L'Italia preromana. Sardegna

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Italia preromana. Sardegna

Fulvia Lo Schiavo

Sardegna

Le scoperte e, conseguentemente, gli studi e le ricerche sull’archeologia della Sardegna sono progrediti negli ultimi 15 anni in modo straordinario e con un’accelerazione tuttora crescente. Intere fasi storiche e molteplici articolazioni culturali si sono delineate con sempre maggiore chiarezza e si è così rinnovato il quadro alquanto stereotipato che faceva della Sardegna una regione culturalmente tributaria e, salvo che per pochi aspetti sporadici, non particolarmente emergente fra le terre bagnate dal Mediterraneo centrale. Una ricca bibliografia consente ora di seguire questi mutati orientamenti e la sua illustrazione va considerata inscindibile rispetto all’analisi degli aspetti archeologici dell’isola.

Paleolitico

Fino al 1979-80 in Sardegna non era stato ritrovato nessun documento certo della presenza dell’uomo del Paleolitico; poi una raccolta di manufatti litici lungo il corso del Rio Altana nel comune di Perfugas (Sassari) in Anglona attirò l’attenzione su questi reperti e sulla geologia del territorio nel quale erano stati rinvenuti. Subito si eseguirono sistematiche raccolte di superficie nel bacino fluvio-lacustre di Perfugas e Laerru, concomitanti ad altri accurati studi sulla morfogenesi della piattaforma continentale e sul massiccio Sardo-Corso (è stata infatti accertata, in quell’epoca, l’unione delle due isole in una) che nel Pleistocene inferiore e medio fronteggiava la penisola costituita dall’odierno Arcipelago Toscano, al di là di uno stretto e riparato braccio di mare, attraverso il quale ha avuto luogo la colonizzazione animale e umana. Infine, sondaggi di scavo archeologico hanno consentito di individuare dei siti con materiali in giacitura primaria, come a Sa Coa de Sa Multa (Laerru, Sassari), con industrie attribuibili al Clactoniano arcaico con elementi protolevalloisiani, che si possono far risalire a un momento antico del Pleistocene medio (fasi finali del Mindel, databili a 500.000 anni fa) e dunque al Paleolitico inferiore.

Dallo studio della situazione geologica della zona sono stati identificati a Sa Pedrosa - Pantallinu (Perfugas, Sassari) antichi terrazzi fluviali formati da depositi alluvionali che risalgono a un momento più avanzato durante l’ultimo interglaciale Riss-Würm, con industria di tipo clactotayaziano confrontabile con facies abruzzesi e della Francia meridionale. Ancora nessun manufatto o giacimento è stato attribuito, in Sardegna, al Paleolitico medio. Di enorme portata sono invece le scoperte relative al successivo orizzonte del Paleolitico superiore: dal 1981 si stanno svolgendo, condotte da P.Y. Sondaar a capo di una missione congiunta olandese e italiana, le ricerche paleontologiche nella Grotta Corbeddu di Oliena (Nuoro). Questa cavità, aperta nel calcare giurassico all’interno della valle di Lanaittu e denominata da un celebre bandito che nella metà dell’Ottocento la elesse a suo rifugio, si presenta piuttosto stretta e allungata, articolata in quattro sale. Le esplorazioni di scavo, concentrate nella sala 2 e nella sala 1, hanno portato alla scoperta di un giacimento di ossa di cervo (Megaloceros Cazioti) che, a differenza delle altre specie pleistoceniche, soprattutto isolane, non presenta forme di nanismo o arti accorciati o altre modificazioni conseguenti all’adattamento all’ambiente, tutti endemismi constatati laddove insorge la necessità di dividere le risorse alimentari fra specie che si moltiplicano in assenza della selezione naturale provocata da grandi predatori.

A Corbeddu, la posizione delle ossa di cervo, al quale era associato anche un piccolo canide (Cynoterium Sardous), e le tracce di frattura e levigatura deliberata e simmetrica di alcuni crani costituivano già forti indizi della presenza dell’uomo, che ha funzionato appunto da predatore e selettore naturale; a essi si è poi aggiunto il rinvenimento di strumenti e schegge di lavorazione di calcare marnoso locale negli strati 2 e 3 della sala 2 e nella serie stratigrafica della sala 1. Inoltre, ugualmente dallo strato 2 della sala 2 sono venuti alla luce due frammenti di ossa umane – un temporale e un mascellare superiore – che datazioni radiometriche collocano al 7497 cal. B.P. Durante la campagna di scavi del 1993, sempre nella sala 2, è stato trovato un frammento prossimale di falange umana in un livello che, sulla base del profilo palinologico della stratigrafia, si data a un’età di circa 20.000 anni B.P.: si tratta dunque di gran lunga dei più antichi resti ossei umani della Sardegna e di tutte le isole del Mediterraneo.

Nel suo complesso, il giacimento di Grotta Corbeddu si data a partire dal 14.600 B.P., ma non sono ancora stati raggiunti gli strati basali del deposito; infatti il sondaggio a profondità, nel quale è stato rinvenuto l’ultimo frammento di osso umano, ha raggiunto la data al 14C del 42.000 B.P., ma la base è interessata da un livello di argilla rossa che non costituisce ancora il fondo originario di roccia naturale della grotta. Negli strati superiori, nettamente differenziati dal punto di vista sedimentologico, sono presenti materiali ceramici e litici del Neolitico antico e del Neolitico medio separati da una pavimentazione stalagmitica, ambedue tipologicamente ben caratterizzati. In superficie, si trovano strutture e abbondanti reperti relativi a una fase di insediamento fra la prima e la media età del Bronzo.

Neolitico

Per lungo tempo ritenuta isolata dalle grandi correnti culturali del Neolitico, la Sardegna risulta ora esserne stata attiva protagonista almeno a partire dall’inizio del VI millennio, all’incirca nello stesso periodo nel quale si assiste allo sviluppo di comunità neolitiche in tutti i centri costieri del Mediterraneo occidentale, Sicilia, Italia peninsulare, Corsica, Francia meridionale, Catalogna, ecc. È presumibile che si sia verificato un arrivo di popolazioni continentali portatrici probabilmente di un’economia nuova basata sull’allevamento e sull’agricoltura, e certamente di una nuova tecnologia litica, che innestandosi su di un sostrato forse ancora di derivazione paleolitica, evolutosi nell’isola dopo la separazione dalla Corsica e l’allontanamento dalla penisola, hanno del tutto cancellato le precedenti eredità isolane, diffondendosi rapidamente in tutta la Sardegna.

La ceramica caratteristica del Neolitico antico, decorata prima della cottura con motivi impressi sulla pasta molle del vaso con strumenti vari, con il bordo dentato di una conchiglia di Cardiumedule (da cui “cardiale”) o di altre conchiglie o con le stesse unghie, si ritrova tanto in località costiere che si può supporre abbiano costituito i primi punti di approdo, come il tafone di Cala Corsara nell’Isola di Spargi, San Francesco di Aglientu, la Grotta Verde di Alghero e la Grotta dell’Inferno di Muros in provincia di Sassari e le stazioni del promontorio di Sant’Elia e delle lagune intorno a Cagliari, che nell’interno a Perfugas in Anglona, nella Grotta Maimone di Laconi, in Marmilla e nell’Iglesiente. La località di Su Carroppu di Sirri (Carbonia, Cagliari), dalla quale è stata denominata la prima fase del Neolitico antico in Sardegna, ha restituito ceramica a decorazione cardiale, accompagnata da una caratteristica industria a microliti geometrici, quali trapezi, semilune, bulini, raschiatoi più o meno carenati, punte di freccia a tagliente trasversale, lame e lamelle di ossidiana, preziosa lava vulcanica nera, lucente e taglientissima.

A questa fase ne segue un’altra che sembra caratterizzata da una riduzione della decorazione cardiale, limitata alle anse e alla parte alta dei vasi, che hanno tutti corpo globulare e fondo arrotondato; vasi di queste forme sono stati ritrovati soprattutto in due ricchi giacimenti della Sardegna settentrionale: la Grotta di Filiestru (Mara, Sassari) e la Grotta Verde (Alghero, Sassari), per cui la seconda fase del Neolitico antico viene anche detta “di Filiestru - Grotta Verde”. La Grotta di Filiestru di Mara si trova in una località detta “di Bonu Ighinu”, già nota per precedenti scavi e rinvenimenti nella Grotta di Sa Ucca ’e su Tintirriolu (la Bocca del Pipistrello). La stratigrafia dei depositi (3,80 m nella trincea B) ha restituito migliaia di reperti interi e frammentati, di ceramica, di selce, di ossidiana e di osso, oltre a resti di pasto; si è presentata una successione di livelli culturali nettamente distinti: 1) un livello cardiale proprio; 2) un livello Filiestru ovvero un cardiale privo della decorazione caratteristica, con molti vasi, alcuni dei quali integri e riempiti di ocra e di altre sostanze coloranti; 3) un livello Bonu Ighinu; 4) un livello Ozieri; 5) un livello povero con pochi frammenti riferibili a frequentazioni sporadiche del Calcolitico e del Bronzo Antico (culture di Monte Claro, del Vaso Campaniforme e di Bonnanaro), dopo di che la grotta venne del tutto abbandonata. In sintesi, le sue caratteristiche generali la individuano come sede abitativa di un gruppo umano preistorico: ha infatti un’ampia apertura che consente alla luce del sole di penetrare all’interno e, pur avendo all’ingresso una sorgente, la grotta non è umida.

