i balli, i dadi, i giochi e qualsiasi altro disordine, nonché gli affari secolari»)15. Ma fu l’insieme dei provvedimenti varati nelle ultime tre sessioni (XXIII-XXV) quello che più di ogni altro avrebbe ridisegnato, almeno sulla carta, la Chiesa postridentina. Si pensi, in tema di laici, alla legislazione matrimoniale (sessione XXIV, 11 novembre 1563), che sarebbe diventata terreno di aspri conflitti con il potere civile: si sacramentalizzò una volta per tutte l’unione dei coniugi, si prescrissero le pubblicazioni, si normò la materia dei gradi di parentela carnale e spirituale, si intese colpire il concubinato, si rimise la punizione della bigamia ai magistrati secolari (ma della materia si sarebbe occupata ben presto, anche in Italia, l’Inquisizione)16. E un monito riguardò anche la violenza sociale che si accompagnava spesso alla scelta di un partner. Esso può ricordarci da quale lunga storia traesse origine la pietas di Alessandro Manzoni nell’immaginare la sua vicenda lombarda del secolo XVII: «è sommamente empio violare la libertà del matrimonio e provocare ingiustizie proprio da parte di coloro da cui si dovrebbe attendere la giustizia»; si comandava perciò a tutti, «di qualsiasi grado, dignità e condizione», «di non volere impedire in nessun modo, direttamente o indirettamente, ai loro sudditi o a qualsiasi altro, di contrarre liberamente matrimonio»17. I don Rodrigo erano avvertiti e così i loro pastori; ma per altro verso nulla avrebbe potuto scalfire davvero una concezione della donna che relegava il sesso femminile in una condizione subordinata: ne nacque una precettistica per le mogli, le zitelle e le vedove che fu uno speciale sottogruppo nel vasto genere dei trattatelli destinati ai diversi stati della vita cristiana che fiorì dopo il concilio. Nella loro produzione (agile e lucrosa per un’editoria, quella italiana, che fu costretta sempre più spesso a rinunciare alle favole ‘pagane’) si sarebbe distinto il vescovo di Verona, poi membro dell’Indice, Agostino Valier18.

Nella stessa sessione XXIV fu approvato il decreto de Reformatione più pingue, anticipato dalle norme del 15 luglio 1563, che sancirono l’obbligo di residenza dei pastori d’anime e il dovere di tenere scuole di dottrina. Si ordinò così ai vescovi metropoliti di convocare almeno ogni tre anni un concilio provinciale sul modello di quelli caduti in desuetudine; si prescrisse agli ordinari di visitare per intero la propria diocesi nell’arco di due anni, personalmente o scegliendo dei delegati19; si disse ancora lecita l’imposizione di penitenze pubbliche per alcune specie infami di colpe; si impose di disciplinare quanto di ‘anarchico’ poteva riscontrarsi nella predicazione (l’eretico Bernardino Ochino era stato il più grande oratore d’Italia prima di fuggire Oltralpe); si dispose di aprire e di dotare20 i seminari per la formazione del clero in cura d’anime. Con la sessione XXV (3-4 dicembre 1563) si completò il piano: per le università era prescritta una professio fidei Tridentinae come obbligo per tutti i docenti (ma la Serenissima fece in modo di osteggiare il giuramento di fede nel suo ateneo patavino, frequentato da molti ‘ultramontani’), per i lasciti pii si disponeva l’assolvimento dell’obbligo di dire messa, per il clero il divieto di tenere concubine, per i laici quello di sfidarsi in duello, per i patroni di interferire nella scelta dei curati. La materia dei casi riservati rimase una selva, a dispetto delle denunce fioccate anche prima del concilio. Quella delle indulgenze meritò un passaggio inversamente proporzionale all’importanza che aveva avuto nell’originare la rivolta di Lutero. Il potere degli ordini religiosi regolari e in larga parte anche quello della Curia romana come sede di ultima istanza per gli appelli e per la richiesta di esenzioni e privilegi non furono toccati se non in misura minore, ma si stabilì la sorveglianza più ferrea dei chiostri femminili, tentando di arginare il fenomeno delle monacazioni forzate. I vescovi da quel momento erano chiamati a ingaggiare una lotta con i rami maschili degli ordini21 per potere esercitare un vero controllo e il diritto a mettere bocca nella scelta dei confessori delle religiose. I disordini non cessarono; la pretesa santità e l’abbandono mistico, a volte persino la supposta presenza del demonio, furono mezzi tutt’altro che straordinari con cui si poté recuperare uno spazio di libertà e di protagonismo femminili; lo stretto legame delle religiose con i direttori spirituali costituì una fonte di allarme per le autorità. Le differenze sociali inoltre furono perpetuate anche nei monasteri, dove le badesse di origine nobiliare o patrizia continuarono ad atteggiarsi a principesse ben sapendo di potere contare sull’appoggio di patroni influenti e sui privilegi che la Congregazione dei regolari (e delle monache), che fu fusa significativamente con quella dei vescovi, continuò a elargire per tutto il corso dell’epoca moderna.

I dicasteri romani, del resto, ebbero un peso di grande rilievo nel condizionare l’applicazione del concilio, che nella sessione XXV demandò a commissioni di nomina papale il compito di stilare il catechismo della Chiesa romana, il messale e il breviario ufficiali (ma non il rituale, per cui bisognò attendere, nel 1614, il pontificato di Paolo V). Fu rimandata anche la stesura definitiva di un Indice dei libri proibiti dotato di regole (1564) e destinato a sostituire quello, supplente e inquisitoriale, di Paolo IV (1558), per il cui aggiornamento sarebbe stata istituita, un decennio dopo, la Congregazione dell’Indice, che si affiancò a quella ben più robusta e fratesca del Sant’Uffizio romano, non senza innescare forti conflitti. La penisola iberica ebbe liste proprie, altri paesi cattolici non obbedirono alle proibizioni romane; l’Italia si adeguò e vide evaporare molta della sua libertà intellettuale. Per l’interpretazione dei canoni e dei decreti dell’assise, stante il divieto assoluto di chiosarli con un commento canonistico, si rimandava alla Congregazione del concilio, che nel corso della sua esistenza impose l’obbligo delle periodiche visite dei pastori ad limina apostolorum (cioè a Roma, presso il pontefice) e non seppe estendere davvero il suo raggio d’azione oltre la penisola italiana. Del resto, non c’è da stupirsi che l’Italia rimanesse, anche in tempi di egemonia iberica, il pilastro della Chiesa cattolica: occorrevano nunzi apostolici e per questo la Segreteria di stato papale continuò ad attingere a monsignori italiani derogando per loro all’obbligo conciliare della residenza; occorreva che i cardinali diventassero funzionari più docili e incardinati nei ministeri romani, specie dopo che papa Sisto V regolamentò il numero e le funzioni delle congregazioni (1588). Senza contare l’antica diffidenza romana nei confronti dei vescovi: Pio V non si fidava di loro e ne incriminò diversi con le procedure dell’Inquisizione e lo stesso Ghislieri impose il vaglio papale sui candidati italiani alle sedi diocesane (1567).

Approvati dal papa, gli atti del concilio dovevano poi essere recepiti anche dai governi civili, e in questo senso si misura tutta la differenza tra l’Italia e il resto dell’Europa cattolica: la Francia tardò a introdurli ufficialmente fino al 1614; le terre dell’impero reagirono male; la Spagna seppe dare il proprio consenso, ma fatte salve le prerogative regali. I riflessi si ebbero anche nei domini iberici della penisola italiana (il ducato milanese, il viceregno di Napoli, quelli di Sicilia e di Sardegna); ma forse il terreno più difficile si rivelò lo Stato dei Savoia appena restaurato (1559), che si appellava alla sua tradizione ‘gallicana’ per resistere a Roma nei territori di lingua francese. Ne fecero le spese i nunzi, alle prese con lunghe trattative come longa manus della Curia e al contempo del Sant’Uffizio22. Se vi fu una geografia dell’applicazione del concilio, dunque, è anzitutto al nodo dei poteri secolari che bisogna guardare e non tanto a una supposta differenza di zelo tridentino tra i prelati del Nord, del Centro e del Sud Italia. Si guardi alla mappa dei concili provinciali riuniti in Italia nel mezzo secolo successivo al 1563, in ottemperanza ai decreti di riforma. Ebbene, ne furono celebrati sette a Milano, ma solo uno a Genova, uno ad Aquileia e nessuno in altre realtà del Settentrione. Più dinamica risulta la situazione nello Stato pontificio (un concilio a Fermo, tre a Benevento, due a Ravenna) e soprattutto nel Sud: se ne tennerro a Siponto e Bari (1567), a Capua (1569, 1577, 1603), a Napoli (1576), a Cosenza (1579, 1596), a Sorrento (1584), a Trani (1589), a Salerno, Amalfi e Santa Severina (1596), a Reggio Calabria (1602)23. Semmai, come ha osservato Claudio Donati, è alla rete delle diocesi che bisogna guardare per percepire le diversità, e in questo senso la differenza tra Nord e Sud, tra episcopati ricolmi di beni e altri poveri, tra diocesi estese e diocesi rachitiche, ebbe un peso anche negli sviluppi della riforma conciliare. I mutamenti intervenuti nella struttura territoriale delle diocesi italiane dopo Trento furono esigui, ha osservato Donati, e perché si potesse conoscere una trasformazione per accorpamento e per ridisegno sulla base dei confini politici fu necessario attendere la stagione del giurisdizionalismo e il tardo Concordato del 1818 con il Regno delle due Sicilie. Nel 1743 le diocesi del Sud peninsulare erano ancora 131, poi scesero a 78. Le loro dimensioni erano lontane da quelle del Nord, le loro risorse poco appetibili per i pastori d’anime più dinamici, che non avevano alcuna voglia di accettare la cura d’anime del Sud della penisola. Quando, nel corso del Seicento, il controllo vicereale sulla violenza feudale si fece più blando, poteva capitare che il vicario della diocesi di Nusco venisse accoppato e che il titolare chiedesse di essere destinato ad altro incarico temendo per la pelle24.

