La business community torinese

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

La business community torinese

Ivan Balbo

La crisi del 1889-92

La scelta di mettere al centro dell’attenzione la business community, ovvero l’insieme degli imprenditori e delle imprese di una certa area geografica unito da network, da relazioni sociali ed economiche, potenzialmente fecondo in sé, risulta particolarmente interessante nel caso di Torino.

Fino a non molti anni fa, infatti, la storiografia disponibile tendeva ad anticipare nel tempo l’immagine di una città plasmata dalla monocoltura automobilistica e gravitante intorno alla Fiat, lasciando sullo sfondo l’articolato tessuto di uomini e aziende diversi che, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, ha strutturato la comunità imprenditoriale, la business community appunto. Allo stesso tempo pare opportuno rimettere in discussione l’idea, a lungo prevalente nella letteratura, di una Torino industriale sorta quasi miracolosamente in età giolittiana grazie alla Fiat, nata proprio a cavallo tra i due secoli, nel 1899. Secondo queste ricostruzioni, la crisi edilizio-bancaria del 1889-92, che travolge il sistema creditizio nazionale, si ripercuote anche in periferia, in particolare sulla piazza torinese, dove investe il panorama imprenditoriale e spazza via il mercato creditizio locale.

La storiografia più recente ha confermato alcune dinamiche: negli anni Ottanta, in effetti, gli istituti di credito torinesi si lasciano coinvolgere nella febbre edilizia che attraversa l’Italia, dai piani di risanamento di alcuni quartieri di Napoli ai programmi di espansione urbanistica di Roma, Torino e Milano. La Banca di Torino e il Banco sconto e sete si impegnano nella speculazione romana tramite, rispettivamente, l’Impresa dell’Esquilino e la Banca tiberina, mentre il Credito torinese e la Banca subalpina investono in alcune imprese edilizie torinesi. Il monopolio acquisito su vaste aree fabbricabili, insieme con le ipoteche sui terreni, paiono garantire le banche e ne incoraggiano la scelta di finanziare imprese costruttrici e mediatori diversi, con l’effetto però di una lievitazione dei prezzi a livelli inaccessibili allo stesso ceto medio cui gli appartamenti sono destinati. L’ingolfarsi del mercato immobiliare determina il fallimento delle aziende costruttrici e, a catena, delle banche che, grazie al riscatto delle ipoteche, si ritrovano in possesso di terreni dal valore azzerato.

Un’analisi dell’evoluzione della business community torinese, dei suoi protagonisti e dei suoi network rivela, tuttavia, che essa sopravvive attraverso la crisi grazie ad alcuni fondamentali elementi di continuità. È vero che gli istituti di credito locale partecipano al boom speculativo edilizio, ma non tutti nella stessa misura: la Banca di Torino, per es., non si limita a investire nell’edilizia e, a differenza del Banco sconto e sete, vara una strategia di intervento polisettoriale, orientata verso imprese di trasporti (Tramvie a vapore occidentali della provincia di Torino, Tramways e ferrovie economiche, Ferrovia Mantova-Modena) e verso settori diversi (Cartiera italiana, Società anonima Cirio, Società carbonifera di Montepromina). Quando, nel 1894, passa in liquidazione, la Banca di Torino non è una scatola vuota, ma trasferisce i propri capitali alle Bonifiche ferraresi, una prospera impresa fondiaria che ne raccoglie l’eredità.

Sopravvivono alla crisi anche i banchieri privati che condividono la proprietà degli istituti di credito locale e ne occupano i Consigli d’amministrazione (CdA): famiglie storiche della piazza torinese (i Ceriana, i De Fernex) si impongono a fianco di nomi più recenti (i Geisser, i Kuster, i Marsaglia), mentre declinano protagonisti tradizionali della finanza sabauda come Giovanni Nigra, i Barbaroux, i Denina e i Dupré.

Proprietari di case bancarie costituite in società di persone (società in nome collettivo o in accomandita semplice), spesso cresciute grazie alla produzione, al commercio e all’intermediazione della seta, i banchieri privati torinesi sono legati da strette relazioni imprenditoriali e familiari. I Kuster e i Geisser, per es., originari tra l’altro della stessa cittadina nel cantone San Gallo, occupano con uomini di fiducia sia il CdA della Banca di Torino sia quello del Banco sconto e sete, mentre i Ceriana vantano relazioni parentali con i Geisser e con i Casana. Proprio questi legami ad alto contenuto fiduciario sostengono e assecondano i comportamenti collusivi dei banchieri privati, atteggiamenti improntati alla prudenza che già negli anni Settanta-Ottanta, mentre avanza la crisi della seta, risultano decisivi nel salvaguardare la maggior parte dei capitali. La partecipazione diretta delle case bancarie torinesi alla speculazione edilizia è infatti meno pesante e diffusa di quanto emerso dalle ricordate ricostruzioni storiografiche.

Certamente largo è l’intervento del banco Geisser, coinvolto sulla piazza milanese attraverso la Compagnia fondiaria, nell’edilizia romana tramite la Banca tiberina e la Società dell’Esquilino, e nella speculazione subalpina attraverso la Società anonima immobiliare torinese. Non a caso la Ulrico Geisser e C. è tra le pochissime case bancarie travolte dalla crisi, nonostante il proprietario reclami un’operazione di salvataggio da parte dei massimi vertici creditizi, cui ha facile accesso nella sua qualità di consigliere della Banca nazionale; e comunque, anche nel tracollo di questa banca, pesa un elemento di casualità, ossia le morti in rapida successione, nel cuore della bufera finanziaria, di Ulrico Geisser (1891) e del figlio omonimo (1894), candidato a raccoglierne l’eredità imprenditoriale.

Gli altri banchi privati, invece, investono nelle operazioni più rischiose attraverso la mediazione degli istituti da loro guidati. Se devono intervenire nell’edilizia direttamente, attraverso le proprie ditte, i banchieri acquisiscono piuttosto quote modeste, e comunque minoritarie all’interno di un portafoglio azionario prudentemente polisettoriale: i Kuster, i Marsaglia, i Ceriana, i De Fernex si impegnano infatti nei trasporti (ferrovie e tramvie), in campo estrattivo (Società torbiere italiane), alimentare (Boringhieri e C., produttrice di birra e ghiaccio, Società dei Molini di Collegno e Felizzano) e nelle prime pionieristiche società elettriche (Società anonima di elettricità sistema Cruto).

La strategia dei banchieri torinesi mira, insomma, alla protezione dei propri investimenti attraverso una divisione del lavoro con le grandi banche costituite in anonima: i banchi privati intervengono per conto o al fianco degli istituti di credito nelle iniziative più azzardate o caratterizzate da una maggiore concentrazione di risorse, mentre, quando agiscono in proprio, privilegiano una linea di diversificazione settoriale. I banchi privati suddividono in tal modo i rischi sull’azionariato diffuso degli istituti di credito, su cui scaricano, nelle fasi sfavorevoli, le proprie quote ‘scottanti’. Le proteste dei correntisti accorsi alle banche per salvare il proprio denaro e sorpresi dalla chiusura degli sportelli, ma anche le rimostranze dei piccoli azionisti nel corso delle assemblee degli istituti di credito confermano che nella caduta delle grandi banche torinesi brucia soprattutto il risparmio del ceto medio. Mentre la Banca di Torino passa in liquidazione, imitata dal Credito torinese e dalla Banca subalpina, liquidati dal Credito industriale (1890) poi confluito nella Comit (1897). Accanto ai banchieri privati, usciti pressoché indenni dal tracollo, sopravvive perciò solo il Banco sconto e sete, risorto nei primi anni Novanta, ma con un capitale completamente ricostituito.

