L'Ottocento: scienze mediche. La terapeutica

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: scienze mediche. La terapeutica

Andreas-Holger Maehle

La terapeutica

Tra il 1800 e il 1890 le pratiche terapeutiche che facevano capo alla tradizione galenica vennero progressivamente abbandonate. A determinare tale evoluzione contribuirono soprattutto lo scetticismo terapeutico, la statistica clinica, la farmacologia e la fisiologia sperimentale e la chimica farmaceutica. La prassi terapeutica era fondata sempre più sui risultati della ricerca scientifica e sempre meno sui metodi di origine speculativa; inoltre, grazie all'introduzione negli anni Quaranta dei primi agenti anestetici efficaci e negli anni Sessanta dei primi metodi antisettici, la chirurgia poté ampliare notevolmente il suo campo di applicazione. Tra i trattamenti medici riconosciuti trovarono posto anche pratiche di natura fisica quali l'elettroterapia. Per quanto la 'medicina scientifica' e riformata del XIX sec. si andasse ormai assicurando il diritto di definire che cosa fosse la salute e che cosa la malattia, le teorie e le terapie mediche alternative quali l'omeopatia e il thompsonismo godevano presso i pazienti di una notevole popolarità.

La controversa terapia del salasso

Ancora nei primi decenni dell'Ottocento il salasso ‒ il tradizionale metodo 'evacuante' basato sulla teoria degli umori di Galeno ‒ manteneva una posizione preminente nel repertorio terapeutico dei dottori. Il medico reale prussiano e professore a Berlino Christoph Wilhelm Hufeland (1762-1836), per esempio, elencando nell'Enchiridion medicum (1836) ‒ un manuale di pratica medica che ebbe grande diffusione ‒ i tre 'trattamenti cardinali' anteponeva alla flebotomia soltanto l'oppio e gli emetici. In sintonia con le nozioni proprie del brownismo e della fisiologia del Romanticismo, egli credeva che l'oppio avesse un effetto stimolante sul 'sistema sensibile' dell'organismo umano e che gli emetici, in quanto 'metodo gastrico' di cura, ne influenzassero il 'sistema riproduttivo'. Egli considerava il salasso la terapia antiflogistica per eccellenza, capace di agire sul 'sistema irritabile' e di indebolire la vitalità dell'organismo, indicata dunque in ogni tipo d'infiammazione; lo riteneva inoltre un eccellente metodo per rilassare le fibre del corpo e ne raccomandava dunque l'impiego per la cura di crampi e convulsioni, di febbri e disturbi nervosi, nonché per l'induzione della 'crisi' delle 'malattie interne'. In tal senso, il salasso poteva facilitare l'insorgenza dei rash cutanei che si credeva espellessero fuori dal corpo gli umori nocivi. Hufeland seguitava naturalmente a prescrivere la flebotomia anche come metodo tradizionale per evacuare o 'cavare' il sangue nei casi di pletora e come misura preventiva, da consigliare alle persone dotate di determinate costituzioni fisiche.

Un altro metodo che veniva comunemente impiegato per drenare il sangue e combattere in tal modo le infiammazioni era l'applicazione di sanguisughe. Questa pratica era particolarmente popolare tra i seguaci del clinico parigino François-Joseph-Victor Broussais (1772-1838), che interpretava la maggior parte delle malattie come reazioni a una gastroenterite primaria (infiammazione dello stomaco e degli intestini) e le curava dunque per mezzo di pappe a base d'avena, salassi e applicazioni di sanguisughe nelle regioni dell'addome o dell'ano. Il suo approccio si può meglio comprendere se lo si inquadra nel contesto dell'École Clinique di Parigi, nota per la sua speciale attenzione allo studio del rapporto tra i sintomi manifestati dai pazienti e le modifiche o lesioni organiche osservate negli esami post mortem. Un'altra caratteristica distintiva di tale scuola (benché non di Broussais) era tuttavia lo scetticismo terapeutico, che fece da sfondo a tutte le ricerche statistiche e sperimentali condotte sulla flebotomia negli anni Venti e Trenta del XIX secolo.

Contrario all'uso eccessivo del salasso da parte del suo collega Broussais, Pierre-Charles-Alexandre Louis (1787-1872) pubblicò nel 1835 le Recherches sur les effets de la saignée. Dopo aver suddiviso i pazienti in base a parametri quali l'età, la diagnosi e le condizioni fisiche, egli aveva messo a confronto l'efficacia di differenti regimi terapeutici. Di notevole interesse furono i risultati che ottenne in merito all'effetto del salasso nei casi di polmonite (un'indicazione classica di tale trattamento). L'innovativo 'metodo numerico' utilizzato dimostrò infatti che né la flebotomia in una fase precoce o tardiva della malattia, né l'asportazione di una quantità più o meno elevata di sangue avevano in realtà alcuna efficacia. Pur senza costituire una vera e propria condanna della pratica del salasso, questi risultati facevano eco alla massima terapeutica di un altro eminente clinico parigino, Gabriel Andral (1797-1876): "Meglio non prescrivere nulla che qualcosa di dubbio". Alcune procedure aritmetiche protostatistiche di valutazione dei vari trattamenti chirurgici e farmacologici erano state introdotte già nel Settecento, in particolare nell'ambito della medicina militare britannica. Il lavoro di Louis favorì tuttavia un più largo uso della statistica nella medicina ospedaliera e la graduale acquisizione del fatto che gli studi clinici controllati avrebbero fatto compiere alla prassi terapeutica un vero balzo in avanti.