Vi è un secondo elemento, forse, di cui tenere conto: le complesse vicende che portarono alla rinascita dell’Inquisizione pontificia in Italia si scontrarono nel Sud con una resistenza che venne giocata da Madrid contro Roma e da Roma contro Madrid. La formula di compromesso venne raggiunta definitivamente nel 1564, subito dopo la fine del concilio, quando il Sant’Uffizio, che era riuscito a impedire l’introduzione dell’Inquisizione sul modello spagnolo nel ducato di Milano e nel Sud peninsulare, ma non in Sicilia e Sardegna, decise di delegare il proprio controllo giudiziario alla stessa fragile rete degli ordinari diocesani. Nel viceregno mancarono dunque i frati inquisitori, mancò una seconda polizia della fede e certo non si trattò di una debolezza da poco se si tiene presente che l’Inquisizione romana, come quelle iberiche, dopo il 1570 divenne anche un’agenzia feroce per l’applicazione del disciplinamento tridentino sul clero e sui fedeli (al punto da ereticalizzare una vasta congerie di reati ‘minori’). A quelle trattative partecipò anche il teatino Paolo Burali di Arezzo, che poi come vescovo di Piacenza sarebbe diventato uno dei modelli di pastore della Controriforma25. Quella figura, a metà tra il reale e l’ideale, era stata anticipata daGian Matteo Giberti a Verona26, ma venne ‘canonizzata’ da s. Carlo Borromeo a Milano e dal più prudente Gabriele Paleotti a Bologna, un prelato che prestò anche grande attenzione al controllo delle immagini27. Alla regolamentazione della musica sacra e profana si dedicò invece un uomo proveniente dalla cerchia degli Oratoriani: Giovenale Ancina, poi vescovo di Saluzzo28. A questi nomi bisogna aggiungere quelli di Domenico Bollani vescovo di Brescia (1559-1579)29, Francesco Gonzaga vescovo di Mantova (1573), Alessandro de’ Medici arcivescovo di Firenze (1574-1605), Galeazzo Moroni vescovo di Macerata (1573-1613), Feliciano Ninguarda vescovo di Como (1588-1613) e Giovanni Battista Castelli a Rimini (1574-1584)30. La geografia non deve ingannare, perché anche al Sud si registra nei primi anni che seguirono il concilio un non minore sforzo di riforma31. Come è stato notato, la Sicilia a inizio Seicento aveva già istituito nove seminari avendo dieci diocesi.

La religione tridentina, per quanto paternalistica e formale, penetrò allora anche in strati prima non toccati dalla cristianizzazione e si estese su ogni sfera e su ogni momento della vita: nascite, matrimoni, morti. Giunse a interessarsi delle antiche feste contadine del maggio per sostituire le benedezioni ai riti precedenti; fece precettistica anche sul ballo, di cui si demonizzarono gli effetti32. Non si tratta certo di qualcosa di diverso da quanto accadde nelle terre protestanti, se si resta appunto sul piano del controllo dei costumi.

Ma per comprendere le differenze nel pur uniforme quadro europeo del disciplinamento si dovrà guardare anche a quei registri delle anime che Trento seppe imporre a tre secoli di distanza dal concilio Laterano IV, per comprendere come l’orizzonte della riforma cattolica comportasse, specie in Italia, che la macchina pastorale si facesse più occhiuta e aggressiva. Ormai non confessarsi, non assolvere al precetto annuale imposto a tutti i fedeli, era di fatto assimilabile alla disobbedienza più temuta: l’eresia. I poteri speciali dei frati convissero, in questo senso, con quelli ordinari vescovili per imporre l’uniformità dottrinale, morale e devozionale33. Il rovescio della medaglia nei processi di conformazione di cui fu investita anche la penisola fu il persistere di un anticlericalismo che si manifestava spesso in forma di motto di spirito o di bestemmia34. Una reazione meno preoccupante dell’aperto dissenso.

Trento passando per Milano?

Come ha notato Agostino Borromeo, le vicende della Chiesa ambrosiana negli anni di s. Carlo e dei suoi successori non delineano un percorso univoco e valido per tutta Italia35: le ricerche di vario spessore scaturite negli ultimi cinquant’anni sembrano infatti indicare «come il processo di attuazione dei decreti conciliari da parte dell’episcopato italiano sia stato assai più lento, laborioso e disomogeneo di quanto non si potesse ritenere mezzo secolo fa»36. Senza contare l’ostilità con cui era destinato a urtare il processo di disciplinamento che i decreti del concilio prescrivevano, si trattasse della resistenza delle autorità civili o di quella dei corpi clericali di cui si colpivano radicate abitudini e antichi privilegi (meraviglia forse che negli anni della canonizzazione di Borromeo si preferisse tacere dei contrasti passati e puntare solo sulla santità della figura?)37, basti qui richiamare la figura di un prete, Geronimo de Luciani, contro il quale si indirizzò la rivolta dei fedeli che nel 1583 si lagnarono del suo scandaloso comportamento con la loro Curia diocesana:

«Non lo voliamo non già perché non siamo pronti allo obedir ma perché li schandoli sono grandi et noij non restiamo servi[ti], perché non si atende ali confessioni de sani, che atende il giorno dela festa a giocha[r] chon li gentilomini, et dimandato a confesarli non lasa di giocar ancha tutta la notte e molti ne sono mortij che maij si è volsuto venir a confesarli fin che non erano morti, e quando le nostre donne vano per confessarse le dimanda cosi che non stano bene, et nel suuo parlar restiamo scandalizati che biastema Idio et portò molto disonestamente et a tentato alcune donne [...] oltre che la schola nostra per causa soua va di mal in peggio et patischeno le ani[me]»38.

Si trattava del territorio di quella stessa Milano governata da tempo da s. Carlo Borromeo, che sarebbe morto l’anno successivo. E tuttavia la figura di Luciani ricorda quella di molti altri sacerdoti del periodo pretridentino, che si dedicavano anche alla cura delle malattie mischiando i rituali religiosi e il sapere popolare39; né il fenomeno dei preti indisciplinati o ‘superstiziosi’ si sarebbe spento dopo il 1563. La riforma del clero costituì il terreno più vischioso su cui si sarebbe impantanato un processo di disciplinamento che nelle intenzioni di Roma non doveva limitarsi alle città, ma dispiegarsi anche nelle campagne. E servirà a dimostrarlo la Trento seicentesca di cui ci racconta Mariani: i canonici del duomo, osservava,

«fanno residenza a beneplacito, non tenendosi in rigor ‘obligati venir in Choro, se non la vigilia della Natività del Signore a’ primi Vespri; così che chi manca quel dì all’hora determinata, perde i frutti di tutto l’anno [...]. Né osta il Concilio Tridentino [...] perché (come nelle Capitolari Chiese di Germania) non s’è accennato su questo punto. In ogni modo però si vedono frequentar il choro almen quei, che si trovan in città, e corrispondono degnamente al loro Stato»40.

