L'uomo medievale

Enciclopedia dei ragazzi (2004)

L'uomo medievale

Chiara Frugoni

Il Medioevo

Medioevo è una parola formata da due vocaboli di origine latina e significa "età di mezzo". Per lungo tempo si è pensato che fosse un'età 'buia' compresa fra due età 'luminose': quella degli antichi Romani e quella del Rinascimento. Si pensava che a causa delle invasioni dei barbari il Medioevo fosse stato un periodo stagnante. Non è così, nel Medioevo sono avvenuti grandi cambiamenti.

Arrivano i barbari!

Il Medioevo è durato circa un millennio: dal 476 d.C. fino al 1492, quando fu scoperta l'America. Sono date che servono solo per capirsi: nella storia non c'è mai nessuna fine improvvisa e nessuna rinascita, ma solo una lenta e continua trasformazione. Nel 476 l'Impero Romano d'Occidente perse la sua forza e venne sopraffatto, oltre che da grandi difficoltà economiche e sociali, anche dall'arrivo di alcuni popoli germanici, che provenivano dal nord e dall'est dell'Europa in cerca di terre dove stabilirsi. I Romani, e prima di loro i Greci, chiamarono questi popoli barbari, che significa "coloro che balbettano", a indicare tutti gli stranieri che parlavano un linguaggio incomprensibile e che vivevano in modo diverso dal loro. I barbari si rovesciarono a valanga sull'Impero Romano e ne provocarono la fine. Le migrazioni dei popoli germanici durarono secoli e lentamente Germani e Romani si mescolarono. Da questa fusione nacquero altri popoli e altre lingue.

Alcune cose imparate dai barbari

Gli scrittori antichi parlano con orrore delle incursioni dei popoli germanici poiché essi arrivarono come invasori e distrussero paesi e città. Eppure queste popolazioni non portarono solo violenza e morte. I barbari ci hanno fatto imparare cose molto utili e alcune loro abitudini sono diventate le nostre, per esempio un certo modo di vestire: sono stati i Germani a insegnarci a usare abiti cuciti e aderenti come la camicia o i pantaloni che permettono di proteggersi meglio dal freddo e di muoversi con maggiore scioltezza. Nella lingua italiana, che deriva dal latino, sono rimaste tante parole di origine germanica, come birra, guerra, spaccare, arrosto, palla e staffa.

L'incontro con i Germani ha modificato anche le nostre abitudini alimentari: i Germani, grandi allevatori di suini, producevano lardo, salumi, latte, burro e formaggi. Nell'Italia settentrionale, dove l'influenza dei Germani è stata più forte, si cucina ancora oggi con il burro e si mangia molto salame, prosciutto e carne. Nell'Italia centrale e meridionale, invece, dove i barbari stettero poco tempo, la cucina conserva le tradizioni degli antichi Romani: si usa l'olio e l'alimentazione è per lo più a base di cereali e di legumi.

La rivoluzione della staffa

Le popolazioni barbare, nell'8° secolo, hanno inventato le staffe che i Romani non conoscevano. Al tempo di Carlomagno, nel 9° secolo, quando divennero essenziali i cavalli, la staffa rivoluzionò il modo di combattere. L'esercito di Carlomagno infatti era composto soprattutto di cavalieri, gli unici che si potevano spostare a cavallo e portare le armi. E un cavaliere saldamente appoggiato sulle staffe è quasi invincibile contro un avversario a piedi, ma anche contro un avversario che monti 'a pelo' senza staffe.

I cavalieri dovevano essere ricchi, poiché dovevano pagarsi le armi, i cavalli e il cibo per la durata della guerra. L'armamento completo del cavaliere comprendeva: la spada, lo scudo, la lancia che era lunga più di due metri, l'elmo e l'usbergo, una specie di camicia fatta da circa quarantamila anelli di ferro. Tutto questo costava come comprare una ventina di mucche.

Come vivevano i barbari?

I Germani erano una popolazione nomade che abitava nei carri e nelle tende. Non dovendo costruire case, non avevano bisogno di architetti o di scultori. I Germani amavano adornare il proprio corpo e le loro belle armi con i gioielli. Per questo c'erano fabbri e orafi abilissimi, che disegnavano e realizzavano meravigliosi gioielli osservando la natura, in particolare la foresta e gli animali che vi si incontravano. Producevano così splendidi ori dove, in mezzo a rami aggrovigliati, si rincorrono belve e uccelli rapaci.

La vita nel Medioevo

La vita nel Medioevo era molto diversa da quella attuale. Perfino il paesaggio non era lo stesso, e nemmeno gli animali. Viaggiare era difficile e si procedeva lentamente. Non esistevano tutte le comodità che abbiamo oggi e molti degli oggetti che a noi sembrano indispensabili nel Medioevo non erano conosciuti.

Un paesaggio verde scuro

Immaginiamo di essere uccelli migratori. Cosa avremmo potuto vedere al tempo di Carlomagno, all'incirca nel 9° secolo, spostandoci in volo sull'Europa dalla pianura russa fino ad arrivare in Italia? Prima steppe e paludi, poi foreste densissime, quasi impenetrabili, abitate da lupi, orsi, uri (una specie di bisonti), cervi e cinghiali. In mezzo, qualche macchiolina di colore più chiaro: campi coltivati, pochi villaggi, ogni tanto una piccola città. Difficilmente avremmo visto uomini al di fuori delle mura della città. Dentro le mura cittadine c'erano case, chiese ma anche grandi spazi dove cresceva l'erba e pascolavano le pecore, spesso in mezzo alle rovine degli splendidi palazzi dell'antichità.

Un mondo che va piano

Le strade non erano più le belle strade dell'Impero Romano, quando l'imperatore comandava ai funzionari di tenerle in ordine e di ripararle. Chi si metteva in viaggio incontrava buche, frane, ponti crollati, alberi caduti e rovi. Le 'autostrade' del Medioevo erano i fiumi, quelli navigabili. Le barche scivolavano veloci solo se si era in tanti a remare o se c'era un buon vento che gonfiava le vele.

Per via di terra, i muli, i cavalli e gli asini percorrevano con carri e bagagli al massimo una cinquantina di chilometri al giorno. Andando così piano anche le notizie arrivavano lentamente. I viaggiatori, poi, dovevano conoscere bene la strada perché non c'era nessun cartello indicatore. Non avevano nemmeno la bussola, che fu conosciuta in Occidente soltanto nel 12° secolo. Armati di coraggio, si mettevano in viaggio, ben sapendo di potere incontrare briganti o lupi e orsi molto affamati.

Il bosco: la dispensa di legno e cibo

Nel bosco si andava a tagliare la legna che serviva per riscaldarsi, sia gettando direttamente i rami nel focolare sia trasformandoli in carbone. Per ottenere il carbone bisognava costruire con pazienza grandi cataste di legna (chiamate carbonaie) con un camino al centro, coprirle di terra bagnata e muschio e farle ardere piano per settimane, in modo che la legna non diventasse cenere ma carbone. Il carbone dura di più della legna perché brucia più lentamente: in quell'epoca serviva per tenere acceso il forno dei vetrai, le fucine dei fabbri e anche per cucinare. Il legno serviva anche per costruire pareti e tetti delle case e delle chiese, per fabbricare mobili, scodelle, cucchiai, quasi tutti gli attrezzi agricoli, i carri, le botti per il vino. Serviva ancora per edificare ponti, macchine da guerra, steccati e palizzate per difendersi dai nemici.