Discorso a parte meritano due enti torinesi, la Cassa di risparmio di Torino (Crt) e le Opere pie di San Paolo, collocati per natura, finalità e membri componenti al di fuori della comunità d’affari e dei network creditizi più centrali. Lungo tutta la seconda metà dell’Ottocento, infatti, i due enti mantengono un’identità ibrida, a cavallo tra l’istituto bancario e l’opera pia, in bilico tra l’esercizio del credito e le attività benefiche. Non a caso, in questa fase, i vertici di Crt e San Paolo appartengono in genere ad antiche famiglie aristocratiche, storicamente molto presenti sia nel campo della filantropia sia in un ambito, come l’assicurativo-bancario, in cui i titoli nobiliari svolgono una funzione sociale tranquillizzante e offrono garanzie rispetto a iniziative imprenditoriali potenzialmente azzardate. Il gruppo dirigente dei due enti, inoltre, è di nomina comunale e agisce in stretta relazione con i pubblici poteri: non stupisce, quindi, che ne facciano parte numerosi consiglieri municipali, talvolta contemporaneamente membri della Deputazione provinciale e del Parlamento nazionale. Gli uomini alla guida di Crt e San Paolo, infine, sono per lo più avvocati e magistrati, ed esprimono un profilo riconducibile a un ceto legale-amministrativo più che a competenze bancarie o finanziarie in senso stretto. Gustavo Ponza di San Martino, Saverio Ripa di Meana, Paolo Massa, Filiberto Frescot, Casimiro Favale, Bartolomeo Floris, Felice Rignon, Alessandro Pernati di Momo, Cesare Ferrero di Cambiano definiscono, in sostanza, un nucleo dirigente dagli scarsi o nulli punti di contatto con i network d’affari al centro della business community torinese.

Altrettanto eccentrici rispetto alle principali dinamiche della comunità imprenditoriale subalpina sono anche gli scopi e le strategie della Crt e del San Paolo. L’ambiguità della loro duplice natura si riflette, infatti, nelle tensioni continue che all’interno degli organi dirigenti oppongono i sostenitori di impieghi più sicuri e tradizionali ai fautori di linee d’azione più spregiudicate, in grado di sostenere più incisivamente l’economia locale e, soprattutto, un settore industriale in crescita.

Fino agli ultimi anni dell’Ottocento, in ogni caso, Crt e San Paolo restano ancorati a scelte di investimento caute: pur aprendosi, nel corso dei decenni, ad attività più propriamente bancarie (sconto di cambiali, servizio di conti correnti, prestiti contro deposito di fondi pubblici), i cespiti prevalenti dei loro bilanci restano le obbligazioni di aziende garantite (ferrovie e trasporti in genere), i prestiti agli enti pubblici, i titoli di Stato. E anche quando il San Paolo interviene nel campo edilizio-immobiliare, attraverso il Credito fondiario, i criteri di gestione sono improntati a una prudenza tale da impedire il coinvolgimento dell’istituto nel crack del 1889-92. Nessuno dei due enti, invero, approfitta significativamente del tracollo di altri istituti di credito cittadini, come invece riesce negli stessi anni alla Cassa di risparmio delle province lombarde (Cariplo) sulla piazza milanese. Un’occasione fallita – come notano alcuni amministratori dei due istituti – proprio per la mancata fusione in un ente più solido, a imitazione della Cariplo. E d’altronde, l’incapacità di assorbire i capitali in fuga da altri istituti di credito conferma un’integrazione ancora lontana di Crt e San Paolo nella comunità d’affari locale e una riluttanza dei due enti rispetto al sostegno diretto delle imprese, in particolare manifatturiere.

Se dunque Crt e San Paolo contribuiscono alla tenuta dell’economia torinese al di là della crisi edilizia, salvaguardando almeno una parte del piccolo e medio risparmio, sono i network dei banchi privati a garantire continuità nella circolazione dei grandi capitali attraverso la crisi. L’intervento dei banchieri, tuttavia, è molecolare, orientato più da esigenze di tutela degli investimenti che da una chiara visione strategica. Sono piuttosto gli imprenditori cotonieri a promuovere la prima organica rete di interdipendenze settoriali e ad avviare l’abbozzo di un sistema imprenditoriale. Nel settore cotoniero si sviluppano, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, le prime strutture industriali di larga scala, si sperimentano i primi tentativi d’integrazione produttiva verticale e orizzontale, con conseguente crescita delle esigenze di coordinamento sul territorio, si raccolgono le principali concentrazioni operaie e si adotta con maggiore frequenza la forma giuridica dell’anonima. Ne risultano stimolati, da una parte, la domanda di beni (macchinari e accessori soprattutto) e servizi (trasporti e distribuzione di energia); dall’altra, una crescente richiesta di manodopera, decisiva nell’assorbire la forza lavoro espulsa da un comparto serico in declino.

Negli anni Ottanta il settore cotoniero torinese risulta egemonizzato da un nucleo imprenditoriale multinazionale, ma prevalentemente di origine svizzera e accomunato dall’appartenenza alla comunità protestante. I De Planta, Emilio Wild, Augusto Abegg, i Bass, i Bosio e, più tardi, i Leumann e i Koelliker, costituiscono una presenza qualificata e diffusa, probabilmente superiore a qualsiasi altro caso di industrializzazione regionale. Tramite percorsi migratori articolati, che si diramano attraverso l’Italia e talvolta attraverso l’Europa, i cotonieri svizzeri protestanti approdano a Torino tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta dell’Ottocento: l’insediamento non è, di conseguenza, legato al tentativo di aggirare le barriere doganali del 1878 e del 1887, ma probabilmente alla scelta di un mercato, come quello piemontese, orfano di nomi storici ormai in declino (Samuele Grainicher, Giorgio Trog, Giuseppe Malan), e quindi meno saturo di quello lombardo.

A Torino, a differenza che in altre città come Bergamo, Napoli o Milano, i cotonieri protestanti stranieri non svolgono il ruolo di primi organizzatori di una locale comunità evangelica, ma si trovano nella condizione di ospiti in una realtà preinsediata, di storico radicamento valdese. L’istituzionalizzazione di una locale comunità protestante è, dunque, il frutto di un processo sostenuto da esponenti sia stranieri sia locali e compiutosi tra gli anni Trenta e lo Statuto albertino.

Nonostante l’integrazione tra la componente autoctona e quella allogena non riesca pienamente per tutto l’Ottocento, nella comunità protestante subalpina i cotonieri d’oltralpe trovano un luogo di socialità, in cui il francese, allora lingua commerciale per eccellenza e ben nota agli imprenditori svizzeri, agisce come elemento coesivo determinante per uomini di provenienza cantonale diversa. Il francese è anche elemento di comunione con le élites locali e, infatti, la componente straniera è ben integrata nell’imprenditoria torinese: le famiglie sono talvolta emigrate a Torino nella prima metà del secolo (Bass, Bosio, De Planta), alcuni imprenditori partecipano alle istituzioni della sociabilità cittadina e non mancano esempi di società costituite in collaborazione con altri cotonieri cattolici. Tuttavia, fino ai primi del Novecento prevale nettamente la propensione a fondare società cotoniere con correligionari, magari già attivi nel settore su altre piazze regionali (Schlapfer e Wenner nel Salernitano, Gruber in Liguria). Le relazioni imprenditoriali vengono inoltre corroborate dai vincoli nuziali: le strategie matrimoniali, infatti, per lungo tempo non si allontanano da una ferrea tradizione di endogamia religiosa, e solo a fine secolo i cotonieri protestanti tendono a legarsi a famiglie imprenditoriali torinesi, come testimoniano le nozze Leumann-Mazzonis.