I canonici avevano forse l’obbligo di risiedere come i loro vescovi? Il concilio, che proprio a Trento si era tenuto, non lo prescriveva, e la prassi dei potenti capitoli delle cattedrali italiane, così come di quelle tedesche, sarebbe mutata poco dopo la conclusione dell’assise, che pure sul nodo dell’obbligo di residenza (se fosse de jure divino o solo ecclesiastico) si era diviso aspramente (gli italiani non volevano sancirne un’origine così sublime, al contrario dell’episcopato iberico). Vi era poi l’esercizio quotidiano della fede, in cui non mancava mai di dispiegarsi qualche prodigio. Le monache di S. Michele, raccontò Mariani, godono di un privilegio speciale: «ogni qualvolta è per morire alcuna delle Suore, di tre campanelle che hanno [...] una suona infallibilmente da se stessa pochi dì avanti», come attestava la fama e confermava la nobile badessa Veronica Rosina, nata Colonna dei baroni di Vels41. Del resto, vi era forse da stupirsi che eventi curiosi e straordinari si verificassero sotto la volta celeste? Era superstitio il crederci, era vana curiositas, era eresia implicita, era errore? Mariani non si dimostrava tanto zelante: «I segni, o prodigi di comete, ecclissi et altre impressioni ignite, che nascono sotto il Sole, o naturali o sovranaturali che possan essere, o fuor di natura, le lascio essere, senza voler discorrerne a tentone, mentre a bastanza occhiuti non si rendono li stessi astronomi anche co’l cannocchiale di Galileo; e quindi nelle Stelle pescano e nella Luna tanti Granchij». Di fronte alla nuova scienza e ai suoi pericoli occorreva la prudenza, la cautela, che poteva comunque cessare quando si trattava di raccontare delle campane di un monastero che annunciavano la morte ventura delle suore: «è il cielo [si legge] un gran libro in foglio scritto a caratteri, che sono zifre; e parla con voci più da rispettarsi, che da intendersi»42. Per altro verso, la religione del concilio faceva buone prove anche a Trento, dove nascevano le scuole per intendere quel che almeno si poteva intendere: il catechismo romano.

«L’essercitio di Christiana dottrina, uno dei primi frutti del Sacro Concilio, va fiorir in Trento [...] su l’esempio ancora delle vicine Città d’Italia, massime Lombardia, dove [...] è floridissimo. Vi s’applicano soggetti di gran nascita e virtù tanto secolari, ch’ecclesiastici; e i vescovi non hanno maggior premura, in ciò imitando il Metropolitano S. Carlo Borromeo, che tanto fece. S’istituiscono, oltre le recite, e private dispute, anco le generali, con proposta di premij considerabili, e con sì fatto eccitamento d’emulazione tra la gioventù dell’uno et altro sesso, a forza di rispondere a’ quesiti, tal povera zitella guadagnarà la dote per maritarsi. In fatti la christiana dottrina è il vero seminario della Santa Fede; è l’unico real mezzo della salute; e quel picciol libro contenendo, come fa, la scienza d’ogni scienza, insegna temer Dio, et osservar’i suoi precetti, il che è tutto»43.

Così la dottrina e la carità tridentine si combinavano nelle scuole per i fanciulli nate sulla scia di quelle milanesi44 e si accompagnavano alla ricreazione savia e cattolica promossa dal teatro dei padri gesuiti45, la cui Compagnia (non più tanto iberica, retta ormai da italiani, ma conservandosi il profilo di istituto da sempre globalizzato) aveva preso corpo negli stessi anni del Tridentino46 per poi dedicarsi al ministero della confessione, alla missione e all’educazione dei ceti più abbienti:

«Ogn’anno i Padri della Compagnia di Giesù per essercitio de’ giovani scolari nel Ginnasio publico di Città fanno seguir alcuna curiosa dimostratione in Carnevale. E nel fine de’ Studi rappresentano in latino qualche o Comitragedia o Tragicommedia sacra, over morale, nel teatro del Fraleman; come quest’anno 1672 è seguita la tragedia con titolo Emmanuel Sosa Portughese, Vice Re dell’Indie ridotto in fine dal Re de’ Mori a morir di fame con i figliolini et la moglie, qual anche per non divenir ludibrio de’ Barbari si sepelì viva nell’Arene»47.

Come testimonia Mariani, anche nelle remote montagne del Trentino poteva echeggiare il racconto di paesi lontani, abitati dagli infedeli, toccati dalle navi degli imperi cattolici iberici e battuti dai missionari gesuiti al loro seguito (in molti casi italiani). Era il mondo del rinnovamento cattolico, come l’ha definito Ronnie Hsia48; un orizzonte più vasto di quello europeo che ci ricorda come la dura reazione della Controriforma seppe combinarsi, nella Chiesa di Roma, con mezzi più sofisticati e con un forte impulso all’evangelizzazione e alla missione.

Le missioni (che vennero adoperate come le visite apostoliche per assolvere a compiti di polizia, specie nella repressione delle minoranze valdesi in Calabria e in Piemonte) toccarono allora il mondo della campagne, le ‘Indie di quaggiù’, e portarono alla scoperta degli ‘errori popolari’ (che un pio medico si prese la briga di classificare)49 o di un mondo brutalizzato dall’ignoranza e dallo sfruttamento:

«Eranvi nella campagna d’Evoli – racconta il gesuita Scipione Paolucci a metà Seicento – da cinquecento guardiani d’armenti divisi in varie ville e poderi di quel contado; huomini che d’huomo non haveano che la figura, nella capacità e scienza poco dissomiglianti a quelle bestie medesime che custodivano: affatto ignoranti, non che dell’orationi, o altri misteri particolari della santa Fede, anche della stessa cognitione di Dio. E se non che la miseria di quei poveracci meritava più tosto compassione, fora stata cosa degnissima di riso l’udire le sproportionate e goffe risposte che davano a chi gl’interrogava de’misterij christiani. Domandati quanti Dei ci fossero, chi rispondeva cento, chi mille, chi altro numero maggiore, stimandosi più saccente quanto più ne cresceva il conto, come se si trattasse di accrescere il numero delle lor bestie»50.

Non ingannino né il contesto pastorale né la regione della penisola: anche in altri luoghi poteva riscontrarsi quella stessa separazione siderale tra i chierici e la gente di fatica quando ci si muovesse al di fuori delle città. Ma gli effetti delle missioni potevano riservare note di grande ottimismo, specie quando i sacerdoti fossero riusciti nel compito di catechizzare i fedeli e insieme di pacificare i conflitti:

«in questi sette giorni [raccontò Cristoforo Landini a s. Ignazio nel 1550] ho visitato circa 40 terre fra ‘l mutinese et bolognese, predicando ogni dì [...]. Havemmo ordinato una compagnia del Corpus Domini, che si comunicono ogni domenica [...]. Havemmo eletto duoi huomi de più gravi c’habiano a componer ogni lite, discordia, inimicitia [...]. Havemmo eletto il simile donne, c’habbiano cura delli ammalati. La prima cosa, che si confessono et comunicono»51.

Erano nati nuovi ordini religiosi: i Gesuiti, i Cappuccini, i Barnabiti, i Somaschi, gli Oratoriani, i Teatini, le Orsoline. Altri ne sarebbero sorti nel XVII e XVIII secolo. E si trattava di organizzazioni rivolte in primo luogo alla conquista delle anime, alla conversione, passando per tutti i ceti e gruppi sociali, organizzando i laici, rivolgendosi a quell’universo femminile che sarà uno dei punti di forza (e a volte di debolezza) del cattolicesimo moderno e contemporaneo. Chiusi i conti con i gruppi riformati presenti in Italia (con una geografia che non conosceva confini: Napoli, Lucca, Venezia, Firenze, Viterbo, Faenza, Bologna, la Sicilia, il Piemonte sabaudo, Modena), si trattava ora di arginare e di disciplinare il contatto tra clero e laici, mentre il cielo ricominciava a riempirsi di santi che potevano meritare l’aureola soltanto dopo complesse procedure in cui prese a intervenire il Sant’Uffizio. I santi erano iberici, in ossequio ai rapporti di forza; ma non mancarono gli italiani: Carlo Borromeo, Filippo Neri. Per la canonizzazione di Camillo de Lellis, fondatore dei Chierici regolari ministri degli infermi, bisognò invece attendere il 1746: vagliare i culti significò, per tutta l’età moderna, contenere la domanda di devozione proveniente dal basso, espungere e colpire la ‘vera’ o ‘pretesa’ santità di uomini e donne, che in molti casi ebbero guai con l’Inquisizione, specie se la loro fede si orientava al misticismo52. E tuttavia la figura di De Lellis ci ricorda che nel campo della carità e dell’assistenza la Chiesa cattolica seppe costruire una ‘religione dei poveri’53 che marcò comunque una differenza rispetto al comune processo che interessò tutte le confessioni cristiane, che si mutarono in epoca moderna soprattutto in ‘fedi della parola’54. E in questo senso un ruolo di primo piano lo giocarono non soltanto le nuove congregazioni mariane, ma anche le antiche confraternite laicali, che nei secoli XV e XVI erano state già protagoniste di un moto di riforma che il clero non intendeva più lasciare privo del controllo della gerarchia diocesana. Il concilio l’aveva prescritto e nel corso del Cinquecento e del Seicento si impedì che nuove fondazioni originassero dall’iniziativa laicale55. Per i fedeli, fossero o meno membri di confraternite, in età adulta o fanciulli, ora vi era la proposta di un accesso più frequente ai sacramenti e specialmente alla comunione e alla confessione auricolare, vera base strategica della religione tridentina, sebbene il concilio del secolo XVI non avesse quasi per nulla innovato la dottrina del Laterano IV. Piegato a usi inquisitoriali, esso stesso oggetto di attente indagini del Sant’Uffizio quando vi passavano commerci erotici tra il sacerdote e il fedele (ma l’attenzione fu maggiore nei confronti dei rapporti eterosessuali che non di quelli omosessuali), l’esame di coscienza che culminava nel perdono clericale della penitenza (che fece ora uso della fisica separazione garantita dal confessionale) era obbligo e domanda dei fedeli, meccanismo con cui si rinviava alla ‘spontanea comparizione’ davanti al Sant’Uffizio e consolazione56.