Nei boschi si andava anche a caccia, a cogliere frutti selvatici, a procurarsi il miele delle api: lo zucchero, infatti, costava moltissimo e si prendeva solo a piccole dosi, come medicina. Nei boschi i pastori portavano a pascolare le capre e i maiali: questi, in grossi branchi, si nutrivano e ingrassavano mangiando le ghiande delle querce.

Cosa non si poteva fare nel Medioevo?

Nel Medioevo non avremmo potuto aprire il rubinetto dell'acqua o accendere l'interruttore della luce, ruotare la manopola del gas, andare in bicicletta, in treno o in automobile, accendere il televisore o il computer, parlare al telefono, andare in ascensore, conservare la carne in frigo, andare al cinema. Se riusciamo a immaginare un mondo senza tutto questo, e tanto altro ancora, stiamo vivendo nel Medioevo.

Maometto e la civiltà islamica

Oggi, quando non si capisce il significato di qualcosa, si dice: "È arabo!". Invece gli Arabi nel Medioevo capivano tante cose; erano curiosi e attenti osservatori. Viaggiando e commerciando appresero molte importanti novità da altri popoli e da altre culture e le fecero conoscere ovunque. Anche oggi utilizziamo scoperte che ci sono state trasmesse dagli Arabi.

Maometto, il fondatore della religione islamica

Maometto nacque alla Mecca, in Arabia, e nel 7° secolo fondò una nuova religione nella quale è adorato un unico dio, Allah. Maometto riteneva di essere il messaggero di Allah e sosteneva che il credente, che in lingua araba si dice muslim (da cui deriva musulmano), deve abbandonarsi alla volontà di Dio. La parola araba Islam significa proprio "abbandono" e Islam si chiamò la nuova religione. I successori di Maometto, sicuri della protezione di Allah, si lanciarono in una serie di guerre vittoriose. Furono anche abili mercanti. Attraverso le guerre e i viaggi conobbero popoli e culture diversi. Furono molto bravi ad assimilare conoscenze e tecniche degli altri popoli orientali e a diffonderle in Europa.

La scienza che parlava arabo

La cultura islamica ha il grande merito di averci trasmesso la scienza e la filosofia dell'antichità. Abbiamo conosciuto molte opere greche grazie alla traduzione e ai commenti che ne fecero i copisti arabi, poiché gli antichissimi manoscritti greci sono andati tutti distrutti. I numeri che noi usiamo sono arabi. In realtà erano stati inventati in India nel 6° secolo a. C., ma gli Arabi furono i primi a capirne l'importanza. Secondo il sistema arabo, che è anche il nostro, le cifre cambiano di valore a seconda della loro posizione (possono rappresentare unità, decine, centinaia, ecc.). Inoltre gli Arabi introdussero il numero zero, rendendo possibile perciò incolonnare i numeri a seconda del loro valore, e fare subito un calcolo. Con il nuovo sistema la matematica fece moltissimi progressi rispetto all'epoca romana!

Alchimisti, aspiranti maghi e 'creatori' di parole

Gli Arabi furono molto bravi nel preparare solventi chimici, come l'ammoniaca e l'acquaragia. Cercarono però disperatamente di trovare due cose impossibili: la pietra filosofale, capace di trasformare qualsiasi metallo in oro, e l'elisir di lunga vita, una bevanda per rimanere sempre giovani. L'alchimia araba è stata la base per costruire la chimica moderna.

Molte parole arabe sono rimaste nell'uso delle principali lingue europee, soprattutto nei campi dove gli Arabi erano particolarmente esperti. Nelle scienze: algebra, zero, sciroppo, alcool, alchimia. Nel commercio e nella navigazione: arsenale, dogana, fondaco, sensale, tariffa, tara, ammiraglio. Gli Arabi introdussero inoltre in Occidente la canna da zucchero e ampliarono la diffusione di diversi frutti e ortaggi: le arance, gli asparagi, i carciofi e le melanzane. Senza tutte queste buone cose i nostri pranzi sarebbero sicuramente più monotoni.

Scrivere sugli stracci

Anche la carta, come i numeri, non fu un'invenzione araba, ma cinese; tuttavia furono gli Arabi a diffonderne l'impiego anche in Europa. Per fare la carta bisognava sminuzzare cenci di lino e di canapa fino a ridurli in polvere e mescolarli con l'acqua. Nella poltiglia così ottenuta si immergeva un telaio fatto con una rete metallica a maglie fittissime. Estratto il telaio, sulla rete si era depositato uno strato sottile di poltiglia che, asciugato, pressato e lisciato, diventava il foglio di carta.

Se nel reticolato di fili metallici del telaio si inserisce un disegno (per esempio di un fiore) eseguito con altro filo metallico, sul foglio asciutto rimane la filigrana, cioè l'impronta del disegno, che si può vedere in controluce. La filigrana, inventata verso la seconda metà del 13° secolo, è importantissima: tra l'altro, consente di riconoscere le banconote vere da quelle false. Nell'Italia medievale la città di Fabriano era famosa per le sue cartiere e quella fama dura ancora oggi: proprio a Fabriano, infatti, viene prodotta la carta filigranata su cui vengono stampate le banconote degli euro.

La vita nel castello

La vita dentro un castello era abbastanza scomoda poiché i castelli erano stati costruiti soprattutto per difendersi dai nemici. In tempo di pace, però, ci si poteva divertire in molti modi: partecipando a giostre o tornei, ascoltando i cantastorie di passaggio o sedendosi a tavola per un ricco pranzo!

Le difese del castello

Il castello doveva difendere gli abitanti dall'assalto dei nemici. Era circondato da un fossato riempito di acqua. Il ponte per attraversare il fossato, il ponte levatoio, era mobile e si poteva sollevare solo dall'interno, in modo da far entrare solamente persone conosciute. Per difendere meglio la porta d'ingresso si facevano calare dall'alto saracinesche di ferro. Sporgenze in pietra e in legno lungo le mura, dette bertesche, per lo più a forma di archetto coperto, permettevano di tirare pietre e frecce e colpire chi si avvicinava rimanendo abbastanza protetti. Si racconta che dai castelli veniva gettato olio bollente sui nemici. Questo non è vero! Forse acqua bollente: l'olio era un bene troppo prezioso, ed era meglio usarlo per cucinare e condire! Lungo le mura c'erano anche torrette e, a intervalli regolari, piccoli ripari rettangolari, detti merli, a volte muniti di fessure molto piccole per tirare frecce con maggiore tranquillità e nello stesso tempo per diminuire le probabilità di venire colpiti. Le porte erano minuscole e oggi ci sembrano poste ad altezze impossibili da raggiungere. Occorreva infatti una scala di legno a pioli che, una volta entrati, veniva ritirata all'interno.

