L'Università Cattolica per l'Italia

Cristiani d'Italia (2011)

L'Universita Cattolica per l'Italia

Maria Bocci

Un progetto nazionale

La progettazione di un ateneo cattolico nell’Italia di Porta Pia, della questione romana e del divario tra appartenenza religiosa e cittadinanza civile ha seguito un percorso piuttosto lungo, che ha coinvolto le figure più rappresentative dell’intransigentismo e anche diversi interlocutori sensibili alle ragioni del filone conciliatorista e, più tardi, esponenti di spicco delle nuove leve democratiche cristiane. Uomini comeGiuseppe Toniolo, Davide Albertario, Giuseppe Tovini, Giovanni Grosoli, Niccolò Rezzara, Angelo Zammarchi, Giovanni Semeria, Angelo Mauri,Romolo Murri, Filippo Meda e Achille Ratti hanno tenuto viva fra Otto e Novecento l’idea di dotare il cattolicesimo italiano di un istituto di studi che impartisse una formazione universitaria diversamente ispirata rispetto a quella delle regie, in nome della tante volte evocata libertà d’insegnamento e facendo riferimento al modello dell’Università di Lovanio. Se Rosmini aveva pensato a una facoltà medica, è soprattutto in seno all’Opera dei congressi e alla sua terza sezione, dedicata all’educazione e all’istruzione, che sin dal 1874 era stata evidenziata l’opportunità di mettere in cantiere il progetto di un ateneo cattolico, poi a più riprese riproposto senza che, tuttavia, la fase degli auspici lasciasse il passo alla realizzazione, nemmeno quando, a Milano, durante il congresso cattolico del 1897 era stata lanciata una sottoscrizione che avrebbe dovuto dare consistenza economica al disegno coltivato dal movimento cattolico1. Il 1897 costituisce però un momento di svolta, perché la visione polemica che aveva presieduto alla progettazione dell’ateneo in questo anno ha acquisito consensi presso il clero e l’episcopato, nella stampa e nell’associazionismo universitario, ma soprattutto si è problematizzata, anche grazie al dibattito sviluppato nel congresso internazionale degli scienziati cattolici tenutosi a Friburgo in quella estate. Davvero pesanti le critiche riservate, in quel contesto, alla cultura cattolica italiana. Un medievista lovaniense, Godefroid Kurth, aveva anzi usato toni che sfioravano la brutalità: «Ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica?», aveva domandato. L’interrogativo riapriva una ferita iscritta nella coscienza degli italiani presenti, inserendosi in una riflessione che datava da ben prima dell’inizio della storia unitaria. «Vi sono senza dubbio degli scienziati cattolici italiani. Ma dov’è la scienza cattolica italiana?», aveva incalzato Kurth, suscitando negli intellettuali cattolici del bel paese una spiacevole sensazione di minorità e di arretratezza culturale. L’appunto, percepito da Toniolo, Ratti, Semeria e altri italiani intervenuti al congresso, qualche tempo dopo era fatto proprio da Agostino Gemelli, tramite la mediazione di Toniolo e la frequentazione di Lovanio2. Gemelli recepiva il «problema di una presenza seria ed efficace nel mondo della cultura e della scienza da parte dei cattolici»3 e faceva sua la battaglia a favore di un istituto di studi superiori d’ispirazione cattolica per la consapevolezza che gli nasceva dal paragone tra il grado di maturazione raggiunto dagli intellettuali cattolici stranieri e il livello conseguito in Italia, un livello che, da convinto sostenitore dell’italianità nel mondo, non gli pareva sufficiente. All’origine di quella differenza vi era per lui una carenza culturale, connessa alla mancanza di efficaci strumenti formativi e di uomini capaci di farsi carico dell’avanzamento scientifico delle organizzazioni cattoliche. Ai primi del Novecento Gemelli rilevava che il movimento cattolico italiano, pur ricco di molteplici esperienze associative, era paragonabile a un «gran corpo» cui facevano difetto menti capaci di indirizzare i cattolici, non soltanto alla conquista della società civile, ma a un fertile incontro tra prospettiva religiosa e modernità scientifica4.

La presa di coscienza delle carenze culturali del cattolicesimo italiano si doveva, nel futuro rettore, a un’urgenza specifica del suo percorso biografico, che lo aveva reso sensibile alla necessità d’istituire una connessione non esteriore tra sapere scientifico e appartenenza religiosa. Gemelli non proveniva dal cattolicesimo organizzato, non aveva combattuto le lotte dell’intransigentismo e non ne aveva condiviso il senso di separatezza dalla dimensione politica e culturale della modernità. Veniva dal socialismo, dallo scientismo, dall’attrazione per il progresso, dalla critica radicale all’Italia borghese. Aspirante scienziato, formatosi alla scuola positivista del suo professore di patologia generale, Camillo Golgi, e nel clima arroventato di fine secolo che lo aveva visto salire sulle barricate del 1898, nel 1903 era stato protagonista di una conversione che aveva fatto scalpore. Pur potendo aspirare a una brillante carriera in campo medico, aveva messo da parte prospettive di successi mondani e si era fatto francescano. L’attitudine scientifica e la propensione a tenere solidi contatti con il mondo della cultura, che gli creavano qualche impaccio nel clima antimodernista d’inizio Novecento5, lo indirizzavano però all’obiettivo di svecchiare la cultura cattolica, un problema che Gemelli viveva anzitutto in se stesso, perché il suo temperamento intrecciava vocazione religiosa e passione scientifica. All’origine della crisi che lo aveva portato alla conversione vi era del resto un’esperienza intessuta di una «febbre interiore del sapere», che gli «indicava nella scienza la grande liberatrice dell’uomo», e insieme della constatazione che «i problemi più importanti, i massimi problemi, la scienza li lascia insoluti». L’esigenza di rinnovare la cultura cattolica inGemelli acquisiva dunque un accento particolare, avendo a che fare con il cuore della sua questione personale. I saperi che andava accumulando, condensatisi in una serie di strati conoscitivi sovrapposti l’uno all’altro ma difficilmente coordinabili in una visione d’insieme, gli avevano trasmesso una brama conoscitiva globale e totalizzante, inappagata da quello che definiva l’«atomismo» della cultura moderna e delle sue divisioni disciplinari6. La via alla conversione si era spalancata con la complicità di tale ansia intellettuale, che lo aveva indirizzato verso una sintesi peculiare fra dottrina tomista e sapienza francescana, tradottasi nella scelta a favore dell’ordine di Francesco e nell’impegno neoscolastico che lo vedeva, per volere diPio X, tra i fondatori di una rivista di filosofia dedicata alla rinascita del tomismo in Italia7. Nella sua prospettiva, infatti, il rinnovamento della cultura cattolica andava di pari passo con l’obiettivo di dare un’‘anima’ alla cultura moderna, un obiettivo di cui si era fatto carico, convinto com’era della necessità di acquisire i risultati della ricerca scientifica, rianimando però con linfa rinnovata l’abito mentale contemporaneo e, allo stesso tempo, rileggendo la scolastica in funzione di esigenze moderne, quasi fosse un ordito trascendente capace di assimilare i «germi di vero» presenti nel pensiero post-cartesiano e le valenze positive del progresso scientifico e tecnologico.

L’itinerario religioso e culturale di Gemelli e le capacità organizzative di cui era dotato ne facevano un interlocutore apprezzabile per le molte voci cattoliche che da tempo si interrogavano sull’ipotesi di fondare un’università. I contatti con Lovanio, con il cardinale Mercier e con Toniolo ne rafforzavano la collocazione all’interno del cattolicesimo militante. Attorno a Gemelli si raccoglieva dunque un gruppo di studiosi che dava vita ad alcune iniziative, primo nucleo da cui sarebbe nata, nel dopoguerra, l’Università del Sacro Cuore8. A convincere Gemelli dell’utilità di un ateneo cattolico doveva però intervenire anche un altro ordine di considerazioni, da lui sviluppate durante la Prima guerra mondiale. È nota la sua scelta patriottica, che è stata accostata a quella di cattolici come Semeria, Gallarati Scotti, Casati e altri ancora9. Impegnato come capitano medico nel laboratorio di psicofisiologia che aveva allestito presso il Comando supremo, Gemelli, che si era indirizzato alla psicologia avendo dovuto rinunciare alla professione medica per l’incompatibilità prevista dal diritto canonico, metteva le sue competenze a servizio della patria. Lo studio degli ambienti militari lo convinceva tuttavia dell’inconsistenza del patriottismo di molto discorso interventista e addirittura della sua assenza nei soldati italiani. Parole come ‘giustizia’ e ‘civiltà’, di cui la propaganda interventista si era servita, non avevano senso per i soldati semplici, pur non insensibili a ogni ‘idealità’ se non era avulsa dai loro «interessi» personali10. Stava anche qui l’origine delle critiche che il francescano rivolgeva all’Italia liberale, che non aveva saputo dare un contenuto credibile all’appartenenza nazionale; critiche che, peraltro, rispecchiavano il disegno di coinvolgere il mondo cattolico nella vita del paese molto più di quanto sino allora era avvenuto. Il conflitto sembrava a Gemelli – come ad altri esponenti del cattolicesimo militante – l’occasione per superare la frattura creatasi nella genesi della storia unitaria tra specificità religiosa e cittadinanza politica, non però nel segno dell’acquiescenza alle parole d’ordine della classe dirigente, bensì in quello di una ricomposizione civile che avrebbe dovuto proiettare i cattolici ai vertici della gerarchia politica e nel mezzo dell’orizzonte culturale nazionale. La congiuntura del 1915-1918 era dunque interpretata dal francescano come momento in cui ridefinire gli ingredienti del sentire nazionale, riavvicinando le masse impegnate nello sforzo bellico alle radici religiose dell’italianità e riempiendo l’involucro politico risorgimentale di una sostanza cattolica che ne doveva trasformare i connotati politici, economici e sociali. Si spiega così l’attività promossa dal gruppo di Gemelli a favore della consacrazione dell’esercito italiano al Sacro Cuore, una devozione prescelta perché sembrava adatta a coinvolgere affettivamente l’uomo moderno e, al contempo, a dettare i principi ispiratori del ‘nuovo ordine’ postbellico11.

Gli impeti peculiari all’indole gemelliana, che prima della conversione lo avevano spinto sulle barricate del 1898, lo inducevano ora a un altro tipo di opposizione che, pur avendo accantonato il bagaglio socialista, era pur sempre una lotta per costruire qualcosa di diverso dallo Stato unitario di tradizione elitaria e laicista, attraverso un’insufflazione dell’‘anima cristiana’ all’interno del contenitore nazionale. In Gemelli la fine della mentalità cattolica difensiva si traduceva nell’intento di conferire nuovo contenuto allo Stato nazionale, un contenuto che però non coincideva con la ‘grande Italia’ invocata dai nazionalisti12 e nemmeno con la patria dell’interventismo democratico. Gemelli rifletteva sui connotati del sentire nazionale; e gli esiti delle sue riflessioni delineavano un concetto di patria che nulla aveva di naturalistico o di necessitante e che faceva riferimento a una concezione volontaristica. L’amor di patria consisteva infatti per il francescano nella «volontà di qualche cosa ed una volontà ben definita, assai differente dalle emozioni indecise e vaghe» riconducibili alle immagini che spesso gli venivano attribuite e traducibile con l’operosità di chi prendeva le parti di un certo modo di intendere i rapporti sociali e la colorazione politica dello Stato, che era il riflesso di un ‘patrimonio spirituale’ in cui si individuava il bene della nazione. In sostanza, per Gemelli patriottismo significava «attaccamento profondo ad un certo Stato, avente un ben determinato regime politico, sociale, religioso» e volontà di «sviluppare sempre meglio questi suoi elementi»13.

Ottenere alla patria una vittoria non effimera, non dal punto di vista delle acquisizioni territoriali, ma da quello della trasformazione dello Stato e della costruzione di una nuova cittadinanza, era dunque l’obiettivo di Gemelli. Avendo dimostrato nel corso della guerra che appartenenza religiosa non significava minorità patriottica, i cattolici potevano presentarsi sulla scena politica postbellica alla stregua dei «migliori figli d’Italia» – come Gemelli scriveva pensando ai soldati che aveva conosciuto14 –, degni, in quanto tali, di divenire l’asse portante dello sviluppo nazionale. Questo, perlomeno, era lo scopo di Gemelli, condiviso da altri uomini di punta del cattolicesimo militante, ma da lui perseguito con particolare accanimento. Si trattava ora, per i cattolici italiani, di inserirsi nel corso che la storia aveva preso dopo il 1918. La strada prescelta dal francescano non puntava però sull’immediato, né condivideva sino in fondo l’ipotesi di intervenire a supporto dello Stato liberale, peccato d’origine che Gemelli e i suoi più stretti collaboratori addebitavano alla prospettiva sturziana15. Piuttosto, i promotori della nascente Università Cattolica sviluppavano la critica antiliberale del vecchio intransigentismo. Lo Stato liberale, infatti, continuava a non piacere per il suo carattere agnostico e soprattutto per i connotati sociali ed economici che aveva consolidato nell’Italia unita. Specialmente le sperequazioni sociali non intaccate dal sistema liberale ottenevano il biasimo di Gemelli, che intendeva edificare un organismo statuale il cui contenuto cristiano doveva essere distinguibile per assetti economici e sociali modellati sulla base della giustizia evangelica. L’auspicio era quello di una trasformazione radicale, che sostituisse alla compagine liberale uno Stato integralmente cattolico, nella sostanza del sistema normativo e dei rapporti socio-economici. La creazione di un ateneo cattolico si configurava come una tappa intermedia per formare una «élite culturale, sociale e religiosa» capace di guidare la rinascita cristiana della società e di dirigere la nazione16. Il monopolio esercitato dallo Stato nella formazione universitaria, a detta di Gemelli, aveva guadagnato al sistema educativo italiano un che di asfittico e di artificiale, di cui i giovani non avevano beneficiato. Prova ne erano – sosteneva – le debolezze riscontrabili nella coscienza nazionale, riconducibili a un sistema di studi infecondo e bloccato sulla propria intangibilità. La concorrenza di iniziative non statali avrebbe contribuito all’evoluzione nazionale, anche in termini di modernità scientifica, di mobilità sociale e di rinnovamento religioso.