Impegnati in società di persone (Wild Planta e C., Wild Abegg e C., F. e C. Jenny e C.) o in più ampie società anonime (Manifattura di Cuorgnè, Manifattura di Rivarolo e S. Giorgio Canavese), gli imprenditori protestanti mostrano una precoce disponibilità a muoversi secondo un approccio intersoggettivo, a differenza dei concorrenti cattolici (Mazzonis, Poma), più rigidi nella difesa di un’identificazione tra impresa e famiglia. L’attitudine ad agire individualmente, sufficiente a garantire il successo fino agli anni Ottanta, in un’epoca caratterizzata dal largo ricorso all’autofinanziamento, lascerà spazio a logiche di gruppo verso fine secolo, a maggior ragione in seguito a una crisi che tende a inaridire i flussi di capitali.

Il problema del finanziamento è d’altronde assai urgente per un’imprenditoria cotoniera diffidente nei confronti del credito e pronta a partecipare a banche e banchi privati solo tramite relazioni fiduciarie forti con gli uomini che le guidano. Anche sotto questo aspetto i protestanti sembrano godere di sensibili vantaggi competitivi: la forte dimensione internazionale di alcuni network imprenditoriali (gli Abegg sono soci del Crédit suisse e vantano interessi negli Stati Uniti, i De Planta in Egitto) offre la possibilità di attingere a risorse finanziarie poste fuori dai confini nazionali, non soggette a un mercato dei capitali interno spesso perturbato, come accade nell’ultimo decennio dell’Ottocento. I legami di alcuni cotonieri con i banchi privati in mano a correligionari (De Planta-De Fernex, Bass-Kuster) assicurano, inoltre, un più agevole accesso a fonti di finanziamento informale.

Anche i cotonieri protestanti, come i banchi privati, costituiscono dunque forti agenti di tenuta per la business community torinese. Alimentano, infatti, una trama circolare di investimenti intersettoriali sia attraverso i banchi privati Kuster e De Fernex, da loro finanziati, sia tramite i network con correligionari e parenti impegnati in campi diversi come la meccanica (Schlapfer, Wenner), la concia (Bietenholz), i liquori e la birra (Freund, Bosio, Boringhieri). E la solidità del sistema beneficia altresì delle partecipazioni dirette dei cotonieri, non troppo numerose, ma concentrate in iniziative dalla chiara valenza strategica come le ferrovie e le prime società elettriche. Ma se la business community regge, nonostante il crack edilizio, è anche grazie al panorama imprenditoriale meccanico, per alcuni tratti riconducibile al paradigma distrettuale.

Forte di un’antica tradizione locale, la meccanica offre un ampio ventaglio di produzioni diverse, dalle carrozze a trazione animale ai vagoni ferroviari (Diatto), dalle macchine utensili alle armi (Ansaldi), dalla fonderia di caratteri tipografici (Nebiolo) alla ferramenta (Way, Assauto); inoltre, il settore prolifera di piccole imprese, laboratori artigianali, minuscole officine (le cosiddette boite), al punto che occorre aspettare il 1897 per assistere alla nascita della prima società di capitale in questo ambito a Torino. Le imprese meccaniche, inoltre, per tutto l’Ottocento appaiono scarsamente integrate nella business community subalpina, in quanto poco appetibili sia per i capitali cotonieri, a differenza di quanto accade a Milano, sia per il capitale creditizio. E d’altronde l’impermeabilità al capitale bancario, mentre salvaguarda le piccole imprese meccaniche dalla crisi edilizia, ne determina anche la sottocapitalizzazione cronica, testimoniata dall’alta natalità e dall’alta mortalità del settore nell’ultimo ventennio del secolo: Tarizzo, Ansaldi, Dubosc, Prata, Poccardi, Noberasco si associano in imprese dalla vita spesso assai breve (uno-due anni), presto sciolte per costituirne di nuove con nuovi soci.

Il frenetico alternarsi di risoluzioni e costituzioni societarie sembra mostrare una scarsa disponibilità alla delega e alla condivisione delle scelte, un atteggiamento d’altronde naturale per figure dall’orgogliosa professionalità artigiana e abituate a muoversi in totale autonomia. E, tuttavia, la fitta rete di relazioni societarie che a turno vede protagonisti gli imprenditori meccanici contribuisce alla diffusione di una comune sensibilità tecnica, alla condivisione di una cultura del ‘saper fare’ su cui si sedimenta un network ad alta densità. Ne deriva una circolazione delle competenze essenziale per il successivo decollo dell’auto, come dimostrano i percorsi di alcuni soggetti, dapprima attivi in proprio e più tardi, a inizio secolo, assunti in qualificati ruoli tecnici nelle società impegnate nel nuovo settore.

Ma il contributo dell’imprenditoria meccanica degli anni Ottanta alla business community di inizio Novecento, al di là del versante tecnico, riguarda anche quello imprenditoriale: numerosi sono, infatti, gli storici nomi della meccanica torinese che si affacciano al nuovo secolo alla guida di imprese del settore. Accanto a piccole società di persone, anzi, si affermano personalità di rilevo come i Diatto o i Poccardi, in grado di effettuare il coordinamento di più società in un primo tentativo di integrazione orizzontale. La relazione parentale dei Diatto con le due grandi famiglie conciarie dei Durio e dei Bocca esalta inoltre il legame tra due settori dalla complementarità sempre più evidente, per es., nel largo uso del cuoio nelle trasmissioni dei macchinari e nei rivestimenti dei vagoni ferroviari. Negli anni della crisi Torino può quindi anche contare su un panorama meccanico disperso, ma tendente a svilupparsi secondo alcuni tratti distrettuali, come la sedimentazione di saperi tecnici e una prima disponibilità a uscire dall’isolamento settoriale e a proporre forme di interdipendenza, promuovendo strutture ‘a filiera’.

Una prima forzatura: il business dell’elettricità

La business community subalpina, sostenuta da solidi agenti di continuità (la tenuta dei banchi privati, la forza del network protestante, una meccanica strutturata secondo tratti distrettuali), viene investita, negli anni Novanta, da una prima rottura, con l’emergere del settore elettrico, nato a Torino alla metà degli anni Ottanta, senza ritardo rispetto ad altre aree europee. Le imprese fiorite nel nuovo comparto sono occasione di investimento per gli imprenditori locali e in particolare per i cotonieri protestanti, che anche a fine secolo si rivelano disponibili a sostenere le iniziative di maggior respiro strategico: così, nel 1897, la Società anonima imprese elettriche (Saie) sorge grazie al contributo di Abegg, Bass, Bosio e De Planta, appoggiati dal banchiere correligionario Kuster.