La Grotta Verde di Alghero, così chiamata per il colore dei muschi e licheni che ricoprono la parte alta del suo salone centrale e la gigantesca colonna stalatto-stalagmitica che vi sorge al centro, si apre a 75 m s.l.m. sul promontorio di Capo Caccia, opposta alla Grotta di Nettuno. Uno scavo archeologico subacqueo effettuato nel 1979 nel laghetto interno al fondo della grotta ha permesso di constatare che la piccola cavità, ora a 10 m sotto il livello del mare, doveva trovarsi all’asciutto, in quanto è risultato che nella omonima fase del Neolitico antico avanzato è servita ad albergare sepolture a inumazione nelle nicchie che si aprono a varie altezze; in esse sono stati rinvenuti resti scheletrici in connessione anatomica con i rispettivi corredi deposti al fianco o ai piedi, costituiti appunto da vasi della cultura di Filiestru - Grotta Verde. Sulla base dei confronti tipologici con forme simili in area franco-iberica e italiana e dei dati della stratigrafia di Filiestru, datata radiometricamente, la cultura di Filiestru- Grotta Verde viene collocata alla seconda metà del V millennio (5300-4700 cal. B.P.), mentre la prima fase del Neolitico antico cardiale deve aver fatto la sua apparizione nell’isola almeno all’inizio del VI millennio (5700-5300 cal. B.P.).

Alle manifestazioni culturali del Neolitico medio e recente viene dato in Sardegna, rispettivamente, il nome di “cultura di Bonu Ighinu” (collocato nel primo e secondo terzo del V millennio) e di “cultura di San Michele di Ozieri”, dai due siti dove esse furono individuate per la prima volta. La Grotta di Sa Ucca ’e su Tintirriolu, in località Bonu Ighinu di Mara (Sassari), è lunga 1050 m e larga non più di 6 m; vi si accede attraverso uno stretto cunicolo che veniva protetto in antico da massi appositamente lavorati. La ristretta cavità, a differenza di quella di Filiestru della quale si è detto sopra, è stata utilizzata per sepolture e per scopi rituali e di culto, come provano anche i tipi di materiali rinvenuti, di particolare pregio. È stata accertata una successione stratigrafica dei depositi nel Neolitico medio (cultura di Bonu Ighinu), nel Neolitico recente (cultura di Ozieri) e nell’Eneolitico (cultura di Monte Claro). La ceramica di Bonu Ighinu si distingue per la sua finezza ed eleganza, con superficie bruno-lucida, decorata con motivi impressi a minuto tratteggio e con puntini, oppure graffita prima della cottura. Tipiche le piccole anse verticali a nastro, arricchite da appendici e bottoni plastici e ugualmente decorate da trattini o da puntini. Molto caratteristica e abbondante è la lavorazione di strumenti e ornamenti di osso.

Alla cultura di Bonu Ighinu vengono riferiti molti idoli femminili di pietra, di terracotta e d’osso, detti “di tipo volumetrico” per le proporzioni abbondanti, caratteristici per la raffinata resa dei particolari della figura e del copricapo rituale. La posizione stratigrafica dei materiali riferibili alla cultura di Bonu Ighinu è confermata dai rinvenimenti  di Filiestru (datati 4600-4300 cal. B.P.), della Grotta Verde, della Grotta Corbeddu e della Grotta Rifugio di Oliena, della Grotta dell’Inferno di Muros, della Grotta Sa Korona di Monte Majore di Thiesi, ecc. Un nuovo, distinto aspetto culturale è stato di recente identificato attraverso i rinvenimenti e gli scavi, e si colloca, pur con una fisionomia propria, nella tradizione Bonu Ighinu, mentre in immediata successione si pone il grandioso fenomeno della cultura di Ozieri: si tratta della facies di San Ciriaco-Cuccuru Arrius, dal nome della stazione di San Ciriaco di Terralba (Cagliari) e della necropoli di Cuccuru Arrius di Cabras (Oristano). I materiali caratteristici, ovvero tazze e coppe con labbro e a colletto più o meno sviluppati, con spalla carenata e talora marcata da una sporgenza a gomito, inornate, d’impasto fine rosso-bruno o nero-bruno monocromo splendidamente levigato, si ritrovano, oltre che nelle due stazioni eponime, anche a Sant’Iroxi di Decimoputzu (Cagliari) e in altri siti della Sardegna meridionale, dove la ricognizione è in corso, e anche settentrionale.

A questo aspetto culturale, che recenti inquadramenti cronologici collocherebbero nell’ultimo terzo del V millennio, come aspetto transizionale fra il Neolitico medio e il Neolitico recente (4000-3350 cal. B.P.), viene riferita l’apparizione delle prime tombe ipogeiche in Sardegna, in uno stretto rapporto con la facies coeva di Diana-Bellavista dell’Italia meridionale e delle Eolie, con la quale ha in comune le tipiche anse a rocchetto pieno e insellate, riprodotte in pietra nella piccola coppa da Dolianova e nel vaso carenato di steatite da Li Muri, Arzachena (Sassari): troverebbe così una giusta collocazione l’orizzonte “gallurese”, per lungo tempo ritenuto attardato e isolato nell’ambito dell’evoluzione culturale neoeneolitica dell’isola. La cultura di Ozieri del Neolitico recente (3350-2700 a.C.), così denominata dalla Grotta di San Michele di Ozieri, la principale delle molte cavità sotterranee che si aprono al di sotto del centro urbano di Ozieri, è rappresentata con grandissima abbondanza in tutta la Sardegna, non solo in grotte ma anche in villaggi all’aperto nell’Oristanese e nel Campidano di Cagliari.

Le sepolture vengono in maggioranza deposte in tombe a grotticella scavate nella roccia (domus de janas), fenomeno caratterizzante, sia dal punto di vista architettonico che rituale, l’intera Sardegna preistorica. Per quanto riguarda le planimetrie esiste la massima varietà, da forme monocellulari a pluricellulari, con schema a T, cruciforme o centripeto, e non è esclusa una progressiva elaborazione dal semplice al complesso, dato che si è constatato che lo scavo degli ipogei non avveniva in un unico momento costruttivo. L’accesso dei tipi più antichi è a pozzetto, mentre più tardi diviene frequente un corridoio (dromos) a volte molto lungo. Quando la natura della roccia lo consentiva, i portelli d’ingresso, spesso elegantemente sagomati, venivano aperti verticalmente sui costoni naturali; dall’ingresso si passava a un’anticella e da questa a una cella centrale sulla quale si aprivano le varie celle. Le dimensioni vanno ugualmente ricollegate al tipo di roccia e alle sue venature naturali, per cui si hanno vani angusti nel granito e ambienti alti e spaziosi, talora monumentali, nel calcare e nell’arenaria: la lavorazione dell’ipogeo veniva infatti realizzata con strumenti di pietra detti “picchi da scavo”, grossolanamente sagomati in modo da rendere agevole l’impugnatura. Sempre ai tempi della cultura di Ozieri si possono far risalire molte sistemazioni e aggiunte megalitiche davanti all’ingresso, quali un corridoio dolmenico o un vero e proprio recinto cultuale antistante.

Le decorazioni interne sono varie e vanno dalla rifinitura dei portelli esterni e interni alla riproduzione di elementi architettonici come zoccoli, paraste, pilastri con basi, architravi, trave centrale con i travicelli trasversali del tetto e altri elementi che, nei casi più elaborati, giungono a rappresentare fedelmente l’interno di un edificio subaereo, fenomeno che qualche millennio dopo si ritroverà nelle tombe etrusche. Oltre alle decorazioni architettoniche sono frequenti quelle simboliche, come false porte, corna e protomi taurine generalmente scolpite a rilievo, ma talvolta anche sottolineate con pittura rossa, che stanno probabilmente a indicare la divinità maschile protettrice della vita, raffigurata variamente in forma naturalistica all’interno degli ipogei; sono documentate, anche se rare, figure antropomorfe schematiche. Celebre l’ipogeo di Mandra Antine (Thiesi, Sassari), con soffitto diviso in riquadri con vari motivi decorativi dipinti. Dal punto di vista del rituale funerario, le domus de janas sono tombe collettive nelle quali il defunto veniva deposto con il corredo; il fatto che le ossa e i vasi venissero rimossi per far luogo ad altre deposizioni, e che ciò si sia ripetuto per diversi secoli e per successive fasi culturali, impedisce di indagare meglio il fenomeno, per cui il fatto che ogni ipogeo fosse destinato a un gruppo familiare resta un’ipotesi plausibile ma non provata. Di certo, davanti alla domus, nel dromos e anche nel suo interno dovevano svolgersi riti, come provano le molte cuppelle incavate nei pavimenti e sulle pareti, le riproduzioni di focolari scolpiti nella roccia, ecc.; alcune tombe dalla decorazione ricchissima e particolarmente complessa sono state definite “tombe palaziali” (ad es., la tomba II di Mesu ’e Montes, Ossi, Sassari).