Su queste basi veniva fondata a Milano l’Università Cattolica, legittimata dal mandato che a Gemelli era venuto da Toniolo e dal sostegno dell’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari, che intercedeva presso il Vaticano. L’ateneo era inaugurato nel 1921 alla presenza del cardinale Ratti, di Luigi Sturzo e dei maggiori esponenti del mondo cattolico17. Simbolo ed emblema del proposito di ricristianizzazione era l’intitolazione al Sacro Cuore, prescelta dai padri fondatori, nonostante qualche iniziale tentennamento, per sottolineare i contorni per così dire massimalisti del progetto, che intendeva colmare l’annosa discrepanza tra il ‘paese reale’ cattolico e la cosiddetta Italia legale. Mentre l’associazionismo guidato dal nuovo pontefice Pio XI si incaricava di riconquistare la base della società italiana, Gemelli si volgeva alle istituzioni e ai vertici della gerarchia sociale, con l’intento di rimodellarli attraverso un’impronta educativa che coniugava ispirazione religiosa, competenze scientifiche e liturgia della professionalità18.

La battaglia per la libertà d’insegnamento acquisiva allora caratteri non del tutto sovrapponibili a quelli del dibattito intransigente: non si trattava soltanto della possibilità per i credenti di dar vita a scuole private, libere di aderire a una certa ispirazione pedagogica; nel progetto di Gemelli il programma cattolico si arricchiva di un profilo pubblico che ne finalizzava gli sforzi educativi a dotare il paese di nuovi strumenti di avanzamento e di sviluppo. Alle autorità governative si chiedeva di riconoscere la portata nazionale dell’impresa milanese19. Non si mirava infatti a creare un appartato giardino che preservasse le intelligenze cattoliche dai contagi della cultura laica e le trasformasse in un’élite pensante da porre innanzi alle organizzazioni cattoliche. L’Università del Sacro Cuore, che nasceva ‘libera’ e che avrebbe continuato a difendere la propria autonomia nel sistema democratico e, poco dopo, nel regime autoritario, puntava più in alto, intendendo candidarsi a fucina in cui sarebbe stata forgiata una classe dirigente integralmente cattolica e, allo stesso tempo, pienamente nazionale. Libertà e presenza nei gangli dello Stato erano i cardini del progetto gemelliano, che faceva dipendere il riscatto nazionale dalla capacità dei cattolici di «preparare i dirigenti della nazione, istruire e formare le classi sociali più elevate, contribuire al progresso scientifico, elaborare le idee madri che, trasformate di poi nella azione, divengano il fermento del progresso e dell’incivilimento»20.

In effetti l’ateneo veniva strutturato in modo da fornire ai laureati i saperi necessari ai compiti sociali, politici e sindacali che Gemelli si augurava ricoprissero. I giovani formati dall’Università del Sacro Cuore non dovevano essere né semplici ‘mestieranti’, capaci di svolgere una certa attività ma avulsi da qualsivoglia prospettiva nazionale, né professionisti delle organizzazioni cattoliche, impegnati a colmare qualche lacuna della base associativa ma alieni da intenzioni di un più generale rinnovamento collettivo; sarebbero invece divenuti cittadini a pieno titolo, consapevoli «dei propri doveri nell’ambito della vita nazionale e capaci di assolverli». Università dunque, quella di Gemelli, «inserita nella vita nazionale»21 e alimentata da un disegno che mirava a riplasmare l’idea di cittadinanza e a rafforzare il senso di responsabilità civile del mondo cattolico, per trasformarlo, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere italiani. La cifra peculiare del progetto gemelliano è insomma individuabile nell’obiettivo di superare le auto-esclusioni e gli isolazionismi di molto cattolicesimo, per lasciare un segno nell’evoluzione politica e culturale del paese. Sviluppo tecnologico, rafforzamento di discipline che in Italia erano in una fase aurorale come la psicologia e le scienze sociali, confronto con la questione dello Stato e con quella dello sviluppo economico, dell’industrialismo e della produzione: queste alcune delle sue caratteristiche, piuttosto lontane dalla sensibilità cattolica dell’epoca, ma ben presenti nel disegno del francescano, che coniugava la volontà di farsi carico dello Stato nazionale e l’intento di modernizzare il paese.

Proprio per questo l’ordinamento accademico originario prevedeva due percorsi formativi: la facoltà di Filosofia, finalizzata a ripensare criticamente le correnti filosofiche contemporanee e diretta a predisporre il rinnovamento del corpo docente italiano, e la facoltà di Scienze sociali, volta a dare spazio, nella formazione universitaria impartita alla futura classe dirigente cattolica, alle scienze economico-sociali, alla cui identificazione epistemologica il dibattito degli studiosi radunati da Gemelli intendeva fornire un contributo significativo22. La scelta di dar vita alla facoltà di Scienze sociali, assente nelle Regie, si doveva alla convinzione che «i problemi principali che la vita italiana avrebbe dovuto risolvere erano i problemi economici, del lavoro, della giustizia sociale, della sicurezza sociale». L’offerta formativa del nascente ateneo, supportata dalla cospicua presenza nel corpo docente di esponenti del Partito popolare e di allievi di Toniolo, si proponeva di «preparare all’Italia giovani cattolici in guisa che essi potessero diventare attivi membri della comunità sociale» e di «elaborare le dottrine alle quali questi giovani d[ovevano] richiamarsi nella loro azione»23. Nel progetto da cui è scaturita l’Università dei cattolici italiani si può dunque individuare una sinergia alimentata da due tipi di specializzazione, perché l’uno doveva conferire fondamento filosofico alle acquisizioni conseguite dall’altro sul terreno sociale. Alla facoltà di Filosofia spettava il compito di elaborare i punti di riferimento fondativi per ridisegnare i contorni auspicabili del vivere associato e individuare i fini ai quali Stato e società dovevano uniformarsi, per liberarsi dai condizionamenti individualistici contestati dal gruppo di Gemelli. Gli studiosi impegnati nell’ateneo avrebbero dovuto istituire un paragone tra il punto di vista neoscolastico e i molti stimoli provenienti dagli indirizzi filosofici contemporanei, cui lo stesso rettore, insieme ad alcuni tra i primi docenti della Cattolica, era tutt’altro che insensibile24. Quanto alle scienze economiche e sociali, a Gemelli non sembravano abbastanza sviluppate nelle parti teoriche e metodologiche; né gli pareva che gli studiosi cattolici potessero arrestarsi al magistero sociale, ma semmai svilupparlo, a livello non tanto operativo bensì di riflessione scientifica. I principi enucleati dal magistero andavano declinati in un sapere scientifico che radicasse l’operosità cattolica in un sostrato di analisi e di conoscenze rigoroso e verificato, cui Gemelli, abituato a confrontarsi con l’analisi sperimentale, teneva particolarmente. Di tale impostazione risentiva anche la specializzazione economica che il rettore chiedeva a docenti e studenti, prendendo atto dei ritardi che, pure in questo settore, notava in Italia. La sua Università non era insensibile alla dimensione istituzionale, non del tutto assimilata dal cattolicesimo a causa delle fratture risorgimentali, e la metteva a tema con i corsi e i volumi dedicati alla dottrina dello Stato, con l’aspirazione alla trasformazione dell’ordinamento politico e con lo scopo dichiarato di preparare la classe dirigente cattolica. Allo stesso modo, intendeva superare gli storici steccati istituiti tra appartenenza religiosa e professione scientifica dando consistenza alla «scienza economica» nella preparazione dei giovani cattolici, che dovevano sapersi misurare non solo con i grandi ideali di rinnovamento, pure con le questioni molto pratiche ma irrinunciabili, ai fini della metamorfosi socio-politica, delle «applicazioni della dottrina sociale al campo dei rapporti economici», senza evitare, dunque, temi come la circolazione della ricchezza, gli scambi, i salari, i prezzi, la produzione e il consumo. Gemelli formula una tale dichiarazione di intenti in una missiva inviata nel 1923 al cardinale Gaetano Bisleti, prefetto della Congregazione dei seminari e delle università degli studi, per far presente che, nel contesto della scalata al potere di Mussolini, all’ateneo del Sacro Cuore toccava misurarsi con un nuovo pericolo, vale a dire con la prospettiva che il fascismo si dotasse di «una dottrina dello Stato nettamente anticristiana, ossia Hegeliana», conferendo alla propria ascesa una base ideologica che l’avrebbe rafforzato. Il ricorso all’idealismo rischiava di tradurre nella pratica del potere politico una concezione di Stato che Gemelli giudicava anticristiana. Prova ne erano – notava – i colpi inferti alla libertà sindacale, che non avevano risparmiato il sindacalismo cattolico25.

È pur vero che la facoltà di Scienze sociali ben presto era sacrificata sia per difetti di funzionamento, sia per la necessità di ottemperare a una richiesta del governo fascista. In gioco c’era il riconoscimento giuridico, a sua volta ritenuto indispensabile per far sì che l’ateneo potesse formare la classe dirigente del paese. In applicazione della riforma Gentile, nel 1924 la Cattolica era riconosciuta dallo Stato come università libera, retta da un proprio statuto, con il diritto di rilasciare titoli con valore legale ma con un ordinamento didattico analogo a quello delle regie. Il prezzo da pagare consisteva nell’omologazione dell’offerta formativa a quella degli atenei di Stato, con la rinuncia a Scienze sociali e con la ristrutturazione dell’impianto didattico26. L’indirizzo economico-sociale rimaneva però intrinseco ai corsi di laurea della Cattolica, sopravvivendo ad esempio nella Scuola di scienze politiche, economiche e commerciali. Nel 1927 il rettore ottenne inoltre di avocare all’ateneo la «Rivista internazionale di scienze sociali», fondata da Toniolo e Salvatore Talamo, che, negli anni Trenta, sarebbe stata una delle palestre più interessanti per la crescita scientifica di nuove leve di docenti comeFrancesco Vito e Amintore Fanfani. Qualche anno prima, nel 1923, l’ateneo aveva rifondato l’Unione cattolica per gli studi sociali, rilanciando l’iniziativa diToniolo in un momento cruciale per le sorti della convivenza civile. Non per niente l’Unione si indirizzava subito a riflettere sui sindacati, la loro storia e le premesse legislative su cui poggiavano. L’Università Cattolica sceglieva insomma, nelle sue prime valutazioni del fascismo, una strategia che puntava non sullo scontro aperto, bensì su un lavoro di preparazione a più lunga scadenza, che avrebbe dovuto creare un’alternativa anzitutto dottrinale, senza che ciò significasse il rischio di veder bloccato sul nascere l’ateneo da un colpo di mano fascista. Alle autorità accademiche il metodo della resistenza dichiarata sembrava un ‘errore tattico’ foriero di ritorsioni e violenze. Lo pensavaFrancesco Olgiati, uno dei fondatori dell’ateneo, che si riferiva al congresso popolare svoltosi a Torino nel 1923, in seguito al quale prevedeva un combattimento ‘all’ultimo sangue’ che avrebbe comportato la fine dell’esperienza politica di Sturzo e che l’Università Cattolica, per Olgiati, non poteva augurarsi27.

L’Università Cattolica di padre Gemelli

L’Università Cattolica dei tempi di padre Gemelli si colloca a pieno titolo nella storia italiana, come luogo genetico di nodi cruciali e di svolte rilevanti per la vita del paese. Seminari e laboratori attrezzati con una strumentazione avanzata, scuole di perfezionamento, riviste scientifiche, collezioni che pubblicavano i lavori dei docenti28, un patrimonio bibliotecario notevole e le spese sostenute per permettere a giovani promettenti di specializzarsi nelle migliori università straniere dovevano piazzarla in posizione non secondaria nel panorama italiano, tanto da suscitare le apprensioni degli atenei di Stato che, a cominciare dalla Regia di Milano, si sentivano messi in pericolo dalla concorrenza orchestrata da Gemelli. Il rettore chiedeva ai docenti un coinvolgimento a tempo pieno, che si doveva esplicitare con il raggiungimento di un profilo scientifico alto, richiesto dai sacrifici dei cattolici che mantenevano in vita l’ateneo e che da esso aspettavano le «direttive e il patrimonio ideale di difesa ed applicazione dei principi della nostra fede», da utilizzare in «quella trasformazione del nostro paese che è lo scopo fondamentale della nostra Università»29. L’Università di Gemelli riusciva a pervadere la società italiana anche attraverso i canali dell’Azione cattolica, alcuni dei quali – come la Gioventù femminile di Armida Barelli o gli Uomini cattolici di Piero Panighi – erano guidati dai più stretti collaboratori del francescano. A renderla un’interlocutrice importante delle vicende nazionali era però soprattutto il progetto culturale che l’aveva originata e che ne indirizzava l’offerta formativa a forgiare leve di laureati capaci di occupare i gangli della società attraverso una presenza tecnicamente qualificata, in grado di sostenere le sfide contemporanee e dilatata nei luoghi che erano deputati alla direzione della cosa pubblica e all’orientamento della convivenza civile. Giornalisti, scrittori e docenti cattolici, avvocati, economisti, sindacalisti, imprenditori e diplomatici cattolici, sociologi e psicologi cattolici – e, in un futuro che Gemelli si augurava prossimo, medici laureati nella facoltà romana di Monte Mario – sarebbero stati le avanguardie di un esercito che era incaricato di affrettare il rinnovamento della società contemporanea, non negandone caratteri e fattezze, ma rendendola campo di proliferazione di uno ‘spirito cristiano’ che si sarebbe avvalso di tutti mezzi disponibili, pur di affrettare l’avvento di una compagine socio-politica diversa da quella creata dalla classe dirigente liberale.