Una seconda linea di revisione critica ebbe origine dalla fisiologia sperimentale. Già a partire dai primi anni Venti, il medico inglese Marshall Hall (1790-1857), fervido ammiratore della medicina francese, si era preoccupato dei possibili effetti collaterali della perdita di sangue. Egli aveva intrapreso le sue ricerche considerando, da un lato, i rischi delle frequenti emorragie puerperali e da trauma e, dall'altro, la potenziale pericolosità di una flebotomia eccessiva. Basandosi su casi clinici ed esperimenti condotti sui cani, nel 1830 formulò una regola pratica la cui applicazione doveva far sì che la flebotomia risultasse efficace e sicura: nel corso dell'operazione il paziente doveva rimanere seduto in posizione perfettamente eretta e occorreva permettere al sangue di defluire liberamente, senza intervenire con alcuna manipolazione, fino al momento in cui il paziente fosse stato sul punto di perdere i sensi. Secondo Hall, questo metodo garantiva che il sangue venisse drenato nella quantità più adeguata alla specifica patologia dell'ammalato: se si fosse trattato di infiammazione questo avrebbe perso molto sangue prima di svenire mentre in caso di 'irritazione' la perdita sarebbe stata più modesta e il 'deliquio' (il sentirsi venir meno) sarebbe sopraggiunto più rapidamente.

Se il lavoro di Hall auspicava un uso maggiormente critico e cauto della flebotomia ma non la sua abolizione, l'eminente clinico e fisiologo sperimentale parigino François Magendie (1783-1855) sferrò un violento attacco contro tale pratica. Nelle lezioni che tenne nel 1837 al Collège de France egli mise in ridicolo gli elaborati metodi di salasso con cui i medici dell'epoca tentavano di allontanare il sangue da una certa regione del corpo incidendo una vena che si trovava in una regione distante od opposta alla prima. Magendie considerava la circolazione sanguigna come un sistema di vasi comunicanti e si domandava come queste pratiche tradizionali potessero avere il benché minimo effetto terapeutico; inoltre, egli temeva anche che un salasso eccessivo potesse comportare gravi conseguenze: c'era infatti la possibilità che il sangue andasse incontro a una diluizione e che la carenza di ossigeno che ne sarebbe probabilmente derivata provocasse a sua volta un pericoloso edema polmonare. Nella sua clinica, l'Hôtel-Dieu, Magendie proibì agli assistenti di praticare flebotomie ai pazienti affetti da polmonite e tuttavia, come rievocato dal suo più celebre allievo, Claude Bernard (1813-1878), in sua assenza tale ordine veniva largamente disatteso. Gli assistenti temevano infatti che, se avessero tralasciato la cura fondamentale, ai pazienti sarebbe potuto accadere il peggio. Le ricerche e le disquisizioni della prima metà dell'Ottocento indussero molto probabilmente a esercitare una maggiore cautela nell'impiego della flebotomia, ma non erano finalizzate ad abolirla, né del resto sarebbero riuscite nell'intento. Per un reale ridimensionamento dell'importanza di tale pratica terapeutica, consolidata com'era dal tempo e dalla tradizione, fu necessario attendere la seconda metà del secolo.

Le terapie farmacologiche e la nascita dell'industria farmaceutica

Dopo il 1800, quando le mode terapeutiche del tardo XVIII sec. ‒ come il brownismo, con cure a base di oppio e di alcol ‒ cominciarono a declinare, tra i medici (e specialmente tra quelli che lavoravano nei grandi ospedali di Parigi e di Vienna) si diffuse lo scetticismo terapeutico. Osservando le lesioni degli organi al tavolo delle autopsie, molti si resero conto che, in un gran numero di casi, non era possibile curare la malattia in alcun modo e che se ne potevano tutt'al più trattare i sintomi manifesti. Se alcuni medici adottavano ancora un approccio galenico di tipo polifarmacologico, somministrando a ciascun paziente una molteplicità di sostanze differenti atte a regolare le varie funzioni corporee, altri decisero, al contrario, di fare ricorso soltanto alle poche medicine che si erano dimostrate empiricamente valide: l'oppio veniva utilizzato come potente analgesico e narcotico, la china come febbrifugo, il calomelano (solfuro nero di mercurio) come purgativo e il tartaro (tartrato di potassio e antimonio) come emetico. Alcuni clinici, tra cui Josef Dietl, che lavorava a Vienna negli anni Quaranta, maturarono un atteggiamento di nichilismo terapeutico: ritenevano che la ricerca sui metodi terapeutici avrebbe dovuto essere messa da parte, almeno fino a quando l'anatomia patologica e la chimica non fossero state in grado di fornire solide basi scientifiche su cui fondarla. Ciononostante, Dietl si adoperò per dimostrare statisticamente la pericolosità del trattamento dei pazienti affetti da polmonite mediante flebotomia.

Nel frattempo, fin dagli albori dell'Ottocento le ricerche scientifiche di chimica analitica condotte dai farmacisti avevano aperto una nuova frontiera per lo sviluppo di metodi terapeutici efficaci. Il loro scopo era quello di isolare i 'principî attivi' delle sostanze e l'oppio divenne il primo e principale oggetto di studio. Nel 1803 il farmacista parigino Charles Derosne ricavò dall'oppio ‒ mediante estrazione di alcol, aggiunta di alcali e lavaggi ripetuti ‒ una sostanza bianca e cristallina, il cosiddetto 'sale di Derosne', che avrebbe cominciato di lì a poco a essere impiegato a scopo terapeutico al posto della sostanza naturale. Tra il 1804 e il 1805 l'assistente farmacista di Paderborn, Friedrich Wilhelm Sertürner (1783-1841), che non era ancora a conoscenza del lavoro di Derosne, isolò da un estratto acquoso di oppio un altro tipo di cristalli che, sottoposti ad analisi chimiche, dimostrarono di avere proprietà alcaline. Somministrati a un cane, provocavano sonnolenza, tremori e convulsioni e ne causavano infine la morte. Sertürner li denominò principium somniferum, ossia 'sostanza che induce il sonno', e trasse conclusioni di vasta portata. Egli comprese infatti che l'estratto cristallino avrebbe funzionato di gran lunga meglio della sostanza intera, risolvendo il problema ‒ non di poco conto per i medici ‒ della variabilità che i preparati oppiacei comunemente in uso presentavano in termini di qualità e di potenza. Intravide inoltre nuove prospettive per la chimica, prevedendo che essa sarebbe stata ben presto in grado di individuare i principî attivi di molte altre piante medicinali e velenose.

