L'Italia preromana. I siti etruschi: Vulci

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Italia preromana. I siti etruschi: Vulci

Mario Torelli
Anna Maria Moretti Sgubini

Vulci

di Mario Torelli

Città etrusca (gr. Οὐόλκοι; lat. Vulci) sulla riva destra del fiume Fiora (antico Armentae), a circa 12 km in linea d’aria dal Mar Tirreno e oltre 100 km a settentrione di Roma.

Le fonti letterarie relative a V. sono assai scarse e lo stesso nome etrusco (velx- ?) è incerto. La ricordano infatti i geografi (Plin., Nat. hist., III, 51-52; Ptol., III, 1, 43-49; St. Byz., s.v. ”Olkion) e, indirettamente, Arnobio (Nat., VI, 7): le congetture dei filologi moderni, a partire da K.O. Müller, integrano con l’etnico [Volc]entes un importante passo di Festo (536, 16-18) riguardante i due fratelli Vibenna, sulla base delle testimonianze della vulcente Tomba François. Nulla ci è tramandato dagli storici. Sappiamo che era citata da Polibio (in St. Byz., s.v. ”Olkion), mentre l’unica notizia storica certa deriva dai Fasti Trionfali, che registrano al 1° febbraio del 280 a.C. un trionfo di T. Coruncanio [deV ]ulsiniensibus et Vulcientib(us) (IIt., XIII, 1, p. 73). Il fatto è sconosciuto alle fonti letterarie, che ricordano solo azioni belliche di Coruncanio in Etruria (App., Sam., X, 2; Zonar., VIII, 4; cfr. Liv., Per., XI); forse come conseguenza di questi fatti militari va intesa la successiva (273 a.C.) deduzione di Cosa, molto probabilmente il porto di V. Altra importante testimonianza epigrafica e monumentale è quella offerta dal rilievo del Laterano, da Cerveteri, con la rappresentazione delle personificazioni delle città etrusche: tra queste è quella dei Volcentani, una figura femminile seduta, forse la dea poliadica di V. o, secondo alcuni, la Spes.

Data la scarsità delle fonti letterarie, la storia di V. va ricostruita sulla base di dati archeologici. La zona dell’agro vulcente presenta tracce di occupazione fin dall’epoca eneolitica: le sepolture “a forno” rinvenute a Ponte San Pietro presso Ischia di Castro hanno restituito materiali attribuibili al classico orizzonte eneolitico della cultura Rinaldone-Gaudo. Mentre le culture appenninica e protovillanoviana risultano solo marginalmente attestate, la cultura villanoviana di V. appare di altissimo livello, soprattutto nella necropoli dell’Osteria, ove è ben rappresentata anche la facies più arcaica. Si segnalano il forte sviluppo della bronzistica e i vivaci contatti culturali, sia con le zone più vicine e più direttamente interessate alla sfera vulcente come Bisenzio, Statonia, Sovana e, sotto certi rispetti, Chiusi, sia con terre più lontane come la Sardegna. L’aspetto più antico dell’Orientalizzante vulcente testimonia una sensibile stasi: V., nonostante l’alto livello della metallotecnica, sembra alquanto lontana dal generale progresso dell’Etruria meridionale e anche delle più settentrionali Marsiliana e Vetulonia, coltivando forme meno evolute e dimostrando una minore ricchezza, sia materiale che di fermenti culturali.

Le forme ceramiche non hanno sviluppi particolarmente vivaci, sono ignorate le favolose ricchezze delle deposizioni vetuloniesi, ceretane, prenestine: anche il bucchero più fine e più sottile manca. Con l’ultimo quarto del VII sec. a.C., le necropoli accennano a una ripresa che allo scadere del secolo si fa vieppiù sensibile. L’Orientalizzante recente etrusco vede in V. addirittura uno dei centri di più fervida elaborazione culturale, di cui fanno fede la grande ricchezza e il numero delle tombe. Nel VI e nella prima parte del V sec. a.C., si colloca il periodo di maggiore potenza della città, che deve aver esteso la sua egemonia non solo nella sua sfera d’influenza dell’alta valle del Fiora e dei colli affacciantisi al settentrione del Lago di Bolsena, ma anche in terre più remote, se correttamente si è interpretato il significato dell’affresco storico della Tomba François. Si ricorda al riguardo che si è anche voluto attribuire a V. un posto preminente nella penetrazione etrusca in Campania. Comunque, quale che fosse la sfera di egemonia della città, l’opulenza di V. appare veramente straordinaria: il numero e la qualità dei vasi attici deposti nei corredi, l’importanza e il livello dell’industria artistica della ceramica e del bronzo, l’incremento  demografico manifestato dall’aumento vertiginoso del numero delle tombe, sono tutti elementi che confermano tale opulenza, che dura senza interruzioni fino alla metà del V sec. a.C.

Poco dopo il 450 a.C., V. viene investita da quella generale crisi produttiva, sia economica che artistica, che interessa più o meno contemporaneamente tutte le città dell’Etruria e giunge fino al pieno IV sec. a.C. La ripresa del IV secolo è brillante. Nei grandi ipogei gentilizi, in qualche caso decorati di pitture, si colgono i segni di una nuova agiatezza, le cui forme sono quelle comuni a tutte le principali città dell’Etruria, che hanno per matrice le città greche d’Italia e di Sicilia. Il conflitto sfortunato con Roma non sembra influenzare, almeno in un primo momento, l’autonomia e il benessere della città; ma la deduzione della colonia di Cosa (273 a.C.), che toglie a V. parte del territorio e lo sbocco sul mare e, successivamente, la guerra annibalica causeranno tra il III e il II sec. a.C. un progressivo impoverimento della metropoli etrusca, che in seguito alla guerra sociale (cui non sappiamo se abbia partecipato) diverrà un modesto municipio ascritto alla tribù Sabatina e retto da quattuorviri. I resti romani della città e le rare tombe della necropoli testimoniano, per l’età imperiale, una crescente decadenza: la ridotta importanza del centro in epoca tarda risulta chiaramente dal silenzio su V. della Tabula Peutingeriana. Il cristianesimo, che appare attestato a partire dal IV sec. d.C., installa a V. una sede vescovile, che nell’VIII secolo, con il generale abbandono della zona, si trasferisce a Montalto di Castro.