Nonostante la compresenza di diversi filoni culturali e di differenti impronte didattico-scientifiche, dovuta alla difficoltà di reclutare un corpo docente corrispondente alle attese diGemelli, l’intonazione impressa dalle autorità accademiche alla formazione impartita dall’ateneo risentiva della volontà di plasmare nuovi quadri, candidati alla successione politica e all’occupazione degli snodi più rilevanti della strutturazione civile. Il consolidamento religioso della società – un obiettivo cui il gruppo di Gemelli non era estraneo – si coniugava con la conquista dei luoghi, delle professionalità e degli organismi dai quali dipendeva il futuro del paese. E infatti delle devozioni predilette, vettori della ricristianizzazione dei cittadini tramite iniziative di facile accesso per l’Italia popolare30, si forniva un’interpretazione attenta a farne affiorare le conseguenze sociali, se non addirittura politiche. Si pensi all’intreccio fra regalità di Cristo e Sacro Cuore, che nella spiritualità di chi governava l’ateneo acquisiva risonanze civili, per l’uso pubblico che se ne faceva, in polemica con le autorità politiche del momento, e soprattutto per la valenza di alveo in cui dovevano maturare direttive ideologiche importanti per costruire su basi rinnovate la compagine collettiva31. Il «Regno sociale del Sacro Cuore», stella polare della spiritualità alimentata daGemelli e da lui immessa nella famiglia di laici consacrati che aveva creato, dettava le coordinate di un modello di santità che sembrava adeguato alle emergenze della contemporaneità perché implicava la totale compromissione, intellettuale e affettiva, personale e pubblica, richiesta dalla natura divinamente regale di Colui che ne costituiva il centro vivificante e perché ancorava il perfezionamento della vita cristiana alla ‘santa battaglia’ per diffondere il regno di Cristo. I laici di Azione cattolica – la base militante di questa specie di esercito «al servizio del Re» – non meno di chi deteneva le leve del comando di tale schiera organizzata, e che in parte era ai vertici dell’Università milanese, dovevano distinguersi per l’arrendevolezza del ‘suddito per amore’, come insegnava la devozione al Sacro Cuore; al tempo stesso erano chiamati a qualificarsi per l’eroismo del miles Christi32, perché il tipo umano cui si riferivano postulava la tensione a trasfondere i vincoli e le leggi che strutturano il regno all’interno dell’ordine temporale.

Quali fossero questi vincoli e queste leggi lo dovevano spiegare non solo coloro che si dedicavano all’apostolato, ma soprattutto gli intellettuali cooptati daGemelli, a cominciare dai filosofi neoscolastici. La neoscolastica milanese, nel suo confronto con la filosofia moderna, si concentrava su tematiche etico-politiche, articolando complesse riflessioni sullo Stato, la legge, la società, la persona e la cittadinanza, a partire da una rivisitazione piuttosto attualizzante del tomismo che forniva le categorie interpretative e costituiva l’architettura portante su cui poggiare il rinnovamento sociale. Ne risultava un vero e proprio archetipo di convivenza civile, non bloccato da desuete speranze di restaurazione cattolica, ma proteso verso la conquista ‘progressiva’ di un mondo nuovo e perfettibile. Al centro di tale progettazione si nota una ‘torsione’ verso lo Stato33, maturata all’interno di questo circuito intellettuale durante il ventennio fascista con il favore della «desertificazione del retroterra sociale cattolico» imposta dalla dittatura34, e poi fatta propria dal sapere un po’ dottrinario della generazione che non aveva conosciuto la cittadinanza sociale e pre-politica dell’intransigentismo, e nemmeno la prima democrazia cristiana o ilPartito popolare. Gli studi, le pubblicazioni e i momenti di confronto che si moltiplicarono in Cattolica fra gli anni Trenta e Quaranta assecondavano una sorta di ‘statalizzazione’ della cultura cattolica, ben percepibile nelle biografie politiche e intellettuali di una parte della classe dirigente postbellica che nell’ateneo si era formata o che aveva avuto contatti significativi con gli ambiti culturali e spirituali ideati da Gemelli. Le inclinazioni emerse in epoca fascista l’avevano indirizzata a non confinare le proprie energie all’interno di un impegno solo spirituale e formativo; nell’ateneo milanese si era infatti misurata con tematiche politico-istituzionali che avevano aperto la strada alla riscoperta del valore dello Stato, a patto che nulla avesse a che fare con il contrattualismo.

In realtà l’ateneo del Sacro Cuore era stato l’epicentro di dibattiti e riflessioni che avevano coinvolto molti giovani cattolici, poi tra i protagonisti più significativi del cattolicesimo postbellico, e che avevano presieduto a tale evoluzione, qui soltanto riassumibile, non essendo possibile dar conto delle sfumature35. Il punto di partenza si fondava nell’antiliberalismo e nella critica allo Stato di diritto e risentiva del paradigma controrivoluzionario, che individuava una genesi agnostica alle scaturigini dello Stato moderno e poi si articolava nella polemica contro l’antropologia borghese e l’‘uomo astratto’ della Dichiarazione dei diritti, e al contempo nella censura dell’‘uomo deificato’ fonte dell’assolutismo, esito di un ordinamento politico che aveva perso il rimando alla trascendenza. L’indebolimento dei vincoli sociali prodotto dal liberalismo si sviluppava – in questa analisi – in due direzioni, una anarchica e una statolatrica, entrambe figlie della stessa concezione antropologica e, nei fatti, indirizzate al consolidamento non dei diritti individuali, ma della legge del più forte, che tradotta in termini economici significava capitalismo sfrenato. L’etica sociale che se ne desumeva era decisamente anticapitalistica. Nell’impostazione gemelliana si coglie anzi una sorta di ipoteca che proveniva, più ancora che dal cattolicesimo sociale, dal passato socialista del rettore, il quale, non per nulla, caricava di valenze utopiche la ricerca di una ‘terza via’, equidistante da individualismo e collettivismo. L’obiettivo era la realizzazione dell’utopia dello Stato cattolico, ben più radicale e cogente di una patina di cattolicità formale da apporre sull’involucro dello Stato liberale. Si trattava insomma di una specie di massimalismo cattolico, che partiva dall’assunto della necessità di escogitare un vincolo sociale che permettesse all’individuo di essere quello che deve essere, secondo un disegno da concretizzare in un ordine sociale cristianizzato. I rapporti economici e interpersonali erano cioè da conformare a un modello ideale, contrapposto a quello borghese. A questa operazione dovevano sovrintendere istituzioni rinnovate, che si ispirassero al solidarismo evangelico. Sta qui l’origine della polemica contro il partito di Sturzo, accusato di cripto-liberalismo per il suo programma ‘minimo’, vale a dire non abbastanza connotato ideologicamente. Il partito cattolico avrebbe dovuto farsi carico del compito di trasformare Stato e società sulla base delle direttive ricavate dal ‘codice sociale’ del Vangelo. Nel Vangelo si scorgeva infatti un codice di vita completo, da immettere nella struttura socio-economica per superare quella borghese che, in questa visione, allontanava i cittadini dalla fede. La via maestra per rafforzare la fede degli italiani sembrava quella di farli vivere in strutture cristianizzate, vale a dire conformi alla legge dell’integrazione sociale che si deduceva dal Vangelo.

Dunque, mentre a sinistra le aperture erano possibili, il sospetto verso il liberalismo rimaneva non scalfito. Non la libertà, ma la ‘liberazione da’ (dal bisogno, dagli ostacoli frapposti al cammino di perfezione) era il punto di riferimento. La libertà – si argomentava – è astratta, perché non può esserci libertà di compiere il male e perché non esiste l’uomo isolato dal corpo sociale. L’unico abito politico di un cattolico poteva essere quello ‘progressivo’, come si diceva. Si trattava di un dovere di Stato, che interessava la vocazione del cristiano e la salvezza personale. ‘Rifare cristiano’, cioè organicista e solidale, il complesso associato: questo il compito dell’Università Cattolica, dove si scorgeva nel mito della ‘civiltà cristiana’ di derivazione medievalista un modello alternativo a quello della modernità, una sorta di bussola ideologica per conquistare il futuro. La distinzione fra azione cattolica e azione politica, imposta dal fascismo, era l’occasione per sviluppare questo progetto, rimandandone la fase finale non a causa dell’appagamento nei confronti dell’attualità politica, ma per predisporre una classe dirigente pronta a realizzare l’utopia politica che si andava concependo.

Un passaggio importante in questo percorso era lo scontro/incontro con l’idealismo. Rifiuto e attrazione, messa all’Indice e ammirazione erano i due poli che funzionavano simultaneamente nel rapporto fra la neoscolastica milanese e la filosofia diGentile36. Da un lato, infatti, c’era la critica all’immanentismo e alla statualità del diritto; dall’altro, subentrava un’adesione quasi istintiva, anche se condizionata da alcuni distinguo, all’anti-positivismo e allo Stato etico. In quest’ultimo si scorgeva una garanzia di disciplina, utile per impedire la trasformazione della libertà individuale in licenza antisociale. Lo Stato garante dell’eticità di individui e società attirava gli intellettuali della Cattolica; restava aperto il problema dell’origine della morale, perché lo Stato – si sottolineava – non è eticità, ma deve diventare etico riconoscendo una legge morale che gli pre-esiste. Era dunque necessario seguire Gentile quando affermava che lo Stato ha una sua coscienza filosofica; la critica anti-idealistica prendeva il via al momento di identificare tale coscienza, non prodotta dallo Stato ma riconosciuta – si sosteneva – nell’‘ordine dell’essere’. Ne derivava un limite all’onnipotenza statale; al contempo, però, lo Stato etico si riforniva di un consolidamento notevole, dotandosi di una specie di collante morale che ne rafforzava le fondamenta. Con la Conciliazione si riteneva che lo Stato italiano fosse diventato lo strumento indispensabile a indirizzare i cittadini verso la vita virtuosa. Lo Stato – affermavano i neoscolastici – è opera di morale e di virtù; la coercizione sociale serve alla perfettibilità della natura umana. E infatti in questa visione lo Stato finiva per apparire organismo più naturale dei gruppi sociali. Non era un passaggio di poco conto nelle considerazioni cattoliche, ma un punto nodale che avrebbe impregnato la prospettiva del gruppo che si stava coagulando attorno a Gemelli. Da allora in poi le elaborazioni neoscolastiche si connotavano per la correlazione fra dimensione personale e dimensione statuale, correlazione che si credeva di non poter sciogliere, a pena di compromettere lo sviluppo integrale della persona.

Le riflessioni degli anni Trenta rintracciavano la validità dell’organizzazione politica nella sua stessa essenza, a partire da una lettura peculiare di Tommaso che era filtrata attraverso le ansie di rifondazione della compagine statale su basi diverse da quelle che avevano portato alla crisi dello Stato liberale e al tramonto – così pareva – del capitalismo. Le conclusioni, tuttavia, non erano scontate. Ne derivava infatti una rivalutazione di quello Stato moderno tante volte contestato: in esso si cominciava a scorgere una certa provvidenzialità, da rivitalizzare con il contatto tomista, quasi che la civitas aristotelico-tomista potesse essere assimilata allo Stato creato dalla modernità. In questo processo interveniva la lettura di Maritain, non escluso Umanesimo integrale, anche se al suo pensiero si attribuiva una valenza politica forse più intensa del dovuto. Del tomismo, comunque, si faceva una sorta di ideologia adatta alla crisi degli anni Trenta, utile a disegnare i contorni dello Stato ideale, cui lo Stato reale avrebbe dovuto uniformarsi per riempire la propria vuotezza ideologica, non con il rimando ai diritti individuali e nemmeno con l’organicismo esasperato dei totalitarismi, ma con l’innesto della metafisica dell’Essere. L’aggancio era la visione finalistica del reale, che conferiva alle parti la loro piena ragion d’essere nella totalità, in vista di un fine che, pur essendo particolare, doveva essere ordinato al bene dell’interno organismo. L’individuo lo si deve guardare nella totalità, si insegnava in Cattolica; lo Stato appartiene a un universo gerarchico in cui ognuno svolge le funzioni che Dio gli ha assegnato in relazione al tutto, in vista di un bene che, sebbene sia temporale, corrisponde al disegno immesso nel creato dallo stesso Creatore. Lo ‘Stato finalistico’ era dunque inserito in un sistema morale e razionale che gli conferiva valore in sé, non come strumento di aggregazione appartenente al regno dei mezzi, ma come passaggio indispensabile alla realizzazione del regno dei fini. I suoi compiti, infatti, avevano a che vedere con la perfezione individuale e sociale, a sua volta condizionata al perseguimento del bene comune. Quest’ultimo non consisteva nella somma dei beni dei singoli, ma sembrava dotato di un grado di perfezione superiore, perché colmava le lacune degli individui, strappandoli da facili egoismi. Lo Stato doveva farsi carico del destino dei suoi membri, della loro felicità ideale e ultraterrena, cui erano da sacrificare le felicità individuali, solo parziali ed effimere. Proprio per questo i neoscolastici sostenevano che la funzione dello Stato è quella di ‘salvare’ sia la persona, redimendola dall’individualismo, sia la società, impedendo la deriva verso il caos. Lo Stato ipotizzato era insomma il principium ordinis di una «società compatta, seppur articolata»37, in base a un modello teorico che risentiva delle inclinazioni politiche dell’epoca, anche se ne ammorbidiva le pretese assolutistiche con il rimando a un ordine che non poteva essere del tutto immanente.