I castelli venivano costruiti per lo più su di un'altura. Ogni castello avvisava quello vicino dell' approssimarsi del nemico con segnali di fumo e con trombe o, se era notte, con torce accese.

Il piacere di ascoltare

Se c'era bel tempo, gli uomini stavano all'aperto e andavano a caccia, spesso di animali pericolosi. Combattevano nei tornei e nelle giostre facendo finta di fare la guerra, anche se spesso andavano in guerra per davvero. Quando pioveva o nevicava ed erano costretti a rimanere nel castello, amavano giocare a scacchi fra di loro o con le loro dame. Le donne filavano e si facevano aiutare dalle ancelle; spesso si facevano leggere libri. E poi c'erano cantastorie e giullari di passaggio, che sapevano anche suonare vielle (specie di chitarre) e pifferi e raccontavano le imprese di valorosi guerrieri veri o leggendari: di re Artù, di Carlomagno, di Orlando e Oliviero, i loro duelli furibondi, i loro incontri con fate e maghi. A volte si facevano ballare orsi e scimmie ammaestrati.

Il piacere di mangiare

Che bello mettersi a tavola, mangiare la selvaggina arrostita allo spiedo, tanti tipi di carne bollita e in umido! Oggi ognuno ha il proprio piatto, le proprie posate e il proprio bicchiere. Nel Medioevo non era così: piatti e bicchieri erano messi un po' a caso, e bisognava usarli in comune perché non bastavano per tutti. Ogni commensale infilzava un pezzo di carne con un coltello e lo posava, per raccogliere il sugo, su una larga fetta di pane che serviva anche da piatto. Quello che rimaneva, ossi o pane, veniva gettato a terra: ci pensavano i cani a ripulire il pavimento! Le forchette non esistevano ancora. In Italia cominciarono a essere usate soltanto a partire dal 13° secolo. Tutti mangiavano con le mani, che bisognava lavare spesso. Passavano per questo dei servitori con bacinelle e brocche. Se il signore era ricco, voleva che si usassero speciali brocche in bronzo, assai costose, chiamate acquamanili. Alcune si possono vedere nei musei: sono a forma di cavallo e cavaliere o di minaccioso leone o di drago.

La società feudale

Nell'età medievale venivano celebrate accurate cerimonie che stabilivano i rapporti fra i cavalieri e il re che li comandava. In queste cerimonie i cavalieri promettevano al re di servirlo e di difenderlo a costo della propria vita. Il re, a sua volta, provvedeva al loro mantenimento fornendo la terra da coltivare.

Uomo di bocca e di mani

Carlomagno passò a cavallo gran parte del tempo del suo lunghissimo regno, con il suo seguito, un gruppo scelto di guerrieri, anche loro a cavallo. I cavalieri erano la parte principale del suo esercito. Per vincere, Carlomagno doveva fidarsi di loro. Una cerimonia pubblica dimostrava questo rapporto di lealtà. Si chiamava omaggio, dal latino homo "uomo". Con l'omaggio il cavaliere diventava 'l'uomo del re', cioè, come si diceva allora, il suo vassallo. Il cavaliere s'inginocchiava, metteva le mani giunte in quelle del re ‒ gli consegnava, così, tutto sé stesso ‒, pronunciava un giuramento e baciava il re sulla bocca. Da questo momento il vassallo diveniva 'uomo di bocca e di mani' del re, perché non doveva mai tradirlo o insultarlo e si impegnava a combattere per lui. Quando diciamo: "Sono nelle tue mani", senza saperlo ci riferiamo al rito dell'omaggio. Anche un vassallo del re poteva avere sotto di sé dei vassalli. La cerimonia dell'omaggio era la stessa: il vassallo del vassallo si chiamava valvassore.

I doni del re

E il re o il signore cosa promettevano in cambio? Si impegnavano a difendere il loro vassallo nei processi, nelle liti, e soprattutto a mantenerlo. Le guerre di quel tempo, però, cominciavano a maggio e s'interrompevano con l'arrivo dell'inverno e delle piogge. Sarebbe stato molto costoso per un signore o per il re mantenere i vassalli tutto l'anno. Era più semplice dare loro una terra. La terra non veniva ceduta in proprietà bensì in beneficio, chiamato, dall'anno Mille in poi, feudo (v. feudalesimo). In altre parole, il signore o il re manteneva la proprietà della sua terra, ma cedeva al vassallo il diritto di usufrutto, cioè di prelevare i prodotti della terra, finché fosse durato il rapporto di vassallaggio. Da un certo punto in poi il feudo divenne ereditario, cioè passava di padre in figlio. La cerimonia dell'assegnazione del beneficio si chiamava investitura. Il signore o il re consegnava al vassallo una spiga o una zolla di terra, per indicare l'avvenuta concessione della terra. I campi erano coltivati dagli schiavi e dai contadini che dovevano ubbidire a tutte le richieste del padrone. In latino sia gli schiavi sia i contadini erano detti servi: nel loro modo di vita non c'era una grande differenza.

Vescovi e abati con la lancia

Nel Medioevo nessuno si stupiva di vedere un vescovo con la corazza! Infatti diventavano vassalli anche i capi dei monasteri, cioè gli abati o i vescovi. Il re era ben contento di dare loro terre in beneficio poiché gli abati e i vescovi non avevano figli né eredi e il re, alla loro morte, si sarebbe ripreso le terre.

Non sempre vescovi e monaci avevano scelto di diventarlo. Accadeva di frequente che un padre ricco e potente con molti figli maschi, per diventare ancora più potente, fosse intenzionato a diventare amico del capo di un grande monastero, ricco di terre. Ma se l'abate di quel monastero era suo figlio, questo obiettivo diventava molto più facile! Perciò spediva subito in monastero un figlio di cinque o sei anni, insieme a una bella borsa di denaro per il mantenimento. Delle lacrime del bambino nessuno si preoccupava.

Come nasce un manoscritto

Nel Medioevo a scrivere erano soprattutto i monaci. Dovevano saper leggere e scrivere per poter conoscere la Bibbia, pregare e comporre altri libri di argomento religioso. A quel tempo scrivere era un'immensa fatica. Dobbiamo essere molto grati ai monaci che, nel corso dei secoli, copiarono sulla più robusta pergamena i testi dell'antichità, scritti originariamente sul fragile papiro, che così sono giunti fino a noi.

Chi erano i monaci

I monaci erano uomini religiosi che avevano deciso di vivere insieme dentro l'abbazia, ubbidendo a un capo chiamato abate. Non potevano sposarsi né possedere nulla personalmente. Pregavano Dio e cantavano le sue lodi. Di notte, ogni due o tre ore si svegliavano e andavano in chiesa. Il resto del tempo lavoravano nello scriptorium, una grande stanza dove scrivevano a mano con grande fatica. Quando i monaci scrivevano, la carta e la stampa non erano state ancora inventate. I monaci scrivevano sulla pergamena, cioè sulla pelle di pecora, di capra o di vitello. Per ottenere la pergamena si toglievano tutti i peli dalla pelle e la si immergeva in un bagno di acqua e calce per sgrassarla e per impedirle di marcire. Poi la pelle veniva tesa su un telaio per non farla accartocciare e veniva raschiata. Quindi era battuta e passata con la pietra pomice per renderla morbida, sottile e bianca e infine tagliata in fogli regolari. Sul foglio, per essere sicuri di non scrivere storto, i monaci tracciavano righe accurate. Per copiare tutta la Bibbia occorreva la pelle di almeno cento pecore: un intero gregge! Eppure i monaci scrivevano con molte abbreviazioni per risparmiare pergamena!