Da un punto di vista geografico il vulcente si presenta come un territorio di colline d’origine vulcanica, con frequenti altipiani soggetti a forte erosione da parte dei piccoli corsi di acqua del bacino del Fiora e dell’Arrone. La città e le necropoli di V. si sono installate su altipiani di questo tipo, sui quali però si è distesa una pesante coltre travertinosa, che ha coperto il banco tufaceo quasi dovunque. I limiti del territorio vulcente sono lungi dall’essere fissati: possiamo comunque dire che era genericamente compreso fra l’Argentario, la valle dell’Arrone e le alture a ovest del Lago di Bolsena. In esso erano inclusi gli importanti centri di Forum Aurelium (Montalto di Castro?), Cosa e Ischia di Castro e i pagi di Pescia Romana, Cellere e Canino, meno sicuramente il piccolo centro di Poggio Buco; sotto l’alterna influenza culturale (non sappiamo se anche politica) di V., sono stati vari e importanti centri come Saturnia, Sovana e Bisenzio. Da un punto di vista archeologico, si segnalano, fra le altre, le necropoli di Pescia Romana e di Ischia di Castro con tombe in tutto identiche a quelle vulcenti (a “cassone” e a camera), che hanno restituito materiali assai simili a quelli delle necropoli tardo-orientalizzanti, arcaiche e classiche di V.; una necropoli romana di età imperiale di una certa estensione è stata esplorata alle pendici orientali del Monte Canino. In tutto il territorio, infine, sono dislocate varie ville e fattorie romane. Ancora poco conosciuta è la rete viaria dell’agro vulcente: due grandi strade attraversano il territorio da nord a sud – la via Aurelia lungo la costa e quella che R. Bartoccini chiama Aurelia vetus nell’entroterra – mentre altre vie collegano V. con il mare e con l’interno (Tuscania, Bolsena e altri centri minori).

Già nel XIV secolo la zona della città etrusca e romana era conosciuta con il nome antico e nel XV secolo Annio da Viterbo la identificava correttamente. Dopo la scoperta dei Fasti Trionfali e le monumentali opere di F. Cluverio, il problema dell’identificazione veniva impostato su basi scientifiche, finché nel 1778 F.A. Turriozzi (Notizie della città di Tuscania) compiva l’ultimo passo, riconoscendo V. nelle rovine sul pianoro alla destra del Fiora, che la tradizione popolare chiamava, con evidente corruzione del nome antico, Pian de’ Voci. Un’identificazione erronea del sito con Vetulonia, diffusasi intorno al 1830 in conseguenza degli scavi Bonaparte, veniva poco dopo confutata dalla scoperta della iscrizione latina CIL XI, 2928, che menziona l’orda et populus Vulcentium. I primi scavi di cui si abbia memoria sono quelli del cardinale G. Pallotta al Ponte della Badia nel 1783 (materiali ai Musei Vaticani), seguiti da altre ricerche di F. Prada nel 1787. Nel primo venticinquennio del XIX secolo, V. fu oggetto di sistematiche spoliazioni; nel 1825 vi si condussero esplorazioni autorizzate dal governo pontificio in località Polledrara e Ponte della Badia a opera del Feoli (oggetti a Napoli, Parigi e Vaticano) e in località Camposcala (Osteria) per iniziativa dei fratelli Candelori (oggetti a Monaco).

A partire dal 1828 e fino al 1840 le necropoli orientali furono scavate con i fondi del feudatario della zona, Luciano Bonaparte, a chiaro scopo di lucro e con sistemi assolutamente spregiudicati: si legga nell’opera di G. Dennis l’impressionante racconto di un’esperienza personale con un soprastante, a commento adeguato delle tristi parole di severo monito e di condanna di E. Gerhard. Le ricerche, che hanno colmato di ceramiche attiche molti musei d’Europa (principalmente Monaco, Berlino, Würzburg, Parigi e Londra), hanno tuttavia dato grande impulso agli studi sulla pittura vascolare, di cui resta monumentale testimonianza nel Rapporto volcente di Gerhard. Alla morte di Bonaparte e di sua moglie il feudo passò ai Torlonia, che prose- guirono gli scavi sotto la direzione del dotto francese N. de Vergers e dell’ingegnere A. François, che nel 1857 scoprirono la celebre Tomba François. Dopo la morte dei due francesi le esplorazioni si interruppero per riprendere tra il 1879 e il 1889 a cura di F. Marcelliani e di S. Gsell, estendendosi a tutto il territorio della necropoli (materiali a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e nel Museo Torlonia, a Firenze e in vari musei europei).

Dopo le ricerche, fortunatamente pubblicate, di Gsell, si hanno solo rinvenimenti sporadici nel 1895 (materiali a Firenze) e nel 1915- 20 (materiali nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia), nonché una piccola campagna nel 1928-29 diretta da R. Mengarelli con il finanziamento di U. Ferraguti (materiali nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia). Nel 1957, a cura di R. Bartoccini, ha inizio lo scavo della città e della necropoli settentrionale, scavo però interrotto nel 1960 (materiali nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e a Vulci). Nel 1961-63 una società privata ha ottenuto una concessione di scavo e ha effettuato ricerche nella necropoli dell’Osteria, mettendo alla luce circa un centinaio di tombe (oggetti divisi tra il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e collezioni private).

L’abitato si estendeva su di un pianoro tufaceo, di forma grossolanamente rettangolare allungata nel senso nord-sud, precipite soprattutto nei suoi lati orientale e settentrionale; all’estremità nord-occidentale si innesta una lunga e stretta lingua di terra dall’andamento est-ovest e dalle pareti scoscese per tre lati, che si è voluto identificare con l’acropoli. La cinta muraria, probabilmente databile al IV sec. a.C., è nota in più punti ed è costruita a grossi blocchi di tufo con frequenti bugnature e rinforzi di nenfro e selce. A quanto sembra, era limitata ai tratti meno difesi dalla natura: si conoscono i resti di due porte, una a est e una a nord, a semplice apertura, probabilmente voltata. Dell’ossatura stradale è stato messo in luce il ripido decumano con alcuni degli edifici che vi si affacciavano: nella sua parte orientale si conosce un piccolo sacello dedicato a Ercole, il quale presenta due fasi distinte, una ellenistica del III sec. a.C. e una imperiale del II sec. d.C., mentre nella zona centrale, accanto ad alcune taberne, si addensano importanti edifici pubblici. All’incrocio di una strada che sembra salire all’acropoli, sono stati scoperti, sul lato sud, un ninfeo, i resti di un portico e un miliario iscritto, ancora in situ, con l’indicazione di un Aurelio Cotta console e di una distanza di almeno 70 miglia, che Bartoccini data alla fine del III sec. a.C. e identifica col cippo di una presunta via Aurelia vetus.

Sull’altro lato del decumano vi sono un grande edificio probabilmente templare, al centro di un vasto recinto, e una terma tardorepubblicana, costruita a blocchetti di pietra, con pavimenti a mosaico geometrico bianco e nero; tale terma, dagli ambienti disposti assialmente, è ricca di cisterne sotterranee coperte a volta ed era servita da un acquedotto, il cui speco attraversa il fiume Fiora appoggiandosi al Ponte della Badia. Poco o nulla sappiamo degli scavi effettuati nella città durante il XIX secolo: sappiamo che furono scoperti numerosi edifici pubblici, tra i quali il foro, le terme (forse le stesse scoperte negli ultimi anni) e un tempio ionico le cui colonne con rispettivi capitelli si conservano nella villa Guglielmi di Montalto. Subito al di fuori della porta settentrionale è stata scavata (1958) una interessante stipe votiva, da connettersi con il culto di una vicina polla sorgiva, che ha restituito numerosissimi ex voto (parti anatomiche, puttini seduti o in fasce, giovinetti, immagini di culto di Giove, Giano ed Ercole), associati a monete del I sec. a.C. - I sec. d.C., fino a età domizianea, quando la stipe venne sigillata.