Fra le necropoli ipogeiche, distribuite in tutta l’isola, una delle più celebri è quella di Anghelu Ruju (Alghero, Sassari), scoperta nel 1903 ed esplorata in successive campagne di scavo da A. Taramelli (1904- 1907), da D. Levi (1936), da E. Contu (1969) e poi nel 1994 oggetto di approfondito studio e restauro conservativo e ricostruttivo. Conta 37 tombe a domus de janas (una sola a fossa), tutte pluricellulari e arricchite di particolari architettonici e decorativi, utilizzate per molti secoli per seppellimenti collettivi; particolarmente significativi e abbondanti i reperti riferibili alla cultura del Vaso Campaniforme, della fase avanzata dell’Eneolitico isolano. Non lontana da Anghelu Ruju si trova una collinetta denominata Santu Pedru (Alghero, Sassari), nella quale sono scavate molte tombe ipogeiche; alla base del rilievo si apre la tomba I, una delle più note del suo genere perché quando venne esplorata, negli anni Sessanta del Novecento, risultò inviolata dopo l’ultimo seppellimento risalente alla prima età del Bronzo, per cui ha restituito una successione stratigrafica indisturbata da Ozieri attraverso tutte le fasi dell’Eneolitico, con grande abbondanza di materiali; inoltre anche le dimensioni e la raffinatezza architettonica sono di un certo rilievo.

La cultura di Ozieri è nota per lo splendido materiale ceramico. I vasi presentano una tipologia ricchissima: vasi a cestello, vasi e tazze carenate, vasi globulari a collo distinto, ciotole e vasi emisferici, vasi a tripode e pissidi; notevoli le anse gemine a sviluppo subcutaneo “a tunnel”. Gli impasti sono in maggioranza grigi o bruni con superfici grigiastre o nere e la decorazione, ottenuta con strumenti vari, tende ora a coprire tutta la superficie, o è plastica, applicata; i motivi sono lineari (linee continue o spezzate, zig-zag semplici, doppi o tripli, chevrons, bande tratteggiate, triangoli e “denti di lupo”, stelle, metope, cerchi e semicerchi, spirali e false spirali, ecc.). Esistono anche motivi antropomorfi: figurine femminili a clessidra e con gonne a campana, talvolta in successione quasi in una scena di danza sacra, figurine maschili barbute, ecc. Le incisioni sono spesso sottolineate e ravvivate da incrostazioni di pasta bianca e rossa (ocra). Sono caratteristici gli idoletti “a placchetta” di impasto e di pietra, di tipo completamente diverso da quello documentato nella precedente fase di Bonu Ighinu, con forma molto stilizzata, busto e braccia sintetizzate in una placca quasi rettangolare da cui sporgono i seni.

Si va sempre meglio precisando, nell’ambito della fase avanzata della cultura di Ozieri e fra questa e la successiva cultura eneolitica di Filigosa-Abealzu (3000-2500 cal. B.P.), uno stile ceramico ricco e caratteristico quanto quello “classico”, rappresentato da vasi di argilla figulina a superficie giallina o rosata, ingubbiati e dipinti con motivi geometrici lineari in rosso e bruno. Sembra che a questo aspetto avanzato della cultura di Ozieri, denominato “Ozieri dipinto”, sia riferibile la diffusione in Sardegna degli idoli cicladici di pietra e di marmo, noti nella forma a placca intera e nella versione settentrionale traforata; ambedue appaiono derivare naturalmente dagli idoli a placchetta, mentre restano ancora da definire le relazioni culturali e cronologiche con le forme propriamente diffuse nelle Cicladi. Il sito nel quale, finora, questo interessante aspetto culturale di Ozieri dipinto (da altri detto, forse non del tutto a ragione, “sub-Ozieri”) si è rivelato con grande abbondanza di reperti è l’insediamento di Su Coddu di Selargius (Cagliari), con fondi di capanne, pozzi e pozzetti, silos, focolari, ecc., oltre 102 strutture di varia forma e profondità scavate su di un’altura, oggi appena evidente, nel retroterra dello stagno di Molentargius a meno di 10 km da Cagliari. Materiali e strutture simili sono stati anche localizzati a Terramaini di Pirri (Cagliari) e a Monte Ollàdiri di Monastir (Cagliari). Nel centro-nord dell’isola, a Bau ’e Cresia di Sorgono (Nuoro) e a Pilastru di Arzachena (Sassari), si sono ritrovate strutture analoghe a quelle meridionali, ma con reperti ancora pienamente ascrivibili alla cultura di Ozieri.

Nel Neolitico, la grande risorsa della Sardegna era costituita dai suoi ricchi giacimenti di selce e soprattutto di ossidiana: essa si rinviene allo stato naturale e con diverse qualità nel Monte Arci, nell’Oristanese, da dove si diffonde in tutta l’isola, e anche, a livello paritario se non concorrenziale, con quella proveniente da Lipari, nella penisola: nel Lazio, in Toscana, in Liguria e nel Veneto, inoltre nella Corsica e nella Francia meridionale; questo materiale, prezioso nella preistoria, costituisce perciò un indizio sicuro dell’esistenza di rapporti tanto diretti quanto indiretti fra le popolazioni tirreniche, il che aiuta a spiegare le similitudini che si riscontrano negli stili ceramici e in altri manufatti e fenomeni culturali. Anche la selce locale trova largo impiego nei giacimenti neolitici della Sardegna e della Corsica. Nell’ambito  della cultura di Ozieri si ha ampia documentazione relativamente al fenomeno del megalitismo rappresentato da menhir e dolmen, tanto isolati quanto raggruppati in allineamenti, aree sacre e necropoli, e anche da strutture dolmeniche connesse a domus de janas che non di rado, per la ricchezza delle decorazioni interne e per la complessità delle addizioni megalitiche esterne, assumono una indubbia valenza templare, permanendo poi in uso fino alla prima età del Bronzo. Dalle forme essenziali prendono poi le mosse, evolvendosi anche in periodi successivi, una serie di monumenti quali i dolmen ad allée, i dolmen a corridoio, le allées couvertes, o tombe a galleria, e altre tombe di formula mista ipogeico-megalitica, frequentemente accompagnate da menhir.

Il miglior esempio di santuario megalitico con sepolture monumentali è certamente Pranu Mutteddu di Goni (Cagliari). In una zona interna del Gerrei, coperta di fitta macchia e di boschi di querce, si trovano, nel caso più singolare della tomba II, due massi trasportati, alloggiati su solidi basamenti di piccole pietre, accuratamente rifiniti a martellina e scavati con una cameretta monocellulare, costituente l’ingresso, e una bicellulare, circondate da due o tre cerchi concentrici di pietre; al centro di questi anelli litici, probabilmente in molti casi peristaliti di tumuli, si trovano anche ciste litiche quadrangolari o più allungate, absidate o meno, generalmente con un corridoio d’accesso. Eccezionale nella zona è la densità di allineamenti di menhir protoantropomorfi; molti di essi, di altezza superiore ai 2 m, si ergono al margine o al centro dei circoli tombali. I materiali restituiti dagli scavi attestano l’impianto della necropoli nell’ambito della cultura di Ozieri, con precoce impiego del rame e dell’argento, e una prosecuzione di uso, apparentemente sporadica, nell’Eneolitico e fino alla prima età del Bronzo.

Il monumento più singolare del megalitismo prenuragico, privo com’è di confronti sia per la forma che per la funzione, è quello che sorge a Monte d’Accoddi, Sassari. Al Neolitico medio/recente va riferito un villaggio di capanne a pianta circolare identificato nei pressi del monumento. Un’area sacra si trovava nel luogo stesso ove fu poi eretta la piramide e ne rimangono un menhir alto 4,7 m, monolite di pietra calcarea squadrata, e due lastre di pietra, l’una di calcare e l’altra di trachite, con fori e cuppelle, evidentemente per scopi rituali. Questo primitivo santuario, riferibile alla cultura di Ozieri del Neolitico tardo, venne in gran parte ricoperto dalla prima e poi dalla seconda costruzione piramidale. La possente struttura attualmente visibile, costruita interamente a secco con grandi blocchi irregolari di calcare, si presenta appunto come una grande piramide tronca (36 x 29 m), a un lato della quale si appoggia una lunga rampa di accesso (lunga 41,8 m); l’insieme della struttura è stato dunque riferito a un monumento sacro, un grande altare per il quale si è richiamata la forma delle piramidi tronche a gradini della Mesopotamia, le ziqqurrat.

All’interno di questa struttura ne è stata scoperta un’altra, simile ma più piccola, recante un sacello rettangolare sulla sommità, una raffinata struttura intonacata e affrescata con colore rosso ocra, della quale rimangono il pavimento, ugualmente intonacato e dipinto di rosso, e il muro perimetrale alto 70 cm con il varco d’accesso fiancheggiato anteriormente da due buche di palo pertinenti a un piccolo portico; anche la stessa prima piramide ha restituito consistenti resti di intonaco dipinto di rosso, per cui è stata denominata “il Tempio Rosso”. Datazioni radiometriche ne collocherebbero la costruzione nell’ambito dell’Ozieri “classico” (3750-3630 cal. B.P.), mentre l’erezione del secondo tempio andrebbe situata nell’ultima fase della cultura di Ozieri, caratterizzata dalla ceramica dipinta (3510-2900 cal. B.P.). Il culto sul grande altare e la vita nel villaggio circostante si svolge durante tutto l’Eneolitico fino all’inizio dell’età del Bronzo.

Eneolitico

È difficile stabilire con certezza il momento preciso e i modi del trapasso dalla cultura di Ozieri vera e propria alle sue fasi attardate (Ozieri dipinto) e alle successive culture di Filigosa- Sos Laccheddos e di Abealzu, caratterizzate ambedue da ceramica grigio-scura o nerastra.