Nella declinazione avallata dall’ateneo del Sacro Cuore edificare lo Stato cattolico significava allora individuarne il fondamento nelle leggi dell’Essere, che allo Stato chiedevano di garantire la persona immettendola nel sistema di relazioni che sembrava indispensabile al suo ordinato sviluppo. Per difendere il cittadino, lo Stato doveva intervenire nei luoghi e negli intrecci relazionali in cui egli vive e si perfeziona, nelle strutture economiche e sociali in cui cresce e matura. Un aiuto veniva dalla dottrina del Corpo mistico, che in questa visione costituiva la linfa metafisica dell’intera costruzione, riconfermandone la struttura gerarchica e organicistica. La legge della solidarietà organica rispecchiava, in maniera analogica, le relazioni istituite da Cristo fra gli elementi del suo Corpo, forma perfetta della società e utopia sociale in via di realizzazione. Ben si capiscono, a questa stregua, le valenze salvifiche attribuite al momento costituente: una Costituzione luogo di connessione di diritti e doveri, che coglieva il cittadino nella sua vocazione sociale, avrebbe potuto introdurlo all’adesione al Corpo mistico, pur nella laicità formale.

In questa evoluzione avevano influito le propensioni corporative degli anni Trenta. Con il corporativismo e, parallelamente, con lo Stato sociale vi erano stati incontri non episodici, nonostante la messa in non cale dei fini da essi perseguiti e il tentativo di orientarli alla giustizia. La crisi economica dell’inizio del decennio sembrava aver dimostrato la validità della ricetta dello Stato cattolico: anche la vita economica doveva corrispondere all’ordine etico e razionale, perché non risultasse compromessa la funzionalità dell’intero sistema. Come già ai tempi della polemica contro il popolarismo, negli anni Trenta si ribadiva che l’attività economica è morale, nel senso che può avvicinare o allontanare l’uomo dal suo destino eterno. Il corporativismo era dunque interpretato come un tentativo di ordinare la società a fini non capitalistici e di conformare le scelte economiche a finalità etiche e politiche, a supporto e completamento dello Stato etico cattolico. Per questa via, si sarebbe arrivati all’economia regolata e alla politica di piano, che dovevano mirare non allo ‘Stato del benessere’, peccato d’origine dell’esperimento rooseveltiano, ma allo ‘Stato di solidarietà’, capace di incanalare l’iniziativa individuale verso la realizzazione di fini sociali. Di nuovo lo Stato appariva la chiave di volta del vivere associato, uno Stato forte e interventista, in grado di dirigere l’economia non per potenziare il benessere dei singoli, ma per conseguire l’integrazione da cui poteva derivare lo sviluppo della persona umana38.

La guerra approfondiva le tendenze emerse negli anni Trenta, conferendo loro uno sbocco operativo con la previsione, che circolava nell’ateneo ben prima del 1943, della fine del fascismo e dell’auspicata ‘successione’. Un ulteriore passaggio è individuabile nelle riflessioni sviluppate, a partire dal 1940, da un gruppo di docenti e assistenti durante gli incontri presieduti da Gemelli, che si intensificarono con il radiomessaggio del 1942 e con la domanda, da esso ribadita, di quale fosse la via per ‘salvare la persona umana’. Molte le iniziative pensate in funzione dell’‘ordine nuovo’ e dell’elaborazione di un ‘codice sociale’ che fungesse da punto di riferimento per la costruzione dello Stato democratico, con l’acquisizione questa volta – dopo l’esperienza del totalitarismo e in piena guerra mondiale – del regime rappresentativo e dello Stato di diritto, ma all’interno del quadro organicista che non rinunciava al processo all’‘economicismo’ e all’‘edonismo’ borghese, rivalutando lo Stato contemporaneo che appariva più ‘cristiano’ di quello moderno, per via dello spessore sociale che doveva sovvenire alla debolezza individuale39.

Ne derivava una sorta di gigantismo della politica. Anche in prospettiva democratica, lo Stato assurgeva a protagonista della ‘nuova cristianità’, a interlocutore dell’individuo e ad artefice della cristianizzazione delle strutture che doveva dar corpo all’utopia evangelica. Redento da benefici germi evangelici immessi dalla prevalenza del partito cattolico e dalla Costituzione democratica, lo Stato acquisiva una sua eticità, che lo rendeva lo snodo cruciale per la realizzazione di quello che Maritain aveva chiamato un cristianesimo non decorativo. Si apriva così la strada alla dottrina delle ‘realtà terrene’, poi sviluppata da Giuseppe Lazzati, che poteva rivendicare il primato della laicità perché a esse attribuiva un fondamento nell’universo finalistico dedotto dal tomismo. Per questo le ‘realtà penultime’ potevano esigere un’autonomia di Stato. Servire Dio coincideva per molti versi con l’edificazione di una società che organizzasse le sue parti in base al disegno di mutualità e di giustizia sociale. Il presupposto era perfettistico, partiva cioè dall’idea che la vera rivoluzione, quella del Vangelo, fosse garanzia di un progresso indefinito verso la realizzazione di una città terrena che avrebbe progressivamente assunto i caratteri del Corpo mistico.

Il modello di Stato elaborato nell’ateneo di Gemelli come punto di riferimento per chi si candidava alla successione politica aveva risentito della temperie del momento, della debolezza della società e della crisi economica, misurandosi dialetticamente, sia pure nelle aule appartate di piazza S. Ambrogio, con le ascendenze ideologiche esibite dal regime. Nell’Università del Sacro Cuore si credeva che l’edificazione di uno Stato cattolico fosse la ricetta migliore per evitare che il fascismo sfociasse in un sistema pagano e totalizzante. Lettura, quest’ultima, che allarmava le autorità del regime, preoccupate sia dall’ancoraggio al modello di Stato cattolico, sia dall’intento di formare la classe dirigente del futuro, sia dallo stile educativo vigente nell’ateneo, che infatti era al centro di lunghi contenziosi, momenti di rottura e faticose ricomposizioni. Non la collusione con il fascismo in quanto tale, la cui portata risulta ridimensionata dalla documentazione ascrivibile al rettorato di Gemelli, bensì l’utopia dello Stato ‘ideale’ era il retaggio del ventennio che la Cattolica lasciava a chi l’aveva frequentata come studente, assistente o giovane professore, un retaggio che rifletteva ansie di salvezza collettive da tradurre nell’‘ordine nuovo’. Il paragone con i regimi degli anni Trenta aveva influito sulla costruzione di questa eredità, anche se ora l’utopia dello Stato cattolico si traduceva in quella di una democrazia sostanzialmente finalizzata e globalmente pianificata, che affidava le sorti del regno all’organismo politico e ai suoi strumenti partitici.

Il bagaglio con cui la classe dirigente formatasi in Cattolica si affacciava alla rinascita democratica era insomma notevole. Gemelli ne riconosceva la paternità. Nel discorso inaugurale da lui pronunciato per l’inaugurazione dell’anno accademico 1946-1947 si scorgono cenni d’entusiasmo per quel «manipolo animoso e intelligente» che, formatosi nel suo ateneo, poteva operare «nella vita politica e nella vita sociale e sindacale», andando a occupare i Ministeri dell’Italia repubblicana. «Questi giovani – asseriva – portano nella vita, oltre che una preparazione adeguata, anche una coscienza cristiana»40. La ‘riserva di governo’ individuata tante volte dalle apprensioni fasciste veniva dunque alla luce e si guadagnava, attraverso la libera competizione elettorale, i primi posti nella politica nazionale. Pur fra cedimenti al clima dell’epoca e alterazioni del progetto primitivo, Gemelli era riuscito a realizzare l’intenzione originaria, apprestando quella che identificava come l’‘anima cristiana’ dello Stato democratico, vale a dire i giovani cresciuti alla sua scuola, che certo hanno pesato nella fondazione della democrazia italiana. L’Università Cattolica, che già aveva fornito giovani qualificati all’insegnamento medio, alle carriere universitarie e alle libere professioni, vide infatti molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pubblica amministrazione, negli enti locali e nei punti nevralgici per la ricostruzione del paese, contribuendo alla rinascita del dibattito politico, alla creazione della Democrazia cristiana, all’elaborazione della Carta costituzionale, alla ripresa economica e alla riedificazione del libero sindacalismo.

Trasformazioni e fermenti

La fine del conflitto trovava l’Università Cattolica pronta ad approfittare del contesto democratico anche dal punto di vista del ripristino dell’autonomia universitaria e della possibilità di potenziare i percorsi formativi che ne connotavano il progetto culturale, riarticolandoli in base alle esigenze del dopoguerra. Risale a questo periodo una nuova impennata della battaglia per la libertà di insegnamento e per la riforma scolastica, insieme al tentativo di ricostituire la facoltà di Scienze sociali, nelle more che avevano bloccato, in Cattolica come nelle altre università, la facoltà di Scienze politiche. La Cattolica degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era un ateneo in espansione, caratterizzato dall’incremento di studenti e docenti e dall’apertura delle sedi non milanesi, del Policlinico di Roma, di facoltà, dipartimenti e centri di cultura41. L’ateneo risentiva dei cambiamenti che stavano investendo l’università italiana nel momento, particolarmente delicato, del passaggio di consegne tra il padre fondatore, ‘rettore a vita’ e autorità indiscutibile, e coloro che, alla sua morte, ne gestirono l’eredità. La difficile successione di Gemelli si intersecava peraltro con un problema che rischiava di compromettere lo sviluppo della Cattolica: la campagna di allargamento delle sedi e dell’offerta formativa, che ora si doveva anche alla metamorfosi che la rendeva un’università di massa, si scontrava con difficoltà sempre crescenti di bilancio, a loro volta procurate dal proliferare di poli universitari legati al Sacro Cuore in diverse città italiane. Eppure non soloGemelli, ma nemmeno i suoi successori rinunciavano a quella cheEzio Franceschini, terzo rettore, ha definito l’«estensione in superficie», intendendo salvaguardare il progetto nazionale ideato dal padre fondatore e rimasto valido agli occhi di chi l’aveva sostituito42.

Impegnata attraverso i suoi docenti, i suoi strumenti culturali e i suoi canali divulgativi a non trascurare alcun appuntamento nazionale, dall’Assemblea costituente al 18 aprile43, l’Università Cattolica dell’ultimo Gemelli non aveva voluto abdicare all’obiettivo di segnare la genesi e i caratteri dell’Italia repubblicana con l’innesto di un cattolicesimo non formale, vincolando l’adesione al partito di maggioranza alle aperture sociali che – si affermava – dovevano connotare una classe di governo di formazione cattolica. L’esito elettorale del 1948 non era interpretato come punto d’arrivo, ma come tappa del cammino che, per essere davvero libero, non poteva accontentarsi dei voti borghesi alla Dc, ma doveva puntare sulla messa in opera dell’orientamento sociale auspicato dalle correnti di sinistra del partito. Proprio dalla Cattolica, in anticipo sui tempi, era arrivato un sostegno all’apertura a sinistra, avallato da Gemelli nonostante le riserve del sostituto alla Segreteria di Stato Montini, che metteva sull’avviso il rettore ricordandogli i pericoli della collaborazione con una prospettiva politica che, per Montini, era ancora inficiata di marxismo44.

La presenza crescente di Montini nella vita dell’Università, intensificatasi con la sua venuta a Milano, è da segnalare, perché ha a che fare con l’intreccio di quesiti che erano acuiti dal declino fisico e poi dalla scomparsa di Gemelli. Quello fra il rettore e l’arcivescovo è stato un rapporto che ha attraversato fasi dialettiche e fasi di maggior condivisione, un’alternanza che si deve anche al fatto che erano in gioco questioni fondamentali per la Cattolica, come il suo profilo giuridico-statutario e il ruolo dell’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, ente fondatore e finanziatore dell’ateneo45. Certo è che Montini, prima da sostituto e poi da arcivescovo, divenne un punto di riferimento importante, specie da quando all’ateneo venne a mancare il sostegno diPio XI, non surrogato da papa Pacelli, presso il quale Gemelli non aveva un credito incondizionato. Nel 1958 Montini era nominato ‘patrono’ dell’Università e rappresentante della Santa Sede nel suo Consiglio di amministrazione. Una delle questioni centrali, da lui sollevata, era il rapporto dell’ateneo con l’episcopato italiano, che non era mai stato formalizzato e che si era sviluppato tramite i contatti personali di Gemelli, senza che ciò significasse la possibilità, per i vescovi, di influire con continuità sugli indirizzi della Cattolica. Montini aveva ben presente che il problema si sarebbe intersecato con quello della successione di Gemelli, rettore e al tempo stesso presidente del Toniolo, che a sua volta costituiva il perno del collegamento tra l’ateneo e la Santa Sede. Il francescano e con lui i rettori Vito e Franceschini, che lo sostituirono, pensavano infatti a un’Università la cui qualificazione cattolica doveva trovare garanzie nel rapporto con la Sede apostolica, senza che una decisa presenza episcopale la caratterizzasse in senso troppo ecclesiastico, perché l’ateneo doveva continuare a essere libero e laico, dotato di compiti rilevanti in funzione del contributo che poteva dare al paese. Alla vigilia della morte di Gemelli, Montini era nominato rappresentante della Santa Sede nel Toniolo, una designazione che gli permetteva di intervenire nella formazione dei nuovi quadri direttivi, con l’obiettivo di evitare, tra l’altro, che le decisioni più importanti fossero appannaggio esclusivo del piccolo gruppo di persone che aveva affiancato il rettore negli ultimi anni e che apparteneva al sodalizio dei Missionari della regalità di Cristo46.