Sebbene le intuizioni apparentemente visionarie di Sertürner sarebbero di lì a poco diventate realtà, concretizzandosi nell'impiego terapeutico della morfina e nel nuovo settore di ricerca della chimica degli alcaloidi, i risultati da lui ottenuti ebbero inizialmente un riscontro piuttosto limitato. Il giovane ricercatore non era del resto ancora abbastanza conosciuto all'interno della comunità scientifica e gli altri chimici non riuscivano a replicare il suo esperimento. Soltanto nel 1817, dopo che ebbe pubblicato uno studio approfondito sulla sostanza cristallina, le sue ipotesi cominciarono a ottenere un certo riconoscimento. Nel frattempo egli aveva ulteriormente purificato la sostanza, ottenendo nuove conferme della sua efficacia ‒ sperimentandola su di sé e su altre persone ‒ e aveva assegnato alla scoperta un nuovo nome: morphium (da cui 'morfina'). Negli anni Venti alcune tra le prime case farmaceutiche, come la Morson di Londra, la Seitler e Zeitler di Filadelfia e la Merck di Darmstadt, cominciarono a commercializzare la morfina, il primo alcaloide conosciuto; nel 1831 si unì a esse la ditta scozzese MacFarlan. Somministrato inizialmente per via orale ed esterna, questo rimedio nuovo e 'scientifico' divenne sempre più popolare tra i medici, benché quelli di mentalità più conservatrice, come Hufeland, si ostinassero a sostenere che l'oppio, ovvero il farmaco intero, era qualcosa di più che la semplice somma dei suoi componenti ed era quindi maggiormente valido dal punto di vista terapeutico. Invenzione decisiva per le sorti terapeutiche della morfina fu la siringa ipodermica, realizzata da Alexander Wood e Charles-Gabriel Pravaz nei primi anni Cinquanta. La sostanza cominciò allora a venire largamente prescritta, non soltanto come analgesico in caso di patologie come il cancro, le nevralgie e i reumatismi ma anche come trattamento delle cardiopatie, dei disturbi gastrointestinali, delle malattie neurologiche e psichiatriche e del delirio degli alcolisti. Si iniziò a utilizzarla per alleviare i sintomi dell'astinenza nei pazienti che soffrivano di dipendenza da oppio, ma divenne ben presto evidente che anche la morfina produceva assuefazione, tanto che, intorno agli anni Settanta, la dipendenza dal nuovo alcaloide acquisì lo status di malattia a sé stante.

Un'altra figura di spicco nell'ambito delle prime ricerche sugli alcaloidi fu quella del farmacista parigino Pierre-Joseph Pelletier (1788-1842), il quale nel 1817, insieme a Magendie, isolò l'emetina, un principio attivo contenuto nelle radici di ipecacuana. Soltanto un anno dopo, insieme al collega più giovane Joseph-Bienaimé Caventou, egli estrasse la stricnina dalla fava di Sant'Ignazio e dalla noce vomica; quindi, nel 1819, identificò la brucina nella corteccia della falsa angostura, la veratrina in una specie affine all'elleboro bianco e la colchicina nel croco autunnale. Nel 1820 Pelletier e Caventou isolarono due alcaloidi della china, cioè la chinina e la cinconina, mentre nel 1817 un altro farmacista francese, Pierre-Jean Robiquet, aveva ricavato la narcotina dall'oppio. Magendie fu il principale promotore dell'impiego terapeutico degli alcaloidi. Nel 1821 comparve la prima edizione del suo Formulaire pour la préparation et l'emploi de plusieurs nouveaux médicamens, un fascicoletto a uso di medici e farmacisti comprendente capitoli dedicati a dieci alcaloidi ‒ stricnina, morfina, narcotina, emetina, chinina, cinconina, veratrina, solanina, delfinina e genzianina ‒ e ad altre due sostanze che erano appena state scoperte: l'acido prussico (1780) e la iodina (1811). Magendie ne descriveva dettagliatamente le modalità di preparazione, gli effetti osservati negli esperimenti sugli animali e sugli uomini e i possibili usi terapeutici. Il formulario ebbe un notevole successo: nel 1836 ne circolava già la nona edizione e venne tradotto in tedesco, in olandese e in italiano. La sua mole aumentò considerevolmente quando vi fu aggiunta la trattazione di nuovi alcaloidi, tra cui la codeina e altri alogeni come la bromina e la clorina. Nelle edizioni successive anche la struttura chimica delle varie sostanze venne trattata più in dettaglio. Ciononostante, il nuovo programma terapeutico di Magendie dovette superare non poche resistenze; molti dei suoi contemporanei esperti nella 'materia medica' consideravano inattendibile il metodo della sperimentazione animale, poiché gli effetti osservati negli animali e nell'uomo risultavano differenti, mentre altri erano riluttanti ad abbandonare i rimedi che erano loro più familiari come, per esempio, la china. Nel 1826 il clinico parigino Jean-Louis Alibert assunse una posizione analoga a quella di Hufeland nei confronti dell'oppio, sostenendo che soltanto il farmaco intero, "nella sua sostanza", potesse costituire un rimedio efficace; inoltre, quando nel 1832 Parigi fu colpita da un'epidemia di colera asiatico, tanto i clinici riformisti come Magendie quanto quelli conservatori constatarono l'impotenza terapeutica del farmaco. Alcuni dei nuovi agenti terapeutici tuttavia, in particolare il solfato di chinina e lo ioduro di potassio, cominciarono a venire largamente utilizzati: il primo per curare la malaria e diversi altri tipi di febbre; il secondo, associato al mercurio, soprattutto per trattare la sifilide e altre malattie veneree. La produzione su vasta scala di alcaloidi, specialmente di chinina, si trasformò per le neonate aziende farmaceutiche in un'attività redditizia; le prime e più importanti del settore furono Pelletier, Levaillant e Henry in Francia, Morson e Howard in Gran Bretagna, Farr & Kunzi e Rosengarten negli Stati Uniti e Merck in Germania.

