La Cassazione di fronte alla tenuità del fatto

Libro dell'anno del Diritto 2016

La Cassazione di fronte alla tenuità del fatto

Piero Gaeta

L’introduzione del nuovo istituto della “particolare tenuità del fatto” di cui all’art. 131 bis c.p.p., normativa sostanziale di favore ma priva di una normativa transitoria, pone all’interprete delicati problemi circa la sua immediata applicabilità ai processi in corso nel giudizio di cassazione. La riflessione che segue esamina le prime indicazioni fornite sul punto dalla stessa giurisprudenza di legittimità, tentando poi una ricostruzione delle linee guida che dovrebbero presiedere alla soluzione di tale problematica teorica, dalle evidenti ricadute sul piano pratico.

La ricognizione

Novità normativa, in materia penale, tra le più significative dell’anno appena decorso, l’art. 131 bis c.p.(introdotto dall’art. 1 d.lgs. 16.3.2015, n. 28) codifica, per i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria o detentiva entro il limite dei 5 anni, una causa soggettiva di non punibilità legata alla “particolare tenuità del fatto”, valutata sui versanti della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, ed, ancora, sulla non abitualità del comportamento.

Con tipizzazioni in negativo, la norma esclude la sussistenza della particolare tenuità allorquando il soggetto ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. Ancora, e sempre per tipizzazione legale, la particolare tenuità è esclusa nel caso di delinquente abituale, professionale o per tendenza o quando il soggetto abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità o nel caso di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Molteplici sono i profili di interesse teorico per tale istituto1: dalla delineazione della sua natura, allo sfondo teorico (e costituzionale) in cui si colloca, i.e. l’architettura del principio di offensività che sottende; dalle problematiche ermeneutiche di carattere sostanziale, ai non semplici meccanismi applicativi nelle sentenze di merito. Ovviamente, i limiti assai contenuti del presente contributo non consentono neppure cenni di tale importante background. Pertanto, le considerazioni che seguono mireranno a porre sotto lente esclusivamente un limitato segmento processuale del nuovo istituto: quello della sua applicazione nel giudizio di cassazione. Limitato e, nondimeno, di particolare importanza: non solo perché esso costituisce cartina al tornasole di numerosi profili teorici evocati, ma anche in ragione delle ricadute pratiche che induce. Al di là della delineazione della cornice teorica, infatti, l’effettivo impatto “statistico” sul sistema del nuovo istituto (e, dunque, la sua stessa finalità deflattiva) costituiranno variabile assai dipendente dalle ermeneutiche che il giudice di legittimità riterrà di adottare, specie in questa primissima fase applicativa. In breve, in questa prima giovinezza dell’istituto, sull’an e sul quomodo dell’applicabilità di esso nel giudizio di cassazione – dunque, sui processi in corso che hanno superato la fase del merito – si compiranno verifiche teoriche e si misureranno esiti pratici: insomma, una piccola fessura dalla quale si intravede, tuttavia, un vasto orizzonte.

La focalizzazione

La focalizzazione del problema inerente l’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. nel giudizio di legittimità pone in immediata evidenza i due dati da cui originano le criticità.

È innanzitutto pacifico che la nuova disciplina, integrando una causa personale di non punibilità, ha natura sostanziale: essa costituisce pertanto lex mitior rispetto al precedente regime normativo, nel quale dall’accertamento di responsabilità penale sarebbe scaturita la condanna. In conseguenza, sembrerebbe doverosa, anche in ossequio ai canoni del principio di legalità “europea”, l’applicazione retroattiva in favor (art. 2, co. 4, c.p.; art. 7 CEDU) della nuova disciplina.

Accanto a tale dato, si pone l’altro: il legislatore della riforma non ha inteso fornire alcuna normativa transitoria volta a regolare l’applicazione del nuovo istituto ai procedimenti in corso, specie quelli nei quali la fase del merito era già superata al momento dell’entrata in vigore del nuovo art. 131 bis c.p.

Scelta, questa, che – se indubbiamente “comoda” per tecnica legislativa (essendo ogni disciplina transitoria di lex mitior ad alto rischio, per i pericolosi dubbi di compatibilità costituzionale che comunque reca con sé) – incide molto, nel breve e medio periodo, sulla sorte dell’istituto e sulle sue effettive potenzialità deflattive. È intuitivo: è cosa assai diversa, per il sistema, ritenere applicabile o no la causa di non punibilità in questione “anche” alle diecine di migliaia di processi pendenti in cassazione.