La scomparsa di Gemelli faceva affiorare molte questioni lasciate aperte, rispetto alle quali le gerarchie ecclesiastiche si ponevano il problema di un controllo e di un coordinamento, nel momento in cui l’ateneo non aveva più una guida inattaccabile e rischiava di perdere l’affidabilità dottrinale che il francescano, tra luci e ombre, aveva assicurato47. E ciò, proprio mentre gli organi direttivi, i docenti e gli studenti si interrogavano sul significato di un’università confessionale. La scelta del successore di Gemelli implicava infatti un’opzione sulle direttrici di sviluppo dell’ateneo cattolico e sulla sua funzione nel panorama culturale italiano. Decidere per un collaboratore del primo rettore, come Vito e poi Franceschini, significava non soltanto salvaguardare la continuità ai vertici della Cattolica, ma riproporre il progetto coltivato daGemelli, che con il rettorato di Vito conseguiva l’antica aspirazione del padre fondatore, vale a dire la facoltà di Medicina e chirurgia non a Milano, ma nella capitale, una facoltà che doveva sviluppare il rapporto fra fede e cultura nella direzione delle scienze mediche che avevano presieduto alla formazione di Gemelli e che, nel suo disegno, costituivano un traguardo irrinunciabile. Gli sforzi maggiori del rettorato di Vito si concentravano sul rafforzamento del respiro internazionale della vita accademica e sulla fondazione della facoltà di Medicina. Si trattava di una scelta impegnativa, che si doveva confrontare con punti di vista non altrettanto convinti dell’opportunità di puntare su questo settore di studi. L’impegno economico richiesto dalla facoltà e dal Policlinico ad alcuni sembrava eccessivo e per di più limitante l’ampliamento dell’offerta formativa delle facoltà milanesi. Alcuni docenti impegnati nelle facoltà umanistiche erano appunto su questa posizione, che andava a intersecarsi con la richiesta di ridiscutere la questione della facoltà di Teologia. Quest’ultima, in realtà, incontrava ostacoli non diversi da quelli con cui si era scontrata ai tempi di Gemelli, a cominciare dall’indisponibilità della Curia e del Seminario a permettere che l’ateneo di piazza S. Ambrogio se ne dotasse48. E tuttavia il problema veniva ancora sollevato dentro e fuori l’Università Cattolica, avendo a che fare con la precisazione della natura dell’ateneo dei cattolici italiani.

Il dibattito, destinato a crescere, trovava dunque alimento sia nel problema della gestione patrimoniale dell’ateneo, sia nella domanda sul suo progetto formativo e sul significato della configurazione confessionale. Era in gioco il modello di Università Cattolica, un modello che, a seconda delle prospettive, implicava direzioni di crescita differenti e doveva fare i conti con un contesto sociale ed ecclesiale in movimento. In effetti, i cambiamenti subentrati con la stagione conciliare e con le trasformazioni degli anni Sessanta mettevano in discussione il profilo dell’ateneo, favorendo le discussioni sul suo statuto, che risaliva agli anni Venti e non sembrava più adeguato né alla realtà italiana, né alla Chiesa del concilio49. Com’è noto, nella seconda metà del decennio la Cattolica fu coinvolta dalla contestazione studentesca, di cui anzi fu vera e propria fucina e luogo di progettazione e che, al suo interno, fu anticipata dalle agitazioni del 1962-1963 e prese avvio nell’autunno del 1967, per continuare anche dopo il 1970. Per capire il lungo Sessantotto dell’ateneo cattolico occorre allora non ridurlo a mera esplosione di malcontento giovanile, innervato dalle richieste sindacali degli organismi rappresentativi studenteschi50. Le istanze avanzate dagli studenti sottintendevano gli interrogativi che si erano riproposti sul finire degli anni Cinquanta e che si saldavano, nel decennio successivo, con le urgenze sollevate dal concilio, ancor più incalzanti per il fatto che alla presidenza del Toniolo vi era il consigliere teologico di Paolo VI, vale a dire monsignor Carlo Colombo.

Nella genesi della contestazione di cui si resero protagonisti i giovani della Cattolica si scorgono punti sorgivi profondi, debitori di tensioni ideologiche da tempo interiorizzate sotto l’egida del Sacro Cuore e collegati alla cattolicità dell’ateneo, che fungeva da elemento necessario al montare della contestazione, sia pure in un confronto polemico che ne metteva in forse il senso e la durata. L’incidenza di questi fattori impedisce di interpretare la contestazione della Cattolica solo come fenomeno di ribellione all’insensibilità delle autorità accademiche verso le richieste di studenti che intendevano tutelare il diritto allo studio, comportando invece quesiti più radicali, che scaturivano dalla natura dell’ateneo in un momento di metamorfosi e di rinnovamento del quadro dirigente. Ai tempi diGemelli le cose erano andate diversamente, e forse non solo perché il padre fondatore era dotato di indubitabili doti di comando e gli studenti erano più malleabili. Certo, il francescano aveva funzionato da argine per eventuali propositi contestativi, grazie al pugno di ferro con cui aveva governato l’ateneo e all’alone carismatico che lo accompagnava, nonostante la fama di rettore autoritario che si era guadagnato nel mondo degli adulti. Agli occhi di molti studenti tale nomea non aveva offuscato il rispetto per ‘il Padre’ credibile e dunque non rifiutato, che era simbolo vivente di un progetto educativo dalle molte ambizioni, fatto per piacere all’intransigenza dei più giovani che ne attendevano un aiuto alla maturazione personale e l’innervazione nel tessuto sociale. Proprio la dimensione sociale, che contrassegnava diversi settori dell’offerta formativa, si era guadagnata l’attenzione di alcuni degli studenti intellettualmente più vivaci e politicamente più sensibili, che avevano dato vita al giornale studentesco «Dialoghi» e che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, esigevano che la formazione ricevuta si traducesse in un progetto di trasformazione complessivo, di cui i laureati della Cattolica dovevano essere elementi trainanti. All’inizio del secolo l’urgenza di abbattere l’Italia borghese del giolittismo; cinquant’anni dopo la volontà di determinare nuovi modi di convivenza civile, affrancati dal «putridume ideologico» che era rimproverato alla borghesia italiana51: si può scorgere una sorta di lunga durata tra le premesse contestatarie che avevano guidatoGemelli nella creazione dell’ateneo e la necessità, che animava i suoi giovani, di rifondare la cultura politica del paese sulla base di ragioni di organicità e di sensibilità sociale. La riforma dei piani di studio, tante volte invocata, presupponeva un’analisi dei bisogni della società del dopoguerra, per dotare i laureati delle competenze che erano indispensabili a farne attenti indagatori delle dinamiche sociali. Non per niente, «Dialoghi» faceva emergere i problemi formativi nel paragone con il contesto sociale, sottolineando la necessità di programmare lo sviluppo. L’autonomia, di cui l’ateneo doveva godere, legittimava variazioni anche sensibili della formazione impartita, in modo che la Cattolica divenisse un punto di riferimento per la riforma universitaria.

Le tensioni accumulate durante il rettorato di Vito si riferivano appunto a questo ordine di problemi: gli studenti rimproveravano alle autorità accademiche di aver sottostimato la consapevolezza ‘ideologica’ del fine da raggiungere e di non aver saputo sfruttare la posizione di università libera per prendere le distanze dall’impostazione formativa delle università statali. Il rafforzamento del profilo politico dell’organismo rappresentativo studentesco implicava una serie di richieste, da una maggior libertà nei piani di studio all’introduzione di insegnamenti adatti alle problematiche contemporanee, richieste poi sviluppate dal Sessantotto nel senso della democrazia assembleare52. Le difficoltà crescenti nei rapporti con i vertici accademici si dovevano alla progressiva politicizzazione del discorso dell’Interfacoltà, che esigeva dall’ateneo, proprio perché cattolico, una caratterizzazione ideologica marcata, non aliena da un deciso orientamento antiborghese. «Dialoghi» faceva propri alcuni paradigmi interpretativi applicati dalla cultura di sinistra al tardivo sviluppo italiano, al colonialismo e alla situazione internazionale, istituendo una convergenza necessaria tra l’ispirazione religiosa e la formazione di una classe dirigente capace di farsi carico di una precisa responsabilità sociale. Del progetto da cui l’ateneo era scaturito ora, dunque, si chiedeva conto, nella convinzione – esplicitata soprattutto a partire dal 1962 – di una sua ‘limitata capacità’ di adempiere alla funzione per cui era nato. Gli studenti risalivano al disegno gemelliano e al suo proposito di combattere la separazione tra religione e vita civile; e lo riproponevano con una terminologia rinnovata dalla temperie conciliare, che però ne recepiva il messaggio della ‘santificazione nel temporale’. L’Università Cattolica – affermava Gigi Ruggiu, presidente dell’Organismo rappresentativo – «si inserisce infatti in quella energica presa di coscienza del laicato cattolico italiano in ordine alle sue responsabilità nel campo del temporale»53. «Sbloccare la situazione del laicato cattolico», per impegnarlo con i «temi più drammatici e urgenti del nostro tempo», diventava insomma l’obiettivo, che risentiva del concilio, sebbene il «problema dell’autonomia del laicato» fosse letto a partire dall’istanza che i laici si facessero carico di compiti sociali rilevanti54.

La riscoperta delle origini ideologiche dell’ateneo si intersecava dunque con le richieste di ammodernamento, perché – come qualche docente assicurava agli studenti degli anni Sessanta – le caratteristiche personali del primo rettore erano coincise con la ‘creatura’ universitaria ma, mancato Gemelli, erano irripetibili, e quindi una transizione si imponeva. Proprio in questo periodo nel dibattito alimentato in Cattolica si nota una tonalità nuova, che corrisponde a un canone interpretativo di lungo periodo, la cui impronta emerge a tratti nel giornale dell’Orsuc. Questo canone, che è stato utilizzato anche in sede storiografica, distingue due fasi nella vita della Cattolica, la prima, ‘apologetico-polemica’, corrispondente ai decenni iniziali e volta a difendere i valori religiosi in opposizione alla cultura moderna, fase che sembrava giustificarsi per via dell’anticlericalismo della cultura italiana, ma che denotava integrismo e che solo sporadicamente pareva aver prodotto una cultura cattolica; la seconda, quella degli anni Sessanta, ‘tecnico-scientifica’, che puntava alla preparazione professionale e all’espansione quantitativa, ma che faceva passare in secondo piano la sfida qualitativa dell’ateneo, vale a dire l’«elaborazione […] ideologica dei principi ispiratori» che doveva «influire sullo sviluppo della società». Il programma di questa seconda fase sembrava non corrispondere alle premesse massimaliste da cui si era partiti. Occorreva svolgere la prospettiva ideologica originaria, innestando i valori religiosi sul tronco della cultura moderna, la quale, in caso contrario, sarebbe annegata nella palude del benessere e del tecnicismo. Che si trattasse di un’impostazione piuttosto intransigente lo dimostra la polemica contro la ‘coesistenza pacifica delle dottrine’ entro l’ateneo, vale a dire le estrazioni culturali diverse dei professori, che impedivano la formazione di un corpo docente coeso e uniforme55. L’urgenza di ridefinire i caratteri dell’ateneo cattolico alimentava uno dei problemi che aveva connotato la vita accademica sin dal 1921, vale a dire la difficile coniugazione di due fattori, il pluralismo di prospettive, da una parte, e la necessità che la Cattolica elaborasse una propria linea culturale, dall’altra56. Notevoli, insomma, i quesiti tenuti vivi da una nuova generazione di studenti che ora sperava nella mobilitazione della base, dove per ‘base’ si intendeva la convergenza di studenti, assistenti e professori che interpretavano in un certo modo l’identità dell’ateneo.

Soprattutto a partire dal 1966, con la nomina del ‘rettore della Resistenza’, si può parlare per la Cattolica di ‘movimento studentesco’. Franceschini indubbiamente vi contribuiva57. Vasta l’eco delle linee programmatiche da lui rese note in apertura del mandato, valutate, sia pure con qualche distinguo, un punto fermo da cui ripartire, perché accennavano all’opportunità di voltare pagina, per trasformare l’ateneo nell’«Università del Concilio»58. In realtà il programma di Franceschini si rivelava una sorta di grimaldello che, messo in mano ai gruppi più critici di studenti e assistenti, era adoperato per aprire porte ancora chiuse. La libertà concessa alla rappresentanza, se favoriva un clima inizialmente meno teso, permetteva lo sviluppo del movimento studentesco e il rafforzamento del fronte della protesta. In quest’ultimo maturava una specie di bipartizione. Da un lato vi era chi intravedeva nella politica di espansione, non rinnegata dal rettore, il rischio del temporalismo e nella commistione fra discipline profane e patrimonio religioso, adombrata quando aveva affidato all’ateneo la riflessione sui nodi dibattuti in concilio, quelli dell’integrismo. Dal concilio si traeva anzi la convinzione che fosse necessario rimettere in discussione l’utilità di un ateneo cattolico articolato nelle facoltà tradizionali: più funzionale una riforma radicale che, tenendo conto di suggerimenti in arrivo d’oltralpe, portasse alla costituzione di centri di studio imperniati sulle discipline teologiche, la filosofia e le scienze religiose e organizzati non come «opere della Chiesa» – definizione del rettore –, bensì come cellule ‘di base’ autonome dalla gerarchia59. Il richiamo era ai ben noti contributi di Jacques Leclercq, professore emerito a Lovanio, persuaso che la dottrina della Chiesa non potesse risolversi in una «visione del mondo propria dei cristiani» e che occorresse distinguere gli studi scientifici rilevanti per l’elaborazione teologica e la pastorale, da affidare ad appositi istituti, e gli ‘studi temporali’ appesantiti dal compito di garantire la formazione professionale, da lasciare alla sfera pubblica60. Della preparazione professionale si avallava una visione intrisa di tecnicismo ed economicismo non componibile con le aspirazioni di chi, dell’Università, voleva fare il luogo della ricezione consapevole del dettato conciliare, in vista della precisazione di coordinate teologiche che non costituissero un corpus dottrinale rigido, ma che fossero pur sempre il punto di riferimento per la risoluzione di problemi che nel temporale si erano sviluppati e che si complicavano nel rapporto con le trasformazioni contemporanee. Proprio per questo alcuni ritenevano che la direttrice fosse quella, da una parte, della diaspora, e, dall’altra, della conversione dell’Università in un centro specializzato in scienze religiose e aperto alle discipline profane che si prestassero come loro supporto.