La prima è rappresentata nelle località omonime di Filigosa (Macomèr, Nuoro) e di Sos Laccheddos (Osilo, Sassari), Monte d’Accoddi (Sassari), San Giuseppe (Padria, Sassari), Santu Pedru (Alghero, Sassari), Mannias (Mogoro, Cagliari), Serra Cannigas e Monte Crastu (Villagreca, Cagliari), con ciotole carenate con scarsa decorazione, limitata talvolta a un motivo graffito a zig-zag semplice o a banda campita, o una fila di puntini, o rombi tracciati a leggere solcature sul collo o sulla spalla. La seconda, invece, documentata ad Abealzu (Osilo, Sassari), Monte d’Accoddi (Sassari), Santu Pedru (Alghero, Sassari), Corte Noa e Masone Perdu (Laconi, Nuoro), ha tazzine con due bugnette opposte all’ansa, vasi tripodi e vasi con alto collo (detti perciò “a fiasco”), tutti completamente inornati, che presentano stretti confronti con forme dell’Eneolitico peninsulare nei contesti di Rinaldone e del Gaudo e che perciò vengono inquadrate ancora entro la prima metà del III millennio (ca. 3000/2900-2500 cal. B.P.).

Abbondante repertorio vascolare, ma ripetitivo e monotono, fra cui predominano ciotole a carena marcata e sporgente di impasto grigio scuro e nerastro e di dimensioni varie, è stato restituito dalle tombe ipogeiche, caratterizzate da lunghissimi dromoi scavati nella roccia (11,6 m nella tomba 1) e da pochi e stretti vani interni, della necropoli eponima di Filigosa, Macomèr (Nuoro). Essa conta meno di una decina di ipogei raggruppati alle falde di un modesto rilievo, sulla sommità del quale sorge il nuraghe Ruggiu, cosa che ha determinato un reimpiego dei dromoi in età nuragica. L’importanza delle tombe di Filigosa consiste nel fatto che, a quanto pare, all’interno esse non sono state riutilizzate in epoche successive, per cui il contesto culturale si presenta “puro”. Fra i reperti speciali si ricordano un vasetto miniaturistico, un vasetto di legno, una testa di spillone di impasto e un anellino d’argento. Anche in Sardegna come in Sicilia, in Italia meridionale e in Corsica, il metallo fa la sua prima apparizione in contesti del Neolitico recente (ad es., a Su Coddu di Selargius e a Monte d’Accoddi), ma la sua presenza diviene significativa solo nell’Eneolitico: si tratta di pugnaletti, punteruoli e piccole asce di rame, braccialetti, anelli ed elementi a spirale di rame e d’argento, mentre con sicurezza almeno dalla seconda metà del III millennio è attestato l’uso di riparare i vasi con grappe di piombo.

Ugualmente alla piena età del Rame vengono attribuite le straordinarie statue-menhir di Laconi (Nuoro) nell’alto Sarcidano, spesso raggruppate e da porre in relazione ad aree sacre o a monumenti funerari, che presentano una interessante linea evolutiva dal menhir semplice o perda fitta, al menhir protoantropomorfo, alla statua-menhir vera e propria, accuratamente lavorata a martellina, di dimensioni variabili, ma in prevalenza a forma ogivale e a sezione piano-convessa, con tratti antropomorfi e, negli esemplari maschili che sono la grande maggioranza, il “capovolto” e un pugnale scolpiti nella parte anteriore. Recenti scoperte hanno portato ad allargare l’area dei rinvenimenti ai territori di Nurallao e Isili, di Senis, di Allai e Samughèo, di Meana Sardo, di Silanus, ecc., tutti rispondenti allo schema generale del profilo ogivale, faccia prospettica piana e sezione piano-convessa, o più squadrata e appiattita a lastra, ma con caratterizzazioni zonali tali da far pensare a stili e maestranze – talora anche fasi cronologiche – differenti; eccezionale la scoperta di megaliti ancora semilavorati nella cava di Laconi, località Minde Puzzu-Serra Entrada.

La cultura di Monte Claro (dalla collina su cui sorge Villa Claro a Cagliari) si distingue dalle precedenti per abbondanza di rinvenimenti, diffusi in tutta l’isola e articolati in facies territoriali distinte: quella meridionale del Campidano di Cagliari, quella dell’Oristanese, quella del Sassarese e quella del Nuorese. Caratteristiche comuni sono l’impasto bruno chiaro o rossiccio e la decorazione a scanalature della ceramica; a parte questi caratteri comuni, la produzione vascolare è estremamente ricca tanto nelle forme, che includono grandi vasi situliformi, basse scodelle talvolta tripodi, vasi di diverse fogge con due coppie di anse sul corpo e sul collo, che nella decorazione, impressa e dipinta a stralucido, distribuita sulle anse, sulla spalla o anche su tutto il corpo. Gli insediamenti Monte Claro sono sia in grotta che in villaggi all’aperto, dei quali notissimi quelli del Campidano; materiali di questa cultura provengono anche da un monumento megalitico, la “capanna- torre” di Sa Corona di Villagreca (Cagliari); sono conosciuti villaggi- santuario come quello di Biriai (Oliena, Nuoro) con case absidate, villaggi-santuario fortificati come quello di Monte Baranta (Olmedo, Sassari) e villaggi fortificati come quello di Monte Ossoni (Castelsardo, Sassari).

Le sepolture vengono deposte in domus de janas preesistenti, fra le quali si ricordano le celebri necropoli di Monte d’Accoddi (Sassari), di Su Crucifissu Mannu (Porto Torres), di Anghelu Ruju e di Santu Pedru (Alghero), in tombe a forno con accesso a pozzo (Monte Claro e Via Basilicata a Cagliari), in tombe a cista litica (San Gemiliano di Sestu, Cagliari) e in dolmen (Motorra, Dorgali). La decorazione scanalata richiama motivi analoghi sulla ceramica di Piano Conte nelle Eolie e di Fontbuisse nella Francia meridionale. La cronologia assoluta, ancora in fase di studio e di precisazione, può essere proposta entro la seconda metà del III millennio (ca. 2500-2200 cal. B.P.). Alla fine del III millennio e all’inizio del II (ca. 2200-1900 cal. B.P.), la Sardegna viene interessata da un fenomeno che, a partire dalla Penisola Iberica, si diffonde per tutta l’Europa; di esso è indizio la presenza di alcuni oggetti tipici: un vaso a forma di campana rovesciata (da cui il nome di “cultura del Vaso Campaniforme”), decorato da strette fasce orizzontali con motivi geometrici impressi con una caratteristica tecnica detta “a rotella dentata” (in realtà viene usato uno strumento a pettine), scodelloni con tre o quattro piedi (cuencos) recanti la stessa decorazione, bottoni di osso rotondi o “ad alamaro” con perforazione a V, pendenti di conchiglia a crescente lunare, punte di freccia di selce con codolo e alette squadrate, placchette di pietra rettangolare con fori alle estremità detti “bracciali da arciere”.

Questi materiali si rinvengono esclusivamente in tombe oppure, sporadici e isolati, in contesti di altre culture, rispetto alle quali appaiono intrusivi. Non si può, pertanto, parlare di una “cultura” in quanto la maggior parte dei suoi aspetti più significativi, insediamenti, economia, organizzazione sociale, ideologia, non è ancora conosciuta. Al momento, anche sulla base della tipologia dei materiali ceramici, sembra avvalorata l’ipotesi dell’avvento dall’esterno, in un primo momento dal Sud della Francia e poi dal centro Europa, di piccoli gruppi, anche in diverse ondate, che hanno finito per coesistere con le popolazioni indigene e che hanno lasciato poche tracce di materiali riconoscibili.

Età del bronzo

Durante l’età del Bronzo si va completando quel processo di differenziazione sociale, iniziato nell’età del Rame, che porta alla formazione di società complesse. Questa evoluzione che nel Vicino e Medio Oriente può considerarsi compiuta all’inizio del III millennio, in Europa è assai più lenta, tanto che nella prima età del Bronzo le comunità hanno dimensioni ancora limitate e una struttura sociale poco articolata.

La cultura di Bonnanaro

In Sardegna si riscontra la presenza di una cultura detta “di Bonnanaro” dal territorio in cui sorgono le domus de janas di Korona Moltana, dove per la prima volta vennero identificati materiali tipici di questo orizzonte culturale, databili forse ancora fra il 2200 e il 1900 cal. B.P. Si tratta di vasi inornati, salvo rari casi di applicazioni plastiche, di impasto bruno chiaro-rosato, di forme prevalentemente troncoconiche, caratterizzati da anse a gomito (una o più raramente due), che distinguono anche la contemporanea cultura di Polada dell’Italia settentrionale. Sono presenti inoltre vasi “a clessidra”, vasi tripodi, vasetti polipodi a volte forniti di semplici protuberanze sul fondo, vasi a larga spalla carenata, ciotoline coniche, subcilindriche, emisferiche, ecc. Oltre una settantina di località in tutta l’isola hanno restituito reperti di questa cultura con notevole abbondanza, tanto che si è riusciti con successo a profilarne alcune facies locali. Si è anche proposta una sua articolazione in due aspetti distinti: Bonnanaro A o facies di Korona Moltana, quello sopra descritto, e Bonnanaro B o facies di Sa Turricula, dal nome di un insediamento nel comune di Muros (Sassari) (1900-1600 cal. B.P.), ormai appartenente all’orizzonte culturale della media età del Bronzo.