La produzione di alcaloidi fu determinante per la nascita dell'industria farmaceutica nel XIX sec., poiché trasformò alcune farmacie (o spezierie), come la Merck, la Schering, la Riedel e la Nestlé, in vere e proprie fabbriche. Un altro settore dell'industria farmaceutica ebbe origine dalla produzione di sostanze coloranti, quando a partire dagli anni Ottanta le ditte che le fabbricavano, come la Hoechst e la Bayer, iniziarono a ricavare medicinali dai sottoprodotti e dalle sostanze di scarto della lavorazione. Nel 1884 la Hoechst sintetizzò l'antipirina, un febbrifugo sostitutivo della chinina, a partire dalla fenilidrazina, sostanza che veniva utilizzata per la produzione dei coloranti gialli. Seguì la Bayer nel 1887 con la fenacetina, ricavata da un sottoprodotto della fabbricazione di coloranti al catrame di carbone. A incrementare la domanda di questi medicinali contribuì notevolmente anche una nuova moda terapeutica, la cosiddetta 'ondata antipiretica', che nacque negli anni Sessanta, quando i trattamenti delle febbri tifoidi con bagni o applicazioni di acqua fredda cominciarono a dare buoni risultati. Poco dopo Wunderlich introdusse il termometro nella pratica clinica e la misurazione della febbre prese il posto del conteggio delle pulsazioni, divenendo una procedura diagnostica consueta. Alla diminuzione della temperatura corporea veniva attribuita la massima importanza, poiché si pensava che la febbre causasse la perdita di sostanze essenziali al funzionamento dell'organismo. La sintesi chimica di nuovi prodotti febbrifughi diede una potente spinta a questa nuova tendenza terapeutica. Nel 1859 il chimico Adolf Wilhelm Hermann Kolbe sintetizzò l'acido salicilico a partire dalla salicina, un principio attivo contenuto nella radice di salice che era stato isolato nel 1828; commercializzato a partire dal 1873 dalla ditta di Dresda di proprietà di un allievo di Kolbe, Friedrich von Heyden, esso divenne il primo farmaco antipiretico e analgesico di sintesi. La chimica di sintesi rivoluzionò anche un altro importante settore terapeutico: quello dei farmaci utilizzati per indurre il sonno. Il cloralio idrato, sintetizzato nel 1869 dal chimico tedesco Oskar Liebreich, fece concorrenza ai narcotici tradizionali a base di oppio e, ben presto, comparvero altri ipnotici, come la paraldeide (1884) e il sulfonale (1888).

L'anestesia

Gli interventi chirurgici fino agli anni Quaranta dell'Ottocento venivano abitualmente eseguiti senza adottare alcuna specifica contromisura per il dolore. L'alcol o l'oppio, utilizzati occasionalmente, servivano a ridurre l'ansia del paziente e a innalzarne la soglia psicologica del dolore. Si faceva anche affidamento sul fatto che la legatura di un arto sembrava farne diminuire la sensibilità. In ogni caso si riteneva più importante ridurre al minimo i tempi dell'operazione e il fattore decisivo era dunque costituito dall'abilità manuale del chirurgo. I tentativi di operare i pazienti dopo averli 'magnetizzati' (vale a dire ipnotizzati) non andarono oltre una prima fase di sperimentazione, risalente all'incirca alla metà degli anni Venti.

L'anestesia moderna deve le sue origini allo studio dei gas, ovvero alla cosiddetta 'chimica pneumatica', un settore di ricerca nato negli ultimi decenni del XVIII secolo. Nel 1800 il giovane Humphry Davy (1778-1829) descrisse gli esperimenti che aveva compiuto su sé stesso con vari gas, tra cui il protossido d'azoto, il cosiddetto 'gas esilarante'. Riportò nei dettagli gli effetti fisiologici e psicologici che egli stesso e le altre persone esaminate avevano sperimentato dopo aver inalato la sostanza, annotando anche che essa sembrava essere efficace contro il mal di testa e il mal di denti; nelle conclusioni suggerì che il protossido d'azoto avrebbe potuto rivelarsi utile negli interventi chirurgici, posto che questi non comportassero un'ingente perdita ematica, una clausola derivante probabilmente dall'ipotesi che il gas inalato agisse legandosi al sangue.

La proposta di Davy non ebbe tuttavia alcun riscontro immediato; del resto, gli esperimenti che aveva condotto non erano finalizzati alla scoperta di un agente anestetico bensì facevano parte del progetto di ricerca diretto dal medico di Bristol Thomas Beddoes (1760-1808), che s'interessava al potenziale medico dei gas nell'ottica del brownismo. Davy considerava il protossido d'azoto uno stimolante e ne studiava gli effetti su pazienti che soffrivano di disturbi nervosi o isterici. Il suo potenziale utilizzo come anestetico non venne indagato ulteriormente.

L'inalazione di gas esilarante, così come quella di etere, divenne però un'attività ricreativa molto popolare. I conferenzieri itineranti spesso intrattenevano il pubblico dando dimostrazioni degli effetti di queste sostanze su chi si offriva volontario. Nel 1844 il dentista americano Horace Wells assisté a una dimostrazione pubblica di questo genere a Hartford, nel Connecticut. La persona che si era prestata, una volta inebriata dal gas si ferì accidentalmente una gamba all'altezza del ginocchio, ma non se ne rese minimamente conto. Wells ne dedusse che, somministrando del protossido d'azoto, sarebbe stato possibile effettuare l'estrazione di un dente in maniera indolore. Egli fece immediatamente, con successo, la prova su sé stesso e dopo aver eseguito nei mesi successivi altre quindici estrazioni dentarie indolori sui suoi pazienti, organizzò la presentazione del suo metodo presso il Massachusetts General Hospital di Boston: l'esperimento tuttavia in quell'occasione fallì, probabilmente a causa dell'inalazione di una dose troppo esigua di gas.