Come scrivere

Solo pochi frammenti delle opere scritte dagli antichi sono giunti in originale fino a noi: tutto il resto lo possiamo leggere grazie al fatto che è stato copiato nel Medioevo. I monaci scrivevano adagio, con il càlamo (una cannuccia di legno vuota) o con una penna d'oca: entrambi gli strumenti venivano appuntiti, ma non scorrevano certo come le nostre biro! Mentre scrivevano, i monaci ripetevano le parole, quasi sempre di argomento religioso, che copiavano. Il loro lavoro era una continua preghiera. A portata di mano tenevano il calamaio (di solito un corno di mucca svuotato) e il raschietto, per cancellare le parole sbagliate. Quando il raschietto non serviva per questo, lo tenevano con la sinistra premuto sul foglio in modo che la pagina si mantenesse ben spianata. Di solito il monaco che scriveva non era lo stesso che dipingeva, dato che per disegnare e dipingere occorreva un talento particolare. Il copista lasciava nel foglio lo spazio sufficiente perché fosse poi riempito dalla miniatura. Quando tutti i fogli erano stati scritti e miniati venivano cuciti e rilegati, a volte con copertine in avorio o oro e pietre preziose. A questo punto il manoscritto era pronto.

Dove appoggiarsi

I monaci spesso scrivevano stando molto scomodi, tenendo il manoscritto sulle ginocchia. Solo raramente usavano tavole regolabili in altezza o leggii girevoli. Copiavano dal modello che tenevano davanti oppure scrivevano mentre un compagno dettava. Non c'era la luce elettrica e perciò dovevano usare la piccola luce di una candela o di una lucerna. Un monaco ha scritto in fondo a un libro: "Carissimo lettore, prendi il libro soltanto dopo esserti ben lavato le mani, gira i fogli con delicatezza, tieni lontano il dito dalla scrittura, per non sciuparla. Chi non sa scrivere crede che non occorra alcuna fatica. E invece quanto è dolorosa l'arte dello scrivere: affatica gli occhi, spezza la schiena; tutte le ossa fanno male! Tre dita scrivono, ma è l'intero corpo che soffre".

Che cos'è la miniatura?

I codici sono i libri del passato, scritti a mano e spesso decorati con il minio. Il minio è un minerale di colore rosso con il quale si fabbricava l'inchiostro per miniare, cioè rendere più belle ed evidenti le lettere iniziali e i titoli. Miniare passò poi a indicare la tecnica di colorare con vari inchiostri le figure, cioè le miniature.

La vita in città

Le città erano circondate da mura. Lo spazio, all'interno della città, non poteva aumentare. Le case erano dunque piccole, con pochi mobili e ci si viveva in tante persone. La gente, appena poteva, stava in strada, ma durante la notte la mancanza di luce faceva diventare le strade un luogo paurosoe pericoloso.

In strada

Le strade medievali, per mancanza di spazio, erano molto strette. Erano sempre tortuose, così il vento soffiava meno forte e d'estate si trovava un po' d'ombra. Le strade erano anche molto sporche perché non era prevista la pulizia e tutti gettavano le bucce e i rifiuti dalla finestra. A portarli via ci pensavano i maiali che facevano gli spazzini e mangiavano tutto. Quando pioveva, la città si ripuliva per bene e la gente era contenta. Nelle strade lavoravano gli artigiani. In casa, le stanze, che erano sempre molto piccole, si sarebbero riempite troppo di fumo e di polvere. Anche le donne preferivano stare davanti all'uscio a filare; ogni giorno andavano in piazza, dove c'era il pozzo, per prendere l'acqua. Mentre aspettavano il turno, chiacchieravano e le notizie giravano. In piazza c'era anche il mercato con le bancarelle dove si vendeva un po' di tutto: frutta, verdura, abiti, padelle. I bambini passavano la giornata in strada a correre, a giocare con il cerchio e con la trottola o a cavalcare il manico di una scopa a mo' di cavalluccio.

La città di notte

Al tramonto del sole venivano chiuse le porte delle mura, come se la città fosse una grande casa, ben sprangata. Le strade non erano illuminate. C'erano soltanto le fiammelle delle candele o delle lucerne che tremolavano davanti alle immagini sacre, ma non bastavano certo a illuminare le strade. Il buio era totale e profondo e doveva fare molta paura. Di notte la città era deserta ed era proibito girare: si poteva uscire soltanto per chiamare d'urgenza il dottore o il prete. Gli unici a non preoccuparsi erano i ladri e i malfattori!

Nelle case, dalle porte e dalle finestre che non chiudevano mai perfettamente entravano spifferi e correnti d'aria. Per questo il letto era spesso tutto circondato dalle tende. Di giorno le tende erano tenute aperte perché il letto diventava un po' come il nostro divano e la camera da letto faceva da soggiorno. Le finestre avevano imposte di legno, o erano 'impannate': un po' di tela resa impermeabile da un velo di cera passatoci sopra. In questo modo entrava la luce. Alle finestre non c'erano i vetri. Nelle abitazioni dei ricchi l'uso dei vetri alle finestre risale solo alla fine del Trecento.

Il mobilio

Le stanze erano piccole e i mobili erano pochi. Il tavolo era formato da due cavalletti sui quali si posava una larga asse; finito il pranzo, asse e cavalletti venivano messi contro la parete, così ci si poteva muovere meglio. Nel letto, molto largo, dormivano in tanti, anche dieci persone: non si sprecava spazio e quando occorreva ci si scaldava stringendosi l'un l'altro. Nel letto tutti dormivano nudi e nessuno si vergognava. Dormivano nudi per non portare nel letto i pidocchi e le pulci. La speranza era che almeno un po' ne rimanessero attaccati agli abiti che avevano lasciato in un'altra stanza, appesi a una stanga fissata al soffitto. I topi che correvano e rosicchiavano ogni cosa dappertutto non sarebbero riusciti ad arrivare fin lassù.

Accanto al letto stava di solito la cassapanca dove erano conservati gli altri abiti: per tenere lontane le tarme venivano arrotolati ben stretti e profumati con lavanda e altre erbe, come si usa ancora oggi. Gli abiti costavano moltissimo e si tramandavano in eredità di genitore in figlio. Non erano ancora stati inventati gli armadi e nemmeno i cassetti; c'era solo qua e là qualche nicchia nel muro dove era possibile posare soltanto una brocca o la lucerna.