2.1 Sull’art. 131 bis c.p. applicato in Cassazione: prime decisioni

Ben consapevoli dell’importanza e della tensione generata da tale alternativa ermeneutica, le sezioni semplici della Cassazione hanno tentato di coinvolgere immediatamente, per la sua soluzione, le Sezioni Unite, ma senza successo2.

È così intervenuta, in sede di legittimità, una prima decisione “pilota”3, cui, nel breve volgere di pochi mesi, sono seguite molte altre (oggi ammontano già a diverse diecine), con oscillanti rationes decisorie e prospettive argomentative tra loro spesso poco armoniose, se non addirittura divergenti. È una giurisprudenza in formazione, insomma: e della quale tuttavia, in attesa del suo assestamento, è possibile fornire qualche utile linea ricostruttiva.

La sentenza n. 15449/2015, Mazzarotto – il best first della vicenda che ci occupa – ha ritenuto che «la questione della particolare tenuità del fatto sia proponibile anche nel giudizio di legittimità», ai sensi dell’art. 609, co. 2, c.p.p. trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello; che, nel giudizio di legittimità, occorrerà preventivamente verificare la sussistenza, in astratto, delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, procedendo poi, in caso positivo, all’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice del merito affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile; che pertanto, eseguita la preliminare verifica della cornice edittale, il giudice di legittimità procederà all’apprezzamento dei presupposti basandosi «su quanto emerso nel corso del giudizio di merito, tenendo conto, in modo particolare, della eventuale presenza, nella motivazione del provvedimento impugnato, di giudizi già espressi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto»4.

Dunque, un primo approccio minimalista: attento a delimitare il potere di intervento della corte, a tracciare confini non debordanti la funzione di legittimità, senza tuttavia sabotare l’istituto rispetto al “già deciso” dei giudici di merito.

Nelle successive pronunce, la Corte di cassazione ha tuttavia quasi costantemente rigettato (o dichiarato inammissibile, per ragioni processuali) la richiesta di applicazione della causa di non punibilità in questione, raramente ritenendo di annullare la sentenza per demandare al giudice del rinvio la valutazione circa la possibile applicazione dell’art. 131 bis c.p.

Un primo gruppo di decisioni ha riguardato il profilo della corretta veicolazione procedurale della richiesta in cassazione. In particolare – ritenuta pacifica l’ammissibilità della domanda con i motivi aggiunti o con rituale memoria tempestivamente depositata5 – le criticità hanno riguardato la proponibilità della richiesta nel corso della discussione orale in cassazione. Modalità, questa, ritenuta in alcune pronunce inammissibile perché aspecifica, se non accompagnata da allegazioni concrete «concernenti i fattori sui quali si fonda la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p.»6 In breve, la richiesta va avanzata “con un minimo di concretezza e specificità” quanto agli elementi da cui eventualmente desumere la particolare tenuità del fatto7. Ma, al di là del difetto argomentativo che esita in una genericità intrinseca della richiesta, una giurisprudenza più severa ritiene comunque inammissibile la richiesta avanzata solo in sede di discussione orale: in tal caso, sarebbe violato il principio del contraddittorio, il quale postula che la richiesta «possa utilmente essere coltivata dalla parte nel rispetto del termine di giorni quindici prima dell’udienza», vale a dire con memoria scritta tempestivamente depositata8.

Al di là di tali profili di ammissibilità, la delibazione della Corte si è poi indirizzata ai presupposti soggettivi ed oggettivi della richiesta, con un esito negativo assolutamente preminente.

Così – quanto innanzitutto alle condizioni soggettive dell’imputato – è ritenuta ictu oculi causa ostativa la sua condizione di recidivo reiterato specifico9 o l’esistenza di precedenti condanne o anche di una soltanto10. Al diniego del beneficio, in altri casi, si perviene per via indiretta: desumendo la gravità del fatto (recte: la sua non particolare tenuità) ritenuta dal giudice del merito in ragione del trattamento sanzionatorio da costui applicato. Insomma, per implicitum: cosicché ogni dosimetria che si discosti dal minimo edittale costituisce sintomatico ed ostativo indice di rilevante gravità del fatto. frequenti, ad esempio, affermazioni secondo cui una pena pecuniaria irrogata nella misura del doppio del minimo edittale è segno «di una valutazione, già compiuta dal giudice di merito, di non particolare tenuità del fatto»11: conclusione, questa, autorizzata in generale, secondo altra pronuncia, appunto dalla «irrogazione di una pena superiore al minimo»12.

In queste inferenze, giocano poi un ruolo essenziale le circostanze attenuanti generiche: se negate dai giudici di merito, divengono infatti sintomo di sicura esclusione della particolare tenuità del fatto13 e perfino se concesse «ma senza giudizio di prevalenza sull’aggravante contestata»14.