Entro il perimetro delle mura sono ancora i resti di un edificio absidato di epoca tarda, mentre all’esterno delle mura sono noti due ponti e un edificio di incerta destinazione a circa 4 km a sud-est della città sul fiume Timone, che ha restituito antefisse con teste sileniche e di menade databili agli inizi del V sec. a.C. I due ponti attraversano il fiume Fiora e sono da riconnettere con l’antica rete stradale del territorio di Vulci. Il Ponte della Badia è un’imponente costruzione della prima metà del I sec. a.C. a tre arcate, delle quali quella orientale è cieca e quella centrale misura 19,75 m di luce, di nenfro e travertino con pilastri di tufo a mo’ di contrafforti. Il Ponte Rotto, chiarito nei  suoi elementi costitutivi dagli ultimi scavi, è più a sud del Ponte della Badia: era un ponte (oggi distrutto) degli inizi del I sec. d.C. a cinque arcate di 12 m di luce poggianti su pilastri a ferro da stiro e sopportava la cosiddetta via Aurelia vetus.

Le necropoli sono assai estese e dense: già Dennis, ai suoi tempi, calcolava in circa 15.000 le tombe scoperte, scavate o saccheggiate. Disgraziatamente non se ne possiede una pianta, sia pur sommaria, d’insieme. Le necropoli, come già L. Canina aveva delineato, sono sostanzialmente due: una, quella orientale, comprendente più nuclei sviluppatisi parallelamente attorno a tre vie di comunicazione nord-est e sud-est, parte dal Ponte della Badia e, attraverso Cavalupo e Ponte Rotto, giunge alla Polledrara estendendosi dal ciglio delle rupi sulla riva sinistra del Fiora verso l’interno, ove si trova anche la celebre Cuccumella; e una seconda, quella settentrionale, sulla riva destra del fiume nella tenuta di Camposcala, con centro nell’odierna località Osteria. Lo sviluppo della necropoli orientale, come si è detto, non può essere considerato in forma unitaria, in quanto articolato in rapporto a tre centri principali, corrispondenti ciascuno a tre distinte necropoli della prima età del Ferro: Polledrara, Ponte Rotto e Cavalupo. Questi sepolcreti villanoviani, indagati da Marcelliani e da Gsell, constavano di tombe a pozzo scavate nel calcare tenero locale (“murcio”) e presentano le consuete particolarità della deposizione in custodie di tufo  o di nenfro ovvero in buche o pozzetti scavati entro più grandi pozzi. Il Villanoviano evoluto è abbastanza ben rappresentato, ma è meglio noto dai corredi del sepolcreto settentrionale.

Successivamente le necropoli, dislocate sui costoni di Cavalupo e della Polledrara e al centro del pianoro di Ponte Rotto presso la Cuccumella, si sviluppano con numerosissime tombe a fossa che attorniano i nuclei originali costituiti dalle tombe a pozzo, come risulta dalle relazioni degli scavi Marcelliani. Il bucchero è assente e per tutta la fase successiva l’impasto locale bruno o nerastro si affiancherà alle ceramiche più fini d’importazione. Particolare sviluppo ha la ceramica cosiddetta “italo-geometrica”, che si trova anche esportata in altri centri etruschi (per il VI e V sec. a.C. dovettero sorgere a V. officine di bronzisti, la cui identificazione è ancora oggetto di ricerca e di discussione). Allo scadere del VII sec. a.C. la necropoli si estende nella piana, raggiungendo una densità e un’ampiezza ineguagliate; lo sviluppo è praticamente costante fino al V sec. a.C. inoltrato. Il tipo di tomba predominante, caratteristico della zona vulcente, è quello “a cassone”. Le camere, contenenti in genere una sola deposizione, hanno un bancone lungo il perimetro interno, sul quale era deposto il defunto, e gran parte del corredo sulla sinistra; non di rado il soffitto ha la volta a botte, né mancano casi di pareti di fondo ricurve. In queste tombe abbonda la ceramica etrusco-corinzia, prima, e attica delle due tecniche, poi: le ceramiche corinzie, come quelle protocorinzie, non sono particolarmente frequenti e, secondo W. Helbig, compaiono anche in qualche tomba a fossa.

Tipica dei “cassoni” è la scultura, in genere raffigurante animali o mostri, come leoni, pantere, centauri, sfingi, cavalli marini montati da esseri umani, posti all’inizio del dromos o ai lati della porta della camera e non in cima a pilastri in guisa di segnacoli delle tombe come si pensava in passato. Sono infine noti i casi di lastroni decorati, di tipo tarquiniese, usati come chiusura delle porte d’ingresso della tomba. Lo sviluppo della necropoli va da sud a nord. Alla prima parte di questa fase va attribuita la maggiore delle tombe della Polledrara e una delle più importanti di V. in senso assoluto: la Tomba di Iside. Nonostante i forti sospetti che gravano sull’omogeneità del corredo e sul reale aspetto di alcuni pezzi, il valore dell’associazione nel suo complesso rimane tuttora indiscusso. Nella tomba, di cui si sa soltanto che aveva un’anticamera e due stanze (e, presumibilmente, più deposizioni), furono raccolti numerosi oggetti di importazione, tra i quali: una statuetta di gesso minerale (simile all’alabastro) raffigurante una donna riccamente vestita e con le mani protese; scarabei forse di Psammetico I (663-609 a.C.) o Psammetico III (593-588 a.C.); alabastra configurati in alabastro di fabbricazione greco-orientale e cinque uova di struzzo, decorate probabilmente in Etruria; oggetti di produzione locale,  tra i quali fanno spicco un busto di lamina di bronzo, di esegesi oscura prima di un recente restauro, e la celebre hydria della Polledrara, singolare vaso di fabbrica locale, ma di ispirazione fondamentalmente tardocorinzia, di argilla grigiastra lucida decorata da motivi geometrici e fregi mitologici dipinti dopo la cottura.