Altri sviluppavano il programma di Franceschini in direzione diversa. Era il caso della Giunta dell’Orsuc guidata da Mario Napoli, che traduceva la questione della qualifica cattolica nella domanda sulle «funzioni dell’Università nella società civile». Questo versante della contestazione palesava un’impostazione meno rivolta ai dibattiti cattolici e più sensibile alle esigenze di modernizzazione. Si trattava di un punto di vista più politico, teso ad affrettare le ‘riforme di struttura’. All’università, ente intermedio nell’orizzonte pluralistico costituito da una molteplicità di forze sociali, spettava il compito di contribuire a determinare i ‘fini storico-civili’ verso i quali si sarebbe indirizzato lo sviluppo. Da ripensare, insomma, il rapporto fra università e società, perché la prima non doveva fungere da strumento nelle mani della seconda, a fini di conservazione sociale. Un discorso, questo, che sembrava ancor più valido per un ateneo libero, la cui sopravvivenza non era messa in discussione, a patto che la sua autonomia divenisse operante nei confronti, appunto, del potere politico ed economico. L’antica battaglia per la libertà diventava una carta da giocare nella lotta per lo sdoganamento della formazione universitaria dai pedaggi che l’avevano condannata al rispetto degli equilibri di potere. Ancora una volta si ripartiva dal rifiuto degli assetti correnti, nel tentativo di fare dell’università libera il faro di una strategia tesa alla trasformazione sociale, in forza della convinzione che l’autonomia presupponesse la possibilità di programmare una liberazione ad ampio spettro, ben più di quanto era permesso ad atenei che dipendevano dallo Stato, il quale – si pensava – era l’espressione giuridico-politica degli apparati da contestare. A metà degli anni Sessanta, tuttavia, ‘elaborare autonomamente cultura’ significava superare anche i controlli ecclesiali, che parevano inadeguati a un organismo deputato, sì, ad incarnare i temi conciliari, ma per dar loro sostanza nei campi opinabili della ricerca e della progettazione. Questo il programma dell’Orsuc, con tutto un contorno di richieste sulla ristrutturazione degli organi di governo dell’ateneo e sull’abolizione dei corsi di dottrina e morale61.

Franceschini si trovava così impegnato in un continuo contraddittorio con gli studenti, che lo contestavano perché il suo programma non affrontava, con la radicalità auspicata, le lacune della struttura universitaria e perché sembrava non avere il coraggio di trarre fino in fondo le conseguenze deducibili dalle sue linee programmatiche. Queste critiche erano avanzate con una carica di intransigenza sollecitata dai dibattiti cattolici del periodo e dai disagi provocati dalla massificazione degli atenei. Si trattava ora – per i giovani coinvolti in queste discussioni – di propiziare l’iniziazione ideologico-politica degli studenti con lo strumento assembleare, superando le abitudini verticistiche che avevano affidato la riflessione sull’università a piccoli gruppi, con la creazione di ‘strutture di base’ anticipatrici delle ‘forme su cui portare il sistema civile del paese’. Gli atenei italiani, forti di un’ampia partecipazione alla gestione delle proprie dinamiche interne, avrebbero veicolato modelli alternativi di convivenza62, raggiungendo un duplice obiettivo, quello di interiorizzare la cultura in giovani implicati in prima persona nella valutazione critica degli strumenti conoscitivi che avevano a disposizione, e quello, solo apparentemente incongruente, di socializzarla, facendone il luogo di identificazione delle finalità che la società doveva prefiggersi.

Il dibattito che preludeva all’occupazione dell’ateneo, iniziata nell’autunno del 1967 e poi ripresa più avanti, conferma che la lotta degli studenti della Cattolica era combattuta in nome non soltanto di istanze di liberazione individuale, ma di un progetto sociale che – come scriveva Mario Capanna – contestava l’erudizione e il nozionismo come frutti di «una concezione evasiva della cultura, avulsa del tutto da ogni impegno civile». A fare da spartiacque rispetto al passato vi era la sfiducia per le vecchie bandiere e gli ‘scudi’ usuali. La politica universitaria avrebbe dovuto abituare ad ‘azioni autonome’ che, al di fuori degli schemi partitici, producessero una «nuova ideologia più storicizzata e scientifica»63. Tali propositi si rafforzavano per la convinzione che l’ateneo fosse venuto meno alle aspettative di chi l’aveva fondato: gli studenti, difatti, insorgevano perché l’Università Cattolica si era adeguata agli standard formativi degli atenei di Stato, invece di accentuare le peculiarità del progetto culturale che l’aveva originata. Di quel progetto, naturalmente, non si apprezzava la tensione apologetica; tuttavia si riteneva che un elemento non marginale fosse irrinunciabile, vale a dire la volontà di abilitare i laureati a farsi carico delle ansie di riforma sociale, in modo che la modernizzazione non coincidesse con il mantenimento degli assetti di potere. Tale obiettivo richiedeva un impianto didattico innovativo, che l’Università degli anni Sessanta non era in grado di fornire. Ancora nel 1967 si ribadiva che l’ateneo, nelle intenzioni di Gemelli, doveva essere un’«officina di elaborazioni di idee, di dottrine, di applicazioni scientifiche»64. Era insomma la perdita di specificità a sollecitare la protesta degli studenti, che nelle carenze didattiche scorgevano la riprova del fallimento di quello che reputavano il compito dell’ateneo. Forse, ancor più che all’aumento delle tasse universitarie, è a questa sorta di disillusione che occorre risalire per capire l’ondata contestataria della fine degli anni Sessanta. L’aumento delle tasse amplificava il grado di conflittualità non solo perché interferiva con il diritto allo studio, ma perché sembrava confermare che le analisi sulla crisi identitaria dell’ateneo non erano sbagliate: la Cattolica non doveva essere paga di formare una ristretta frangia di giovani appartenenti a famiglie benestanti; al contrario, doveva mantenere un carattere pubblico spiccato, per la capacità di attirare studenti di tutti i ceti sociali, non esclusi coloro che versavano in una situazione economica disagiata, e per la prospettiva che la indirizzava ad incidere durevolmente sui destini del paese.

Il movimento della Cattolica diventava un punto di riferimento della contestazione studentesca. Per capirne le ragioni si può ricorrere al ‘libro bianco’ preparato da alcuni studenti e assistenti, che ne ricostruisce gli eventi. La contestazione – vi si legge – nasceva dal fatto che, dopo il 1948, in un contesto che non richiedeva più attitudini alternative al ceto dirigente cattolico, ma solo la formazione di quadri da immettere in un sistema politico consolidato, si erano smarriti gli obiettivi utopici di partenza. Proprio per questo gli studenti mettevano in dubbio la cattolicità dell’istituzione, sulla base dell’identificazione tra l’ispirazione religiosa e una progettualità politica che doveva partire dalla critica degli equilibri sociali65. Il mancato compimento delle promesse dei padri, spesso evocato a proposito della contestazione, per una sezione non troppo esigua del fronte contestativo si declinava nella volontà di realizzare le premesse ideologiche che erano implicite nel progetto di cristianizzazione delle strutture ventilato, ben prima che dalla generazione del Sessantotto, dalla sinergia di forze che aveva trovato un fertile habitat di maturazione nell’Università di Gemelli. Da qui era partito il massimalismo dell’‘anima cristiana’ della nazione, che si era sviluppato nella lotta antiliberale alimentata dalle riflessioni degli anni Trenta e poi rafforzata nel momento costituente. Qui il 18 aprile era stato percepito come manifestazione di un’adesione opportunistica al fronte, più che cattolico, anticomunista, e di una tendenza moderata insufficiente alla propria utopia sociale. Qui uomini come La Pira e Dossetti avevano trovato un importante appoggio nel rettore francescano e avevano riscosso la simpatia di docenti e studenti. Qui il centro-sinistra era stato auspicato in anticipo ed era stato avallato dagli studenti fino a quando era durata l’aspettativa che desse luogo a un ampio quadro di riforme. Qui, da ultimo, sia pure nel passaggio a una generazione di giovani molto diversa da quelle precedenti, si tiravano le conseguenze delle speranze palingenetiche centrali nel progetto che aveva dato vita all’ateneo e che ora si imponevano per una definitiva resa di conti, quasi che la sussistenza di un’università confessionale si legittimasse solo con la sua capacità di far rivivere, attraverso nuove modalità, le premesse utopiche che ne innervavano la prospettiva educativa.

La ricezione del concilio si inseriva nel processo che aveva messo alla prova l’ipotesi originaria e incrementava il bisogno di radicalità che le era connaturale e che adesso riaffiorava, per le sollecitazioni degli anni Sessanta. Ne usciva rafforzata la domanda su che cosa volesse dire «per la nostra Università l’esser cattolica», una domanda che per molti implicava la volontà di puntare su una riqualificazione dell’ateneo comprendente l’incremento delle discipline teologiche, ma per potenziare finalità di «impegno civile»66. Su questa strada si reperiva un terreno di lotta comune con il movimento studentesco, perché la Cattolica, erede di una storia segnata dall’intenzione di progettare un’alternativa di sistema, doveva contribuire alla definizione di una preparazione universitaria tesa alla trasformazione sociale. La rivendicazione della libertà del cristiano nelle scelte politiche, avanzata in nome del rinnovamento cattolico, favoriva la saldatura tra l’impegno culturale dei cattolici e la lotta contro le ‘strutture di sfruttamento’. Libertà e partecipazione, insomma, subordinate alla coniugazione di cristianesimo e anticapitalismo e allo stemperamento dell’ispirazione religiosa entro i confini di un progetto politico. L’ideologismo del 1968 cattolico aveva precedenti solidi e prolungati, che ora erano sottoposti a verifica attraverso un’inedita koinè rivoluzionaria, la quale suscitava sentimenti contrastanti nella leadership accademica, pervasa da attrazione e sconcerto, ammirazione per giovani che ‘ci credevano’ e timore che una ‘fede’ di tal fatta si tramutasse nello scardinamento dell’opera educativa prodotta dai cattolici italiani e nella sua consegna a forze incontrollabili, indirizzate, per una sorta di eterogenesi dei fini, a mettere in non cale sia la confessionalità dell’ateneo, sia le regole democratiche della convivenza civile67.

Le autorità accademiche credevano comunque che la qualificazione cattolica dell’ateneo non potesse prescindere dal legame con la gerarchia ecclesiastica. Si pronunciavano in questo senso sia Carlo Colombo, sia Franceschini e, con lui, il rettore cui fu affidata la normalizzazione dell’Università del Sacro Cuore, vale a dire Giuseppe Lazzati, la cui nomina si doveva anche al sostegno di papa Montini68. In coincidenza con la designazione del nuovo rettore, nell’estate del Sessantotto, la Cei istituiva un Comitato di vescovi con l’incarico di seguire le vicende dell’Università Cattolica. Ne facevano parte il cardinale Michele Pellegrino e i vescovi Enrico Bartoletti, Antonio Zama, Giuseppe Amici ed Enea Selis. Iniziava così una più stretta collaborazione dell’ateneo con la Chiesa italiana69. Non venivano meno, tuttavia, le ragioni che avevano appesantito la gestione patrimoniale e amministrativa della Cattolica, e soprattutto le gravi difficoltà finanziarie, il cui peso ricadeva sul segretario di amministrazione e poi direttore amministrativo Giancarlo Brasca. E neppure si potevano dire risolti i problemi dell’inadeguatezza di alcune strutture e dell’insufficienza del personale docente, specie di assistenti e professori incaricati, il cui costo era superiore alle possibilità di bilancio. Lo sviluppo dell’ateneo era frenato, del resto, dal disorientamento del mondo cattolico, che si palesava nel forte calo delle offerte raccolte nella giornata universitaria, sintomo dell’isolamento dell’Università dalla comunità ecclesiale e delle preoccupazioni di quest’ultima per le derive della contestazione cattolica. Le molte proposte elaborate negli ambiti del sindacato, della politica economica, delle istituzioni pubbliche, degli enti locali e delle riforme degli studi universitari non evitavano all’ateneo critiche e prese di distanza, che si esprimevano nell’accusa di non offrire alla cristianità italiana un valido supporto culturale. Vi era anche chi sposava le tesi del dissenso cattolico individuando nell’ateneo del Sacro Cuore uno dei baluardi del tradizionalismo, chi biasimava il suo rettore perché non teneva fede alle promesse di cambiamento fatte in apertura del mandato e chi, ancora, esortava la Cattolica, che si inoltrava negli anni Settanta, a rinascere come luogo di Chiesa70.

Nel 1969 era stato istituito il Dipartimento di Scienze religiose, il primo in ordine di tempo, che per Lazzati si poneva come una prefigurazione della facoltà di Teologia, sebbene il presidente del Toniolo Carlo Colombo fosse ostile a questa prospettiva, giudicando la Cattolica degli anni della contestazione non abbastanza fornita delle garanzie dottrinali e spirituali che sarebbero state necessarie al buon funzionamento della facoltà71. Una consulta rettorale, animata dal prorettore Mario Romani, portava avanti contestualmente un lavoro di riflessione, in vista della riforma dello statuto e di una più ampia partecipazione al governo dell’ateneo. Nel 1970, di concerto con il Comitato di vescovi per la Cattolica, la consulta elaborava alcuni documenti che tracciavano il programma per il futuro dell’Università, sottolineando l’opportunità di una più intensa comunione con la Chiesa, del rinnovamento del Toniolo, perché fosse espressione della cattolicità italiana, e di una riflessione sul rapporto fra scienze umane e rivelazione cristiana, compito che sembrava prioritario per l’ateneo cattolico72. Gli anni del rettorato di Lazzati ribadivano dunque le finalità da perseguire, individuandole nella ricerca scientifica, nella preparazione culturale e professionale e nella formazione permanente. La cattolicità dell’ateneo per il rettore si doveva estrinsecare nella connessione tra fede e scienza, pur nella distinzione di piani e di metodi. Lazzati riaffermava la «validità di un’Università che si qualificasse e si facesse riconoscere come cattolica», trovandone le ragioni nella necessità di approfondire il rapporto fra verità rivelata e conoscenza scientifica e nella missione di «dare alla società civile e alla chiesa uomini che facciano unità» tra valori scientifici e valori soprannaturali. Contrario alla politicizzazione delle università,Lazzati mirava a un «aggiornamento controllato»73, non evitando metodi fermi, se pur prudenti, per far fronte alla crisi dell’ateneo. Il rettore puntava altresì a dare nuovo impulso all’Università Cattolica procurandole un più stretto legame con la società italiana, attraverso la creazione di centri di cultura in diverse città. Gli annuali corsi di aggiornamento si ponevano poi come momenti di discussione delle trasformazioni in atto, per favorire la declinazione delle ricerche scientifiche in proposte culturali utili alla collettività. Si procedeva inoltre alla riorganizzazione dell’editrice Vita e Pensiero, sperando che potesse essere, come ai tempi di Gemelli, lo strumento per far sentire la voce della Cattolica sulle tematiche più dibattute74.