Un collega di Wells che lavorava a Boston, William T.G. Morton (1819-1868), raccolse il suggerimento e usò l'etere ‒ che gli era stato consigliato dal chimico Charles T. Jackson (1805-1880) e che egli stesso aveva già utilizzato allo scopo di ridurre il dolore nel corso degli interventi di otturazione ‒ applicandolo sui denti in forma liquida. Morton esaminò gli effetti dell'inalazione di etere sugli animali, su sé stesso e su due dei suoi assistenti, prima di tentare, nel settembre del 1846, la prima estrazione dentaria in narcosi con etere. Diede anch'egli una dimostrazione pubblica al Massachusetts General Hospital e, il 16 ottobre del 1846, anestetizzò con l'etere un giovane il quale presentava un piccolo tumore sul collo, che il chirurgo John C. Warren (1778-1865) poté così asportare in maniera indolore. La notizia giunse rapidamente in Europa e nel giro di pochi mesi gli interventi chirurgici in narcosi con etere (compresi quelli più impegnativi, come, per es., le amputazioni) venivano praticati in diversi paesi.

Sul successo internazionale delle tecniche anestetiche gettò tuttavia un'ombra l'accanimento con il quale Wells, Morton e Jackson si contesero l'attribuzione della scoperta. Il medico americano Crawford W. Long (1815-1878) eseguiva, peraltro, piccoli interventi chirurgici utilizzando l'etere come narcotico già dal 1842, benché non avesse mai pubblicato i suoi risultati.

Inizialmente Morton si serviva di un particolare strumento per le inalazioni: una sfera di vetro con due aperture, dentro la quale veniva posta una spugna imbevuta di etere. Soltanto nel 1847 passò al metodo più semplice, che consisteva nel premere la spugna direttamente sulla bocca e sul naso del paziente. L''eterizzazione' però non sempre aveva successo e si rivelava a volte insufficiente, specialmente nel caso dei pazienti obesi o dediti all'alcolismo. L'etere aveva un odore che dava fastidio sia ai pazienti sia al personale medico e, quando veniva inalato per la prima volta, irritava i bronchi; inoltre, se lo si utilizzava come anestetico per il parto poteva rendersi necessaria, in caso di travaglio prolungato, la somministrazione di grosse quantità. Vennero allora vagliate diverse altre sostanze. Nel 1847, facendo esperimenti su di sé e sui suoi assistenti, il professore di ostetricia di Edimburgo James Y. Simpson (1811-1870) scoprì che il cloroformio (noto come sostanza chimica dal 1831) era un efficace narcotico. Come Morton, Simpson versava semplicemente il liquido su una spugna, che quindi poneva sopra la bocca e il naso del paziente. Questo metodo divenne piuttosto diffuso in ostetricia, benché ‒ come riportato dallo stesso Simpson ‒ la sua applicazione incontrasse una certa resistenza tanto nelle partorienti quanto nei medici:

Così come molti dei miei colleghi in Scozia, e probabilmente altrove, ho spesso udito in questi ultimi mesi pazienti e altre persone dichiararsi fortemente contrarie al diffuso utilizzo dell'anestesia per inalazione di etere o cloroformio, sulla base dell'assunto secondo il quale l'immunità dal dolore nel corso del travaglio è contraria alla religione e agli espressi dettami delle Scritture. So che non sono pochi gli uomini di medicina che sono giunti a condividere tale opinione. (Simpson 1847, p. 3)

Le preoccupazioni di ordine religioso vennero tuttavia superate abbastanza in fretta. A stabilire un illustre precedente fu nel 1853 la regina Vittoria, che diede alla luce il principe Leopoldo in narcosi con cloroformio.

L'anestesia inalatoria con etere o cloroformio permise ai chirurghi di praticare interventi molto più lunghi e invasivi e rappresentò una chiave di volta del rapido progresso che la chirurgia conobbe nell'Ottocento; ma della narcosi divennero evidenti anche i rischi. In Inghilterra, nel 1864, la Royal Medical and Chirurgical Society riportò circa 109 casi di decessi in anestesia con cloroformio, molti dei quali si erano verificati in fase di induzione. Già nel 1858 si sospettava (giustamente) che queste morti fossero dovute a un improvviso arresto cardiaco. Si diffusero allora pratiche anestetiche alternative più sicure quali il gas esilarante, seguito negli anni Settanta da miscele di cloroformio ed etere e infine, verso la fine del secolo, dalla narcosi con etere puro; anche l'etere tuttavia comportava alcuni rischi, tra cui quello di decessi tardivi dovuti a edema polmonare o polmonite.