Le imprese elettriche, però, suscitano anche l’interesse dei finanziatori stranieri, e in particolare delle forti elettrofinanziarie svizzero-tedesche. Alla Società anonima piemontese di elettricità (Sape), costituita nel 1890 per impulso di capitali elvetici, risponde dunque nel 1896 la Società di elettricità Alta Italia (EAI), promossa dalla Siemens e Halske. E nelle imprese elettriche intervengono immediatamente i capitali tedeschi veicolati dalle banche miste, Comit e Credit, nate rispettivamente nel 1894 e nel 1895 dal crollo del sistema creditizio nazionale travolto dal crack edilizio. L’afflusso di cospicui capitali stranieri riattiva il sistema creditizio subalpino, con fulcro ora nel Banco sconto e sete scampato al crack edilizio, e solletica i progetti di alcuni audaci finanzieri collegati all’istituto.

Protagonisti di queste iniziative sono in primo luogo Roberto Cattaneo, homo novus di origine vercellese, e Gustavo Deslex, uomo d’affari svizzero, rispettivamente presidente e amministratore del Banco sconto e sete. Dapprima Cattaneo convince il CdA del Banco sconto e sete a investire nell’EAI (1896), società di cui diventa presidente; quindi trascina l’EAI nell’acquisizione della Sape, società già in rapporti con Deslex, realizzando una forte concentrazione di interessi nel settore dell’elettrocommercializzazione. È così che Cattaneo si procura quelle relazioni decisive di cui non dispone inizialmente ed entra in rapporti con la Siemens e con uno dei suoi soci di maggioranza, la Banca commerciale di Basilea, ottenendone la partecipazione, in sociale con il Credit, all’aumento di capitale del Banco sconto e sete.

Convinto dai grandi rialzi dei titoli industriali verificatisi in Borsa nel 1898 e in misura più consistente nel 1899, il gruppo dirigente dell’istituto torinese vara una disordinata strategia di sostegno verso società anonime impegnate nei campi più disparati. Il Banco sconto e sete interviene nel tessile (Manifattura damaschi e broccati, Tessitura serica Fossano), nell’alimentare (Molino Re, Società conserve alimentari Bernachon e C., Società italiana ghiaccio artificiale), nella meccanica (Fiat, Nebiolo), nella chimica (Società piemontese carburo calcio, Società carbonati di calce), nell’elettricità (Società italiana applicazioni elettriche, SIAE; Società delle forze idrauliche del Moncenisio, Sfim) e in altre ancora: una politica di investimenti a tutto campo, da banca mista, senza peraltro che il Banco disponga dei mezzi né della visione a lungo termine della Comit e del Credit. Cattaneo giunge a cumulare cariche in diciassette società differenti.

Alla ricerca di nuove risorse per sostenere questa arrischiata e caotica azione, nel 1898 i dirigenti del Banco sconto e sete lanciano un nuovo aumento di capitale, cui il Credit concorre in parte. Ma gli equilibrismi di Cattaneo e Deslex, che si avvalgono di capitali stranieri di diversa provenienza senza condividere le impostazioni strategiche con i loro finanziatori, vengono smascherati dallo sgonfiarsi della bolla borsistica. A fronte dei reiterati allarmi del Credit e del cedimento dei titoli collegati al Banco sconto e sete, Cattaneo e Deslex provano a sostenerne i corsi azionari con cospicui acquisti in Borsa, e poi tramite una spericolata operazione finanziaria con l’oscura Société franco-italienne. Tra il 1901 e il 1902, però, il traballante castello costruito dai due dirigenti crolla: essi vengono defenestrati dal CdA del Banco sconto e sete, mentre Cattaneo viene addirittura arrestato.

La traiettoria imprenditoriale di Cattaneo e Deslex, pur caratterizzata da una grande intraprendenza, è minata da aspetti di evidente fragilità finanziaria. La loro posizione di mediatori tra network diversi ne esalta le figure e consente loro di raggiungere ruoli dirigenziali di primo piano. Tuttavia, di fronte a progetti troppo ambiziosi, che richiedono nuovi capitali, ma non prevedono la rinuncia alla propria indipendenza, Cattaneo e Deslex subiscono una battuta d’arresto in quanto alla notevole capacità di convogliare interessi diversi non corrisponde una disponibilità finanziaria per sostenerli.

Assai simile la vicenda di Jules Blanc, azionista del Banco sconto e sete e altro mediatore esemplare: tra gli anni Ottanta e Novanta procuratore della U. Geisser e C., Blanc è imparentato con i De Fernex e i De Planta, è contitolare di una società milanese di commissioni creditizie e agisce a Torino come portavoce di case finanziarie svizzere. Nel 1898, alla nascita della SIAE, oltre a concorrere al capitale per un decimo, Blanc vi rappresenta consistenti capitali di varia origine (svizzera, inglese, francese e tedesca). Negli anni successivi, Blanc trasforma la SIAE in una vera e propria holding che promuove, talvolta in collaborazione con il Banco sconto e sete, numerose società nel settore elettrico (Sfim, Società anonima Cruto), nei trasporti (Società anonima tramways Turin) e nella produzione di materiale ferrotranviario (Officine già f.lli Diatto). Il progetto è quindi più coerente di quello messo in campo contemporaneamente dal Banco sconto e sete, e più attento nel cogliere le interconnessioni tra elettricità, mezzi di trasporto e produzione di materiale ferrotranviario. E, tuttavia, Blanc fallisce come Cattaneo e Deslex, in quanto anche il finanziere francese tenta un ambizioso salto di qualità, convertendosi da mediatore e rappresentante di capitali diversi in portatore di un progetto imprenditoriale autonomo. Nel 1902 la Comit acquisirà il controllo della SIAE e Blanc verrà relegato in un ruolo marginale, sostituito al vertice delle imprese elettriche dall’astro nascente del settore, l’ingegnere Emilio De Benedetti.

In seguito all’affaire franco-italiano, il Banco sconto e sete si avvia a un lento declino e nel 1904 viene assorbito dalla Società bancaria milanese, trasformatasi in Società bancaria italiana (SBI), la terza banca mista nazionale. La caduta dell’istituto torinese segna anche simbolicamente la definitiva rinuncia di Torino al ruolo di prima piazza finanziaria d’Italia in favore di Milano, poiché il vuoto aperto dal tramonto del Banco sconto e sete viene colmato dalle banche miste, che vedono finalmente coronati dal successo i tentativi di penetrazione avviati un decennio prima.

I fattori del decollo: le banche miste, l’auto, il comune di Torino

Alla metà degli anni Novanta, cioè ai primi anni di vita delle due banche miste, risalgono i primi progetti di ingresso nella business community torinese da parte di Comit e Credit. Nel 1894 la Comit retrocede 1000 azioni del proprio capitale iniziale alla casa Marsaglia, individuata come il referente principale sulla piazza di Torino, e offre al banco privato un seggio nel CdA, occupato prima da Giovanni Marsaglia (1894-97) e in seguto da Eugenio Pollone (1897-1933). Anche il Credit si mostra interessato fin dalla nascita al panorama finanziario torinese, e l’interlocutore scelto è il banco privato Kuster e C., che concorre all’aumento di capitale con cui la Banca di Genova diventa Credito italiano e che è rappresentato nel CdA da Alberto Gonella.