La gestione di Lazzati, nondimeno, non era apprezzata da tutti i soggetti accademici ed ecclesiali. Il comportamento tenuto dal rettore verso gli episodi più gravi della contestazione, per alcuni troppo debole, l’orientamento favorevole a rafforzare le responsabilità dei vertici accademici, con un ridimensionamento del ruolo del Toniolo, e lo spazio che le iniziative culturali promosse daLazzati lasciavano a tesi e a esponenti della sinistra cattolica destavano preoccupazioni presso gli ambienti ecclesiastici romani e milanesi. Tali perplessità erano condivise da un gruppo di professori delle facoltà di Lettere, Scienze politiche e Magistero, fra i quali vi era Pietro Zerbi, vicino al cardinale di Milano Giovanni Colombo e al sostituto alla Segreteria di Stato Giovanni Benelli. Proprio da questo gruppo emerse una linea alternativa alla conduzione lazzatiana, che si espresse in più occasioni, sino alla sostituzione di Lazzati con Adriano Bausola, divenuto rettore nel 1983 con il sostegno esplicito delle autorità vaticane75.

Note

1 N. Raponi, s.v. Università Cattolica, in DSMC, I, 1, I fatti e le idee, 1981, pp. 264-272; Id., Toniolo e la preistoria dell’Università Cattolica, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 20, 1985, 2, pp. 248-282; Id., Le origini e la preparazione. L’idea e il progetto di Università Cattolica tra Ottocento e Novecento, in L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione. Riflessioni sul passato e prospettive per il futuro, Atti del 65° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica (Milano, 1997), Milano 1998, pp. 25-47.

2 Per Gemelli si può vedere G. Cosmacini, Gemelli, Milano 1985, una biografia costruita con toni quasi romanzati. Notizie sintetiche sono in N. Raponi, s.v. Gemelli Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LIII, Roma 1999, pp. 26-36.

3 N. Raponi, Le origini e la preparazione, cit., pp. 25 segg., al quale si rimanda per le riflessioni degli studiosi italiani presenti a Friburgo. Tra questi ultimi è opportuno ricordare Ratti, che da pontefice dimostrò una vicinanza importante all’impresa culturale di Gemelli, e Toniolo, che sul letto di morte gli affidò il compito di realizzare l’Università Cattolica.

4 Lo testimonia una lettera di Arturo Carlo Jemolo spedita a Gemelli il 7 dicembre 1949. Per la sinergia operata da Gemelli fra medievalismo e ansie di svecchiamento culturale, cfr. M. Bocci, Gemelli, medievalismo e modernità. Un progetto per l’Italia, in Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, VI, Agostino Gemelli e il suo tempo, a cura di M. Bocci, Milano 2009, pp. 29-66; A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del dopoguerra, Milano 1982, pp. 91 segg.

5 Nel periodo degli studi di teologia, Gemelli aveva vissuto una specie di tentazione modernista. Cfr. Padre Gemelli e il modernismo, a cura di P. Albonetti, «Fonti e documenti», 2, 1973, pp. 620-669.

6 A. Gemelli, Medioevalismo, «Vita e pensiero», 1, 1914, 1, p. 6, e Id., Cultura è religione, ibidem, 5, 1919, 64, pp. 217-226.

7 M. Mangiagalli, La «Rivista di Filosofia neo-scolastica» (1909-1959), I, Il movimento neoscolastico e la fondazione della Rivista, II, La riflessione filosofica dalle pagine della Rivista, Milano 1991. Per la scelta francescana di Gemelli cfr. M. Bocci, Francescanesimo e medievalismo: padre Agostino Gemelli, in corso di stampa negli Atti del Convegno «San Francesco d’Italia» (Rieti 2009), e la bibliografia ivi citata.

8 Oltre alla «Rivista di filosofia neo-scolastica», fondata nel 1909, sono da ricordare la Società italiana per gli studi filosofici e psicologici (1913), la «Pro cultura» (un sodalizio finalizzato a sensibilizzare l’opinione cattolica su tematiche di un certo respiro) e la rivista «Vita e pensiero» (1914).

9 G. Rumi, Padre Gemelli e l’Università Cattolica tra storia e storiografia, in L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione, cit., pp. 49-50.

10 A. Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Milano 1917, pp. 23 segg. Un’analisi più ampia della posizione assunta dal gruppo gemelliano nei confronti della Prima guerra mondiale è in M. Bocci, Gemelli, cultura e antropologia per un nuovo italiano, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. Mozzarelli, Roma 2003, pp. 433-466.

11 Cfr. G. Rumi, Profilo culturale della diocesi ambrosiana fra le due guerre, in Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), Atti del quinto Convegno di storia della Chiesa, a cura di P. Pecorari, Milano 1979, pp. 330-332, e R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Roma 1980, pp. 201-210. Per un’altra interpretazione cfr. F. De Giorgi, Forme spirituali, forme simboliche, forme politiche. La devozione al S. Cuore, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 48, 1994, 2, pp. 365-459. Cfr. anche D. Menozzi, Sacro Cuore: un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Roma 2001.

12 G. Rumi, Il Cuore del Re. Spiritualità e progetto da Benedetto XV a Pio XI, in Id., Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, Torino 1995, pp. 23-38.

13 A. Gemelli, L’idea di patria, Milano 1916, pp. 4-13.

14 Id., Il nostro soldato, cit., p. 67.

15 A. Gemelli, F. Olgiati, Il programma del Partito Popolare Italiano. Come non è e come dovrebbe essere, Milano 1919, per il quale cfr. A. Majo, L’anima cristiana del Partito Popolare. Una polemica stimolante, Milano 1980.

16 A. Gemelli, Perché i cattolici italiani debbono avere una loro università, «Vita e pensiero», 5, 1919, 67, p. 362.

17 Per l’evoluzione del progetto, anche dal punto di vista del profilo ecclesiale e del riconoscimento giuridico, cfr. M. Bocci, L’Università Cattolica di Milano: il progetto di padre Gemelli, «Annali di storia moderna e contemporanea», 8, 2002, pp. 9-30.

18 Il significato dell’impresa di Gemelli nei suoi primi decenni di vita, nel contesto della Chiesa italiana e della più ampia vicenda civile dell’Italia unita, è sottolineato dai contributi di G. Rumi apparsi nel volume Milano cattolica nell’Italia unita, Milano 1983. Cfr. anche L. Mangoni, L’Università Cattolica del Sacro Cuore. Una risposta della cultura cattolica alla laicizzazione dell’insegnamento superiore, in St.It.Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, 1986, pp. 975-1014. Un quadro complessivo della storiografia, da integrare con le acquisizioni successive, è in M. Truffelli, L’Università Cattolica del Sacro Cuore nella storiografia italiana, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 50, 1996, 2, pp. 434-488. Le caratteristiche dell’ateneo possono essere ricostruite attraverso la Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, di cui sono usciti alcuni volumi per i tipi di Vita e Pensiero: I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22 - 1997/98, a cura di A. Cova, I, Milano 2007; M. Bocci, L’Università Cattolica nelle carte degli archivi, II, Milano 2008 (con un Repertorio degli studi e delle fonti a stampa, a cura di N. Martinelli, S. Riboldi); Agostino Gemelli e il suo tempo, a cura di M. Bocci, VI, Milano 2009. Il piano editoriale della Storia prevede anche i volumi terzo, quarto e quinto, dedicati al profilo giuridico-statutario, alla comunità didattica e scientifica e ai patrimoni dell’ateneo. Il secondo volume fornisce utili indicazioni sul patrimonio archivistico dell’Università Cattolica, riscoperto attraverso un censimento che ha fatto affiorare un substrato di relazioni e legami, intrecciati ben oltre i chiostri bramanteschi e le stesse sedi non milanesi dell’ateneo. Nonostante le perdite causate dai bombardamenti del 1943, tale complesso archivistico è notevole e rivela gangli e stratificazioni dell’organismo universitario, portati alla luce da sedimenti sovrapposti di carte, molti dei quali oggetto di acquisizione e recupero.

19 M. Bocci, Pio XI, padre Agostino Gemelli e la battaglia per la libertà dell’insegnamento, in Pio XI e il suo tempo. Terza edizione, Atti del Convegno (Desio 2004), a cura di F. Cajani, Desio 2004, pp. 55-85.

20 Discorso inaugurale del Magnifico Rettore Fr. Agostino Gemelli, O.F.M. (4 dicembre 1922), in I discorsi di inizio anno, a cura di A. Cova, cit., p. 34.

21 A. Gemelli, Idee e battaglie per la coltura cattolica, Milano 1932, pp. 83 segg.

22 L. Geronico, L’eredità di Giuseppe Toniolo. La Facoltà di Scienze sociali dell’Università Cattolica (1921-1924), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 29, 1994, 3, pp. 286-328; M. Lenoci, Le discipline filosofiche, in L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione, cit., pp. 73-144; L. Ornaghi, Le scienze socio-politiche, ibidem, pp. 279-294.

23 Ibidem, pp. 283-285, dove si cita dal discorso di Gemelli dell’8 dicembre 1949.

24 Si pensi al coinvolgimento di Giuseppe Zamboni nella facoltà di Filosofia, a dispetto dei dubbi che la sua impostazione didattica suscitava, già dal 1923, presso la Congregazione dei seminari e delle università degli studi, da cui l’ateneo di Gemelli dipendeva (M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia 2003, pp. 217-261).

25 Per un rimando più puntuale a questa missiva cfr. M. Bocci, Per la «trasformazione del nostro paese». L’Università cattolica negli anni della formazione di Fanfani, «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 48, 2008, 3, pp. 277-279.

26 La facoltà di Scienze sociali veniva disgiunta in due percorsi formativi, con la creazione della facoltà di Giurisprudenza e, nel 1926, della Scuola di scienze politiche, economiche e sociali, poi divenuta facoltà di Scienze politiche, economiche e commerciali (dal 1936 facoltà di Scienze politiche) abilitata a rilasciare anche la laurea in Economia e commercio. La facoltà di Filosofia diventava facoltà di Lettere e Filosofia. Alle facoltà si aggiungeva, dal 1923, l’Istituto superiore di Magistero «Maria Immacolata», divenuto nel 1936 facoltà di Magistero. Nel 1926 fu inaugurato l’Apostolico Istituto del Sacro Cuore di Castelnuovo Fogliani, dove funzionava una sezione staccata della facoltà di Magistero destinata a suore studenti.

27 Lettera citata in M. Bocci, Per la «trasformazione del nostro paese», cit., pp. 279-280. Il rapporto fra Università Cattolica e fascismo è stato ricostruito in Id., Agostino Gemelli rettore e francescano, cit.

28 A metà degli anni Venti vi erano otto serie di Pubblicazioni dell’Università Cattolica del S. Cuore. Alle riviste di volgarizzazione («Vita e pensiero», «Rivista del clero italiano», «Fiamma viva», «Bollettino degli amici dell’Università Cattolica») si affiancavano i periodici scientifici («Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», «Rivista di filosofia neo-scolastica», «Aevum», «Archivio italiano di psicologia»).

29 Archivio storico dell’Università Cattolica, Fondo Corrispondenza, busta 14, fascicolo 2, sottofascicolo 14, lettera di Gemelli indirizzata ai professori, datata 30 marzo 1923. Si ricorda che le fonti di finanziamento dell’ateneo venivano dalle offerte dei cattolici di ogni ceto sociale e di ogni parte del paese, raccolte soprattutto dalla Gioventù femminile di Azione cattolica che era guidata dalla «cassiera» dell’Università, nonché presidente della Gf, Armida Barelli. Nel 1921 fu creata l’associazione degli Amici dell’Università Cattolica. Pio XI istituì anche un’annuale giornata universitaria, finalizzata alla raccolta di fondi.

30 Si pensi all’Opera della regalità di Cristo, che promuoveva la consapevolezza liturgica di larghi strati della popolazione. Le sue pubblicazioni, dedicate a lettori impossibilitati ad affrontare lavori esegetici complessi, toccarono cifre considerevoli. Cfr. G. Rumi, «Il vero Rettore». Spiritualità del S. Cuore e Università Cattolica, in Id., Lombardia guelfa 1780-1980, Brescia 1988, pp. 197-211.

31 Cfr. M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano, cit., pp. 179-214.

32 «Adveniat!», giugno 1929, L’enciclica di S.S. Pio XI sulla regalità di G. Cristo, di A. Mazzotti.

33 A. Ferrari, La preparazione di una classe dirigente nella crisi economica e politica (1922-1945), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 30, 1995, 2, pp. 116-117.

34 A. Giovagnoli, La cultura democristiana. Tra Chiesa cattolica e identità italiana. 1918-1948, Roma-Bari 1991, pp. 81-87.