Le crociate

Per due secoli i cristiani combatterono contro i musulmani per la liberazione della Terrasanta. Distrussero città, commisero massacri e violenze e alla fine non conquistarono nulla. Solo alcuni mercanti che si recarono in Terrasanta si arricchirono, portando novità e prelibatezze nel mondo occidentale.

All'armi, all'armi!

Papa Urbano II, nel 1095, spinse i cristiani alla crociata, in difesa della Terrasanta. Era giunta voce (ma non era vero) che ai pellegrini cristiani fosse stato proibito entrare in Gerusalemme e visitare i luoghi dove Cristo era morto e risorto. Moltissimi decisero di partire e di prendere le armi. I guerrieri, per mostrare dove erano diretti e il proprio impegno religioso, si cucivano croci di stoffa rossa sulla spalla destra e sul petto e dipingevano un'altra croce sullo scudo. Per questa ragione furono chiamati crociati. A loro sembrava un'ottima cosa combattere contro gli infedeli, cioè contro i musulmani.

Le crociate (le più importanti furono otto) continuarono senza sosta fino al 1291. Durante le crociate morirono quasi due milioni di uomini, fra cristiani e musulmani. Morirono anche vecchi, donne e bambini e aumentarono l'odio e l'intolleranza religiosa. I cristiani dovevano continuamente mandare nuovi combattenti, con le navi. Infatti erano lontanissimi dalla Terrasanta e i rifornimenti giungevano troppo lentamente. I cristiani non riuscirono a mantenere le conquiste e alla fine le crociate si conclusero con un fallimento, anche dal punto di vista militare.

La crociata dei fanciulli

Dopo la quarta crociata, dalla Francia e dalla Germania partì nell'estate del 1212 la 'crociata dei fanciulli', composta da giovanissimi, maschi e femmine. Avevano fatto credere loro che sarebbero riusciti a camminare sulle acque come Cristo, con la forza della fede. Questi ragazzini laceri e affamati si accorsero che la realtà era ben diversa: nessuno offrì loro da mangiare, nessuno offrì gratis una nave. La maggior parte morì per le fatiche, la fame, le malattie del viaggio. Molti furono uccisi; altri furono presi dai mercanti e venduti come schiavi. La 'crociata dei fanciulli' così svanì nel nulla. La tragica storia della 'crociata dei fanciulli', spariti come d'incanto, ha lasciato un ricordo nella fiaba Il pifferaio di Hamelin. Hamelin è una città della Germania, dove si può visitare la casa del pifferaio magico. Con la sua musica il pifferaio aveva liberato la città da una terribile invasione di topi, ma non aveva ricevuto la ricompensa promessa. Per vendicarsi, suonando di nuovo il piffero, trascinò dietro di sé tutti i bambini di Hamelin, fino a una montagna che si aprì per incanto e li accolse. Poi il pifferaio suonò ancora una volta e la roccia si richiuse trattenendo dentro i bambini per sempre.

Gatti soriani e albicocche

Le crociate furono una specie di guerra mondiale durata due secoli. Solo all'inizio lo scontro fu tra cristiani e infedeli. Ben presto i crociati non pensarono più a liberare Gerusalemme, ma a impadronirsi dell'Impero Bizantino, ricco e fiorente. Alle crociate partecipavano pellegrini, ma anche mercanti, cavalieri privi di terre e avventurieri che speravano di arricchirsi facilmente. Infatti i mercanti, al ritorno dai loro viaggi, descrivevano l'Oriente come il paradiso, colmo di ricchezze e di tesori. I crociati, tra le altre cose, riportarono in patria dalla Terrasanta gatti di grande bellezza: i soriani (da Siria, Sorìa nel Medioevo). E diffusero anche la coltivazione della profumata e dolce albicocca. Cose nuove che attraverso i normali scambi commerciali si sarebbero comunque potute conoscere, senza bisogno di tanti anni di guerre sanguinose.

Le scoperte medievali

Al Medioevo risalgono tante invenzioni che ancora oggi ci aiutano a vivere meglio. Alcune di queste hanno profondamente modificato le abitudini nel vestiario, nel cibo, nel tempo libero e soprattutto hanno reso più comoda e più semplice la vita degli abitanti medievali, che non era certo facile!

Invenzioni per noi

Bottoni, pantaloni e mutande: ecco tre particolari del nostro abbigliamento che risalgono al Medioevo. I bottoni, che sono stati inventati verso il 1200, permettono di avere abiti aderenti che, al pari dei pantaloni, ci difendono dal freddo e ci consentono di fare movimenti più sciolti, saltare e correre. Prima, uomini e donne vestivano allo stesso modo, con abiti larghi e molto scollati, perché dalla scollatura doveva passare la testa. Le mutande permettono alle persone di essere pulite: infatti la parola stessa mutande significa "che devono essere mutate", cioè cambiate, spesso. Le persone che non hanno una buona vista possono vedere bene e leggere grazie agli occhiali, una delle più belle invenzioni medievali! In quel tempo però non c'erano le stanghette, così comode, che girano intorno all'orecchio; gli occhiali, per stare al loro posto, dovevano stringere un po' il naso.

Invenzioni per la casa

Nelle case il Medioevo ha portato il camino: prima ci si scaldava con un braciere in mezzo alla stanza, che faceva fumo ed era pericoloso perché poteva causare incendi. All'età medievale risale l'abitudine di sedersi a tavola a mangiare: i Romani mangiavano sdraiati sui letti. E anche la pasta inizia a essere prodotta durante il Medioevo con la farina che era macinata dai mulini ad acqua e a vento. Anche il mulino a vento è un'invenzione medievale. Ma come mangiare gli spaghetti? Bisognava pensare a qualcosa per infilzarli, perché il cucchiaio e il coltello dei Romani non servivano. Ed ecco che tornava molto utile un piccolo utensile di invenzione medievale, una piccola forca: la forchetta!

Le invenzioni per fuori casa

I mulini medievali, sfruttando la forza dell'acqua, mettevano in moto i frantoi per frantumare le olive e ottenere l'olio, le segherie per tagliare il legno, i magli per pestare gli stracci e i mulini da farina per macinare il grano. Il Medioevo inoltre ha scoperto un altro 'motore': il cavallo. Solo nel Medioevo gli zoccoli del cavallo furono protetti con un ferro speciale, in modo che l'animale non si ferisse le zampe camminando sui sassi, e gli fu dato un collare rigido per tirare il carro, in modo che non fosse soffocato dal peso che trascinava. Per cavalcare meglio fu introdotto, come si è già detto, l'uso della staffa. Con tutte queste novità il cavallo era molto utile nei campi e in guerra. Il Medioevo ha fatto sventolare in battaglia le bandiere con gli stemmi colorati e ha iniziato a utilizzare, purtroppo, la polvere da sparo per i fucili e i cannoni, anch'essi inventati in quel periodo.

In viaggio con la bussola

Con l'invenzione della bussola, il cui ago calamitato segna sempre il nord, i naviganti si sentivano molto più sicuri nel loro cammino. Il Medioevo ha anche pensato a non fare annoiare i marinai e i viaggiatori nei loro lunghi tragitti: ha inventato le carte da gioco, i tarocchi, e ha ripreso il gioco degli scacchi diffusi precedentemente in India e nel mondo arabo.