Anche negli anni successivi l’interesse delle banche miste per la piazza si mantiene vivo, come dimostrano l’assorbimento da parte della Comit del Credito industriale, già liquidatore della Banca subalpina e del Credito torinese, e gli investimenti del Credit nel Banco sconto e sete (1898-99) e in alcune imprese locali. Le due banche miste, tuttavia, sembrano espandersi sul mercato torinese con maggiore lentezza di quanto non accada altrove, per es. a Milano o a Genova, e le difficoltà sono da ricondurre alle resistenze opposte dal sistema creditizio subalpino alle ingerenze dei capitali extralocali. Il Banco sconto e sete e gli uomini alla sua guida contribuiscono certamente a frenare Credit e Comit, perché ne attirano i capitali su progetti spericolati e talvolta fallimentari, e ne alimentano così la cautela verso la piazza torinese.

L’avanzata delle banche miste è ritardata però anche dai banchi privati, che presidiano con tenacia il mercato finanziario locale. Kuster per il Credit e Marsaglia per la Comit costituiscono interlocutori essenziali per le banche miste interessate al mercato locale, in quanto svolgono la funzione di attivi brasseurs d’affaires: consigliano gli affari migliori, valutano l’affidabilità dei potenziali partner, collocano i titoli sulla piazza, condividono investimenti e rischi. Il ruolo-chiave di Kuster e dei Marsaglia ne spiega altresì l’intraprendenza e la longevità anche oltre l’avvento di Comit e Credit: le ditte private torinesi negoziano il prezzo della loro collaborazione sulla piazza, sfruttano gli spazi a margine dell’azione delle banche miste con cui, in conclusione, stringono relazioni paritarie.

È solo dal 1902 che la presenza delle banche miste sulla piazza torinese si fa determinante e diffusa. Il Credit, reso diffidente dalle acrobazie finanziarie del Banco sconto e sete, esita a sostituirlo nel ruolo di partner finanziario di riferimento per l’imprenditoria locale. Quanto alla SBI, nel 1904 assorbe il Banco sconto e sete, quando ormai è stato spogliato dei suoi impegni più promettenti. Nel frattempo, infatti, la Comit ha sfilato al Banco sconto e sete e alla SIAE, strettamente collegata, le partecipazioni strategiche nel campo elettrico e meccanico. Nei due settori, tradizionale campo di interesse della banca mista, tra il 1902 e il 1906 la Comit continua a investire, direttamente o attraverso la SIAE, fino a raccogliere nel proprio portafoglio un folto nucleo di imprese elettriche (Sfim, Società forze idrauliche dell’alto Po, Società idroelettrica eporediese), automobilistiche (Krièger, Fiat) e meccaniche (Officine già f.lli Diatto, Nebiolo, Fiat Ansaldi, Fiat Muggiano).

L’intervento della Comit è ben più ramificato e massiccio di quello delle consorelle anche nel settore cotoniero, dove premia e accelera un processo di concentrazione finanziaria già in atto da alcuni anni, frutto dell’integrazione di network imprenditoriali concorrenti, in una rete dalle maglie sempre più fitte. Persino Leumann, Mazzonis e Poma, legati ad atteggiamenti individualistici, appaiono più disponibili a stringere relazioni societarie con altri cotonieri, benché i network con al centro i protestanti e i Remmert si confermino come reti a maggiore densità.

Ampi e numerosi sono infine gli investimenti delle banche miste nella concia, in cui la Comit concorre alla nascita delle Concerie italiane riunite (CIR) e della Società anonima Gilardini, e nel dolciario, dove il Credit partecipa alla società cioccolatiera Moriondo e Gariglio e la SBI alla Baratti e Milano.

Dopo la prima discontinuità prodotta sulla business community dai capitali stranieri attirati dall’elettricità, sono quelli veicolati dalle banche miste a intervenire quale secondo elemento di forzatura: essi favoriscono infatti un processo di concentrazione finanziaria all’interno di diversi settori e promuovono forti interdipendenze tra la meccanica, la concia e l’elettricità, mentre sostengono l’ampliamento di imprese in settori tradizionali, ma in crescita, come il dolciario.

Terzo agente di rottura, decisivo per la progressiva integrazione settoriale della business community, è infine l’auto, un’industria che decolla a Torino nei primi anni del Novecento, in contemporanea con la concorrenza straniera. Tra il 1899 e il 1907 sono 17 le anonime costituite per l’assemblaggio o la realizzazione di automobili, con una concentrazione negli ultimi anni del periodo. Fino al 1904, infatti, la città vanta solo quattro marche automobilistiche: Fiat, Rapid, Itala e Taurinia. La Fiat, in particolare, nel 1899 è la prima società anonima del settore e l’assenza di reali competitori le garantisce per alcuni anni un sensibile vantaggio competitivo.

All’interno della Fiat un ruolo determinante hanno le innovative intuizioni di Giovanni Agnelli (1866-1945): passato nel 1902 da segretario ad amministratore delegato, sceglie di confrontarsi con i modelli stranieri, per assimilare le innovazioni di processo e di prodotto, e impone l’abbandono della fase di sperimentazione originale, ma dispendiosa, per una prospettiva decisamente industriale.

Malgrado questa dimensione di eccezionalità, la vicenda della Fiat per altri versi richiama comunque quella di altre case automobilistiche, per es., nell’azionariato socialmente composito: a conferma che il settore auto catalizza risorse finanziarie ‒ oltre che umane e tecniche ‒ rilevanti e diverse, non solo riconducibili ad aristocratici, rentiers e amatori, come vuole la storiografia più datata, ma legate anche a componenti imprenditoriali e bancarie della business community cittadina. Alle imprese automobilistiche degli albori affluiscono in primo luogo capitali provenienti da settori sussidiari, pronti a cogliere le opportunità di una feconda integrazione produttiva. Le prime società automobilistiche attirano quindi i capitali degli imprenditori conciari, i cui prodotti sono largamente usati dalle auto nelle cinghie, nei rivestimenti delle carrozzerie e negli accessori, e in particolare dei Bocca, dei Durio e dei Gilardini, fondatori della Krièger e della Gallia, oltre che di alcune imprese meccaniche. E allo sviluppo delle imprese automobilistiche contribuiscono largamente anche capitali provenienti dall’elettricità, che trova applicazione nelle vetture elettriche come in quelle a benzina.

Notevoli sono dunque gli apporti della Società elettrotecnica italiana alla Fiat (1899), della SIAE alla Krièger (1905), ma anche le partecipazioni di ingegneri attivi in imprese elettriche o elettromeccaniche come Riccardo Arnò (Krièger) ed Ettore Morelli (Rapid e Gallia). Presenze utili, per altro verso, a sottolineare come il settore concorra allo sviluppo dell’auto anche attraverso un trasferimento di saperi tecnici: si formano infatti attraverso un apprendistato in imprese elettriche sia l’ingegner Alfredo Rostain, direttore della Fiat-Ansaldi, sia gli ingegneri Giovanni Enrico e Guido Fornaca, poi direttori tecnici della Fiat.

Il boom delle imprese auto è però finanziato anche da imprenditori meno sensibili a prospettive di integrazione produttiva, ma piuttosto interessati a cogliere, anche in un’ottica puramente speculativa, le occasioni di arricchimento che si configurano nel nuovo settore. Forte è, per es., la presenza di lanieri della Valsesia nella Standard, nell’Aquila e nella Padus, mentre imprenditori operanti tra l’elettrochimica e la farmaceutica sostengono la Rapid e la Junior, e, infine, i Ferro, già soci della Cinzano e attivi in campo agroalimentare, concorrono alla Junior e alla Krièger.