35 Per le riflessioni sullo «Stato nuovo» sviluppate in Cattolica cfr. M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Roma 1999 (specie alle pp. 139-160, 177-197, 326-333, cui si rimanda per le citazioni che seguono). Al medesimo volume si rimanda per le relazioni molteplici e significative tra le diverse generazioni di cattolici che operavano nell’ateneo, coinvolte in momenti formativi che hanno influito sul percorso culturale e spirituale di molti giovani cattolici cresciuti negli anni Trenta. Si pensi ad esempio al rapporto fra i padri fondatori (soprattutto Gemelli e Olgiati) e i cosiddetti ‘professorini’, da Fanfani a Dossetti, La Pira, Lazzati e altri ancora.

36 Per il rapporto fra la neoscolastica milanese e l’idealismo gentiliano cfr. ibidem, pp. 139-160, e M. Lenoci, Le discipline filosofiche, cit., pp. 100-114. Cfr. anche G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Roma-Bari 2006, pp. 58 segg.

37 A. Giovagnoli, La cultura democristiana, cit., p. 190. Le citazioni presenti nel testo provengono da lavori di Olgiati, Gemelli, Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Pio Bondioli, Luigi Bellini, Andrea Oddone, Francesco Vito, Antonio Amorth e Guido Gonella.

38 M. Bocci, Oltre lo Stato liberale, cit., pp. 197-230.

39 Ibidem, pp. 258-264, 287-326.

40 Il discorso del Magnifico Rettore S. Ecc. Fr. Agostino Gemelli, o.f.m. (7 dicembre 1946), in I discorsi di inizio anno, a cura di A. Cova, cit., p. 317.

41 Tra il 1947 e il 1961 presero avvio le facoltà di Economia e commercio, di Agraria (a Piacenza) e di Medicina e chirurgia. Nel 1965 fu aperta la sede di Brescia, con una sezione della facoltà di Magistero. Nel 1971, a Brescia, si aprì la facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. L’Istituto superiore di educazione fisica era attivo dal 1964-1965. Per la fondazione delle sedi di Piacenza e di Brescia, cfr. M Bocci, Alle origini della sede di Brescia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dalle carte dell’Archivio storico dell’Ateneo, «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 41, 2006, 2, pp. 246-299, id., Uomini e istituzioni alle origini della sede di Piacenza dell’Università Cattolica, ibidem, 43, 2008, 2, pp. 162-209.

42 P. Zerbi, L’Università Cattolica di fronte ai problemi degli anni Cinquanta e Sessanta, in L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione, cit., p. 59. Questi i rettori successivi a Gemelli: Francesco Vito (1959-1965), Ezio Franceschini (1965-1968), Giuseppe Lazzati (1968-1983), Adriano Bausola (1983-1998), Sergio Zaninelli (1998-2002), Lorenzo Ornaghi (dal 2002).

43 I docenti della Cattolica si interessarono specialmente ai lavori della prima e della terza sottocommissione costituente. Cfr. G. Campanini, Fede e politica. 1943-1951. La vicenda ideologica della sinistra d.c., Brescia 1976, pp. 102 segg.; P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana, Bologna 1979, pp. 223 segg.; M. Bocci, Oltre lo Stato liberale, cit., pp. 371-403. Per l’appuntamento del 18 aprile rimando a Id., La mobilitazione della cultura: il caso dell’Università Cattolica, in 18 aprile 1948. L’«anomalia» italiana, a cura di M. Invernizzi, Milano 2007, pp. 263-309.

44 Per il sostegno all’apertura a sinistra, ipotizzata da Carlo Colombo su «Vita e pensiero» nel 1953 e difesa da Gemelli che rispondeva agli addebiti di Montini, cfr. M. Bocci, Don Carlo Colombo e padre Agostino Gemelli: scienza, politica, teologia, in Mons. Carlo Colombo e l’Università Cattolica, a cura di L. Vaccaro, Brescia 2008, pp. 58-71.

45 Una prima ricostruzione del profilo dell’Istituto Toniolo è in L. Ornaghi, Mons. Carlo Colombo e l’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, in Mons. Carlo Colombo e l’Università Cattolica, cit., pp. 1-27.

46 M. Bocci, Giovanni Battista Montini e Padre Gemelli, «Notiziario» dell’Istituto Paolo VI, 2009, 58, pp. 81-102. Sia Vito sia Franceschini appartenevano al sodalizio dei Missionari della regalità. Per il peso dei Missionari nel governo dell’ateneo cfr. P. Zerbi, L’Università Cattolica di fronte ai problemi degli anni Cinquanta e Sessanta, cit., pp. 59-72.

47 La soluzione ideata da Montini fu quella di dividere la posizione del rettore (affidata a membri dell’Istituto secolare) da quella del presidente del Toniolo, per breve tempo Olgiati, sino alla sua morte, poi Montini stesso e, alla sua elevazione al soglio pontificio, Carlo Colombo.

48 M. Bocci, Don Carlo Colombo e padre Agostino Gemelli, cit., pp. 29-89; A. Bianchi, Gemelli e il riordino degli studi ecclesiastici superiori (1928-1934), in Agostino Gemelli e il suo tempo, a cura di M. Bocci, cit., pp. 173-209. Per Vito si veda Francesco Vito. Attualità di un economista politico, a cura di D. Parisi, C. Rotondi, Milano 2003. Per la sua concezione di università cfr. F. Vito, Università e società, Milano 1970.

49 Molti consideravano lo statuto della Cattolica inadeguato alle indicazioni conciliari sullo «spirito di corresponsabilità e di partecipazione» da alimentare nella vita della Chiesa (P. Zerbi, Ezio Franceschini, in Id., Incontri, ideali e dibattiti di una lunga vita, Milano 2004, p. 99).

50 Il Consiglio studentesco d’Interfacoltà era nato in Cattolica nel 1947/48. Nel 1949 aveva aderito all’Unuri, cui gli studenti dell’ateneo del Sacro Cuore diedero un contributo rilevante. A sostenere che le proteste degli studenti della Cattolica si dovevano a ragioni sindacali è Alberto De Bernardi, il quale aggiunge, tuttavia, che erano in gioco anche il controllo delle gerarchie religiose sulla formazione della classe dirigente cattolica e il quesito sulla capacità dell’ateneo di proporre un discorso culturale originale (Le componenti del Sessantotto a Milano, «Annali della fondazione Luigi Micheletti», 4, 1988-1989, nr. monografico dedicato a Il Sessantotto: l’evento e la storia, a cura di P.P. Poggio, pp. 277-282). Per un rimando più puntale ai lavori che si sono occupati della contestazione degli studenti della Cattolica e per un’analisi dei dibattiti che l’hanno preceduta cfr. M. Bocci, Un problema di identità? Alle origini della contestazione studentesca all’Università Cattolica, in Dal «centrismo» al Sessantotto, a cura di M. Invernizzi, P. Martinucci, Milano 2007, pp. 143-228, e N. Raponi, L’Università Cattolica e monsignor C. Colombo nelle riflessioni e nei dibattiti degli anni ’60, in Mons. Carlo Colombo e l’Università Cattolica, a cura di L. Vaccaro, cit., pp. 121-186.

51 «Dialoghi», marzo 1953, Intellettuali senza cultura, di C. Destefanis. «Dialoghi» è nato nel marzo 1953 come organo dell’Interfacoltà e poi dell’Organismo rappresentativo, apparendo sino al settembre 1967. In alcuni periodi, il mensile è stato una sorta di laboratorio politico, che ha analizzato le problematiche poi sottolineate dalle agitazioni successive.

52 Si ricorda anche la polemica sulla revisione degli articoli di «Dialoghi» da parte del consulente ecclesiastico. Nel 1963 Montini emanava le Norme relative alla nomina e alle funzioni dei consulenti ecclesiastici e degli assistenti ecclesiastici presso gli organismi e le associazioni operanti nell’Università Cattolica, per ribadire i criteri che dovevano regolare i rapporti fra rappresentanza studentesca e autorità accademiche.

53 «Dialoghi», febbraio-marzo 1962, La nostra Università è come tutte le altre?, di G. Ruggiu, e Constatazioni e propositi della nuova Giunta Esecutiva, di V. Bellavite.

54 Ibidem, maggio-giugno 1962, La fame nel mondo, di R. Brambilla.

55 Ibidem, La funzione dell’Università Cattolica in Italia, di G. Ruggiu.

56 Ibidem, Intervista con la prof. Sofia Vanni-Rovighi, a cura di G. Ruggiu, N. Nicolini; gennaio 1963, Intervista con i chiarissimi proff. Mazzocchi, Melchiorre e Pototschnig, intervista di G. Ruggiu pubblicata a cura di L. Novati.

57 Per il rettorato di Franceschini cfr. V. Peri, Profilo di un protagonista, in Per Ezio Franceschini nel centenario della nascita. Ricordi, lettere, profilo, a cura di M. Ferrari, P. Zerbi, Milano 2006, pp. 200 segg., e F. Minuto Peri, Ezio Franceschini. Note autobiografiche, memorie di amici, Milano 2009. Gli allora presidenti dell’Organismo rappresentativo della Cattolica concordano nel testimoniare la volontà del nuovo rettore di collaborare con gli studenti (A. Ghisalberti, Gli inizi del Rettorato, e M. Napoli, Con gli studenti prima del ’68, entrambi in F. Minuto Peri, Per Ezio Franceschini, cit., pp. 112-115, 116-122).

58 «Dialoghi», marzo 1966, Il programma del Rettore. Anche Franceschini individuava due fasi nella vita dell’ateneo, una prima – l’«Università del Concilio Vaticano I» – dalla fondazione al 1939, e una seconda, dal dopoguerra al rettorato Vito, incentrata sulla necessità di consolidare l’‘espansione accademica’. Per Franceschini si doveva continuare in questa direzione, perché l’Università non poteva essere «estranea a importanti settori delle attività professionali e pertanto non aderente all’intera superficie della vita civile». Tuttavia riteneva che la Cattolica dovesse anche essere «strumento della Chiesa di oggi per la cultura cristiana di oggi: deve diventare l’Università del Concilio Vaticano II, non solo portandone il clima nelle sue aule e fra i suoi studenti, ma soprattutto offrendosi alla Chiesa per la elaborazione, lo studio, la diffusione delle dottrine enucleate o indicate nei documenti del Concilio».

59 «Dialoghi», aprile 1966, Il posto degli studenti, di C. Rinaldi Tufi, che era direttore della rivista.

60 Ibidem, Prospettive a confronto, di G. Costa. Le considerazioni di Leclercq erano riprese da un’altra firma presente in «Dialoghi» tra il 1961 e il 1962, quella di Silvino Grussu, con il contributo L’Università Cattolica di Milano: appunti storici e questioni istituzionali pubblicato nella rivista di Wladimiro Dorigo «Questitalia» nell’ottobre 1965.

61 «Dialoghi», maggio 1966, Per la riforma dell’Università Cattolica.

62 Ibidem, Paolo Rossi: significato di una protesta, di M. Napoli, e novembre 1966, L’Università ente di programmazione, di L. Pero.

63 Ibidem, maggio 1966, Didattica della scuola secondaria, di M. Capanna, e I giovani per un impegno politico diverso dai modi tradizionali, di B. Carretta.

64 Ibidem, marzo 1967, Le difficoltà dei serali, di S. Militello.

65 Università Cattolica. Storia di tre occupazioni, repressioni e serrate, supplemento al nr. 3-4 del 1968 di «Relazioni sociali».

66 «Dialoghi», marzo 1967, Sei domande al Mons. Carlo Colombo sulla Facoltà Teologica Interregionale, a cura di L. Ferro, A. Tropea, e marzo 1967, Il salto qualitativo del M.S., di L. Ferro.

67 P. Zerbi, L’Università Cattolica di fronte ai problemi degli anni Cinquanta e Sessanta, cit., pp. 67-68.

68 Per il rettorato di Lazzati cfr. Lazzati Rettore dell’Università Cattolica, a cura di A. Oberti, Roma 2000 (Dossier Lazzati, 19), e M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005, pp. 717-785.

69 Solo con i nuovi statuti del 1996 la Cei ha ottenuto un organico e ufficiale inserimento nel Consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica, dove è presente con un suo rappresentante.

70 Si ricorda che tra il 1968 e il 1969 in Cattolica nasceva l’Assemblea di contestazione ecclesiale, che spostava la protesta del Movimento studentesco verso il dissenso cattolico. Nello stesso periodo, a partire dall’ateneo milanese si ricomponevano le fila di quella parte di Gioventù studentesca che, seguendo don Luigi Giussani, aveva preso le distanze dall’ideologismo e dai metodi della contestazione e che dava vita ai primi gruppi di Comunione e Liberazione.

71 Per una testimonianza cfr. R. Cantalamessa, Giuseppe Lazzati, la teologia e il Dipartimento di Scienze religiose, in Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, a cura di L.F. Pizzolato, Milano 2007, pp. 211-219. Cantalamessa è stato prima segretario e poi direttore del dipartimento di Scienze religiose. Le valutazioni di Colombo sono in M. Bocci, Don Carlo Colombo e padre Agostino Gemelli, cit., pp. 84-85. Colombo propendeva per la collaborazione tra l’Università Cattolica e la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, da lui stesso presieduta, al fine di migliorare l’insegnamento teologico proposto dall’ateneo.

72 P. Zerbi, Per una storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in id., Incontri, ideali, dibattiti, cit., pp. 508-510.

73 M. Malpensa, A. Parola, Lazzati, cit., pp. 725-727.

74 Cfr. L. Pazzaglia, L’idea di Università Cattolica nell’impegno culturale di Giuseppe Lazzati, e S. Zaninelli, Il disegno culturale di Giuseppe Lazzati nella formazione permanente e nei Corsi di aggiornamento, entrambi in Fede e cultura in Giuseppe Lazzati, cit., pp. 117-177, 203-210.

75 M. Malpensa, A. Parola, Lazzati, cit., pp. 749-755, 776-785.

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