La risposta ai pericoli connessi alla narcosi fu rappresentata dallo sviluppo di metodi di anestesia locale, che negli interventi minori potevano essere sufficienti. La cocaina, il più importante alcaloide delle foglie di coca, venne isolata nel 1860 dal giovane chimico e farmacista di Gottinga Albert Niemann (1834-1861), il quale molto presto si accorse del fatto che, posta sulla lingua, la sostanza provocava una sensazione di insensibilità. L'effetto anestetico locale venne confermato nel corso dei successivi vent'anni da molti studi farmacologici ma, in un primo momento, non conobbe alcuna applicazione pratica. La cocaina era invece nota per la sua provata capacità di aumentare la resistenza fisica (per es., nei soldati) e per la sua potenziale utilità nel trattamento della dipendenza dall'alcol e dalla morfina. La Merck la mise in produzione nel 1872. Nei primi anni Ottanta Sigmund Freud, che lavorava allora come medico presso il dipartimento di neurologia dell'Allgemeines Krankenhaus di Vienna, dopo averne studiato gli effetti su sé stesso e su altri soggetti, si convinse di aver trovato un ottimo rimedio per la cura della depressione. Alle sue ricerche si interessò l'oftalmologo Karl Koller (1857-1944), che lavorava nello stesso ospedale. Egli aveva cercato a lungo un metodo per anestetizzare localmente i pazienti nel corso degli interventi agli occhi, poiché quel tipo di chirurgia richiedeva spesso la loro partecipazione attiva, e aveva tentato invano con preparazioni a base di cloralio idrato, di morfina o di bromina. Sperimentò dunque la cocaina su sé stesso e sugli animali e capì subito di aver trovato finalmente la sostanza che cercava. Nel 1884 eseguì il primo intervento di cataratta in anestesia locale con cocaina, introducendo così il metodo in oftalmologia. Nel corso di quello stesso anno, l'anestesia locale con cocaina fece il suo ingresso anche nel campo della rinologia e della laringologia. Nel 1885 il chirurgo americano William S. Halsted compì il passo successivo, iniettando la soluzione di cocaina direttamente nei nervi e inventando così l'anestesia di conduzione.

L'elettroterapia

Le prime applicazioni di elettricità a scopo terapeutico, destinate in particolar modo ai pazienti che soffrivano di disturbi nervosi o di paralisi, risalgono agli anni Quaranta del XVIII secolo. Nel periodo che seguì, l'elettricità statica ‒ generata mediante una macchina elettrica a frizione o una bottiglia di Leida ‒ veniva utilizzata in tre modi: per elettrostimolare la cute del paziente (il cosiddetto 'bagno elettrico'), per far scaturire scintille dal corpo e per somministrare brevi shock elettrici. L'invenzione della pila di Volta rese infine disponibile la corrente elettrica continua o galvanica, che venne largamente utilizzata per l'elettroterapia nel XIX secolo. Nelle mani di figure 'professionali' di ogni genere, il metodo si trasformò tuttavia in una vera e propria panacea, la cui reputazione venne ben presto danneggiata dalla gran quantità di sedicenti 'elettricisti medici' e 'galvanisti medici'.

La situazione cominciò a mutare negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento, quando alcuni medici introdussero l'elettroterapia nella pratica ospedaliera. Il Guy's Hospital di Londra fu tra i primi ad approntare nel 1836, sotto la supervisione di Golding Bird, una 'sala per l'elettrostimolazione'. L'elettricità veniva somministrata prevalentemente ai pazienti che soffrivano di paralisi o di movimenti involontari degli arti (corea). Nello stesso periodo la pratica dell'elettroterapia fu resa più agevole dall'invenzione del rocchetto d'induzione, che sostituì le ingombranti pile voltaiche. Benché non fosse ancora chiaro se nell'elettricità si dovesse ravvisare il principio di funzionamento dei nervi o se tra i due meccanismi vi fosse soltanto un'analogia, il suo impiego a scopo terapeutico trasse un notevole beneficio, in termini tanto di conoscenza quanto di immagine, dai lavori di Michael Faraday (1791-1867) sull'elettromagnetismo e dagli studi di elettrofisiologia condotti da Carlo Matteucci (1811-1868) a Pisa e da Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) a Berlino. Nel 1855 il neurologo parigino Guillaume Duchenne pubblicò l'autorevole De l'électrisation localisée, criticato dal patologo berlinese Robert Remak, che si era dedicato all'elettroterapia delle malattie neurologiche nel suo Galvanotherapie der Nerven- und Muskelkrankheiten (Galvanoterapia delle malattie nervose e muscolari, 1858), tradotto in francese nel 1860.

Nel 1873 il "British medical journal" riconobbe "l'effettivo valore terapeutico dell'elettricità" (Ueyama 1997, p. 156). Nonostante questo, i rapporti fra l'elettroterapia e la professione medica non erano tra i più facili, in parte a causa del legame tra questo tipo di cure e le imprese commerciali. Nel 1887 nacque, per esempio, a Londra l'Institute of Medical Electricity, una società a responsabilità limitata dei cui azionisti facevano parte sia elettricisti sia medici; tra i servizi offerti spiccava, secondo la moda del tempo, l'elettroginnastica. Analogamente, la Medical Battery Company di Londra fondò lo Zander Institute for Electrotherapy and Swedish Mechanical Exercise e immise sul mercato le cosiddette 'cinture elettropatiche' che, provviste di dischi di zinco e di rame, venivano impiegate per combattere i disordini nervosi, i reumatismi, l'insonnia e l'obesità.

Le teorie e le terapie delle medicine alternative

L'omeopatia

Sviluppata a cavallo del secolo dal medico tedesco Christian Friedrich Samuel Hahnemann (1755-1843), l'omeopatia divenne il più importante sistema terapeutico alternativo o 'non ortodosso' del XIX secolo. Essa era basata su due principî: il primo, e più importante, era quello di 'curare il simile con il simile' (similia similibus curentur), ovvero di somministrare sostanze che avrebbero provocato artificialmente un disturbo analogo a quello che s'intendeva trattare, secondo una concezione in netto contrasto con la tradizione galenica, propria della medicina ortodossa, che utilizzava rimedi di segno opposto (contraria contrariis). Il secondo principio era quello del 'potenziamento': Hahnemann dava infatti un'interpretazione di tipo dinamico, anziché fisico-chimico, dell'azione dei farmaci e riteneva che l'estrema diluizione di un rimedio ne incrementasse l'effetto sul corpo umano. Secondo questa teoria, la diluizione in acqua o in alcol e la triturazione con polvere di lattosio facevano sì che le sostanze comunicassero i propri poteri al solvente (o veicolo), aumentandone in tal modo l'efficacia. Tale concezione dinamica corrispondeva a una visione vitalistica della malattia. Interpretando quest'ultima come un'alterazione della forza vitale, Hahnemann prestava molta attenzione ai sintomi del paziente; la guarigione completa corrispondeva all'eliminazione di tutti i sintomi mediante il trattamento farmacologico dinamico più appropriato.