Lo sviluppo dell’auto, infine, deve molto al settore meccanico, in termini tecnici più che finanziario-imprenditoriali. Gli ingegneri, i tecnici, i piloti e i collaudatori che nelle officine dell’ultimo ventennio dell’Ottocento hanno perfezionato sul campo un solido saper fare tecnico, si rivelano una risorsa preziosa per le nascenti imprese automobilistiche: così Giuseppe Prata viene assunto come direttore tecnico dalla casa automobilistica Diatto-Clément, mentre Aristide Faccioli, Vincenzo Lancia, Felice Nazzaro e l’ingegnere Alberto Balloco, già attivi nella Ceirano, vengono assorbiti insieme all’azienda dalla Fiat.

In rari casi, la meccanica offre anche un concorso imprenditoriale al nuovo settore: nei primi del Novecento, Ansaldi e Ceirano agiscono come dipendenti di alcune aziende auto, ma provano anche ad avviare imprese di loro proprietà. Si tratta della conferma che nella meccanica di fine Ottocento il versante imprenditoriale e quello tecnico non sono nettamente distinti, soprattutto nel caso di uomini portatori di un sapere dai tratti in gran parte artigianali.

Quest’avanzata professionalità, d’altronde, se da un lato favorisce il boom delle imprese auto, dall’altro presenta tratti di orgogliosa autonomia decisiva nell’influenzare le dinamiche del settore. Ne fa le spese, per es., la Fiat, nata come impresa dedita all’assemblaggio dei componenti e inizialmente costretta a una faticosa negoziazione con le imprese di accessori, fondamentali in un mercato segmentato come quello delle prime auto, pezzi a volte unici e comunque sempre personalizzati secondo le esigenze del cliente.

Le relazioni sono particolarmente delicate con le prestigiose carrozzerie (Alessio, Locati e Torretta, Ciocca), depositarie dell’antica tradizione torinese dei ‘carradori’ ed essenziali luoghi di esposizione e rivendita di vetture, dove i maestri carrozzieri entrano a diretto contatto con la sparuta ed elitaria clientela dei primi anni del Novecento orientandone gusti e scelte. Ma, in generale, tutte le imprese ausiliarie agiscono senza vincoli fiduciari rispetto all’impresa auto di riferimento, ne condizionano tempi e costi di lavorazione, gestiscono punti nodali del processo produttivo a monte e a valle. Scarso rispetto delle scadenze, difficoltoso controllo dei prezzi, propensione a comportamenti opportunistici sono alla base di una situazione inaccettabile per la Fiat e la spingono verso più stringenti forme di integrazione verticale. Dal 1903, e con più evidenza intorno al 1905-1906, la Fiat assorbe e potenzia numerose società impegnate nella fonderia, nella carrozzeria e nella produzione di accessori diversi. Non tutte le aziende auto possono però permettersi una strategia così dispendiosa.

Oltre alla Fiat, forte dei consistenti utili accumulati nei primi anni, quando agisce senza concorrenza, su questa strada si avvia, ma con risultati più modesti, solo l’Itala, sostenuta da un solido gruppo di armatori, zuccherieri e finanzieri genovesi.

Nel 1907, quando sull’Italia e su Torino si abbatte una nuova crisi particolarmente grave per il settore automobilistico, la Fiat si presenta quindi più preparata rispetto alle concorrenti, afflitte da una minore disponibilità di capitali o, più semplicemente, da una minore disponibilità dei proprietari a investirli nell’auto.

Alcune case (Krièger, Gallia e Peugeot-Croizat) producono su licenza di imprese straniere, da cui sostanzialmente dipendono; la Diatto-Clément è penalizzata dai tentennamenti della proprietà verso un impegno ritenuto comunque collaterale rispetto all’attività principale (la meccanica pesante); in altre società ancora, come le creature dei fratelli Ceirano (Scat, Spa, Junior) la genialità della direzione tecnica non si accompagna a una corrispondente affidabilità finanziaria.

Per molte imprese, in generale, la crisi mette a nudo i limiti di una trasformazione in anonima puramente strumentale, finalizzata a quotare la società in Borsa durante la febbre del 1905-1906 per fare leva sull’ascesa dei titoli e finanziare così una struttura industriale ancora da impiantare. La stessa Fiat viene coinvolta dalle dinamiche speculative, a cui probabilmente non è estranea la scelta, nel 1906, di rifondare la vecchia anonima con capitale passato da 800.000 lire a 9 milioni, attraverso cui Agnelli capitalizza al massimo gli straordinari rialzi borsistici del 1905-1906 e taglia fuori dalla tolda di comando i vecchi azionisti: un’operazione molto discussa e per la quale anzi Agnelli e altri dirigenti Fiat saranno incriminati per aggiotaggio e falso in bilancio, accusa da cui verranno assolti definitivamente nel 1913.

Neanche la Fiat, dunque, viene risparmiata dalla crisi di Borsa, ma una volta attraversata la bufera, anche giudiziaria, risulterà tra le aziende che meglio hanno assorbito gli effetti della crisi. Diversi sono i motivi del successo Fiat. Certamente ha un ruolo rilevante l’azzardata strategia finanziaria messa in campo dagli amministratori intorno alla crisi del 1907, così come il sostegno di varie istituzioni politiche e creditizie, interessate al salvataggio di una grande impresa nazionale e al recupero delle sue ingenti esposizioni. Sul piano delle scelte strutturali, tuttavia, la decisione di investire i consistenti utili dei primi anni in un disegno di diversificazione produttiva e di integrazione verticale, pur dispendioso e rischioso, consente alla Fiat di affrontare la crisi con più flessibilità e con una struttura di gruppo più solida e integrata rispetto alle concorrenti.

Tra le altre case automobilistiche, superano la crisi del 1907 solo l’Itala, la Scat e la Diatto Clément, ma con volumi produttivi lontani dalla Fiat. Per il resto, le imprese orientate alla produzione su brevetti stranieri (Kriéger e Gallia) sono colpite dalle difficoltà delle case madri, la Società piemontese di automobili Ansaldi-Ceirano (Spa) sposta la propria sede a Genova e deve convertirsi alla produzione di mezzi pesanti e infine la Standard, l’Aquila e la Padus crollano a causa della loro fragilità finanziaria.

Se, nonostante le gravi ripercussioni, specie sul settore automobilistico, la crisi del 1907 non penalizza in modo decisivo l’economia torinese, lo si deve anche ai provvedimenti della giunta comunale Frola. A capo di un ceto politico-amministrativo rinnovato, in sintonia con la linea liberale e riformista promossa a livello nazionale dal governo Giolitti, la nuova amministrazione comunale lancia un programma puntato sulla modernizzazione delle infrastrutture, dai trasporti alle forniture di gas ed elettricità, sullo sviluppo dell’istruzione professionale e sulla realizzazione di abitazioni popolari. La vasta azione, ambiziosa e costosa, in gran parte viene sostenuta finanziariamente dalla Crt e dal San Paolo, avviati proprio a inizio Novecento verso lo scioglimento dei nodi relativi alla loro contraddittoria natura. Sulla scorta della legge del 1898 sui Monti di pietà e attraverso i conseguenti adeguamenti statutari, i due enti definiscono un profilo creditizio sempre più netto e stringono le relazioni con il tessuto imprenditoriale locale: pur nel solco della tradizionale prudenza degli impieghi, cresce la quota dei prestiti all’industria, come, per es., il mutuo fondamentale concesso dalla Crt alla Fiat nel 1907, e non a caso in questi anni i due istituti vengono chiamati a far parte della Commissione per lo studio del problema industriale a Torino.