Inoltre, l'invenzione dell'orologio ha permesso di calcolare meglio i tempi in quanto tutte le ore divennero di uguale lunghezza. I primi grandi orologi meccanici comparvero nel Trecento sui campanili delle chiese. Prima di questa invenzione, invece, le ore erano più corte d'inverno e più lunghe d'estate, quando il sole splende più a lungo. I monaci usavano la clessidra dentro la quale scorre un filo di sabbia. Sulla clessidra erano stati fatti piccoli segni, indicanti le ore; quando la sabbia era tutta scesa bisognava subito rivoltare la clessidra e ricominciare. Se ci si dimenticava, che pasticcio!

Molte informazioni di come viveva l'uomo medievale ci giungono dai manoscritti che ancora oggi possiamo leggere, dalle miniature, o dalle immagini che vediamo nelle chiese o nei palazzi medievali.

La Cina e l'Oriente*

Mentre l'Occidente viveva il lungo periodo chiamato Medioevo, in Oriente la civiltà cinese era già molto progredita, ma per diversi secoli costituì un mondo a sé. L'Occidente conobbe il mondo cinese grazie al racconto di un mercante veneziano, Marco Polo.

Un paese lontano

La Cina ha una curiosa leggenda che riguarda le sue origini. Secondo questa leggenda, la Cina fu costruita dal gigante Pwan Ku con l'assistenza di animali sacri e fantastici (un drago, un liocorno, una fenice e una tartaruga). Pwan ci impiegò diciottomila anni. Lavorò duramente, con scalpello e martello frantumò rocce, creò valli, monti e deserti. E quando il gigante morì, dal suo corpo ebbero origine il cielo, le stelle e gli esseri umani.

I Cinesi, gli abitanti della Cina, rimasero a lungo lontani e isolati dai popoli occidentali. Tra il 221 e il 210 a.C. l'imperatore cinese Shih Huang-ti costruì una grande muraglia per proteggere l'impero dalle invasioni. È una muraglia di cui ancora oggi restano lunghi tratti; la sua costruzione richiese anni di lavoro. La Grande Muraglia era lunga circa 6.000 km e aumentò ancor più la separazione della Cina dagli altri popoli.

La civiltà cinese

In Cina fiorì, sin dai tempi antichissimi, una civiltà progredita. Quando l'Europa era agli inizi del Medioevo i Cinesi conoscevano già da molto tempo la bussola, la polvere da sparo, la carta e forse anche la stampa. I Cinesi erano molto progrediti negli studi: studiavano le lettere, la matematica e i movimenti degli astri. Nel Medioevo in Cina erano molto avanzate le conoscenze nella medicina, che invece in Europa erano in abbandono. I Cinesi coltivavano il baco da seta e, esperti nell'arte del ricamo, sapevano lavorare stoffe raffinate. Era sviluppato l'artigianato: erano infatti esperti nell'arte della ceramica e della porcellana. I Cinesi seguivano religioni diverse da quella cristiana, in particolare il confucianesimo e il taoismo.

Marco Polo

Nel 12° secolo iniziarono a giungere in Europa le prime notizie della Cina. Il primo a parlare in maniera particolareggiata delle sue favolose ricchezze fu Marco Polo, veneziano, di famiglia di mercanti. Marco, insieme al padre e allo zio, raggiunse, dopo anni di viaggio, Pechino. Qui regnava il sovrano Kubilai, Gran Can dei Tartari, che lo accolse con grandi onori. Il Gran Can aveva bisogno di persone esperte di viaggi per controllare il suo vasto impero e chiese a Marco di andare a visitare le sue province e di riferirgli. Egli accettò, restò in Cina per ben 17 anni e poté rendersi conto dell'esistenza di un mondo che in Occidente nemmeno immaginavano. Ebbe notizie anche del Giappone, descritto come un paese ricco, dove si lavorava la lacca e si fabbricavano oggetti di raffinata bellezza. Durante il viaggio di ritorno, Marco Polo fece soste in India e qui raccolse notizie sugli usi e i costumi anche di quel paese.

Il Milione

Tornato a Venezia, Marco Polo descrisse tutte le meraviglie viste nel suo lungo viaggio in un libro, Il Milione. Ma in Occidente per lungo tempo si pensò che Il Milione fosse un romanzo e che quanto vi era raccontato non fosse vero. Così Marco Polo descrive Pechino e la reggia del Gran Can:

"Questa città è grande circa 24 miglia, cioè sei miglia per ogni lato. Ed è tutta quadra. Le mura sono tutte merlate e bianche. E qui ci sono 10 porte. Entro queste mura si trova il palazzo del Gran Can, il più grande che si sia mai conosciuto. Le pareti dei grandi saloni e degli appartamenti sono abbellite da dragoni dorati e intagliati, da figure di guerrieri, di uccelli e di animali e da rappresentazioni di battaglie".

Il fatto è che a quell'epoca nessuno in Occidente poteva credere che esistessero altri mondi, addirittura con civiltà più progredite di quella europea. La civiltà cinese continuò, tra alterne vicende, a svilupparsi. Gli Europei cominciarono a intrattenere rapporti più continui con la Cina solo molti secoli dopo, soprattutto nel 19° secolo.

* Questo paragrafo è stato scritto da Ermanno Detti

Le civiltà precolombiane*

Nel Medioevo in Europa nessuno pensava che esistesse un continente al di là dell'Oceano Atlantico. Questo continente, l'America, fu scoperto solo alla fine del 15° secolo da Cristoforo Colombo. Eppure quel mondo era già abitato da popolazioni che avevano fondato fiorenti civiltà e che occupavano quasi l'intero continente, da nord a sud.

Diverse civiltà

Nell'America Settentrionale abitavano, tra gli altri, i Pellirosse, gruppi indigeni dell'America così chiamati dagli Europei perché alcuni di loro usavano dipingersi il corpo con terra rossa. Appartenenti a moltissime tribù, i Pellirosse vivevano in villaggi di capanne o di tende costruite con pelli di animale. Si dedicavano alla caccia del bisonte, alla pesca lungo i fiumi, alla pastorizia nelle praterie più fertili, più raramente all'agricoltura.

Nell'America Centrale le più grandi civiltà furono quella dei Maya e quella degli Aztechi. Erano popoli che praticavano l'agricoltura e l'allevamento. Non conoscevano né il ferro né l'aratro, pertanto i semi venivano messi in piccole buche fatte con la punta di un bastone di legno e ricoperti. La terra non apparteneva mai a una sola persona, ma a tutta la comunità. Sia i Maya sia gli Aztechi allevavano anatre, tacchini e anche i cani, che venivano mangiati come gli altri animali.