Fu anche per mezzo della confessione che si cercò di sradicare l’universo di antiche ‘superstizioni’ che il concilio aveva condannato in diverse sue norme ma senza un intervento complessivo (e senza occuparsi della materia delle streghe). Del resto, se per un verso colpire gli usi curativi, la medicina popolare, le pratiche di benedizione, le orazioni e gli scongiuri era necessario per separare le res sacrae ed elevare i poteri soprannaturali del clero rispetto a quelli non approvati della gente comune, quello stesso clero anche dopo Trento rimase ghiotto di oroscopi, dedito ai sortilegi amorosi, disposto a ignorare gli esorcismi riconosciuti dal nuovo Rituale del 1614, avido di scoprire tesori nascosti. Non si negava poi alle opere di cura, anche quelle più ‘contaminanti’, e in qualche caso si vide implicato in episodi di supposto maleficio. Nel 1565, nel paese di Guadagno, nel brindisino, durante una visita pastorale don Giuseppe Memmo, prete ignorante, fu scoperto a guarire le vesciche con il seguente carme:

«Jesu al nome de la Vergine Maria / et del figlio santissimo / in mezzo mare stava, / con lacrime piangeva, / de la fagarina alla lingua havea, / et santo Joanne ad esso queste parole dicea: / Priego te, Dio padre, et lo figliolo / co’ la sua madre Vergine Maria, / et io voglio pregare / al nome de la gloriosa Vergine Maria, / che a quello N. la fagarina sana sia, / a nome della Vergine Maria»57.

La Madonna, oggetto di una devozione sempre più intensa anche come Vergine Immacolata, sarebbe stata invocata in giaculatorie simili ben oltre quella data. Del resto, più i tempi del concilio trascorsero, dopo l’inizio del Seicento, e meno intensa si avvertì la sua spinta alla riforma religiosa.

La fondazione dei seminari (ne furono istituiti 125 in tutta Italia prima del 1594, ma molti ebbero vita stentata) rallentò nel corso della prima metà del secolo XVII e per garantire il rispetto dell’obbligo della residenza Urbano VIII dovette inventarsi una nuova congregazione (1635), che tuttavia si dedicò più a elargire dispense che a disciplinare (la gran parte di esse riguardava prelati italiani)58. Nella Prato del XVII secolo, ha scritto Mario Rosa, nel santuario di S. Maria della Pietà, a meno di trent’anni dall’erezione (1616), l’arretrato di messe da celebrare per ‘benefici funerari’ era arrivato all’incredibile cifra di 119.694 riti non ancora ufficiati (1642)59. Vi fu poi lo svuotamento per estenuazione della spinta impressa dal concilio, che è possibile misurare non solo sul piano della prassi (gli anni di Urbano VIII segnano il ritorno in grande stile del fasto, del nepotismo, di costumi più rilassati del clero, senza un maggiore acquisto di libertà intellettuale: basti ricordare il caso Galilei). Se si apre un’opera come il trattato Cypria Sacra sive de honestate et decoro ecclesiastici moris liber unus (1628), ci si accorge di come il decoro annunciato nel titolo avesse sostituito lo ‘zelo’ crudo di un Ghislieri o di s. Carlo Borromeo nelle pagine di un galateo per il corpo-ceto ecclesiastico, che intendeva separarsi dal laicato anche su un piano propriamente estetico. L’autore era il più giovane Borromeo, Federico, uomo colto, curioso di scienza e senz’altro pastore non distratto60. Sul terreno morale, il fiorire delle summae, il dilatarsi del regno del probabile sul piano del peccato favorirono anche una produzione casistica che è uno specchio delle stesse preoccupazioni della cura pastorale. Fu Gabriele Paleotti, nel Cinquecento, a volere per primo che si tenessero a Bologna le congregazioni del clero destinate a risolvere ardui casi di coscienza con l’aiuto di esperti (il suo era un maestro portoghese, Luis de Beja Perestrelo)61. S. Carlo fece la stessa cosa a Milano, imitato dai successori, insistendo sul nodo dei sacramenti (la confessione, il battesimo) e dei peccati più gravi sul piano sociale (l’usura)62. Ma quali sarebbero diventati con il tempo i temi dominanti di quelle congregazioni lo dimostra una piccola raccolta di casi apparsa in una sede meno significativa della diocesi ambrosiana e nello Stato pontificio. Sono gli anni del trionfo di Napoleone I; in Europa si chiudeva la fase più convulsa di trasformazioni politiche e sociali e a Camerino la Curia vescovile promuoveva la stampa di una silloge di risoluzioni morali che fotografava quali fossero le materie ritenute urgenti da un clero che si interrogava sull’anima dei fedeli cattolici: gradi di consanguineità e impedimenti matrimoniali, affari beneficiali, minute questioni economiche, risarcimenti per stupro, atti impuri all’ombra del confessionale. Ci si domandava, a proposito di un ragazzo quindicenne che indulgeva al vizio della masturbazione, «quae ignorantia a peccato excuset?», «Quid de adolescente judicandum?» e la risposta non era per nulla tenera. E ci si domandava come trattare il caso di un prete che a una donna con cui aveva avuto rapporti sessuali «abortionem consulit». Si poteva assolverlo? Si trattava di un caso riservato? La risposta era negativa se il feto era inanimato, cioè se era stato concepito da meno di quaranta giorni63. Una risposta antica, blanda, che ignorava la campagna antiabortista ingaggiata da una parte stessa del clero nel corso dei centocinquant’anni appena passati64. Insomma, si poteva mettere le mani sulla nuda vita dei fedeli laici, ma quando si trattava di punire il consiglio di sacerdoti che volevano sbarazzarsi di frutti peccaminosi (suggerendo alla donna di liberarsene senza farsi scrupoli), l’indulgenza morale era d’obbligo.

La Marca pontificia, a cui Camerino apparteneva ormai da tempo, fu l’area in cui più dura si dimostrò la reazione antimistica ingaggiata da Roma dopo la metà del secolo XVII. Ne fece le spese il vescovo di Jesi, il cardinale oratoriano Pier Matteo Petrucci, accusato di eresia (1687-1691)65. E tuttavia la campagna contro le derive dell’abbandono quietistico non ebbe confini: una figura come quella diGregorio Barbarigo, prima vescovo di Bergamo (1657) e poi di Padova (1664), basterà a dimostrarlo. Impegnato contro i «falsi contemplativi» a fianco dei frati inquisitori, grande visitatore e riformatore, Barbarigo si richiamò costantemente al modello tridentino del pastore senza farsi illusioni sullo stato in cui versavano le diocesi che fu chiamato a reggere cento anni dopo la conclusione del Tridentino. Come faceva osservare con una certa amarezza nel 1665, «avanti la nostra venuta a questa residenza ci è stata descritta una grande ignoranza nelle cose della fede nei popoli, ma l’habbiamo ancora ritrovata maggiore che ci è stata descritta»66.