Al di là della crisi del 1907, in conclusione, la business community è ormai avviata verso un profilo poliforme e innervato da solide interdipendenze settoriali. Attraverso i difficili frangenti del crack edilizio del 1889, della nuova caduta del 1899, della crisi del 1907, reggono alcuni fattori di continuità (reti di banchi privati, network cotonieri protestanti, piccola imprenditoria meccanica organizzata secondo alcuni tratti distrettuali). Su questo tessuto alcuni fattori di forzatura (i capitali stranieri attirati dall’elettricità, le banche miste, l’auto) si innestano con un’azione strutturante, destinata a rafforzare la business community e l’integrazione tra settori.

Dal punto di vista settoriale, inoltre, la Torino di inizio secolo appare variegata e non supinamente schiacciata sulla produzione automobilistica. La business community subalpina passa progressivamente dal primo profilo sistemico degli anni Ottanta, incardinato su cotone/ferrovie/credito ‒ con una sbandata speculativa della banca in direzione dell’edilizia e con l’isolamento della meccanica ‒ a uno segnato dalla crescente integrazione, ruotante intorno a cotone/elettricità/meccanica/banca e cresciuto anche in settori labour intensive come il dolciario e la concia. In questo quadro, già a inizio secolo la Fiat è attore dal peso decisivo nel modellare la business community, ma non al punto da identificarvi l’intero panorama imprenditoriale.

La business community torinese tra interessi e politica

Tra la crisi del 1907 e la conclusione della Prima guerra mondiale, la business community torinese è contrassegnata dall’espansione di alcune imprese abili a cogliere l’occasione offerta dalle commesse militari e in particolare di quelle metalmeccaniche e conciarie. Significativamente nella comunità d’affari locale assume un ruolo di primo piano Dante Ferraris (1868-1931), una figura spregiudicata e dinamica che proprio nella metalmeccanica e nella concia colloca le basi della propria parabola imprenditoriale e che utilizza il rapporto con la politica come leva del proprio successo.

Dopo aver contribuito nel 1899 alla trasformazione in anonima delle Officine già f.lli Diatto (l’impresa di materiale ferrotranviario fondata dal suocero Giovanni Battista Diatto), Ferraris ne diventa presto il direttore tecnico. In seguito rappresenta l’azienda nel CdA di alcune società partecipate come le Industrie metallurgiche, di cui è nominato presidente nel 1905, e la Società anonima Gilardini. Viene inoltre nominato consigliere della Confederazione generale piemontese tra industriali e commercianti, associazione confluita nel 1906 nella Lega industriale. È, in sostanza, un personaggio in ascesa quando, nel 1908, viene cooptato nel CdA della Fiat insieme a Eugenio Pollone ed Eugenio Rebaudengo, rappresentanti rispettivamente la Comit e la Crt, con il compito di guidare l’azienda nel critico passaggio seguito alle dimissioni di Agnelli e Scarfiotti, oggetto delle ricordate indagini giudiziarie. Ferraris dà prova di affidabilità se nel 1909, al suo rientro ai vertici della Fiat, Agnelli lo nomina vicepresidente.

Nasce così il binomio Agnelli-Ferraris, rafforzato agli inizi dalla comune fiducia nel riformismo giolittiano quale via per gestire la conflittualità sociale in aumento. Una linea cui aderisce una parte della comunità d’affari torinese e che si manifesta attraverso la candidatura di alcuni imprenditori (Leumann, Bocca, Diatto) alle elezioni amministrative come risposta ai crescenti successi elettorali socialisti, mentre una parte della comunità imprenditoriale affronta con pragmatismo le questioni più urgenti, come avviene nella Commissione sul problema industriale di Torino, senza escludere un confronto dialettico con l’ala socialista riformista.

Sul piano sindacale, d’altra parte, il crescente attivismo delle organizzazioni dei lavoratori sfida il ceto imprenditoriale più dinamico a istituire analoghe organizzazioni di rappresentanza degli interessi, nelle quali ancora una volta Ferraris assume ruoli di responsabilità: oltre al già ricordato impegno nell’associazione alla base della Lega industriale, Ferraris fa parte della neonata Federazione piemontese, nel 1908, e dell’Associazione tra le società italiane per azioni (1910). È perciò il partner ideale per Agnelli che, superati i problemi giudiziari e in un panorama automobilistico su cui la crisi ha operato una radicale scrematura, guida la Fiat attraverso una fase di rinnovata espansione e necessita di una stabilizzazione delle relazioni sindacali.

Stimolato dalle commesse militari legate all’impresa libica, infatti, lo sviluppo dell’impresa viene accompagnato da una radicale revisione dell’organizzazione del lavoro secondo il modello tayloristico, finalizzata a una valorizzazione degli impianti; e, tuttavia, l’ambizione di fare come Ford, di imitare gli stabilimenti statunitensi visitati da Agnelli nel 1912, richiede un accomodamento delle tensioni sociali più acute. In quest’ottica, nel 1911, Agnelli promuove l’associazione di sette imprese del settore, il Consorzio delle fabbriche automobilistiche, come strumento di pressione per ribadire la propria leadership e allineare su pratiche negoziali comuni le aziende rimaste escluse, come l’Itala e la Lancia.

Altrettanto scomodo, per l’amministratore delegato della Fiat, è l’oltranzismo dei gruppi meno disponibili al compromesso sociale, come gli imprenditori metallurgici, e Ferraris svolge verso queste frange un’essenziale funzione di collegamento: siede infatti nei CdA delle Ferriere piemontesi, delle Officine Diatto e delle Industrie metallurgiche, cioè tre delle principali imprese del Gruppo piemontese. E tuttavia l’accordo con gli operai metalmeccanici del giugno 1913, giunto a conclusione di una lunga vertenza, segna l’ultimo successo del riformismo giolittiano nella gestione del conflitto sindacale a Torino, e determina una svolta nel rapporto tra Agnelli e Ferraris.

Divenuto proprio nel 1913 presidente della Lega industriale al posto di Louis Bonnefon Craponne, spinto alle dimissioni dal governo Giolitti per la sua intransigenza, Ferraris scivola via via su posizioni più conservatrici. Diventa infatti portavoce di gruppi imprenditoriali, soprattutto siderurgici e cotonieri, indispettiti dall’accordo del 1913, interpretato come un cedimento alla violenza operaia, e accomunati dalla richiesta di barriere protezionistiche a difesa delle proprie imprese. Ferraris si avvicina dunque alle posizioni politiche dei nazionalisti: dapprima, nelle elezioni del 1914, con Pippo Ceriana e Pietro Diatto sostiene e porta al successo il nazionalista Bevione contro il candidato socialista; quindi, allo scoppio della Prima guerra mondiale, durante l’anno di neutralità italiana promuove una campagna di finanziamento del giornale «L’idea nazionale» capace di radunare l’intero ceto imprenditoriale torinese, compresa la Fiat, che aderisce nel marzo 1915.