La tomba costituirebbe un caposaldo del tardo Orientalizzante e daterebbe agli anni intorno alla fine del VII e agli inizi del VI sec. a.C.: i molti dubbi sulla composizione del corredo e soprattutto la probabilità che nella tomba ci fossero più deposizioni scaglionate nel tempo rendono ardua l’interpretazione dei dati offerti da questo complesso. Alla stessa fase, ma a epoca alquanto posteriore, si attribuisce un altro importante e singolarissimo monumento: la Cuccumella. Saccheggiato e deturpato a più riprese nel XIX secolo, venne ripulito nel 1927 con buoni risultati; questi ultimi lavori però non furono completati e quindi la nostra conoscenza del monumento risulta ancora frammentaria e parziale, come dimostra il fatto che non si disponga di una pianta complessiva dei resti scavati. Per quanto ci è dato sapere, esso era composto da un tumulo alto intorno ai 3 m, dal diametro di 65 m circa, delimitato da un recinto circolare di lastre di nenfro infisse nella roccia tagliata tutto intorno alla circonferenza per un’altezza di 5 m circa: al di sopra di queste lastre correva un coronamento a forma di toro completato, a quanto pare, da un’iscrizione.

Al centro del recinto, al termine di un lungo dromos, si apriva un’area apparentemente scoperta scavata nella roccia e completata in alto da blocchi (nel lato dell’ingresso disposti a scalinata, in parte proseguita nei due lati adiacenti); ai lati si aprono due camerette coperte a falsa volta ogivale e nel fondo si susseguono altre due camere munite di banchine. A lato dell’ultima camera era una ripida rampa che conduceva verso il centro del tumulo, ove sono scavate complicate gallerie sotterranee. Nel IV sec. a.C., e fino all’età romana, la necropoli si sviluppa verso le ripe scoscese dominanti la riva destra del Fiora, ove si dispongono, su ben tre terrazze, le tombe. La tipologia di queste tombe è alquanto varia. Il tipo più antico è quello detto “a T”, con lungo dromos terminante in un grande vestibolo coperto, prolungato in un tablino, sul quale si aprono le numerose stanze: il complesso simula perfettamente l’aspetto della casa etrusca all’interno, con atrio, tablino e stanze secondarie, con le ricche coperture a tetto spiovente e travatura e con finte porte sagomate (IV-III sec. a.C.).

Un tipo più tardo (III-II sec. a.C.) è quello cosiddetto “a corridoio”: si tratta di tombe con numerosissime camere a forma di cellette, aperte simmetricamente sui lati di un lunghissimo corridoio terminante in una vasta sala, nelle cui pareti si aprono altre camere. Queste tombe contenevano soltanto sarcofagi. Un tipo più raro, contemporaneo alle tombe a T, è quello a grande sala unica con uno o più pilastri centrali e loculi nelle pareti, analogo quindi alle tombe ceretane dei Rilievi e delle Iscrizioni. Una particolarità di molte di queste tombe, specie in epoca più tarda (III-II sec. a.C.), è quella dei frontoncini delle edicole sepolcrali nei dromoi, decorate a rilievo con mostri infernali o, più frequentemente, con due figure semisdraiate tratte dalla simbolistica e dal repertorio dionisiaci. Le tombe dal IV sec. a.C. in poi, fino all’età romana avanzata, sono munite di segnacolo in forma di arula o di casetta, ovvero, come in epoca più tarda, da un semplice cippo di nenfro, posto all’imboccatura del dromos, o presso la porta o, ancora, sulla superficie del terreno in corrispondenza della sepoltura. Di tutte queste tombe meritano un cenno particolare le tombe François, dei Tutes, dei Tarnas o dei Tori, dei Due Ingressi e delle Iscrizioni.

La Tomba François, o dei Saties, (scoperta nel 1857) è del tipo a T, ma si distingue dalle altre per la maggiore complessità della sua architettura e soprattutto per la sua decorazione pittorica, veramente eccezionale. La tomba, sita in località Ponte Rotto, è resa accessibile da un profondissimo dromos lungo ben 27 m, nel quale si aprivano tre camerette per deposizioni più tardive (una con facciata a edicola). Attraverso una porta con la consueta ornamentazione dell’architrave terminante a becco di civetta, si accedeva a un’anticamera rettangolare disposta nel senso della lunghezza; sul lato opposto a quello con la porta d’ingresso si apre il cosiddetto “tablino”, di forma pressoché quadrata. L’anticamera ha il soffitto imitante la travatura displuviata lignea, mentre il tablino esibisce una copertura a finte travi e al centro una lastra con rappresentazione a bassorilievo del volto di Caronte. Sull’anticamera si aprono tre camere sulla destra e altrettante sulla sinistra; in fondo al tablino è la stanza principale con tetto a spioventi e pareti decorate a finta incrostazione marmorea. La tomba, con deposizioni in gran parte su banchina, fu rinvenuta apparentemente intatta e ha restituito moltissime oreficerie e, sembra, anche una grande anfora attica databile al 450-440 a.C. (a Bruxelles); la durata dell’uso della tomba è stata calcolata in circa 250 anni.

Le celebri pitture (in proprietà Torlonia, a Roma, Villa Albani) erano sulle pareti dell’anticamera e del tablino. Nell’anticamera, da destra verso sinistra, ai lati della porta di accesso alle sei stanze laterali, si hanno: Sisifo e Anfiarao; la coppia dei proprietari della tomba, Thanchvil Verati e Vel Saties (quest’ultimo con un nano, Arnza, in atto forse di compiere una cerimonia di auspicio); un personaggio della saga etrusca, Marce Camitlnas, che uccide un Cneve Tarchunies Rumach (Cneus Tarquinius Romanus); Eteocle e Polinice; Nestore e Fenice; Aiace mentre strappa dall’altare Cassandra. Le lunghe pareti laterali del tablino presentano invece scene storiche o mitologiche più complesse. Sulla sinistra è la notissima scena del sacrificio dei prigionieri troiani alla presenza dell’ombra di Patroclo e di due demoni etruschi della morte; sulla destra è invece raffigurata una scena della saga storica etrusca con un combattimento tra eroi, probabilmente vulcenti (Larth UlthesRasce e Avle Vipinas), e personaggi, sempre soccombenti, designati con un etnico (un Laris Papathnas volsiniese, un Pesna Arcmsnas sovanese e un terzo, di incerta lettura, forse falisco), mentre Macstrna (identificato con il Servio Tullio della leggenda romana) libera l’altro eroe etrusco Caile Vipinas dai legami che lo avvincono.

La scena (sulla quale si è molto affaticata la critica storica) è di difficile esegesi; malsicuro è inoltre il congiungimento, ormai abituale, tra questa rappresentazione e quella, adiacente nell’anticamera, di Marce Camitlnas. Al di sopra della rappresentazione corre un meandro in prospettiva, mentre, nell’anticamera, tra il meandro e le scene figurate, è un fregio continuo con belve, reali e fantastiche, assaltanti cerbiatti e cavalli; infine, a dividere i campi pittorici dal soffitto, al di sopra di un fregio a ovuli o a nastro, vi è una cornice convessa dipinta a squamette nella quale campeggiano, al centro, teste femminili fra ornati floreali. L’importante documento di pittura etrusca, che risente molto, sia nello stile che nell’iconografia, di prototipi italioti, viene comunemente datato alla fine del IV sec. a.C. Molto simile per pianta e per forme architettoniche alla Tomba François (dalla quale dista pochi passi) è la Tomba dei Tutes, del III sec. a.C., priva però di pitture. Fortissime analogie con la tomba dei Tutes ha l’altro vicino ipogeo gentilizio dei Tamas (detto anche dei Tori), forse lievemente posteriore. La pianta è ugualmente a T, con tre camere all’estremità di ciascun braccio; simili pure sono i soffitti dell’anticamera, del tablino e della stanza di fondo. Essa però si distingue per una maggiore ampiezza e per la presenza di ben dieci sarcofagi (uno dei quali poggia su due supporti a protome taurina che hanno dato nome alla tomba).