Una Chiesa regolata, una Chiesa accerchiata

Fu una riscoperta dello spirito tridentino quella che si respirò nell’Italia di fine Seicento e della prima metà del Settecento? Lo ha suggerito diversi anni fa Gabriele De Rosa67, ma è lecito dubitarne, se si tiene conto di quanto si è detto: Roma aveva finito per guidare i processi di riforma promossi dal concilio esautorando spesso le Chiese territoriali della penisola con l’uso accorto delle congregazioni cardinalizie romane. Si trattò, piuttosto, di una inedita ripresa dell’episcopalismo, accompagnata da una nuova manualistica del buon pastore e dalla costruzione di un idealtipo del parroco che ebbe fortuna soprattutto nel Nord Italia68. Del resto, il vero dualismo tra Settentrione e Meridione prese forma soprattutto allora, quando la rete delle parrocchie rette da un singolo sacerdote stentò a impiantarsi al Sud a causa di un clero ricettizio, numeroso e povero, che continuava a vivere di rendite comuni, di ‘vili esercizi’ e di piccoli uffici religiosi (come il recitare le messe)69.

Tuttavia anche il papato si adeguò al nuovo clima e istituì, accanto a quella del concilio, una nuova congregazione specialmente destinata alla promozione del seminari (1725), che conobbero così un nuovo impulso pure in Italia, e non più a macchia di leopardo. Inoltre dagli anni del pontificato di Innocenzo XI (1676-1689) Roma avrebbe abbracciato la battaglia contro il lassismo, perseguito le derive del misticismo e intrapreso una serie di ‘riforme’ (nuova congregazione sulla residenza, vaglio dei candidati per le sede episcopali) tese a imporre un controllo più stretto sui corpi dello Stato, sul clero e sui fedeli anche nelle terre dei pontefici. Nel corso degli anni se ne sentirono gli effetti persino nella sede episcopale più importante di tutte e forse nella più trascurata: quella di Roma, cattedra degli eredi di Pietro. Lo testimonia l’opera di un canonico, il rigoroso Nicolò Antonio Cuggiò che, in qualità di segretario del tribunale dell’ordinario, nel 1719 tentò di tracciare i confini del potere del vicario del pontefice nel governo di una diocesi eccezionale come quella che abbracciava la capitale del cattolicesimo, suggerendo alcuni rimedi ai mali e alle gravi insufficienze della cura pastorale. Una pagina era dedicata alla gestione del locale seminario e vi si avverte un netto atteggiamento di critica nei confronti del sistema di educazione dei padri gesuiti, che per oltre un secolo aveva dominato come il modello di formazione del clero:

«Benché il detto seminario sia stato santamente istituito, l’esperienza però continua di tanti anni fa vedere che sia di poco o nessun giovamento alle chiese di Roma, perché non s’adempisce nel medesimo il fine che hanno avuto que’ venerandi padri del S. Concilio di Trento e la santa memoria di Pio IV nel fondarlo, qual’è di provedere le chiese di Roma di buoni ministri [...]. Benché li cardinali vicarii abbiano usato non poche diligenze nell’eleggere gl’alunni, non hanno però pratticato rigorosamente quel che ordina la visita apostolica [...] né è stata osservata e riconosciuta prima d’ammetterli la loro indole come prescrive il S. Concilio di Trento [...]; anzi talvolta per forza di raccomandazioni prepotenti sono stati ammessi giovenotti rozzi, ignoranti e di mala qualità, come s’è visto nelle riuscite che hanno fatto [...]. Circa l’educazione questa consiste nel morale o sia nel buon costume e nelle lettere. In quanto al costume non v’è niente che dire de’ padri gesuiti, e della loro condotta ordinata non solo alla riforma de’ costumi degl’alunni, ma anche al profitto de’ medesimi nelle cose spirituali per mezzo della frequenza de’ sagramenti, orazioni, esortazioni et altri esercizi di pietà; solo pare che manchi in qualche cosa, et in qualch’altra ecceda in materia de’ studi, stante che il S. Concilio nell’ordinare l’erezione de’ seminari non ha preteso che questi dovessero essere tante università, perché non v’era bisogno, né ha volsuto che li seminaristi dovessero essere tutti dottori»70.

La pagina testimonia con eloquenza di una sensibilità pastorale orientata non più al sostegno e al rafforzamento degli ordini secolari e regolari, ma della rete diocesana e parrocchiale come nuovo perno per la conquista delle anime: era di pastori e non di dottori che si aveva bisogno. Si trattò di un processo lungo, conclusosi soltanto nell’Ottocento, che nell’Urbe ebbe un punto di svolta con la convocazione, nel 1725, del primo concilio romano, a cui parteciparono decine di vescovi, in anni in cui venivano convocati numerosi sinodi diocesani nel Regno di Napoli e nelle terre dello Stato pontificio, per non dire del Nord (e fuProspero Lambertini, come arcivescovo di Bologna, a stilare il De synodo diocesana, poi edito nel 1748). Ma era anche la sensibilità religiosa a essere mutata dopo più di un secolo di predominio di una spiritualità iberica non priva di espressionismi: uomini di fede e di erudizione come Lodovico Antonio Muratori invocavano ormai una regolata devozione adatta alle menti e alle anime del secolo XVIII; una regolata devozione che poteva toccare persino i luoghi di sepoltura dopo la morte e le pratiche funerarie. E le loro opere incontravano il favore di un pontefice come Benedetto XIV, che dovette rispondere con il compromesso alla tenace campagna di rafforzamento giurisdizionale dei poteri di controllo civile nel campo della religione che si era venuta affermando in quasi tutta la penisola a partire dalla fine del XVII secolo. Ne fecero le spese gli antichi privilegi, i conventi e i monasteri e la polizia del Sant’Uffizio; ne guadagnò, appunto, la rete ordinaria diocesana, quella dei parroci e il sistema educativo. Come scrisse lo stesso Muratori in un passo de La pubblica felicità, che rivela anche le tendenze del lessico cattolico del tempo:

«si scorge di quanta necessità ed utilità sieno al popolo i sacri pastori, e l’altre religiose persone dell’uno e dell’altro clero che attendono secondo la loro professione a correggere i cattivi e ad accrescere il fervore de’ buoni, ed affaticarsi per inculcare al popolo l’amore della virtù e l’orrore de’ vizi»71.

Così, mentre mutava la composizione sociale del clero alto e basso (che al Sud restò comunque più numeroso che al Nord, senza un corrispettivo sul piano di un migliore ‘consumo di religione’)72, nella Milano austriaca il modello borromaico poteva rivivere nella figura dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli (1743-1782). Negli Stati borbonici del Sud la disputa giurisdizionalistica con Roma permise qualche apertura al nuovo clima, favorita dal ridisegno (che restò superficiale) della pulviscolare rete diocesana. Come ha ricordato Pietro Stella, nel Sud «la generazione dei vescovi illuminati di metà Settecento avvertiva anche il problema delle masse analfabete urbane e rurali, il cui cattolicesimo si riduceva quasi solo al segno della croce come implorazione e scongiuro e alla partecipazione rituale alla feste liturgiche e patronali»73. Fu un momento di risveglio che si spense nell’arco di pochi decenni, quando, insieme con il regalismo, tramontò ovunque la fiducia nelle riforme ‘calate dall’alto’ e si avviò una normalizzazione di stampo romano.

Da tempo i vertici erano ben consapevoli dello scarso peso internazionale del papato dopo la pace di Westfalia, bilanciato da una sempre maggiore attenzione ai fatti italiani e tuttavia davanti all’attacco pianificato alla Compagnia di Gesù, davanti al febronianesimo, davanti alla laicizzazione degli stili di vita delle classi sociali abbienti, davanti alla massoneria e alla dichiarata avversione illuministica per la devozione cattolica, giudicata intollerante e superstiziosa, la Chiesa e il clero alto e basso svilupparono repentinamente una sorta di sindrome da assedio74, appena bilanciata da figure di giansenisti italiani come l’abate Pietro Tamburini75. In modo eloquente, nell’enciclica A quo die (1758) il pontefice Clemente XIII invitò i vescovi italiani a mutarsi in canes latrantes contro i nemici della Chiesa e forse non si accorse di evocare un’immagine apologetica assai antica, costruita dai frati predicatori per esaltare il loro compito di giudici della fede (Domini canes)76. I toni si sarebbero attenuati con Clemente XIV, figura di pontefice più complessa, che tuttavia, a dispetto delle sue personali opinioni, non poté arginare neppure le pratiche e i toni sempre più esacerbati di un antigiudaismo cattolico che ormai si presentava come una reazione alle novità dei tempi anche nella penisola italiana77.