Templi grandiosi e oggetti preziosi

Nel Guatemala e nel Messico si possono vedere ancora i resti di grandiose città. In particolare i Maya sono rimasti famosi per i loro templi a piramide, in cui veneravano vari dei e praticavano sacrifici. Gli Aztechi sono ricordati soprattutto per i loro prodotti in pietra, in oro, in giada e in smeraldo. Questi oggetti venivano prodotti da abili artigiani ed esportati da attivi commercianti, che raggiungevano le tribù più lontane delle Americhe, lungo le coste degli oceani Pacifico e Atlantico, a piedi o su semplici imbarcazioni: questo perché i popoli delle Americhe non conoscevano la ruota, né avevano i cavalli, che furono portati dagli Spagnoli dopo il loro arrivo in America.

Queste civiltà erano guidate da un sovrano. C'era poi la casta dei sacerdoti che praticavano le funzioni religiose e dirigevano il lavoro di trascrizione dei testi sacri, mentre il resto della popolazione si dedicava all'agricoltura e all'allevamento.

Gli Inca

Nell'America Meridionale vivevano gli Inca. Gli Inca costruirono un impero vasto e potentissimo. L'imperatore, che era ritenuto figlio del Sole, era venerato come un dio. Aveva residenza nella città capitale dell'impero, Cuzco, dai palazzi fatti di pietra, mattoni e con i tetti di paglia. Gli Inca vivevano in grandi città e lavoravano il rame, l'argento e l'oro, che era molto abbondante e usato anche per costruire oggetti di uso quotidiano. Ma vivevano anche sull'altipiano delle Ande, dove coltivavano mais, pomodori, zucche, fagioli e patate, e nelle zone montuose confinanti con le vaste foreste dell'Amazzonia, dove praticavano la caccia e la pesca. Dormivano su stuoie stese a terra, in abitazioni di mattoni di pietra o fango essiccato.

Gli Inca probabilmente non conoscevano la scrittura. Secondo le antiche testimonianze spagnole, erano dignitosi, coraggiosi e avevano uno straordinario rispetto della natura. Una delle loro attività economiche principali era l'allevamento di lama e alpaca, oltre che del porcellino d'India. I guerrieri portavano armi molto primitive, in pietra o in legno. Solo le punte delle frecce e delle lance erano in bronzo o in rame.

* Questo paragrafo è stato scritto da Ermanno Detti

Come vestivano i popoli precolombiani?

I popoli precolombiani, che chiamiamo così perché abitavano in America prima che vi arrivasse Cristoforo Colombo, usavano vestiti diversi a seconda del clima: nelle zone calde si usava il perizoma o si andava nudi. Nelle zone più fredde si usavano camiciotti, gonne, scialli, mantelli. Le stoffe erano decorate con colori vivaci. Uomini e donne ornavano vesti e capelli con penne e piume di uccello e indossavano orecchini, bracciali, collane e sonagli.

Biblioteca fantastica

"E Tristano su un sentiero vide il mostro: orrendo, irto di scaglie, testa di gigantesca serpe, zampe, unghie e coda di coccodrillo, ali di grande pipistrello, occhi di fuoco, alito di fumo venefico. Il mostro ruggendo si contorse, alitò fumo e fuoco: ah, che il cavallo di Tristano cadde morto! Ah, che il giovane ebbe lo scudo spezzato e lui stesso fu tinto di nero e quasi soffocò!". Nelle gelide notti dei lunghi inverni si racconta la storia del prode cavaliere Tristano. La fantasia degli uomini del Medioevo trasforma in orrendi mostri le ombre che la fioca luce delle poche candele e dei camini crea nelle grandi sale dei castelli. E così i draghi, creature immaginate, cominciano a popolare luoghi nebbiosi, lontani e irraggiungibili, laghi paludosi e torbidi e le grotte buie e umide della Scozia e della Cornovaglia.

Il terribile drago fa paura a tutti perché, si racconta, è enorme e feroce. Non si mostra in giro e tutti lo immaginano orribile. Dal drago bisogna tenersi alla larga. Si narra che esso assomigli a un serpente, che abbia pelle squamosa, ali enormi di pipistrello, una bocca da coccodrillo piena di denti aguzzi, zampe con artigli che non perdonano e sangue verdastro. Nessuno lo ama e lui non ama nessuno; al contrario, detesta e divora tutti.

Spesso è custode di enormi tesori che accumula e tiene sotto la sua pancia, come racconta lo Hobbit:

"Un drago enorme color rosso oro giaceva profondamente addormentato. Sotto di lui, da ogni parte del pavimento invisibile, giacevano mucchi innumerevoli di cose preziose, oro lavorato e non lavorato, gemme e gioielli". Per questo vive in solitudine, lontano da tutto, dagli uomini, dai loro castelli e dai borghi. Ma quando compare…

Dalle sue enormi fauci sputa fiamme che bruciano ogni cosa. Il suo respiro ha la capacità di distruggere tutto ciò che gli si para davanti, perché dalla sua bocca esce un fuoco maligno e velenoso che gli uomini immaginano simile a quello dell'inferno.

Molti secoli fa, presso la città di Selene, in Libia, si aggirava un terribile drago. Gli abitanti vivevano nel terrore e non avevano il coraggio di superare le mura della città. Per tenere buono il mostro, erano costretti a offrire animali all'affamata belva fumante. Ogni giorno riceveva due pecore o due capre per saziarsi. Ma quando le pecore e le capre finiscono, il re ordina che siano i fanciulli e le fanciulle a essere dati in pasto a quella creatura. Purtroppo per il re, arriva il giorno in cui anche sua figlia deve sacrificarsi.

Il drago l'ha già avvolta nelle sue implacabili spire quando un giovane guerriero a cavallo, di nome Giorgio, vede la scena. La bellezza, la giovinezza e i modi cortesi della principessa non possono essere sopraffatti dalla crudeltà dell'orribile bestione. La pelle delicata della fanciulla non può essere marchiata dal segno dei terribili artigli. Così, al sicuro nella sua brillante armatura, Giorgio sfodera tutto il suo coraggio e decide di affrontare il drago. La lancia di Giorgio si conficca nel corpo del mostro che viene sottomesso. Un cavaliere splendido, per amore della bellezza e della grazia di una giovane principessa, ha dunque liberato la città dal pericolo e dalla paura: ha sconfitto il Male con la potenza dell'amore. È proprio vero, un cavaliere innamorato farebbe qualunque cosa per compiacere la sua amata.

Così accadde anche nella lontana Inghilterra. La principessa di Cornovaglia ha compiuto sedici anni e il giorno dopo deve andare in pasto al drago. A un giovane cavaliere spetta, come al solito, il compito di salvarla. Il caso vuole però che la fanciulla sia brava a tirare di scherma e che invece il giovane cavaliere sia un sognatore filosofo che con la spada non se la cava tanto bene. Così la principessa architetta un piano: ""Orbene, se davvero mi amate, … potremo affrontare insieme il drago. Ma è pericoloso per voi. È molto meno pericoloso per entrambi che io sia libera e con la spada in mano …. Ditemi di sì! Mi sembra un vero peccato dover uccidere questo drago. E allora non uccidiamolo. Insegniamogli a non divorare più principesse. Dicono che con la dolcezza si può ottenere tutto"". Ed ecco dimostrato come anche il terrore si può addomesticare. Alla fine, il drago si rivela un lucertolone affettuoso, fedele a tal punto da farsi chiamare Fido, eternamente riconoscente di tanto amore e soprattutto grande amico dei bambini.