Molti rinvenimenti in domus de janas, delle quali in maggioranza costituiscono l’ultima fase di uso, attestano un elaborato rituale funerario, come nella tomba XVI di Su Crucifissu Mannu (Porto Torres, Sassari); frequentemente i crani presentano tracce di trapanazione eseguita in vivo a scopo di cura, in un caso (Grotta di Sisaia, Dorgali, Nuoro) addirittura con autoinnesto perfettamente riuscito. Tutti i dati su questa cultura concorrono a dimostrare come nel suo ambito abbia avuto origine l’elaborazione degli elementi che costituiranno la civiltà nuragica ed è possibile che in quest’epoca si sia avuta l’erezione dei primi nuraghi. Allo stesso modo è da considerarsi il frequente rinvenimento di reperti di cultura Bonnanaro entro le “tombe di giganti” nuragiche le quali, in molti casi documentati, costituiscono l’evoluzione strutturale di età nuragica delle sepolture dolmeniche dei periodi precedenti.

La civiltà nuragica

Il termine “civiltà”, che potrebbe essere considerato improprio in relazione a una cultura protostorica, è giustificato dalla complessità dell’articolazione, dalla grandezza delle manifestazioni e dalla lunga durata della sua evoluzione.

Il periodo iniziale e quasi di gestazione si fa risalire alla prima età del Bronzo, mentre sempre più numerosi sono i richiami alle culture ancora precedenti che in vario modo avrebbero contribuito alla sua formazione culturale. Il suo aspetto più tipico, comprendente non solo la torre nuragica con un primitivo villaggio, ma anche forme ceramiche con decorazione “metopale” e “a pettine” e bronzi d’uso, si data all’età del Bronzo Medio; già in questo periodo l’architettura elaborata e monumentale delle “tombe di giganti” a ortostati con stele centinata accompagna il nuraghe, mentre iniziano a prendere fisionomia distintiva i vari luoghi di culto, cioè i “templi a pozzo” e le “fonti sacre”, ove dovevano svolgersi le cerimonie legate al culto delle acque, e altri. Nelle fasi successive, a partire dall’età del Bronzo Recente, raggiunge il suo apogeo l’importante fenomeno che coinvolge la Sardegna come tutto il bacino del Mediterraneo orientale e centrale: la navigazione micenea, attratta verso l’isola presumibilmente dalle sue eccezionali risorse minerarie oltre che dal fatto di costituire uno scalo naturale, d’obbligo per le rotte verso l’Occidente.

In questo periodo si registra un sensibile sviluppo, certamente anche demografico e socio-economico, di tutto il contesto culturale nuragico; nei nuraghi si riscontra il moltiplicarsi delle forme polilobate, con poderosi rifasci e antemurali; i villaggi si articolano in complessi gruppi di capanne, raggiungendo talvolta le centinaia di vani, e le tombe e i templi presentano tipologie costruttive sempre più varie e una tecnica edilizia sempre più raffinata. Nella cultura materiale si assiste, soprattutto nell’età del Bronzo Finale, a una forte corrente di importazioni di oggetti metallici e legati alla metallurgia dall’Isola di Cipro, determinando uno straordinario fiorire anche nella produzione locale; la ceramica, per la quale si parla di “stile pregeometrico”, mantiene alcune forme tradizionali e caratteristiche, mentre diminuiscono sensibilmente le decorazioni e migliora la qualità della tecnica, forse anche per suggestione delle ceramiche di importazione micenea. Già dagli ultimi secoli dell’età del Bronzo Finale la produzione bronzistica raggiunge livelli di altissima specializzazione con la produzione di centinaia di statuette, di barchette votive e di altri oggetti miniaturistici, armi, ornamenti, ecc.

La ceramica, sempre muovendosi nel quadro delle fogge note già da tempo, mostra forme eleganti e decorazioni prima sporadiche e semplici (“pregeometrico”, ca. XI-X sec. a.C.) e poi più elaborate, dette “geometriche”, incise o impresse, talvolta con applicazioni plastiche, o realizzate a stralucido. A questa ultima fase, nella prima età del Ferro, si fa anche risalire la grande statuaria di pietra documentata soprattutto a Monte Prama nel Sinis di Oristano, che riproduce alcune figure e personaggi già rappresentati nella bronzistica. L’ultimo periodo è contemporaneo alla fondazione delle città fenicie e alla loro  espansione e le ricerche archeologiche vanno constatando in tutta l’isola una prosecuzione della vita in piena età punica e romana in moltissimi dei siti nuragici tradizionali, ma le caratteristiche della cultura materiale presentano molti significativi cambiamenti quali, ad esempio, l’uso del tornio rapido per le ceramiche, una più larga importazione e imitazione di prodotti esterni e, in generale, un impoverimento di quel brillante contesto che per circa un millennio aveva avuto il suo originale svolgimento. Già dall’età arcaica sembra ormai improprio parlare di “civiltà nuragica”.

L’ipotesi più attendibile sul significato del nome “nuraghe” è “cumulo di pietra con una cavità interna”; trattandosi di una parola accertatamente non indoeuropea, si può presumere che risalga direttamente all’epoca della sua creazione. La forma basilare di nuraghe è quella di un tronco di cono sormontato da un terrazzo sporgente; all’interno della camera, generalmente circolare, nelle forme più comuni si aprono tre nicchie disposte a croce rispetto all’ingresso; sull’andito che attraversa lo spessore della muratura è praticata a destra una nicchia, a sinistra il vano di una scala elicoidale che sale al piano superiore o al terrazzo; per ciascuno di questi elementi esistono innumerevoli varietà ed eccezioni. La copertura dei vani interni è, di norma, a falsa cupola, ovvero con assise anulari sovrapposte, di diametro via via decrescente; alcuni riferiscono ai primi navigatori egei l’introduzione della tholos in Sardegna, mentre altri, sulla base di analisi strutturali e funzionali, ritengono che si possa escludere l’appartenenza delle tholoi minoiche e micenee e di quelle nuragiche allo stesso filone strutturale.

Fanno eccezione i nuraghi “a corridoio” che presentano i vani interni angusti e di sviluppo limitato rispetto alla massa muraria e coperti a piattabanda; ipotesi contrastanti li considerano come le più arcaiche forme di nuraghi o, all’opposto, come le più tarde e decadenti. È stato comunque riscontrato che queste costruzioni sono frequenti in siti, prevalentemente granitici, ove la struttura muraria si adatta irregolarmente alle emergenze rocciose. Esistono anche nuraghi misti, a corridoio e a tholos: ad esempio, i nuraghi Albucciu di Arzachena, Majore di Tempio, Palmavera di Alghero, Talei di Sorgono, ecc. Non si sa esattamente, dal punto di vista tecnico, come venisse eretto un nuraghe: si tratta di una struttura di considerevole spessore dove ogni pietra è ben legata ai lati e verso l’interno; nicchie, corridoi e vani-ripostiglio hanno spesso la funzione di alleggerire la massa muraria. All’atto della collocazione in situ i blocchi, anche i più grandi, venivano sbozzati, cioè assestati e messi in opera eliminando le asperità e facilitandone l’aderenza; l’impiego di argilla come legante è limitato ai casi in cui il terreno ne sia naturalmente ricco, mentre è costante l’uso di terra e piccole pietre come zeppe. Si vanno scoprendo sempre più numerosi esempi di complesse e vaste opere di fondazione, prima ritenute del tutto assenti.

Al nuraghe monotorre venivano spesso aggiunte altre torri, da una a cinque, variamente disposte, collegate l’una all’altra da possenti murature di rifascio sovrastate da camminamenti e nelle quali erano talvolta ricavati corridoi; si hanno così nuraghi bilobati, trilobati (come il nuraghe Santu Antine di Torralba), quadrilobati (come Su Nuraxi di Barumini) e pentalobati (unico conosciuto il nuraghe Arrubiu di Orroli). Fra la torre centrale e i corpi aggiunti erano ricavati dei cortili che consentivano la comunicazione fra i corpi aggiunti e la torre centrale. I nuraghi a pianta complessa venivano poi inclusi in un’ulteriore cinta esterna di torri collegate l’una all’altra da mura, a costituire quello che viene detto “l’antemurale”. Il nuraghe Santu Antine (San Costantino) di Torralba (Sassari) sorge in quella che, per la densità di questi monumenti, è stata denominata “Valle dei Nuraghi”, nel Logudoro-Meilogu. Conosciuto già dalla seconda metà del Settecento e oggetto di interesse e di visita di viaggiatori e studiosi, il monumento centrale e le strutture romane sono stati scavati nel 1935; il restauro del bastione e lo scavo del villaggio sono del 1964; nel 1983- 84 e nuovamente nel 1992-94 sono stati ripresi sondaggi di accertamento e verifica sia nel nuraghe sia nel villaggio e nell’area circostante a esso, in coincidenza con l’allestimento del museo e con la sistemazione del complesso archeologico.