Di pianta singolare è la non lontana Tomba dei Due Inglesi, nella quale un unico dromos dà adito a due tombe distinte composte di uno stretto vestibolo, un’anticamera (delle quali una simulante il soffitto di un atrio displuviato) e una stanza contenente due sarcofagi. Particolare interessante, l’anticamera della tomba di destra aveva le pareti costellate di chiodi per appendere gli oggetti del corredo. Quanto all’appartenenza della tomba, si può affermare che almeno quella di sinistra era di proprietà dei Tetnies. Molto più irregolare la Tomba delle Iscrizioni (fine del IV sec. a.C.), con lunghissimo dromos e una grande camera sulla quale si aprono sei piccole camere di forma trapezoidale: in una di queste era un sarcofago in frammenti con rappresentazioni di Amazzonomachia assieme a due vasi falisci (fine IV - inizi III sec. a.C.). Lungo la strada che passa attraverso Ponte Rotto e Cavalupo si sviluppa la necropoli romana, con tombe del tipo a corridoio, sia scavate nel tufo che costruite in opera incerta (II-I sec. a.C.) e con piccole tombe a incinerazione con iscrizioni e rilievi (I sec. a.C. - I sec. d.C.), tra i quali fa spicco il noto rilievo del quattuorviro C. Settimio (70 a.C.) ora a Copenaghen.

Sulla riva destra del fiume, nel grande poggio che dal Ponte della Badia si estende da est a ovest, di fronte al lato settentrionale della città, si colloca un’altra necropoli, meno vasta, ma non meno importante della precedente. Il centro è costituito da una ricca necropoli villanoviana, dalla quale proviene il corredo di una tomba di facies piuttosto arcaica con fibule a disco, contenente un bronzetto sardo. Da questa stessa necropoli pare provenga un oggetto di recupero, un’urna cineraria a capanna di lamina bronzea decorata a puntini e borchiette, che data al Villanoviano evoluto (VIII sec. a.C.) ed è una testimonianza tangibile dell’altissimo livello della bronzistica tirrenica della prima età del Ferro. Il sepolcreto segue uno sviluppo simile a quello della necropoli settentrionale, con tombe a fossa, a cassone e a camera. A epoca tardo-orientalizzante va attribuita un’importante tomba (Tomba del Sole e della Luna) con otto camere dai soffitti decorati (uno con travicelli a ventaglio), della quale purtroppo è andato perduto l’intero corredo; sempre da questa necropoli proviene, sporadica, un’interessante coppa di grandi proporzioni, decorata da un pittore di tradizione greco-orientale della fine del VII sec. a.C.

Il VI sec. a.C. è ben rappresentato da numerosissime tombe a cassone, in gran parte di scavo recente; tra queste spiccano due sepolture, delle quali una ha restituito un numero eccezionale di vasi corinzi, ionici, etrusco-corinzi e una bellissima anfora panatenaica, l’altra, numerosissimi vasi pontici. In questa zona sono venute alla luce anche le famose sculture del Centauro e del Cavaliere su Ippocampo (Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia). Tra le tombe, assai abbondanti, di età tardoclassica ed ellenistica bisogna ricordare la Tomba Campanari (III sec. a.C.), una grande camera con colonna centrale dal ricco capitello a fogliami e protomi femminili. La camera aveva affreschi piuttosto rovinati raffiguranti scene di vita oltremondana, in cui sono rappresentati 20 personaggi; le pitture sono purtroppo andate distrutte poco dopo la loro scoperta nel XIX secolo, in seguito a un maldestro tentativo di distacco. Nella stessa zona è stata rinvenuta un’altra tomba dipinta, di cui possediamo solo un disegno d’insieme, assai poco significativo: sappiamo solo che vi comparivano due sole figure. All’epoca tardoantica si riferisce infine una catacomba con qualche dipinto, in cui si sono rinvenute monete datate al IV sec. d.C.

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Scavi e ricerche

di  Anna Maria Moretti Sgubini

Gli scavi condotti a V. in anni recenti, come quelli effettuati nell’area della Cuccumelletta (1987), nel settore centrale dell’Osteria (1990) e a Marrucatello (1996), hanno anzitutto incrementato i complessi tombali della fase di passaggio dal Villanoviano all’Orientalizzante antico, da un lato confermando la fiorente produzione locale di ceramica etrusco-geometrica e dall’altro evidenziando, con la presenza di manufatti di lusso d’importazione, la rete di rapporti in cui il centro era inserito.

Già in questa fase, peraltro, si delineano i rapporti che intercorrono fra V., i centri dell’interno e gli insediamenti della media e bassa Val Tiberina, mentre significativi punti di contatto si colgono soprattutto con l’orizzonte culturale di Tarquinia. Nuovi elementi di valutazione si sono acquisiti per il più significativo contesto dell’Orientalizzante antico vulcente, la nota Tomba del Carro di Bronzo, ritornata in luce nel 1965 nella necropoli dell’Osteria, databile al 680-670 a.C. Il recente recupero della documentazione fotografica effettuata al momento della scoperta, oltre a offrirci nitide immagini dell’ipogeo e del suo straordinario corredo, ha reso possibile la ricostruzione del carro da parata collocato al centro della camera e probabilmente correlato a due “statue” funerarie cui sono pertinenti due coppie di mani e un elemento sferico di lamina di bronzo. Per l’Orientalizzante maturo si dispone ora di alcune tombe rinvenute negli anni Ottanta del Novecento nei sepolcreti settentrionali: la tomba 3/10/1983 di Poggio Maremma, in uso dal 650 a.C. o poco più tardi, con ricco corredo e i resti di un carro da parata, e gli imponenti sepolcri rispettivamente denominati dei Soffitti Intagliati e Campanari 1834, ubicati nel settore centrale dell’Osteria. Di questi il primo, composto di cinque camere disposte secondo uno schema planimetrico che ricorda il tipo ceretano B2 del Prayon e databile intorno alla metà del VII sec. a.C., si segnala per la ricca decorazione architettonica dell’interno che, nel caso dei soffitti, a padiglione, delle camere di fondo, ripropone, come la pianta, modelli ceretani offrendoci nuova documentazione dell’attività di maestranze specializzate itineranti impegnate, nello stesso lasso di tempo, anche nella realizzazione della vicina Tomba del Sole e della Luna. La presenza di una grande finta porta scolpita sulla parete di fondo della camera esterna destra del complesso manifesta tuttavia il ricorso anche a motivi ornamentali di elaborazione locale, che sappiamo diffusi solo qualche decennio più tardi nei centri del territorio.