Spesso capita che le persone semplici non si fanno intimorire dalle ombre e dalle dicerie, ma anzi dimostrano grande coraggio di fronte al pericolo perché, con occhi ingenui, riconoscono la verità e vedono le cose come sono veramente. Ma anche un pizzico di furbizia può tornare utile nel dare la caccia a un drago. Giles l'Agricoltore, che fino a quel momento aveva solo curato i suoi campi, è un uomo semplice ma furbo. Un bel giorno, per ordine del re Augustus Bonifacius Ambrosius Aurelianus Antoninus Pius et Magnificus, dux, rex, tyrannus et Basileus Mediterranearum Partium, tanti nomi ma poco o niente coraggio, parte per affrontare il drago Chrysophylax il Ricco. Con il valore, una buona spada, ma soprattutto con l'astuzia riesce a ottenere dal drago grandi cose.

Facendo balenare davanti agli occhi del drago le sue straordinarie doti di spadaccino, nonché quelle di intrepido cacciatore di draghi, senza troppa fatica riesce a sconfiggerlo e a depredarlo di gran parte del suo tesoro. Addirittura lo porta al suo villaggio e ne fa, seppure solo per un periodo, un fedele e utile drago da guardia che lo difenderà dagli attacchi (quelli sì, pericolosi) dell'avido sovrano che vorrebbe quella montagna d'oro tutta per sé. Ma se così è, allora il drago alle volte è una creatura indifesa! E forse non saranno solamente i paurosi, quelli che un drago non lo hanno mai visto veramente, a descriverlo come una creatura terribile? Questo è quello che è capitato al piccolo Giovanni, bambino pauroso. Giovannino ha un segreto.

Come tutti i giorni, esce di casa per andare a scuola. Percorre la stessa strada, non dà confidenza a nessuno… "Quand'ecco all'improvviso, dietro l'angolo… Prima di raggiungere l'angolo dell'edificio scolastico Giovannino udiva un cupo brontolio.

Qualche volta vedeva perfino, per un attimo, una fiammata avvampare da dietro il muro". Il suo segreto, lo avrete già capito, sono molti draghi ferocissimi che lo inseguono. Dappertutto: al parco dietro gli alberi, nelle ombre del portone di casa, addirittura al Luna Park. Ma Giovannino un bel giorno scopre che se si mette a cavalcioni di un drago e, come un provetto cavallerizzo, gli impartisce un ordine, le cose cambiano completamente. Quello che fino a un momento prima era un drago feroce ai suoi occhi, ora si rivela un drago obbediente. Occorre solo mostrarsi decisi e fermi nelle proprie convinzioni. Per Giovannino la paura e i draghi non sono più un ostacolo.

Sono proprio i bambini i più grandi domatori di draghi e di mostri paurosi in generale. Harry ed Effie, due intraprendenti fanciulli inglesi, sono i primi a riconoscere nelle meravigliose lucertole alate, che da qualche giorno piovono dal cielo, dei veri e propri draghi. Nonostante i molti fastidi creati dagli invasori, che possono essere piccoli come insetti o anche grandi come sale da pranzo, gli adulti restano interdetti e non sono capaci di escogitare una soluzione e di intervenire in modo efficace. A un certo punto i draghi cominciano a diventare davvero troppi (quelli piccoli li trovi nel panetto di burro, quelli più grandi sotto le coperte, oppure nei cestini da lavoro tra aghi e fili, o addirittura nelle scarpe) e sempre più grandi e voraci (ne arriva anche una razza che si nutre esclusivamente di bambini e bambine!).

Harry ed Effie decidono di andare a chiedere aiuto al massimo esperto di draghi: il famoso san Giorgio, primo domatore di draghi della storia. Giorgio, ora statua di marmo, fornisce agli intrepidi bambini la soluzione. Rivela loro l'esistenza di alcuni rubinetti, e più precisamente di rubinetti universali che regolano l'afflusso di pioggia, neve, grandine, vento e sole sulla Terra. Parenti stretti di serpenti e lucertole, i draghi detestano la pioggia; quindi Harry ed Effie, per salvarsi dai pericolosi invasori, decidono con coraggio di affrontare la prova e aprono il rubinetto della neve e poi quello dei temporali e della pioggia a catinelle e della pioggerellina. Fuggiti o affogati nell'acqua piovana, i temibili draghi scompaiono dalle città, dalle campagne e dai cieli di tutta l'Inghilterra. Harry ed Effie, però, forse non hanno più richiuso quei rubinetti dato che ancora oggi gli Inglesi sono costretti a portare sempre con sé l'ombrello… perché lì piove, oh, se piove!

Anche la piccola principessa Lucilla deve affrontare un giorno l'orrido mostro peloso, che del drago non ha l'aspetto ma tutte le terribili abitudini, compresa quella di abitare in una caverna e di mangiare spesso e volentieri carne umana. Con coraggio, poesia e un pizzico di ironia, la bambina va incontro al suo destino:

""HAHA!", gridò il mostro, "Ora ti faccio la festa!. Peli sulla testa, disse Lucilla. "Ah, mi prendi in giro, piccola insolente?. Peli sul dente!". Ora basta facciamola finita! Peli sulle dita! Non sono modi da brava bambina! Peli sulla pancina! Lo giuro, ti mangerò! Peli sul popò!"". Ah, no, questo è veramente troppo; e così il mostro comincia a gonfiarsi e a gonfiarsi di rabbia… finché esplode in tanti minuscoli pezzetti che lasciano vedere cosa c'è sotto: il mostro è un gentile principino, occhialuto e carino: "Peli sul nasino" … oh, no, ti prego, non ricominciamo! (Carla Ghisalberti)

Bibliografia

Henriette Bichonnier, Il mostro peloso, Edizioni EL, Trieste 1985

Henriette Bichonnier, Il ritorno del mostro peloso, Edizioni EL, Trieste 2000 [Ill.]

Mino Milani, La storia di Tristano e Isotta, Einaudi Ragazzi, Trieste 1992 [Ill.]

Edith Nesbit, I salvatori del Paese, Edizioni C'era una volta…, Pordenone 1992 [Ill.]

Edith Nesbit, L'ultimo dei draghi, in Roald Dahl, Topi sottosopra e altri animali, Bompiani, Milano 1995

John Ronald Reuel Tolkien, Il cacciatore di draghi, ovverosia, Giles l'agricoltore di Ham, Einaudi Ragazzi, Trieste 1993 [Ill.]

John Ronald Reuel Tolkien, Lo Hobbit, Rusconi, Milano 1991

John Ronald Reuel Tolkien, Lo Hobbit o la riconquista del tesoro, Mondadori, Milano 1994 [Ill.]

Carla Vasio, Giovannino dei Draghi, Giunti, Firenze 1995 [Ill.]

Donatella Ziliotto, Il drago al guinzaglio, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2002 [Ill.]

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