La torre centrale, che misura 15,4 m di diametro di base e 17 m di altezza residua, conserva due piani sovrapposti coperti a tholos e il pavimento del terzo, mentre la scala elicoidale accenna a proseguire fino a raggiungere il terrazzo, ora scomparso. Intorno a essa si articola un massiccio bastione trilobato con tre torri agli angoli, collegate da una possente muratura leggermente concava ai lati e convessa in corrispondenza dell’ingresso al bastione, percorsa da corridoi su due piani e con altri vani agli angoli. Nell’insieme, la planimetria del monumento si presenta particolarmente elaborata e complessa, innegabilmente obbediente a un piano costruttivo preciso e preordinato; anche la struttura muraria, di basalto, appare in prevalenza regolare, quasi a filari “isodomi”, tanto nei livelli alti della torre centrale quanto nel bastione; imponenti opere di fondazione e almeno due livelli di vespaio di pietre di diverse dimensioni sono stati accertati dall’indagine di scavo archeologico e da esplorazioni geologiche, nel corso delle quali sono stati rinvenuti materiali ceramici di stile “metopale” e a pettine, che inquadrerebbero la costruzione del bastione e dell’intero monumento nell’età del Bronzo Medio. La vita è poi proseguita, apparentemente senza soluzione di continuità, tanto nel nuraghe che nel villaggio circostante – del quale sono state scavate meno di una decina di capanne – per tutta l’età del Bronzo e del Ferro, fino a epoca romana, quando una villa rustica si sovrappose alle capanne circolari in adiacenza alla parte anteriore del bastione, e fino al periodo bizantino, a cui appartengono diverse sepolture ritrovate nei dintorni.

II nuraghe Su Nuraxi di Barumini (Cagliari) è forse il più noto di questi monumenti. È stato interamente portato alla luce fra il 1940 e  il 1956 e ampiamente pubblicato da G. Lilliu. La possente struttura di basalto della torre centrale (diametro esterno di base 10 m, altezza residua 14,1 m) è circondata da un bastione quadrilobato, che in una seconda fase (terza rispetto a quella di costruzione della torre centrale) è stato rivestito da un rifascio che ha occluso l’ingresso e le prese di luce originarie; il bastione è circondato da una cortina antemurale che contava in tutto sette torri, appartenenti però a due fasi diverse da porsi in relazione con quelle del bastione. Intorno si estende per quasi 1,5 ha (1350 m, dei quali più di un terzo occupati dal nuraghe) un enorme villaggio che conta oltre 200 vani, singoli o raccolti in isolati, anch’essi edificati in momenti successivi, che si sono sovrapposti e intrecciati gli uni agli altri con un intrico di strutture che sommergono e invadono lo stesso antemurale; il materiale di costruzione del villaggio è il basalto, ma sono anche impiegati marna e calcare, tanto per parti strutturali che per sovrastrutture, decorazioni ed elementi vari come bacili, vasche e vaschette, forni, ecc.

Lilliu attribuisce alla fine dell’età del Bronzo Medio e al Bronzo Recente (1500-1300 a.C.) la prima fase, ovvero la costruzione della torre centrale; al Bronzo Finale (1300-1100 a.C.) la seconda fase ovvero il bastione quadrilobato, il primitivo antemurale e l’inizio della vita nel villaggio; alla fine dell’età del Bronzo Finale e alla prima età del Ferro (1100-VIII sec. a.C.) la terza fase ovvero il rifascio del bastione e il secondo antemurale; ai secoli dall’VIII al VI la quarta fase con l’estensione del villaggio “a isolati”, e dal V al III sec. a.C. la prosecuzione della vita in età punica e romana. Il nuraghe Arrubiu di Orroli (Nuoro) deve il suo nome, come molti altri nuraghi della Sardegna, al colore del basalto; si trova nel cuore dell’alto Sarcidano e domina il guado sul medio corso del Flumendosa. Si tratta di un possente nuraghe pentalobato, cioè intorno alla torre centrale (alt. attuale ca. 15 m) ci sono altre cinque torri collegate l’una all’altra da imponenti muraglioni rettilinei con un cortile irregolarmente pentagonale al centro. Nella camera al piano terra della torre centrale (diametro interno 5 m, alt. 11 m), la falsa cupola (tholos) è integra. Il pentalobato è circondato dall’antemurale con sette torri, alcune tangenti il bastione e formanti così tre cortili, mentre lungo il lato meridionale sorge una seconda struttura aggiunta con quattro o cinque torri.

Alcune capanne si trovano nella zona occidentale. Gli scavi, iniziati nel 1981 e tuttora in corso, hanno dato molti interessanti risultati: il monumento risulta essere stato edificato in un limitato arco di tempo, in particolare la costruzione della torre centrale, contemporanea a quella del bastione pentalobato, si colloca entro il XIV sec. a.C.: a questa conclusione è stato possibile giungere per il rinvenimento di un vasetto miceneo, un alabastron angolare del Miceneo IIIA2 (1400-1340 a.C.), in frammenti nel vespaio sia del cortile che della camera. La struttura del pentalobato cadde prima o all’inizio del periodo geometrico, ricolmando il cortile centrale di circa 500 m3 di materiale di crollo, incluse le pietre finemente lavorate del coronamento del terrazzo della torre centrale, alcune delle quali ancora legate con grappe di piombo. La dimensione della rovina fu tale da impedire la prosecuzione della vita nel sito fino all’età romana, quando vennero occupati i vani ricavati sopra il crollo, senza tentativi di rimozione; così sono stati trovati due impianti per la lavorazione del vino, eccezionalmente ben conservati, che sono venuti a sigillare gli strati nuragici sottostanti, indisturbati.

Completamente diverso dai precedenti è il nuraghe Albucciu di Arzachena (Sassari) che appartiene al tipo “a corridoio”. È addossato a un’emergenza granitica della quale sfrutta la conformazione inglobando ampie porzioni di roccia a complemento della struttura muraria. La costruzione si sviluppa lungo l’asse nord-sud, al centro del quale si apre l’ingresso architravato; la facciata est è coronata sulla sommità da una serie di mensoloni che dovevano reggere lo sporto del terrazzo, probabilmente una balaustrata lignea. Fra i vari corridoi e cunicoli interni coperti a piattabanda, si trova anche il vano N, coperto a tholos, che ha restituito un’importante successione stratigrafica, scavata nei primi anni Sessanta del Novecento da M.L. Ferrarese Ceruti, e moltissimo materiale ceramico che documenta le varie fasi d’uso del monumento a partire almeno dall’età del Bronzo Recente. Ancora tutta da definire è la relazione insediativa e socioeconomica fra nuraghe e villaggio: in genere, è frequente ritrovare il villaggio vicino al nuraghe, esistono però molti nuraghi senza villaggio e anche molti villaggi senza nuraghe.

Talvolta uno o più nuraghi si trovano a qualche centinaio di metri di distanza: è questo il caso del villaggio nuragico di Serra Orrios (Dorgali, Nuoro) che sorge sull’altipiano basaltico del Gollei. Esplorato nel 1936-37 da Doro Levi, è stato nuovamente oggetto di restauro nel 1961 e poi nel 1980, e ancora di scavo e restauro nel 1992-93. Consiste in un centinaio circa di capanne, tuttora non interamente esplorate, sia non connesse l’una all’altra sia raccolte in “isolati”. Strutture eccezionali a Serra Orrios sono due tempietti a megaron, ovvero a pianta rettangolare in antis, racchiusi entro recinti. I dati di cultura materiale, rinvenuti con grande abbondanza e, per la parte relativa ai primi interventi, studiati e pubblicati, si collocano fra le fasi finali del Bronzo Antico e il Bronzo Medio, esemplificati da vasetti di tradizione Bonnanaro e da tegami decorati a pettine impresso e strisciato. Il periodo di maggiore frequentazione è testimoniato dai materiali del Bronzo Recente e Finale; frequenti sono gli strumenti per la lavorazione dei tessuti, come pesi da telaio, rocchetti e fusaiole, e della ceramica, come lisciatoi ceramici e litici e pintadere; è anche documentata nel villaggio un’attività artigianale legata alla produzione e lavorazione di oggetti di bronzo quali matrici di fusione, piccole molle da fuoco, braccialetti decorati, ecc. Il risultato più interessante dei nuovi scavi è stato l’aver accertato che i tempietti non si riferiscono alle fasi finali di vita nel sito, ma che la loro erezione si colloca nell’ambito della media età del Bronzo, con tracce di frequentazione nell’area esterna risalenti alla fase di Sa Turricula.

Le capanne nuragiche hanno comunemente la pianta circolare con la struttura muraria realizzata con pietre di media pezzatura sbozzate e sovrapposte senza fondazioni; l’altezza varia da 1 m circa a oltre 2 m, talora con ingresso architravato (Tiscali, Oliena, Nuoro; Santu Antine, Torralba, Sassari), lo spessore è sempre cospicuo, atto a sostenere la copertura conica con pali e frasche. Le esplorazioni archeologiche hanno confermato la presenza al centro di un focolare di terra battuta e concotta e di piccole pietre, o delimitato da una corona di conci triangolari con vertice al centro; nella Capanna delle Riunioni di Palmavera (Alghero, Sassari) e di Punta ’e Onossi (Florinas, Sassari), con banchina lungo le pareti, al centro sorge un basamento sostenente un modellino di nuraghe monotorre. Oltre alle capanne a pianta circolare semplice, sono frequenti quelle con recinti e vani secondari addossati e anche complessi raggruppamenti di vani a schema circolare intorno a un cortile centrale, dei veri e propri “isolati”, nei quali si riconoscono delle destinazioni d’uso molto interessanti e ancora non pienamente chiarite.