Non stupisce, in questo contesto, la parabola del vescovo Scipione de’ Ricci, l’uomo del sinodo di Pistoia, punto di riferimento dei giansenisti. Il suo progetto di riforma della Chiesa toscana, intrapreso con i 57 punti respinti da larga parte dell’episcopato regionale nell’assemblea preparatoria del 1787, fu accantonato con la stessa rapidità con cui era maturato. L’alleanza tra il disegno del principe (nato sulla scia di quello austriaco), quello giansenista, e quello di più tradizionale derivazione giurisdizionalistica era provvisoria e, in un certo senso, destinata a fallire. Lo sforzo di innovazione richiesto a un corpo ecclesiastico recalcitrante era notevole; l’attacco al clero regolare troppo forte; la distanza dalla linea di Roma conclamata78. E fu tale la scossa che non tardò a manifestarsi la reazione, proprio a partire da Pistoia e da Prato, quando ormai Oltralpe si era aperta la stagione della Rivoluzione. Reazione di fame e di devozione popolare, ha scritto Gabriele Turi; reazione che, per quanto manovrata, rivela che il corpo della Chiesa toscana, come nel resto d’Italia, era rimasto più statico dei suoi riformatori79. Ma era anche il potere politico che cambiava indirizzo, sempre più spaventato dal corso delle mutazioni. Nell’anno della Costituzione civile del clero, lo stesso Leopoldo, antico alleato di Ricci, stilava le Relazioni sul governo della Toscana per l’erede Ferdinando III. E nelle Postille manoscritte (e successive) il suo giudizio sul vescovo di Pistoia era aspro e distaccato: «violento» e «fanatico», lo definiva, conclusa ormai una stagione della Chiesa toscana e italiana dell’epoca moderna80. Una stagione che, è bene sottolinearlo, si era presentata anche come una rottura rispetto al bisecolare modello cattolico del concilio tridentino, imperniato sul papato e sul controllo gerarchico delle anime. Basti pensare alla volontà ricciana di ridare ai fedeli la possibilità di accedere alla liturgia e alla Parola tramite il volgare, che rompeva con uno degli assi strategici del controllo inquisitoriale e pastorale della Chiesa: la diffidenza per la Scrittura, il timore della sua lettura diretta da parte dei fedeli, con tanto di divieti e censure81. Un asse postridentino che ha avuto gravi effetti sulla religiosità italiana e che Tamburini non mancò di stigmatizzare con parole condivise da tutto il fronte della riforma episcopalista:

«L’hanno rappresentato [il divin Codice] come un libro pieno di pericoli, di oscurità, d’inciampi, di lacci, dove il fedele non trova altro che tenebre, e non si aggira che in un perpetuo labirinto, se si abbandona alla lettura della medesima. Che vuol dire di fatti la guerra da loro dichiarata alle traslazioni della Scrittura in lingua volgare? Che vogliono dire gli sforzi da loro usati in ogni tempo per impedirne le più belle e le più esatte versioni? Che vuol dire quella fanatica premura di rapirla di mano ai semplici fedeli per sostituirvi certi libretti, atti per la maggior parte più a nutrire una puerile e superstiziosa divozione che una soda e veramente cristiana pietà?»82

Fuori dalla Toscana di Ricci, del resto, il partito ‘giansenista’ ebbe ancor meno probabilità di successo. Subito dopo l’assise pistoiese Felice Maria Pujati scriveva a Gabriel du Pac de Bellergarde parole ben eloquenti in proposito: «il sinodo di Pistoia e gli Atti dell’Assemblea di Firenze per noi faran epoca; ma nello Stato veneto la felice rivoluzione va soverchio a rilento». Colpa di una rete di ordinari diocesani di cui il religioso cassinese bollava ora la scarsa cultura, ora la pavidità, ora l’orientamento retrivo con parole di fuoco: «che si può aspettare con siffatti vescovi?»83. E che cosa ci si poteva aspettare da un clero curato che si mostrava sempre più preoccupato della sopravvivenza? Per quel corpo basilare della Chiesa fu elaborato a partire dal Settecento un modello di «prete di combattimento»84 che avrebbe conosciuto specie in Italia una lunga durata fino al papato di Pio XII.

La reazione cattolica guardò anche al suo glorioso passato. E così, mentre il disegno giacobino faceva inclinare la Rivoluzione verso esiti più radicali, dandole istituti repubblicani, nel 1792 iniziò a circolare in Italia una nuova edizione della storia del concilio del gesuitaPietro Sforza Pallavicino curata dal controversistaFrancesco Antonio Zaccaria, che sul piano dell’erudizione avviò i suoi primi passi di studioso come erede di Muratori ma orientandosi sempre di più alla polemica per concepire la storia come un’apologia del papato romano85. E tuttavia anche in Italia, con il nuovo clima favorito dall’avanzata delle armi napoleoniche, non fu quella la sola lettura possibile dell’assise tridentina. Nel 1797 un avvocato di Cento, fervido ammiratore della Rivoluzione, pubblicò un’opera che, sebbene non molto diffusa, appare comunque significativa. Si tratta de La corte di Roma convinta della verità, in cui Giovanni Pirani ripercorse l’intera storia della fede cristiana (ai suoi occhi una religione di per sé ‘democratica’) per accusare Roma di avere deviato dalle regole autentiche della Chiesa primitiva. Ora la democrazia giacobina permetteva la restaurazione di un corso religioso che proprio i padri di Trento avevano contribuito a seppellire, quando avevano rifiutato di accogliere le istanze dell’episcopato francese che avrebbero fatto perdere «lustro e denaro» alla Curia pontificia. Dio era ormai stanco del sopruso del clero di Roma, di tre secoli di potere, «e finalmente l’ha voluta punire». «Quella riforma che la corte di Roma negò al concilio di Trento alla Francia, Dio ha voluto concederla alla Francia medesima mediante l’armata che qui ha spedita»86. Il paradigma dei tempi nuovi come flagello scatenato contro la Chiesa veniva così rovesciato di segno e l’assise di Trento veniva giudicata come il momento saliente in cui si era interrotto un moto di riforma che ormai anche in Italia, anche nelle terre dello Stato pontificio, poteva esplicarsi sulla scorta del potere della Francia e delle sue armate. Tanto fervore non poteva che essere deluso: Napoleone piegò la Chiesa di Roma ai suoi voleri, ma senza disegnare un modello ‘democratico’ di religione di derivazione gallicana che era possibile concepire solo come mito. Ben più utile era l’alleanza fra il trono e l’altare, che diede le sue prove maggiori nell’età della Restaurazione.

Unità e concilio del Vaticano

In una lettera a Bettino Ricasoli, inviata poco prima del plebiscito che doveva sancire l’unione del Sud al Regno d’Italia, il senatore napoletano Vincenzo De Monte diede un quadro abbastanza preciso dell’atteggiamento con cui il clero poteva accogliere il nuovo Stato. Era necessario allettare il corpo ecclesiastico, specie quello dei piccoli borghi e delle campagne, consapevoli dell’influenza della Chiesa sulle masse contadine e dell’ostilità che covava dopo la fine dei Borboni:

«Quanto ai preti secolari, e parlo del basso Clero, lo blandisca in tutti i modi, ne migliori gli interessi: faccia che le rendite delle mense vacanti, e abbandonate, siano investite in pro’ di esso lui, per una parte, e per l’altra in pro’ dei poveri della Diocesi o in opere pubbliche; lo chiami alla istruzione popolare; lo renda in somma solidale col Governo, e ne vedrà gli effetti più che salutari. Nelle Città sono pochi coloro, che fuori le cose di stretta e vera Religione, si fanno guidare dai Preti, ma nelle borgate, nei piccoli comuni, nelle campagne, non si ha altra volontà che quella dei Preti che hanno il potere di fanatizzare le masse sia nel bene sia nel male»87.

Si trattava di osservazioni acute; ma cosa ci si potesse aspettare in termini di istruzione, in una terra che non aveva conosciuto il riformismo giuseppino, lo può segnalare una lettera del 14 dicembre 1860, apparsa anche a stampa, in cui i vescovi della Campania si rivolsero a Carlo Luigi Farini per rendere manifesto di temere i pericoli che potevano derivare dalla costituzione di uno Stato liberale che avrebbe permesso la libertà di stampa e di culto. Vi era il rischio, scrissero, «di mettere fra le mani di tutti, senza aver conto della capacità dello spirito, e della rettitudine del cuore di ciascuno, un libro che può condurre l’uomo tanto facilmente nell’errore, che nel cammino della verità»88. Quel libro era la Bibbia, la Scrittura, che ora poteva circolare in lingua volgare per mano dei protestanti. Il lungo lascito della stagione tridentina appare in tutta evidenza in questo timore del testo sacro tradotto e reso leggibile, nella paura che il popolo dei fedeli potesse avere accesso diretto alla Parola. Dieci anni dopo la caduta del Regno di Napoli fu la volta del millenario Stato pontificio; ma già mesi prima il papa regnante aveva reagito a quel vulnus ormai prossimo convocando un nuovo concilio ecumenico che non ebbe bisogno di preventive ed estenuanti mediazioni perché si sapesse dove tenerlo: fu riunito semplicemente in Vaticano. In quella sede Pio IX dichiarò  di aderire senza esitazioni a tutte le dottrine «definite e proclamate dai sacri canoni e dai concili ecumenici, specie nel sacrosanto sinodo Tridentino»89. E il 16 luglio 1870 fu proclamato il dogma dell’infallibilità papale ex cathedra, che coronava secoli di monarchia pontificia e costituiva quindi un preventivo risarcimento giunto a poche settimane dall’esecrata fine del suo potere temporale a Roma e nell’Italia unita.