Il ralliement di Ferraris alle posizioni interventiste non stupisce, in considerazione dei suoi numerosi interessi nell’industria bellica (dalla Società italiana per la fabbricazione dei proiettili alla Società prodotti esplodenti di Milano) e metallurgica in generale (Gruppo piemontese, Fiat San Giorgio, Way Assauto, Industrie metallurgiche, Officine F.lli Diatto, Ferriere piemontesi): analoghi orientamenti esprimono infatti tutti gli imprenditori metallurgici. E tuttavia la business community torinese nel suo complesso assume di fronte alla guerra una posizione non monolitica, ma anzi mostra un ventaglio di atteggiamenti certamente più articolato rispetto ai casi di Milano o Genova. Si attestano su posizioni di neutralità, almeno inizialmente, gli imprenditori alimentari e vinicoli, e in generale gli esponenti di tutti i settori, come, per es., il laniero, tradizionalmente orientati all’esportazione e desiderosi di approfittare della situazione per conquistare nuovi mercati. Più oscillante è il comportamento della Fiat: se l’anno di neutralità l’avvantaggia rispetto ai concorrenti esteri, presto il conflitto determina condizioni (isolamento internazionale, rarefazione delle materie prime, instabilità dei cambi) penalizzanti per l’imprenditoria torinese e per la casa automobilistica in particolare.

In tale contesto, la relazione con Ferraris rischia di pregiudicare il prezioso sistema di alleanze costruito da Agnelli in età giolittiana e, in particolare, potrebbe mettere in discussione il perno di quel sistema, ovvero la Comit, divenuta oggetto, nel clima di esaltazione patriottica, di continui attacchi per la supposta ‘germanicità’ dei suoi capitali. Che Ferraris sia ormai un partner ingombrante per Agnelli emerge poi chiaramente nel 1916, quando i duri attacchi rivolti contro i due ‘profittatori di guerra’ dalla «Stampa» di Frassati, molto vicina agli ambienti giolittiani e neutralista della prima ora, sono seguiti dai gravi ribassi azionari del titolo Fiat e di alcune imprese collegate.

Nel 1917 Ferraris si dimette dunque da vicepresidente Fiat, anche perché ormai concentrato su progetti di ascesa politica che lo condurranno a capo del ministero dell’Industria nel 1922. Liberatosi della presenza di Ferraris, nel 1917 Agnelli reinveste gli utili di guerra e assorbe le imprese del Gruppo piemontese, con un’operazione destinata a suscitare polemiche, ma essenziale nel provvedere la Fiat di un articolato e completo entroterra produttivo sussidiario. La Prima guerra mondiale rafforza quindi la leadership della Fiat nella business community torinese e, più in generale, premia le imprese metalmeccaniche (come la Società nazionale officine Savigliano) e conciarie (come la Gilardini) impegnate a rifornire l’esercito di armi, mezzi militari ed equipaggiamento. Le commesse belliche rilanciano anche il settore cotoniero, reduce da un decennio di risultati negativi. Pesantemente colpiti dalla crisi di sovrapproduzione del 1907-1908, certamente favorita dalle dinamiche oligopolistiche di inizio secolo, alcuni cotonieri sono tentati di rispondere alla successiva fase di stagnazione con il ritorno a logiche individualistiche, come avviene per Mazzonis, ma anche per gli Abegg, rimasti unici proprietari del Cotonificio Valle Susa dal 1913, data della fuoriuscita di Emilio Wild.

Dopo la crisi del 1907, e soprattutto con la Prima guerra mondiale, in conclusione, il legame con lo Stato e la politica assume un ruolo determinante nel plasmare la business community torinese emersa a cavallo dei due secoli. La capacità di intercettare le commesse pubbliche, la disponibilità a un più stretto rapporto con la politica, con un impegno anche in prima persona, la partecipazione alle organizzazioni di rappresentanza degli interessi intervengono a modificare la mappa della comunità imprenditoriale locale: consolidano il peso degli imprenditori a cavallo tra la metalmeccanica, la concia e la finanza e sostengono il ruolo dei cotonieri, pur in evidente arretramento anche per cause economiche strutturali, legate a dinamiche settoriali. Ne risulta una nuova proiezione della business community e dei suoi uomini di punta in uno scenario più chiaramente nazionale, in cui l’interlocuzione con Roma e con i vertici della politica ricopre un peso via via crescente.

Bibliografia

Sull’utilità della business community come chiave interpretativa si veda I. Balbo, Torino oltre la crisi. Una business community tra Otto e Novecento, Bologna 2007, cui si rimanda anche per le indicazioni bibliografiche e che è il riferimento principale per la ricostruzione della comunità imprenditoriale subalpina tra gli anni Ottanta e la crisi del 1907, qui riproposta in una versione ridotta e aggiornata. Il volume è inoltre alla base del CD-ROM a cura di P. Rugafiori, C. Ottaviano, La business community a Torino 1883-1907. Imprese, imprenditori, relazioni sociali ed economiche, Torino 2008, dove si trovano anche schede biografiche sui protagonisti principali della comunità imprenditoriale torinese.

Si vedano inoltre:

M. Abrate, Le développement téchnologique et l’essor industriel en Piémont, 1850-1914, «Studi piemontesi», 1973, 2, 2, p. 46.

V. Castronovo, Il Piemonte, in Storia delle regioni italiane dall’Unità ad oggi, Torino 1977.

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P. Rugafiori, Alle origini della FIAT. Imprese e imprenditori in Piemonte (1870-1900), in Grande impresa e sviluppo italiano. Studi per i cento anni della FIAT, a cura di G. Berta, C. Annibaldi, 1° vol., Bologna 1999, pp. 135-83.

F. Levi, Da un vecchio a un nuovo modello di sviluppo economico, in Storia di Torino. Da capitale politica a capitale industriale (1864-1915), a cura di U. Levra, 7° vol., Torino 2001, pp. 5-72.

P. Rugafiori, Una città-fabbrica?, in Una scuola, una città, 1852-2002. I 150 anni di vita dell’istituto “Germano Sommeiller” di Torino, a cura di A. D’Orsi, Torino 2003, pp. 57-79.

Per un approfondimento sui singoli settori più significativi si rinvia a:

V. Castronovo, L’industria cotoniera in Piemonte nel secolo XIX, Torino 1965.

F. Bonelli, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Torino 1971.

V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino 1971.

A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, 1894-1906, 1° vol., Le premesse: dall’abolizione del corso forzoso alla caduta del Credito Mobiliare, Milano 1974; 2° vol., Il sistema bancario tra due crisi, Milano 1974; 3° vol., L’esperienza della Banca Commerciale italiana, Milano 1975.

V. Castronovo, Gilardini, 1905-1985: storia di un gruppo industriale, Torino 1985.

F. Bova, L’industria cotoniera piemontese fino al 1914, «Padania», 1988, 4, pp. 11-30.

G. Caligaris, L’industria elettrica in Piemonte dalle origini alla prima guerra mondiale, Bologna 1993.

G. Berta, Il governo degli interessi. Industriali, rappresentanza e politica nell’Italia del Nord-Ovest, 1906-1924, Venezia 1996.

V. Castronovo, FIAT, 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano 1999.

Banca CRT. Storia. Patrimonio d’arte. Comunicazione d’impresa, a cura di C. Ottaviano, Torino 2002 (in partic. G. Jocteau, P. Soddu, Fondatori e presidenti dalle origini al nuovo millennio, pp. 53-77; C. Brambilla, G. Piluso, Da ente morale a banca. Organizzazione, istituzioni e mercati 1827-2002, pp. 79-109).

Valdesi e protestanti a Torino (XVIII-XX secolo). Convegno per i 150 anni del Tempio valdese (1853-2003), Torino 2005.

I. Balbo, La Società nazionale delle officine di Savigliano, in Storia di Savigliano, Il ’900, a cura di S. Soave, 1° vol., Savigliano 2006, pp. 189-223.