Riconducibile a esperienze dell’architettura di Caere è anche la Tomba Campanari 1834 che, malgrado l’ampia manomissione, ha restituito resti di un corredo principesco (fra cui oreficerie e parti di carro) che ne assicurano un uso dal terzo venticinquennio del VII sec. a.C. Altri consistenti dati sono stati acquisiti anche per l’Orientalizzante recente e l’età arcaica. Nel settore nord-occidentale della necropoli orientale della Polledrara è stata esplorata, tra il 1987 e il 1988, la Tomba Costruita, a tre camere, delle quali quella di sinistra in asse con un’altra di piccole dimensioni. Realizzate a considerevole profondità e interamente costruite, presentano soffitto a doppio spiovente e columen piano e si aprono su un ampio vestibolo a cielo aperto dominato da una facciata con paramento a blocchi di pietra tufacea accuratamente squadrati. Frutto di una ricerca di effetti coloristici potrebbe essere l’uso del nenfro per gli architravi delle porte. Il monumento, databile nei decenni centrali della seconda metà del VII sec. a.C., si qualifica soprattutto per la sua tecnica costruttiva, testimonianza di precoci quanto originali esperienze di elaborazione locale.

Sempre nell’area della Polledrara indagini condotte fra il 1984 e il 1987 hanno restituito alla sua originale dignità la Cuccumelletta, con il tamburo del tumulo a blocchi parallelepipedi di nenfro posti in opera per taglio, di tecnica analoga a quella della non lontana Cuccumella. Elementi utili a una più precisa collocazione cronologica della tomba, ripetutamente interessata da scavi ottocenteschi, si sono acquisiti grazie all’esplorazione del settore ubicato immediatamente a nord-ovest del monumento, ove è stato riportato in luce un edificio a pianta rettangolare bipartita, totalmente sconvolto. Contiguo al tumulo e realizzato con la stessa tecnica costruttiva, questo risulta orientato verso sud e prospiciente il lato nord del dromos del contiguo ipogeo. Particolare, come la sua collocazione, è la planimetria della struttura, che sembra ricollegabile a una funzione specifica, forse il culto gentilizio.

Parrebbe avvalorare tale ipotesi la presenza di una tomba ricavata a quota inferiore nel banco tufaceo su cui s’imposta l’edificio. Del tipo con vestibolo a cielo aperto, tale ipogeo è accessibile attraverso un ripido dromos a gradini orientato a nord e risulta composto di più camere, la più antica delle quali ubicata a un livello superiore alle altre. Malgrado la violazione subita, il complesso ha restituito resti del corredo (fra cui una kylix “ionica” A1, un calice di Chio tipo I Hayes, due alabastra acromi greco-orientali, ecc.) che ne documentano l’uso a partire dall’ultimo trentennio del VII sec. a.C. Lo scavo, esteso a tutto il settore a ovest del complesso, ha inoltre evidenziato come tale porzione del sepolcreto sia utilizzata, senza soluzione di continuità, dall’Orientalizzante antico (epoca cui si può riferire un gruppo di tombe a fossa profonda poste a nord-ovest del sacello) all’età tardoclassica. Da segnalare è anche una tomba a cassa di tufo collocata nell’esiguo spazio compreso fra il tumulo e l’edificio di culto che, del tutto priva di materiali, potrebbe essere identificata con una delle sepolture di analogo tipo, con vasi attici a figure nere, rinvenute negli scavi condotti nel 1883 dal Marcelliani.

Ben più impegnativi lavori hanno interessato la Cuccumella, sin dal 1985 liberata dalle terre di risulta degli scavi ottocenteschi per un settore pari a circa un quarto del suo diametro, consentendo una più organica lettura sia dell’intero tumulo sia dei due complessi funerari in esso ricavati, dei quali si può ora compiutamente cogliere lo stretto rapporto che intercorre con le contigue, imponenti torri-cippo. Sono inoltre previsti interventi di musealizzazione che saranno estesi anche al “labirinto” sottostante il monumento, la cui realizzazione oggi sappiamo essere esito delle frenetiche ricerche condotte fra il 1875 e il 1876 da Alessandro Torlonia. Altri ritrovamenti si registrano nell’area circostante la Cuccumella, fra i quali una tomba con vestibolo a cielo aperto e lungo dromos orientato a ovest che conserva all’esterno resti di un coronamento. Non si può escludere, vista la sua ubicazione, che si tratti di uno dei due ipogei di analoga tipologia scavati dal Marcelliani nel 1883.

Dati relativi alla frequentazione di questo settore del sepolcreto nel corso dell’età arcaica sono stati acquisiti a sud-est del tumulo. In due successive campagne (1988-89) è stato riportato in luce il basamento di un grandioso altare, forse destinato a culti ctoni, presso il quale si dispongono, secondo uno schema preordinato, numerose tombe a camera con vestibolo a cielo aperto, tutte rinvenute prive dei corredi. Si differenzia dagli altri un monumento che, contiguo al lato orientale dell’altare, è risultato anch’esso completamente manomesso: in parte scavato nel banco roccioso, in parte accuratamente costruito in blocchi parallelepipedi di tufo, questo, accessibile attraverso un breve e ripido dromos, è composto da un’unica camera con soffitto a doppio spiovente e columen piano e conserva buona parte di un monumentale coronamento esterno. Per la sua peculiare struttura il sepolcro può essere inserito nella tipologia delle cosiddette tombes de pierre, restituendoci testimonianza di un tipo architettonico altrimenti noto solo attraverso le fonti bibliografiche e d’archivio relative ai primi, fortunatissimi scavi condotti a V. da Luciano Bonaparte.

Un cenno particolare richiedono altre due sepolture rinvenute presso le ante dell’altare, che, per ubicazione, rituale e qualità dei materiali di corredo, sembrano riferibili a personaggi di rango. Presso l’anta settentrionale nel 1988 è stata individuata la tomba 3, a buca, tipo che, poco frequente a V., è diffuso in età arcaica a Caere, Tarquinia, Tuscania. Al suo interno, con funzioni di cinerario, era collocato un grande vaso bronzeo, fornito di monumentali appliques raffiguranti il signore dei cavalli, ascrivibile al secondo venticinquennio del VI sec. a.C. Per le sue funzioni, la singolarità della forma e i contenuti sottesi al suo singolare apparato decorativo esso offre un determinante contributo alla discussa problematica relativa al centro di produzione, ora più convincentemente localizzabile a V., di una classe di manufatti che, ritenuti imitazioni o comunque prodotti di impronta laconizzante, erano stati in precedenza riferiti a botteghe picene. Presso l’anta meridionale dell’altare, nel 1989, è stata rinvenuta la tomba 8, a fossa con loculo, con un ricco corredo databile nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C., che qualifica il defunto come un guerriero del quale vengono sottolineati anche i meriti atletici.