Sfuggono ancora la precisa funzione e significato dei nuraghi, essendo ormai quasi unanimemente respinta la teoria “militarista” che dava loro l’esclusiva valenza di fortezze. Recentemente è stata avanzata l’ipotesi che la ragion d’essere di un numero così elevato di imponenti costruzioni (ca. 8000), spesso a brevissima distanza l’una dall’altra, in situazioni geografiche e topografiche dissimili, ma con una notevole uniformità di parametri strutturali generali e di elementi di cultura materiale, vada ricercata proprio nel contesto socio-economico, che mostra insieme un elevato grado di benessere diffuso e condizioni ambientali mediamente assai favorevoli e un’organizzazione paritaria e collettivistica su base familiare o tribale: i nuraghi sarebbero dunque stati eretti con gli sforzi comuni e concentrati di tutta la forza lavoro di un dato territorio e dunque in un arco di tempo abbastanza contenuto, per essere la dimora del capo di una nuova famiglia o di una piccola tribù all’interno di un clan più vasto; il prestigio poteva essere legato proprio alle dimensioni, numero e complessità delle torri nuragiche, quasi degli status symbols. Questa ipotesi trova conferma nella riproduzione miniaturistica di pietra e di bronzo dei nuraghi sia semplici che complessi e nella loro collocazione nei santuari o al centro delle capanne delle Riunioni.

Le sepolture caratteristiche dell’età dei nuraghi sono dette “tombe di giganti”, per il fatto di essere tutte tombe collettive, di dimensioni spesso considerevoli; le più grandi sono Su Crastu Covocadu (Tinnura, Nuoro), oltre 30 m, e San Cosimo di Gonnosfanadiga (Cagliari), 30 m, Su Monte de s’Ape (Olbia, Sassari), 28,2 m e Li Lolghi (Arzachena, Sassari), 27,1 m; fra le più piccole è Sedda ’e Balloi (Fonni, Nuoro), 8 m. Gli elementi costitutivi sono la camera sepolcrale a pianta rettangolare allungata e spesso lastricata, il tumulo contenuto da una crepidine di pietre con parte posteriore absidata e un’area rituale antistante delimitata da una struttura semicircolare detta “esedra”, al centro della quale si apre l’accesso alla camera, distinto da un elemento di facciata che, nelle varie epoche, assume forme diverse. Sostanzialmente si conoscono due tipi fondamentali e cronologicamente successivi: le “tombe di giganti” di tipo dolmenico, od ortostatico, e le tombe a struttura isodoma. Le cosiddette “tombe di giganti” discendono direttamente dai dolmen e dalle tombe a galleria e presentano la struttura interna della camera e quella esterna dell’esedra costruite con lastroni posti a coltello e con copertura a piattabanda; al centro dell’esedra sorge la grande stele centinata monolitica, che a San Gavino di Borore (Nuoro) raggiunge la spettacolare altezza di 4 m, oppure bilitica, composta di due lastroni sovrapposti, uno di forma rettangolare e l’altro semicircolare.

Le tombe a struttura isodoma costituiscono uno sviluppo edilizio delle precedenti e sono costruite a filari sia nella camera che sulla facciata dell’esedra, al centro della quale si apre l’ingresso architravato privo di stele o con la “stele a dentelli”. In base ai dati dello scavo della tomba di Bidistili a Fonni (Nuoro), questo secondo tipo si data a partire dal XIII sec. a.C. Soprattutto nel Sassarese si ritrovano forme miste di tombe a grotticella, generalmente monocellulari, con il portello sovrastato dalla stele centinata scolpita nella roccia, talora affiancate l’una all’altra. L’uso collettivo dei sepolcri e il sistematico saccheggio del quale tutti sono stati fatti oggetto rendono assai difficile tentare di ricostruire i rituali e dare una risposta agli interrogativi sulla scarsità delle tombe nuragiche rispetto all’elevato numero di nuraghi e villaggi. Ovunque, però, si riesca a intervenire in situazioni non totalmente compromesse si riscontra una complessità sia costruttiva che rituale insospettabili: ad esempio, il tumulo appare ovunque accuratamente costruito con filari di pietre affiancati e solidamente fondati e non con ammassi disordinati e caotici; l’inumazione primaria è costante in tutti i casi esplorati, almeno relativamente all’ultima fase.

Le cerimonie che si svolgevano nell’esedra, rivolte collettivamente a tutti i defunti, utilizzavano piccoli betili posati sulla banchina, pietre bianche infossate in piccole cavità della roccia naturale, focolari e un vasto repertorio di forme vascolari, a fronte della quasi totale assenza di oggetti di corredo all’interno della camera sepolcrale. Oltre ai piccoli betili, ne sono stati ritrovati in diversi casi di grandi dimensioni, sia maschili che femminili (Tamuli, Macomèr, Nuoro). Si sta anche constatando più di un caso di associazione di statue-menhir con tombe di giganti, come, ad esempio, Perdas Doladas (Silanus, Nuoro) e Paule Luturru (Samugheo, Oristano). Inoltre almeno due, fino a oggi, sono le tombe megalitiche a camera, dalle quali si sviluppano le tombe di giganti, nelle quali le statue-menhir sono state riutilizzate come materiale da costruzione: Aiodda (Nurallao, Nuoro) e Murisiddi (Isili, Nuoro). Le strutture nuragiche di uso cultuale sono svariate, ma quelle più frequentemente ricorrenti sono legate alle acque sorgive. Non stupisce certamente che questo elemento vitale sia per l’agricoltura che per l’allevamento del bestiame, quindi di enorme importanza per l’economia preistorica, fosse rivestito di sacralità: semmai suscita ammirazione il livello di eleganza e di raffinatezza dedicata ad alcuni edifici di culto.

I templi a pozzo presentano una scala che scende fino al livello della falda d’acqua, racchiusa nella canna del pozzo e coperta a tholos; le scale terminano in alto con un pianerottolo o atrio lastricato, generalmente percorso da una canaletta trasversale e fiancheggiato da banchine; l’atrio si apre in un cortile o recinto di dimensioni varie, anch’esso lastricato e talvolta circondato da banchine; un esempio tipico è quello del pozzo di Sa Testa (Olbia, Sassari). Simili per planimetria, ma differenti per dimensioni e per tecnica costruttiva sono il pozzo di Santa Cristina di Paulilatino (Oristano), quello del Predio Canopoli di Perfugas (Sassari) e quello di Santa Vittoria di Serri (Nuoro), realizzati in perfetto stile isodomo. Le fonti sacre, delle quali l’esempio più raffinato è Su Tempiesu di Orune (Nuoro), ma vanno ricordati anche Rebeccu (Bonorva, Sassari), Noddule (Nuoro), Li Paladini (Calangianus, Sassari), sono invece quegli edifici nei quali le acque sono raccolte quasi in superficie da una semplice fossetta o da un bacino circolare non molto profondi, coperti da un piccolo edificio con tholos all’interno e preceduti da un atrio lastricato e con banchine laterali. Questi due tipi principali presentano poi tutta una serie di varianti, spesso di struttura assai elaborata, come il pozzo sacro di Irru (Nulvi, Sassari), come il santuario delle Fonti di Gremanu o Madau (Fonni, Nuoro), come il nuraghe-santuario di Nurdole (Grani, Nuoro). Gli stessi esempi ritenuti “canonici”, quando è avvenuto che si esplorassero più ampiamente in nuove campagne di scavo, si sono rivelati molto complessi e mai identici l’uno all’altro.

L’esempio più significativo di questa varietà strutturale è ancora Su Tempiesu di Orune (Nuoro), scavato una prima volta nel 1953 (pubblicato nel 1958) e già celebrato per la buona conservazione della struttura che, in elevato, riproduce un tempietto con alto tetto a spiovente, realizzato con un paramento litico perfettamente disegnato e ben commesso in stile isodomo, e con un vano trapezoidale a copertura del vestibolo culminante con archetti monolitici; la pietra di culmine del tetto recava infisso un fascio di spade votive di bronzo. Resisi necessari lavori di restauro, sono ripresi gli interventi fra il 1981 e il 1986 e si è scoperto che quanto era venuto alla luce era solo la prima metà del monumento: infatti l’atrio, delimitato da un muro curvilineo, era attraversato da un canaletto nel quale l’acqua scorreva verso valle, passando sotto al muro e raccogliendosi in una riproduzione miniaturistica del primo tempio, albergata entro il muro stesso, e di là proseguendo, sempre entro canaletto litico, fino al primo dei 13 terrazzamenti che ne regolavano il deflusso. Moltissimi bronzi votivi costituivano le offerte deposte entro la conca della piccola fonte e tutto intorno, entro il recinto più grande che racchiudeva l’edificio e che è apparso, in base ai dati di scavo, riferibile a una prima fase del culto ancora entro l’età del Bronzo Recente, mentre il monumento quale oggi si può ammirare è databile all’età del Bronzo Finale e risulta crollato agli inizi della prima età del Ferro.

Altri edifici sacri hanno planimetrie ricorrenti: si è già detto dei tempietti a megaron di Serra Orrios, così detti perché presentano una pianta rettangolare con pronaos, cella talvolta suddivisa da tramezzi interni e opisthodomos, racchiusi in un recinto. Sono però sempre più numerosi monumenti simili, come Dormi de Orgia di Esterzili (Nuoro) e come S’Arcu ’e is Forras di Villagrande Strisaili (Nuoro), o più piccoli come Sos Nurattolos di Alà dei Sardi (Sassari), o più semplici, quasi capanne allungate e absidate con atrio, come Malchittu di Arzachena, ecc. Si conoscono poi “le Rotonde”, ovvero vani a pianta circolare di raffinata struttura isodoma, come a Cuccuru Mudeju (Nughedu San Nicolò, Sassari), a Giorrè (Florinas, Sassari), a Sa Carcaredda (Villagrande Strisaili, Nuoro), a Su Monte (Sorradile, Oristano). Fra gli edifici legati alla sfera del sacro vanno annoverati i cosiddetti Vani della Panificazione, anch’essi riferibili probabilmente al culto delle acque, a giudicare dall’unico caso nel quale si è conservato l’alzato (Sa Sedda ’e sos Carros, Oliena, Nuoro) con una fila di teste di animali- gocciolatoio (arieti nel caso di Oliena) spioventi nel grande bacile centrale.