Note

1 M.A. Mariani, Trento con il Sacro Concilio et altri notabili [...] descrittion historica libri tre, Augusta, MDCLXXIII, rist. anast. a cura di A. Chemelli, Trento 1989, pp. 82-83.

2 Cfr. H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, 4 voll., Freiburg i. B. 1957-1977 (trad. it. Storia del Concilio di Trento, 5 voll., Brescia 1973-1981, 2009-20102). Cfr anche A. Prosperi, Il Concilio di Trento. Un’introduzione storica, Torino 2001; A. Tallon, Le concile de Trent, Paris 2000 (trad. it. Il concilio di Trento, Cinisello Balsamo 2004).

3 P. Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, in Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, Milano-Napoli 1969, p. 829.

4 Ibidem, pp. 742-743.

5 Cfr. Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi, W. Reinhard, Bologna 1996. Come nota nell’introduzione lo stesso Prodi: «Sarpi accusava il papato di essere stato innovatore, non conservatore», p. 17.

6 J.W. O’Malley, Trent and All That. Renaming Catholicism in the Early Modern Era, Cambridge (Mass.) 2000 (trad. it. Trento e ‘dintorni’. Per una nuova definizione del Cattolicesimo nell’Età moderna, a cura di M. Fantoni, Roma 2004, p. 58); cfr. le osservazioni di O’Malley con quelle di trent’anni precedenti di E. Cochrane, New Light on Post-Tridentine Italy. A Note on Recent Counter-Reformation Scholarship, «The Catholic Historical Review», 56, 1970, pp. 291-319.

7 Introduzione a B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero. Poesia e letteratura. Vita morale, a cura di G. Galasso, Milano 1993, pp. 17-37.

8 Sulle circostanze politiche e culturali delle commemorazioni cattoliche del 1945 cfr. P. Simoncelli, Sul IV centenario del Concilio di Trento (1545-1945) e le origini storiografiche della ‘Riforma cattolica’, «Nuova rivista storica», 92, 2008, pp. 391-410.

9 Cfr. C. Dionisotti, Chierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 55-88, in partic. p. 86.

10 Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 20092; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, nuova ed. rivista e ampliata, Brescia 2005; Id., Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006; E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari 2007.

11 Sull’arcivescovo portoghese cfr. G. Marcocci, Il governo dell’arcidiocesi di Braga al tempo di Bartolomeu dos Mártires (1559-1582). Riflessioni e documenti sull’episcopato portoghese nell’età del concilio di Trento, «Archivio italiano per la storia della pietà», 15, 2003, pp. 81-150.

12 G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1563), Firenze 1958, p. 28.

13 Eloquente testimonianza del piccolo gioco dei signori italiani timorosi della Curia ma anche della Spagna sono le lettere di Cosimo I ai toscani di stanza a Trento; cfr. A. D’Addario, Aspetti della Controriforma a Firenze, Roma 1972, pp. 341 segg.

14 G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Roma-Bari 1999, p. 27.

15 COGD, III, p. 105.

16 Cfr. Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, a cura di D. Quaglioni, S. Seidel Menchi, Bologna 2001; Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV-XVIII secolo), a cura di D. Quaglioni, S. Seidel Menchi, Bologna 2004; I tribunali del matrimonio, secoli XV-XVIII, a cura di D. Quaglioni, S. Seidel Menchi, Bologna 2007; D. Lombardi, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi, Bologna 2008, pp. 83-171.

17 COGD, cit., p. 759.

18 Cfr. A. Valier, Institutione d’ogni stato lodeuole delle donne christiane, in Venetia, per Bolognino Zaltieri, 1575; Id., Instruttione delle donne maritate, in Venetia, appresso gli heredi di Francesco Rampazetto, 1577. L’opera sarebbe stata ristampata ancora nell’Ottocento.

19 Cfr. Le visite pastorali. Analisi di una fonte, a cura di U. Mazzone, A. Turchini, Bologna 1985; Visite pastorali ed elaborazioni dei dati. Esperienze e metodi, a cura di C. Nubola, A. Turchini, Bologna 1993; cfr. anche C. Nubola, Conoscere per governare. La diocesi di Trento nella visita pastorale di Ludovico Madruzzo (1579-1581), Bologna 1993.

20 Partendo da alcuni dati sull’area toscana cfr. C. Fantappiè, I problemi giuridici e finanziari dei seminari tridentini, in Chiesa, chierici, sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000, pp. 85-109.

21 Per il tema delle monache cfr. G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000.

22 Cfr. A. Erba, La Chiesa sabauda tra Cinque e Seicento. Ortodossia tridentina, gallicanesimo savoiardo e assolutismo ducale (1580-1630), Roma 1979, pp. 54-72.

23 Traggo l’elenco da G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, cit., p. 6; cfr. P. Caiazza, Tra Stato e papato. Concili provinciali post-tridentini (1564-1648), Roma 1992.

24 Cfr. C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1997, pp. 321-389.

25 L’eloquente discorso da lui tenuto in occasione della sua prima visita pastorale (8 novembre 1568) è riportato in F. Molinari, Il Card. Teatino Beato Paolo Burali e la riforma tridentina a Piacenza (1568-1576), Roma 1957, pp. 397-402.

26 Cfr. A. Prosperi, Tra Evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969.

27 Si legga come disegnava il modello tridentino di predicatore: «ella lasciando le questioni superflue, et non mettendo in disputa le cose già decretate dal concilio, né toccando le opinioni degli heretici [...], si estenda per ordinario circa li costumi, riducendo più che può le cose alla prattica et modo di vivere, predicando catolica dottrina, che sia pia, facile, et fruttuosa, accomodandosi alla capacità de gli ascoltanti, che per la maggior parte non intendono le cose difficili, et alte», in P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), I, Roma 1959, p. 79.

28 Cfr. P. Vismara, In servizio di Dio e delle povere anime. Giovenale Ancina, vescovo del rinnovamento cattolico, «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo», 135, 2006, pp. 27-53; sugli interventi di Ancina per la Congregazione dell’Indice in materia di censura musicale cfr. M. Bertolini, Censurare la musica. Una prospettiva di ricerca attraverso la Congregazione oratoriana, in Musica e disciplinamento nel cattolicesimo europeo in età moderna, a cura di S. Nanni, in corso di stampa.

29 Cfr. D. Montanari, Disciplinamento in terra veneta. La diocesi di Brescia nella seconda metà del XVI secolo, Bologna 1987.

30 Cfr. A. Turchini, Clero e fedeli a Rimini in età post-tridentina, Roma 1978.

31 Cfr. Il Concilio di Trento nella vita spirituale e culturale del Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, 2 voll., a cura di G. De Rosa, A. Cestaro, Venosa 1988.

32 Cfr. A. Arcangeli, Davide o Salomè? Il dibattito europeo sulla danza nella prima età moderna, Roma 2000.

33 Cfr. E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia dal medioevo al secolo XVI, Bologna 2000, in partic. pp. 495 segg.

34 Cfr. O. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna, nuova ed. rivista, Roma 2008, pp. 203-206.

35 Sulla figura di s. Carlo e sulla Milano borromaica cfr. P. Prodi, Charles Borromée, archevêque de Milan et la papauté, «Revue d’histoire ecclésiastique», 62, 1967, pp. 379-411; G. Alberigo, A. Borromeo, E. Cattaneo, et. al., Il grande Borromeo tra storia e fede, Milano 1984; A. Prosperi, Chierici e laici nell’opera di Carlo Borromeo, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 14, 1988, pp. 241-272; Stampa, libri e letture a Milano nell’età di Carlo Borromeo, a cura di N. Raponi, A. Turchini, Milano 1992; Carlo Borromeo e l’opera della ‘grande riforma’. Cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, a cura di F. Buzzi, D. Zardin, Milano 1997.

36 A. Borromeo, I vescovi italiani e l’applicazione del concilio di Trento, in I tempi del Concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli, D. Zardin, Roma 1997, pp. 27-105, in partic. p. 27.