Nel sepolcreto settentrionale dell’Osteria, fra le altre si ricorda la tomba del 19/2/1981, a cinque camere e vestibolo a cielo aperto, che, seppure largamente sconvolta in epoca imprecisata, ha restituito un ricco corredo con vasi di importazione greca e di produzione locale (tra cui una raffinata oinochoe del Pittore delle Rondini), che la pone fra le più significative testimonianze della cultura di V. fra l’Orientalizzante recente e l’età arcaica, a fianco di altri importanti contesti quali, ad esempio, la Tomba del Pittore della Sfinge Barbuta o la Tomba della Panatenaica. Del corredo di quest’ultima è stato riconosciuto, di recente, nei depositi del Castello della Badia, un consistente gruppo di materiali frammentari, fra i quali spicca un pregevole servizio di vasi della rara classe vulcente della Polledrara.

Il quadro relativo alla cultura arcaica di V. si è ulteriormente ampliato a seguito di scavi condotti nel 1998 nel settore centrale dell’Osteria ove sono stati indagati due distinti settori del sepolcreto che appaiono intensamente frequentati nella seconda metà del VI sec. a.C. e nuovamente utilizzati in epoca ellenistica. Fra le altre si ricordano, in particolare, per qualità e quantità dei materiali come pure per aspetti legati agli usi e ai rituali funerari, le tombe dei Vasi del Pittore di Micali e quella del Kottabos, entrambe intatte e della fine del VI sec. a.C. Un sepolcro a dado della seconda metà del VI sec. a.C., rinvenuto nel 1986 nel settore occidentale dello stesso sepolcreto, documenta la diffusione a V. di un tipo architettonico che, elaborato a Caere, riscuote un particolare successo nell’Etruria interna. Per il periodo compreso fra il IV sec. a.C. e la prima età ellenistica interventi nell’area del sepolcreto di Ponte Rotto, oltre a lavori di restauro che hanno interessato alcuni dei più importanti ipogei gentilizi noti sin dall’Ottocento, primo fra tutti la Tomba François, hanno favorito la riscoperta delle tombe ubicate nel primo gradone della necropoli e segnalate sin dal 1959, denominate dei Due Atri e del Delfino.

Quest’ultima, dipinta sulle pareti della camera con delfini guizzanti sulle onde e sulla fronte delle banchine funerarie con un fregio imitante un drappo di stoffa vivacemente colorato, si colloca nella seconda metà del IV sec. a.C, in un’epoca dunque nella quale il sepolcreto di Ponte Rotto appare sede di imponenti ipogei talora caratterizzati da facciate monumentali come da interni sfarzosamente decorati, a testimoniare l’importanza delle illustri famiglie che ne furono titolari. Nell’area suburbana è confermata una serie di complessi santuariali, dislocati in corrispondenza delle maggiori vie d’accesso a V. e talora in prossimità di sorgenti, che formano una sorta di “cintura sacra” intorno alla città. È il caso delle strutture di recente nuovamente localizzate al Carraccio dell’Osteria, della Vasca presso porta Est e, soprattutto, di Fontanile di Legnisina.

Ivi è stato parzialmente esplorato, tra il 1985 e il 1987 un importante complesso cultuale dedicato a Uni, in uso dal V sec. a.C. al I sec. d.C., con il podio di un tempio a pianta rettangolare, un imponente altare e presso l’angolo nord-est un deposito votivo che documenta un culto essenzialmente connesso con la fertilità, ma ricco anche di implicazioni legate alla sfera agrario-funeraria cui riconduce la presenza di dediche a Vei/Demetra, e comprende anche un gruppo di statuette di bronzo di cui una raffigurante un offerente, con dedica a Uni. Sempre nell’area extraurbana, a Ponte Sodo, un poderoso muro di blocchi di tufo con paramento esterno di nenfro, scoperto nel 1986- 87 e forse riferibile a un edificio cultuale, solo dubitativamente può essere ricollegato al tempio di età tardoarcaica, qui individuato negli anni Cinquanta del Novecento, che ha restituito terrecotte architettoniche. Da segnalare infine le strutture di incerta funzione casualmente scoperte nel 1987 nella valletta sottostante la porta Ovest.

L’area urbana nell’ultimo decennio è stata interessata da un progetto collegato alla realizzazione del Parco naturalistico archeologico di V., affidato, in regime di concessione, ai Comuni di Montalto di Castro e di Canino operanti attraverso Mastarna (società a capitale pubblico-privato). Vi sono stati condotti interventi conservativi su monumenti da tempo emergenti, come il cosiddetto Tempio Grande, le cui fasi edilizie sono oggi meglio note grazie all’analisi delle terrecotte architettoniche riportate in luce negli scavi del 1960-62, la Domus del Criptoportico, il cosiddetto Edificio in Laterizio, forse collegato a un grandioso complesso (termale?) e la cosiddetta Basilichetta che, realizzata nella tarda età imperiale, sappiamo ora impiantarsi su strutture più antiche. Oggetto di nuove indagini è stato il santuario mitraico, nel quale furono rinvenuti nel 1975 un gruppo scultoreo raffigurante Mitra tauroctono, Cautes (l’unico dei due dadofori ritrovato) e il corvo e un secondo gruppo di Mitra tauroctono, di piccole proporzioni, databili in età postseveriana e forse attribuibili a maestranze urbane. Con il vano di culto è collegata una stretta e lunga anticamera che, esplorata nel 1979, ha restituito numerose ceramiche di uso comune e vasi di culto. Il complesso che, frequentato nel III e per buona parte del IV sec. d.C., subì, forse dopo il 380 d.C., una violenta distruzione, parrebbe collegato a un vasto impianto residenziale forse rapportabile alla Domus con Atrio.

Altre novità sono emerse sulle pendici orientali del pianoro della città, ove nella cosiddetta Area I, sottostante un lungo e imponente tratto della cinta muraria individuato nel 2000, è stato scavato un vasto deposito di materiali votivi, in giacitura secondaria, probabilmente scivolati dall’alto a seguito di un evento traumatico. Fuori porta Est è stato riportato in luce il tracciato viario extraurbano che, proseguendo l’asse del decumano, si inoltra verso Ponte Rotto. Lungo tale arteria, che manifesta ripetute variazioni di percorso e rifacimenti rapportabili a mutamenti imposti dal regime torrentizio del Fiora tra il I sec. a.C. e il IV sec. d.C., si attestano impianti a carattere produttivo, di cui i più antichi risalgono al VI sec. a.C., mentre i più recenti a età tardoantica. L’insediamento urbano è stato inoltre oggetto di sistematiche ricognizioni i cui risultati, incrociati con i dati precedentemente noti o acquisiti a seguito della contestuale rilettura delle fonti d’archivio e dell’analisi delle tracce visibili nelle foto aeree, hanno consentito di procedere alla restituzione fotogrammetrica del reticolo viario e di alcune strutture urbane in buona parte localizzate nell’area centrale del pianoro e di redigere la carta archeologica del sito, di prossima pubblicazione.