Frequentemente gli edifici di culto non sono isolati, ma al centro di estesi villaggi dei quali fa parte più di una struttura votiva, venendo così a costituire dei veri e propri santuari: è il caso di Sant’Anastasia di Sardara (Cagliari), di Poddi Arvu di Bitti (Nuoro), di Gremanu di Fonni (Nuoro), di Monte Sant’Antonio di Sìligo (Sassari), ecc. Il più grande, e anche il più noto ed estesamente scavato e pubblicato  dal Taramelli nei primi 30 anni del Novecento, è quello di Santa Vittoria di Serri (Nuoro), situato sull’estremità sud-occidentale della giara di Serri. Si articola in vari gruppi di edifici che si estendono per un’area di oltre 4 ha, molti dei quali hanno caratteristiche non consuete negli altri villaggi nuragici conosciuti: questo fatto, insieme all’ingente quantità di bronzi votivi raccolti quasi ovunque, ha motivato la definizione di “santuario federale nuragico”, che si è ritenuto raccogliesse tutta la popolazione dei moltissimi nuraghi e villaggi delle zone circostanti. Recenti sondaggi di scavo hanno appurato che, quasi all’estremità dello sperone roccioso, in tempi databili all’inizio dell’età del Bronzo Medio, sorgevano un nuraghe a corridoio e altre strutture di capanne che, in tempi successivi e con il massimo sviluppo nell’età del Bronzo Recente e Finale, vennero ristrutturati e diedero spazio agli edifici sacri: uno splendido esemplare di tempio a pozzo, il tempio ipetrale, la Capanna del Sacerdote, il recinto circolare con sedile, la via sacra, il muro di cinta con la capanna dell’Ingresso.

Isolata verso nord si trova la Casa del Capo. A est di questa e quasi al centro del complesso, è il grande Recinto delle Feste, a sua volta  articolato in diversi vani: la Casa del Focolare, il Recinto con Sedile, il Recinto dell’Ascia, il portico, la cucina. Come si vede, l’interpretazione del Taramelli era quella di una grande cumbessia ovvero un complesso destinato ad accogliere i pellegrini convenuti per le feste nel santuario. Altre costruzioni si trovano raggruppate a sud-est, a est e a nordest, fra le quali il Recinto dei Supplizi o della Giustizia, il Recinto delle Riunioni o la “curia”, l’isolato del Doppio Betilo, il Recinto della Mensa, ecc. La vita nel santuario venne in alcune parti a interrompersi ancora entro la prima età del Ferro; altrove si registra una presenza sporadica fino a una violenta distruzione, sembra alla fine dell’età repubblicana. Una nuova occupazione, alla quale si devono diverse sepolture con caratteristiche fibbie di cintura di bronzo e con ogni probabilità il primo impianto della chiesetta di S. Maria della Vittoria, si data all’età bizantina. I templi e le fonti e tutti gli altri luoghi destinati al culto si distinguono per la raffinata struttura isodoma realizzata in basalto, calcare o arenaria, e per l’abbondanza delle offerte votive: da essi infatti proviene la maggioranza dei bronzi figurati e degli oggetti di ornamento e di valore simbolico e molte armi. Da un unico luogo sacro, forse un heroon, Monte Prama nel Sinis, del quale però si conoscono solo i resti, essendo stata l’area riutilizzata come sepolcreto, provengono esemplari di statuaria nuragica che documentano una fedele trasposizione nella pietra dei tipi della bronzistica figurata (arcieri e pugilatori). In altri luoghi di culto si sono invece ritrovate delle protomi zoomorfe di pietra, taurine a Santa Vittoria di Serri e a Nughedu San Nicolò e di arieti a Sa Sedda ’e sos Carros di Oliena, a Gremanu di Fonni e a Serra Niedda di Sorso (Sassari).

La situazione geografica della Sardegna, la sua collocazione al centro del Mediterraneo occidentale e la presenza di comodi approdi predisponevano naturalmente l’isola a occupare un ruolo centrale nei traffici sulle medie e sulle lunghe distanze. Già nel Neolitico tardo e nell’Eneolitico la scoperta e le prime fasi della lavorazione e dell’uso dei metalli attivano un processo lento ma continuo, pur fra alterne vicende, che conduce, in età nuragica, alla cognizione della natura e dislocazione dei giacimenti di piombo, argento, rame, ferro, zinco, ecc., e al loro sfruttamento, conseguentemente allacciando e rinsaldando i legami con il mondo mediterraneo. Nello specifico campo della metallurgia, una prova indiscutibile degli stretti rapporti fra la Sardegna nuragica e l’Egeo è costituita dai grandi lingotti di rame detti ox-hide (“a forma di pelle di bue”) a motivo della loro caratteristica foggia quadrangolare con angoli più o meno allungati. Talvolta questi lingotti, che pesano in media una trentina di chilogrammi e misurano circa 66 x 44 cm (Ozieri), recano dei segni, impressi a caldo o scalpellati a freddo, di significato tuttora imprecisabile, che trovano confronto nei più antichi segni prealfabetici e alfabetici del Mediterraneo orientale.

La distribuzione dei lingotti ox-hide è amplissima e abbraccia le coste levantine, Cipro, l’Asia Minore, Creta, la Grecia, la Sicilia, le Eolie e la Sardegna, oltre a una matrice di fusione scoperta in Siria e alle raffigurazioni pittoriche nelle tombe egizie di Tebe, Karnak e Medinet Habu; l’arco cronologico va dal XVI-XV sec. a.C. degli esemplari cretesi al XII sec. a.C., mentre in Sardegna alcuni frammenti sembrano perdurare nell’uso fino alle soglie dell’età del Ferro. In Sardegna, dopo la prima scoperta effettuata a Serra Ilixi (Nuragus, Nuoro) nel 1857 dal primo grande archeologo sardo, il canonico e senatore G. Spano, i rinvenimenti si sono andati moltiplicando. Le località dove sono stati trovati lingotti ox-hide interi o frammentari sono circa una ventina, sparse per tutta l’isola, comprese le regioni interne e montagnose. Data la ricchezza delle miniere di rame e l’elevato numero dei rinvenimenti, si può suggerire che la Sardegna fosse un centro di produzione e di distribuzione interna di questi lingotti, su imitazione di una foggia egeo-cipriota forse inizialmente anche importata. Una prova dell’intensità dei contatti con il mondo egeo è costituita dalla presenza di ceramiche micenee in diverse località della Sardegna meridionale – soprattutto nel nuraghe Antigori di Sarroch, situato all’estremità occidentale del Golfo di Cagliari – e centro-orientale ed è noto che la navigazione micenea era in relazione con le necessità di approvvigionamento dei metalli.

La ricerca dello stagno, elemento indispensabile per la lega del bronzo e reperibile in area atlantica, ha incentivato in modo particolare le rotte sulle lunghe distanze e i collegamenti della Sardegna con la Penisola Iberica. Numerose dovevano essere le fonderie nuragiche, forse una per ogni grande villaggio, dove venivano effettuate la produzione, la rifinitura e la riparazione di oggetti di bronzo anche se, purtroppo, spesso non ne rimangono che poche tracce. La Sardegna nuragica conosceva e applicava diverse tecniche per la produzione di oggetti bronzei e principalmente quelle in matrice monovalve o bivalve e quella detta della “cera persa”. In matrice venivano prodotti strumenti e armi, mentre con la “cera persa” i bronzi figurati. Di questa particolare tecnologia erano maestre nel II millennio a.C. le popolazioni della Siria e della Palestina, presso le quali è documentata una ricchissima produzione di statuette di bronzo. Verso la fine di questo periodo qualche esemplare di esse ha raggiunto la Sardegna, direttamente o per il tramite di Cipro; così, sia per imitazione, sia per l’attività in Sardegna di artigiani ciprioti, familiari all’impiego di questa tecnica, o dei loro seguaci, si è giunti alla produzione dei bronzetti nuragici che, come ogni altro aspetto di questa grande civiltà, ha rielaborato molteplici influssi, fondendoli in un risultato originale, caratteristico e di elevatissimo livello tecnico e artistico.

Negli ultimi secoli del II e agli albori del I millennio a.C. la Sardegna nuragica era interessata da una rete di contatti che includeva i Fenici e le coste levantine, la Sicilia, le Eolie, l’Italia peninsulare tirrenica, la Penisola Iberica e particolarmente l’area atlantica, documentata dalla presenza di materiali di varia provenienza in nuraghi, villaggi nuragici, santuari e ripostigli, che attesta la vitalità dei centri indigeni dell’isola, aperti agli influssi d’oltremare. Più tardi, nel corso dell’età orientalizzante e arcaica, diviene massiccia la presenza di importazioni etrusche e greche, che si accentra nelle città fenicie fondate dall’VIII sec. a.C. lungo la costa sud-occidentale: Tharros, Nora, Sulcis, Bithia, Caralis (Cagliari).

Bibliografia

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Per una sintesi sullo stato attuale delle conoscenze:

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