Anche se contestata e messa in ridicolo dai medici ortodossi, in particolare per via dei dosaggi infinitamente piccoli, l'omeopatia trovò ben presto numerosi seguaci tra coloro che, come Hahnemann stesso, erano ormai scettici in merito alle possibilità terapeutiche offerte dalla medicina tradizionale. Nel 1833 l'opera principale di Hahnemann, l'Organon der rationellen Heilkunde (Organo della scienza medica razionale, 1810), era già alla quinta edizione ed era stata tradotta in diverse lingue europee. Nel 1822 un gruppo di suoi discepoli fondò la prima rivista di omeopatia, l'"Archiv für die homöopathische Medizin" e nel 1826 cominciarono a formarsi le prime associazioni di medici omeopatici. Fin dal principio questa dottrina godette del favore dei pazienti facoltosi e degli aristocratici. La sua diffusione fu notevolmente agevolta e promossa dall'epidemia di colera degli inizi degli anni Trenta, poiché le statistiche dell'epoca riportarono che i pazienti trattati con i metodi omeopatici presentavano un tasso di mortalità notevolmente inferiore rispetto a quelli curati con terapie ortodosse, come il salasso. Nel 1832 in Germania nacquero le prime associazioni omeopatiche non professionali e il primo ospedale omeopatico fu fondato nel 1833 a Lipsia, dove Hahnemann aveva esercitato e insegnato per qualche tempo. Ben presto ne sorsero altri a Monaco (1836), Moers (1843), Köthen (1855) e Stoccarda (1866).

Sebbene alcune piccole divergenze in merito a questioni secondarie avessero diviso i seguaci di Hahnemann fin dal principio, nel corso del XIX sec. l'omeopatia divenne un metodo terapeutico di notevole importanza in molti paesi europei, in India e in America. Nel 1821 fu introdotta in Italia da alcuni medici dell'esercito austriaco, che era stato chiamato da Ferdinando I a sedare i moti di Napoli; negli anni successivi questa città divenne per la Penisola ciò che Lipsia era stata per la Germania, ovvero il centro dell'omeopatia italiana. La diffusione iniziale della dottrina e del metodo terapeutico deve molto a Cosmo Maria de Horatiis, medico personale di Francesco I, re delle Due Sicilie. Con l'avallo del re, tra il 1828 e il 1829 egli condusse una serie di sperimentazioni cliniche sui farmaci omeopatici in un ospedale militare di Napoli e, nel 1829, fondò la prima rivista italiana di omeopatia, le "Effemeridi di medicina omiopatica". Dopo l'unificazione del Regno d'Italia, nel 1861, l'omeopatia venne considerata 'reazionaria', per via dei suoi legami storici con la dominazione borbonica e austriaca, e sembrò dunque perdere terreno, ma le attività proseguirono nella nuova capitale, che ne divenne il centro: nel 1872 fu fondato a Roma l'Istituto Omeopatico Italiano e nel 1883 nacque la Società Hahnemanniana Italiana, che avrebbe curato l'edizione della "Rivista omiopatica".

Il thompsonismo

All'inizio dell'Ottocento, mentre in Germania si andava diffondendo l'omeopatia, in America si assisteva all'ascesa di un altro sistema terapeutico, il thompsonismo, nato anch'esso in opposizione e sfida ai trattamenti 'eroici', praticati dai medici ortodossi, quali il salasso, la cauterizzazione e la somministrazione di oppio e di mercurio. Tale metodo prendeva il nome dal suo fondatore, Samuel Thompson (1769-1843), un medico autodidatta del New Hampshire, ed era basato sull'assunto che le malattie fossero causate da una deficien-za di calore corporeo. Le terapie servivano dunque a ripristinare la giusta temperatura, basandosi su un'alimentazione salutare e su rimedi botanici, come il pepe di Caienna e la Lobelia inflata, una pianta ad azione emetica, diaforetica ed espettorante. Per restituire al corpo freddo e malato la corretta temperatura occorreva ripulirlo, come si sarebbe fatto con una pipa o con una stufa intasata dalla fuliggine, e quindi riempirlo di nuovo. La febbre veniva considerata il mezzo naturale con cui il corpo cercava di sconfiggere la malattia e i metodi tradizionalmente impiegati dai medici per curarla venivano dunque criticati aspramente. Il thompsonismo, i cui principî vennero enunciati dal suo fondatore nella New guide to health (1822), incontrava soprattutto il favore delle popolazioni rurali dell'America centroccidentale e meridionale ed era inoltre decisamente in sintonia con il concetto del 'fai da te' che permeava la società democratica jacksoniana. Thompson arrivò a brevettare il suo metodo terapeutico: i capifamiglia dovevano pagare una certa quota per avere il manuale e acquisire in tal modo il privilegio di praticare la sua medicina botanica.

I sostenitori di questo approccio costituirono diverse 'Società di amici della botanica', che studiavano e prescrivevano trattamenti in aperta opposizione e competizione con la nascente professione medica, e nel 1838 venne fondato un Botanico-Medical College nell'Ohio, a Cincinnati. Le farmacie si trovarono presto a fronteggiare la concorrenza dei negozi e degli ospedali di orientamento thompsoniano. Il nuovo sistema terapeutico alternativo venne esportato in Inghilterra sul finire degli anni Trenta da un discepolo di Thompson, Albert Isaiah Coffin (1800-1866). Molto popolare per circa un decennio presso il ceto operaio e artigiano, soprattutto nelle città industriali del nord come Manchester e Leeds, il 'coffinismo' faceva leva sull'interesse che queste classi sociali avevano sempre nutrito nei confronti della medicina erboristica e della botanica, toccando inoltre le corde del dissenso religioso, del radicalismo politico e della cultura del miglioramento di sé.