37 Cfr. A. Turchini, La fabbrica di un santo: il processo di canonizzazione di Carlo Borromeo e la Controriforma, Genova 1984.

38 W. de Boer, The Conquest of the Soul: Confession, Discipline, and Public Order in Counter-Reformation Milan, Leiden-Boston 2001 (trad. it. La conquista dell’anima. Fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Torino 2004, p. 35 n.)

39 M. Duni, Tra religione e magia. Storia del prete modenese Guglielmo Campana (1460?-1541), Firenze 1999.

40 A. Mariani, Trento con il Sacro Concilio, cit., p. 58.

41 Ibidem, pp. 143-144.

42 Ibidem, p. 335.

43 Ibidem, p. 257.

44 Cfr. M. Turrini, “Riformare il mondo a vera vita cristiana”: le scuole di catechismo nell’Italia del Cinquecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 8, 1982, pp. 407-489; C. Di Filippo Bareggi, Chierici e laici nella Chiesa tridentina: educare per riformare, Milano 2003.

45 Fra i molti studi sulle rappresentazioni gesuitiche cfr. B. Majorana, Teatrica missionaria: aspetti dell’apostolato popolare gesuitico nell’Italia centrale fra Sei e Settecento, Milano 1996.

46 Cfr. J.W., O’Malley, The First Jesuits, Cambridge (MA) 1993 (trad. it. I primi gesuiti, Milano 1999).

47 A. Mariani, Trento con il Sacro Concilio, cit., p. 434.

48 Cfr. R. Po-Chia Hsia, The World of Catholic Renewal 1540-1770, Cambridge 1998 (trad. it. La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico, 1540-1770, Bologna 2001).

49 Cfr. S. Mercurio, De gli errori popolari d’Italia, libri sette, diuisi in due parti. Nella prima si trattano gli errori, che occorrono in qualunque modo nel gouerno de gl’Infermi, e s’insegna il modo di correggerli. Nella seconda si contengono gl’errori quali si commettono nelle cause delle malattie, In Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti Senese, 1603.

50 C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in St.It., I, Torino 1972, pp. 601-676, in partic. p. 658.

51 Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., p. 572; cfr. O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari 2008.

52 Cfr. A. J. Schutte, Aspiring Saints. Pretense of Holiness, Inquisition and Gender in the Republic of Venice, 1618-1750, Baltimore 2001; M. Gotor, Chiesa e santità nell’Italia moderna, Roma-Bari 2004.

53 L. Châtellier, La religion des pauvres. Les missions rurales en Europe et la formation du christianisme moderne, XVIe-XIXe siècles, Paris 1993 (trad. it. La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Milano 1994).

54 J. Bossy, Christianity in the West. 1400-1700, Oxford 1985 (trad. it. L’Occidente cristiano 1400-1700, Torino 1990).

55 Cfr. Ch. F. Black, Italian Confraternities in the Sixteenth Century, Cambridge 20032 (trad. it. Le confraternite italiane del Cinquecento, Milano 1992, pp. 83-96).

56 Nella vasta letteratura sulla confessione cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit.; G. Romeo, Ricerche su confessione dei peccati e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Napoli 1997.

57 Cfr. D. Gentilcore, From Bishop to Witch. The System of the Sacred in Early Modern Terra D’Otranto, Manchester-New York 1992 (trad. it. Il vescovo e la strega. Il sistema del sacro in Terra d’Otranto all’alba dell’età moderna, Nardò 2003, p. 115).

58 Cfr. C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia, cit., p. 352.

59 Cfr. M. Rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia 1999, p. 246.

60 Cfr. I. Botteri, ‘Cypria Sacra’: Federico Borromeo e le buone maniere della santità, in Federico Borromeo vescovo, a cura di D. Zardin, «Studia Borromaica», 17, 2003, pp. 291-309.

61 Cfr. P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), II, Roma 1967, pp. 125, 234; M. Turrini, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Bologna 1991, pp. 36, 116-119.

62 Cfr. W. de Boer, La conquista dell’anima, cit., pp. 280-281.

63 Duplex centuria casuum conscientiae, Camerini, a Vincentio Gori Bibliopola & Impressore, MCCMVIII, pp. 73, 147.

64 Cfr. A. Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Torino 2005.

65 Per la questione del misticismo nel Seicento cfr. G. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna 1989; A. Malena, L’eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento, Roma 2003; M. Modica, Infetta dottrina. Inquisizione e quietismo nel Seicento, Roma 2009.

66 La lettera, indirizzata al clero del vicariato di Urbana, è citata in L. Billanovich, L’episcopato padovano (1664-1697): indirizzi, riforme, governo, in Gregorio Barbarigo patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda Controriforma (1625-1697), a cura di L. Billanovich, P. Gios, Padova 1999, pp. 395-481, 422.

67 Cfr. G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli 1983.

68 Cfr. M. Rosa, Settecento religioso, cit., pp. 186-187; cfr. P. Vismara, Il ‘buon prete’ dell’Italia del Settecento. Bilanci e prospettive, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 60, 2006, pp. 49-67.

69 Cfr. La parrocchia nel Mezzogiorno dal Medioevo all’Età Moderna, Atti del I Incontro seminariale (Maratea 1977), Napoli 1980.

70 N.A. Cuggiò, Della giurisdittione e prerogative del vicario di Roma, a cura di D. Rocciolo, Roma 2004, pp. 321-323.

71 X. Toscani, Il reclutamento del clero, in St.It. Annali, IX, Torino 1986, pp. 573-628, in partic. p. 575.

72 Cfr. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997.

73 P. Stella, Il giansenismo in Italia, II, Il movimento giansenista e la produzione libraria, Roma 2006, p. 317.

74 Di «cospirazione» parla già una lettera del 1754 del cardinale Carlo Vittorio delle Lanze indirizzata a Giovanni Bottari; cfr. C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche, in St.It. Annali, IX, cit., pp. 719-766, in partic. p. 753.

75 Cfr. Pietro Tamburini e il giansenismo lombardo, a cura di P. Corsini, D. Montanari, Brescia 1993.

76 Cfr. D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993.

77 Cfr. M. Caffiero, Battesimi forzati. Storie di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi, Roma 2004.

78 Cfr. M. Rosa, Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella Toscana leopoldina; Id., Un momento del giansenismo italiano: il sinodo di Pistoia del 1786; entrambi i saggi riediti in Id., Rifomatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969, pp. 165-213, 215-244.

79 Cfr. G. Turi, “Viva Maria”. Riforme, rivoluzione e insorgenze in Toscana, 1790-1799, Bologna 1999.

80 Cfr. M. Verga, Il vescovo e il principe. Introduzione alle lettere di Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo (1780-1791), in Lettere di Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo 1780-1791, a cura di B. Bocchini Camaiani, M. Verga, Firenze 1990, pp. 4-47, in partic. p. 45.

81 Cfr. G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997.

82 M. Rosa, Settecento religioso, cit., p. 173.

83 La lettera del 9 dicembre 1788 è citata in P. Stella, Il giansenismo in Italia, II, cit., p. 216.

84 La definizione è di G. Miccoli, “Vescovo e re del suo popolo”. La figura del prete curato tra modello tridentino e risposta controrivoluzionaria, in St.It. Annali, cit. IX, pp. 881-928, in partic. p. 901.

85 Cfr. P. Sforza Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento [...] ove insieme rifiutasi con autorevoli testimonianze un’Istoria falsa divolgata nello stesso argomento sotto nome di Pietro Soave Polano. Ora divisa in cinque tomi ed illustrata con annotazioni da Francescantonio Zaccaria, in Faenza, nella stamperia di Gioseffantonio Archi, 1792-1797.

86 G. Pirani, La corte di Roma convinta della verità. Opera critico storico morale, in Bologna, nella stamperia di Jacopo Marsigli ai Celestini, 1797; cfr. D. Menozzi, Le Chiese italiane e la Rivoluzione: il caso di Bologna, in Chiesa italiana e Rivoluzione francese, a cura di D. Menozzi, Bologna 1990, pp. 121-179, in partic. pp. 173 segg.

87 B. Pellegrino, Vescovi ‘borbonici’ e Stato liberale. 1860-61, Roma-Bari 1992, pp. 4-5.

88 Ibidem, p. 54. In quel contesto non stupisce che la Congregazione del concilio, nata per vigilare sull’applicazione del concilio e per registrare le visite ad limina, aprisse fascicoli contro i vescovi che si schieravano con il nuovo regime, agendo come una sorta di ufficio politico curiale deputato al controllo delle diocesi. Si veda il caso di Michele Caputi, vescovo di Ariano, ibidem, pp. 107-108.

89 COGD, III, p. 197.

CATEGORIE