Il quadro che si delinea, relativamente al settore intra moenia, è quello di un abitato caratterizzato da una fitta rete viaria che fa capo a direttrici principali correlate ai diversi accessi al pianoro, nel cui ambito si conferma di prioritaria importanza un tracciato che, battuto sin da epoca remota, attraversa l’insediamento da ovest verso est e coincide con il decumano massimo del centr o di età romana. Su tale asse gravitano edifici a carattere pubblico e privato e un’ampia area rettangolare nella quale si crede di poter riconoscere il foro del municipio romano, che parrebbe trovare il suo limite settentrionale nell’asse del decumano e accogliere sui lati lunghi, forse con altre strutture, la cosiddetta Basilichetta e il grande complesso (termale?) antistante l’Edificio in Laterizio. In sostanza V. propone un tessuto urbano condizionato dall’articolata conformazione del pianoro e, soprattutto, tradisce nel suo assetto la lunga storia del sito: valga per tutti l’andamento curvilineo del tratto centrale del cardo maximus o quello dell’asse stradale che attraversa l’acropoli. Un ruolo specifico, almeno nelle fasi più antiche dell’insediamento, sembra demandato a quest’ultima altura come pure all’altro rilievo, la cosiddetta Piccola Acropoli posta poco più a sud, presso la moderna centrale idroelettrica, luoghi in origine forse fortificati e distinti dal resto dell’abitato, come sembrerebbero suggerire tracce di fossati e di aggeres visibili nelle foto aeree.

La prosecuzione delle indagini sul tracciato del decumano ha portato alla scoperta nel settore occidentale dell’abitato, pochi metri più a ovest del Tempio Grande, di un arco a un fornice, forse onorario, che potrebbe aver assolto anche a funzioni di accesso monumentale a quella che si ritiene l’area del foro: si conservano la parte inferiore dei piloni quadrangolari e resti di blocchi di travertino dell’alzato, crollati probabilmente a seguito di spoliazione e successivamente sigillati dalla pavimentazione stradale di età altomedievale. Fra i numerosi blocchi di diverse dimensioni ne sono stati riconosciuti tre che presentano sulla faccia a vista un’iscrizione, purtroppo lacunosa, disposta su due righe e in accurati caratteri, in origine presumibilmente collocata sulla fronte orientale dell’arco, che menziona P(ublius) Sulpicius, P(ublii) f (ilius)Mundus, q(uaestor), aed(ilis), pr(aetor), proco(n)s(ul ), cur(ator) viar(um), l[—-], personaggio di rango senatorio che, appartenuto alla numerosa gens Sulpicia, non sembra altrimenti noto, ma che certo ebbe un ruolo di rilievo sulla scena politica locale della prima età imperiale e lasciò di sé memoria attraverso la realizzazione di un’opera pubblica, eretta in posizione preminente sul principale asse di attraversamento dell’area urbana, ex testamento, arbitratu L(uciiAufusti, come attesta l’epigrafe.

Sulla base del cursus honorum di P. Sulpicius Mundus l’iscrizione sembra databile fra l’ultimo ventennio del I sec. a.C. e i primi decenni del I sec. d.C., epoca cui riconducono anche le cornici di coronamento dell’arco, che mostrano fra i dentelli un fiore a cinque petali, elemento decorativo che non sembra attestato dopo il primo quarto del I sec. d.C. Recente è anche la verifica condotta sulla cinta muraria che sappiamo oggi estendersi senza soluzione di continuità per tutto il perimetro dell’abitato, accessibile attraverso cinque porte o mediante posterule delle quali una è visibile presso il margine ovest del pianoro. Quanto alla cronologia di tali fortificazioni, i dati sinora acquisiti a seguito di saggi presso il tratto di mura della cosiddetta Area I, a porta Nord e a porta Ovest, sembrerebbero ricondurre alla seconda metà del IV sec. a.C. Si è potuto anche accertare come le due porte siano state oggetto di ripetuti interventi dei quali i più antichi sinora riconosciuti sembrano databili, rispettivamente, alla seconda metà del IV e agli inizi del III sec. a.C. Nel caso della porta Nord, protetta da poderose mura ora individuate anche in corrispondenza della sommità dello sperone tufaceo che la sovrasta verso sud, gli scavi hanno consentito di accertare come nella seconda fase questa sia stata ulteriormente rafforzata e abbia acquisito una conformazione interna del tipo a camera.

La porta Ovest, posta in corrispondenza del punto più vulnerabile del pianoro, risulta munita da fortificazioni particolarmente imponenti: il suo ruolo-chiave appare confermato anche dai consistenti interventi che la interessarono, insieme a parte della cinta, agli inizi del III sec. a.C., cioè alla vigilia della conquista romana. La fronte della porta risulta in questa fase protetta da un poderoso bastione a schema triangolare che, sbarrando la strada, impediva un attacco frontale, mentre i tratti contigui delle mura subiscono parziali rifacimenti e appaiono internamente rinforzati da una seconda muraglia, realizzata con tecnica a scacchiera cui si addossa un terrapieno, in corso di scavo. Fiancheggiano l’accesso verso l’interno poderose ali anch’esse rinforzate sui lati posteriori, quella a sud da un muro in tecnica a scacchiera, quella a nord da uno in tecnica a camera. Problematico resta il rapporto fra l’area urbana e Pozzatella, settore che, contiguo al versante occidentale della città, potrebbe essere stato parte integrante dell’insediamento di V. sin dalla fase protourbana.

In questa parte del territorio, che tra la fine dell’età del Ferro e l’Orientalizzante manifesta un’occupazione di tipo non continuo, sono documentati apprestamenti produttivi alcuni dei quali in uso in età arcaica. A poca distanza da porta Ovest viene, ad esempio, localizzata nella pianta pubblicata dal Bartoccini una fornace forse ricollegabile ai ricchi giacimenti di argilla che si estendono a sud del canale idroelettrico e che furono, probabilmente, sfruttati in età tardoclassica ed ellenistica anche da altri analoghi impianti che sappiamo ubicati nel settore nord-occidentale della città. La reale funzione del lungo tratto di muro in opera quadrata segnalato nel settore sud-orientale della Pozzatella, nel quale si è proposto di riconoscere una struttura difensiva, è ancora da definire. Al momento risulta dunque accertato che nella seconda metà del IV sec. a.C. l’area urbana di V. si estende sul pianoro de La Città, protetta da una cinta fortificata che parrebbe escludere l’area della Pozzatella ove, tuttavia, almeno sino all’età ellenistica, continuano a essere attivi impianti produttivi.

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