Una diramazione del thompsonismo fu la cosiddetta 'medicina eclettica', corrente terapeutica guidata dall'erborista del New Jersey Wooster Beach (1794-1868), che aveva studiato presso il New York College of Physicians. Egli fondò un ospedale a New York, istituì la Reformed Medical Society e nel 1833 pubblicò una guida in tre volumi, The American practice of medicine. La medicina eclettica condivideva con il thompsonismo la concezione del calore e della febbre ma era meno restrittiva in merito alla natura delle medicine da utilizzare e più aperta ai trattamenti purgativi propri della medicina ortodossa. I terapeuti che facevano riferimento a questa dottrina erano comunque contrari all'uso del salasso e delle medicine minerali e impiegavano rimedi botanici che chiamavano 'concentrati' e 'specifici'. Come il thompsonismo, anche la medicina eclettica godette di un periodo di grande popolarità nella Gran Bretagna della metà del secolo. Proprio negli anni Cinquanta vennero compiuti alcuni tentativi di riunire tutti gli erboristi medici in un'unica e potente associazione nazionale, ma il British Medical Act del 1858, che stabilì l'iter formativo necessario per accedere alla professione medica e istituì un registro dei terapeuti qualificati, ne escluse gli erboristi. L'erboristeria sopravvisse nella seconda metà dell'Ottocento come forma sempre più diffusa di commercio al dettaglio.

L'osteopatia

In America ebbe origine anche un'altra pratica terapeutica non ortodossa: l'osteopatia. Messa a punto verso la metà degli anni Settanta dal medico del Kansas Andrew T. Still (1828-1917), essa si avvaleva tanto delle tecniche utilizzate tradizionalmente dai 'conciaossi' per curare i dolori articolari, quanto delle credenze dei 'magnetisti' in merito al movimento dei fluidi corporei. Il principio di base era quello per cui la malattia veniva causata da un'ostruzione dei vasi sanguigni che era, a sua volta, dovuta a una posizione sbagliata delle ossa, soprattutto di quelle della colonna vertebrale. Le tecniche di flessione ed estensione rapida impiegate dai manipolatori servivano, insieme alla pressione locale, allo scopo di rimettere a posto le ossa o, meglio, le 'lesioni osteopatiche' che erano state individuate. L'osteopatia si proponeva quale alternativa senza farmaci alle terapie mediche convenzionali. Still praticava il suo speciale trattamento sia come medico itinerante sia a Kirksville, nel Missouri, dove nel 1889 fondò un ospedale, al quale nel 1892 fece seguito un college, l'American School of Osteopathy.

L'idroterapia

L'idroterapia, che veniva praticata fin dall'Antichità, nel XVIII sec. era di moda soprattutto per la cura dei calcoli urinari e della gotta ‒ luoghi come Bath, Pyrmont e Karlovy Vary (Karlsbad) erano assurti a fama internazionale ‒ e i pazienti, generalmente facoltosi, venivano istruiti dai medici sull'uso più appropriato della giusta acqua minerale. Nel XIX sec., invece, la pratica dell'idroterapia divenne prerogativa di figure non professionali. Nel 1829 l'agricoltore Vinzenz Priessnitz aprì una stazione termale a Gräfenberg, in Slesia, che attirò ben presto centinaia di pazienti l'anno, comprese non poche personalità reali. L'acqua veniva bevuta, applicata esternamente (con bagni, docce o lenzuola bagnate) o somministrata mediante clistere. Secondo una sorta di teoria degli umori popolare, l'acqua lavava via gli umori malsani, cui veniva attribuita la responsabilità di una grande varietà di disturbi. Alla 'cura delle acque' venivano affiancate l'aria pura della montagna, l'attività fisica, le sudate sotto pesanti piumini e una dieta iposodica e priva di spezie, alcol, caffè e tè. La somministrazione di farmaci e la salassoterapia venivano considerate superflue e dannose. Verso la fine dell'Ottocento fu un ecclesiastico, Sebastian Kneipp, ad aprire a Wörishofen, in Baviera, un nuovo centro idroterapico altrettanto popolare. Pur mostrandosi maggiormente tollerante nei riguardi delle cure farmacologiche, egli divenne noto per il suo speciale metodo, consistente nel versare l'acqua sul corpo del paziente (Wassergüsse, ovvero 'getti d'acqua' o 'bagni parziali') e nell'impiego di bagni freddi. In seguito vennero fondati istituti di idroterapia anche in Ungheria, Polonia, Russia, Italia, Gran Bretagna e America.

L'idroterapia rivestì un ruolo di primo piano anche all'interno della naturopatia (guarigione naturale), un orientamento terapeutico più generale che si opponeva ai trattamenti farmacologici tradizionalmente utilizzati dai medici. Essa inneggiava invece al sole, all'aria e all'acqua, nonché a una dieta, a un abbigliamento e, nel complesso, a uno stile di vita naturale: erano questi i metodi migliori per mantenere o ritrovare la salute in un mondo sempre più industrializzato. La moda della guarigione naturale faceva parte di una più ampia tendenza al miglioramento della qualità della vita. Verso la fine del XIX sec. la naturopatia lanciò una sfida alla professione medica, in particolare in Germania, organizzandosi in grandi associazioni non professionali. Insieme a svariati altri movimenti, come quelli dell'antivaccinazione, dell'antivivisezione e dell'antipsichiatria, essa creò un'opinione pubblica dichiaratamente critica, se non ostile, alla medicina scientifica, della cui superiorità ‒ nonostante i grandi progressi compiuti dai metodi terapeutici ‒ i pazienti non erano ancora convinti, benché sul finire del secolo la professione medica potesse ormai contare anche sul supporto dello Stato.

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