Ma, oltre a tale casistica (ispirata, si potrebbe dire, da “indici indiretti”) ve ne è altra assai più interessante e che rivela un ruolo quasi eccentrico della giurisdizione di legittimità. La Corte, “costretta” in qualche modo dalle congiunture processuali, apprezza “direttamente” gli indici di disvalore del fatto, pervenendo ad un’esclusione della particolare tenuità del fatto. In altre parole, esprime un apprezzamento (di merito?) della species facti, non indotto da indici formali (entità della pena; condizioni soggettive; pena irrogata, ecc.) e neppure indiretti (trattamento sanzionatorio applicato nel giudizio di merito), ma da evidenze contenutistiche del fatto-reato direttamente valutate.

Così – per limitarsi a qualche esempio – l’omesso versamento di 151.800,00 euro all’erario di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituti (art. 10 bis d. lgs. n. 74 del 2000), è ritenuto dal Giudice di legittimità “considerevole somma” e dunque, «palesemente, non può ritenersi un fatto di “particolare tenuità”»15; eguale valutazione riceve l’ammontare di un debito tributario evaso sopra soglia per 9.000 € (perché «potrebbe essere ritenuta di particolare tenuità solo un’omissione di ammontare vicinissimo a tale soglia»)16 o l’invasione di suolo comunale con l’edificazione di piccoli manufatti17 o un elevato tasso alcolemico (1,65g /1) riscontrato in un conducente18. Diviene, insomma, assai mobile il confine tra giudizio di diritto e (ri)valutazione del fatto: fino a far sospettare che quasi il giudizio di legittimità cambi pelle. Sospetto che diviene intenso allorquando il giudice di legittimità, pur richiamando formalmente i criteri di metodo enunciati dalla sentenza Mazzarotti, in realtà rigetta la richiesta con motivazioni che paiono scolpite secondo cadenze argomentative di merito. Ciò avviene, ad esempio, quando la Corte – dopo aver attestato che la fattispecie in esame rientra «in astratto nell’ambito di operatività dell’istituto» avuto riguardo alla pena edittale ed all’assenza di ipotesi di esclusione di cui al comma 2, ultimo parte, dell’articolo 131 bis c.p. e pur dopo aver constatato «che è stata applicata la sola pena pecuniaria, previa concessione delle attenuanti generiche» – afferma che «la connotazione della colpa addebitata al datore di lavoro … presenta ex se profili di obiettiva rilevanza, ostativi alla astratta configurabilità della particolare tenuità»19. Difficile negare che tale valutazione attenga a profili assai poco armoniosi con un giudizio di diritto. Da ultimo, vi sono le non numerose ipotesi di annullamento con rinvio, affinché il giudice del merito valuti la richiesta di applicazione della causa di non punibilità. D’altra parte, tali decisioni, a loro volta, non sempre risultano coerenti con i canoni interpretativi appena sopra esaminati. Ad esempio, si perviene all’annullamento «limitatamente al punto relativo all’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.» anche in presenza di pena pecuniaria applicata nel massimo edittale20 (in perfetta antitesi con i prevalenti criteri sopra esaminati) o l’esistenza di precedenti penali sia pure genericamente indicati dal giudice di merito21. In altri casi infine (non troppi, per vero) l’attenzione al metodo è massima e di apprezzabile rigore: si rileva la richiesta “non infondata ictu oculi”, ritenendo, nel resto, precluso al giudice di legittimità un tipo di accertamento «basato sulla complessiva valutazione della rilevanza di profili di merito», correttamente rimessi al giudice del rinvio22. Insomma, un “vaglio di astratta non incompatibilità” da parte della Corte, dinnanzi al quale opportunamente ci si arresta, essendo preclusa la successiva valutazione23. Come si vede, un universo decisorio assai composito ed ancora alla ricerca di stabili linee di coerenza.

2.2 I punti di frizione: art. 131 bis c.p. ed art. 129 c.p.p.

Per penetrare meglio il problema di queste prime e malferme risposte giurisprudenziali, sulla “particolare tenuità del fatto” occorre allargare lo sguardo. Precisamente, rammentando gli approdi cui è pervenuta la giurisprudenza costituzionale sul tema della retroattività della lex mitior sulle orme della giurisprudenza CEDU, segnatamente a partire dalla nota sentenza del 17.9.2009, Scoppola c. Italia. Pronuncia con la quale la Grande Camera, innovando il proprio consolidato orientamento, ha riconosciuto che «l’art. 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della legge penale meno severa», traducendosi «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato». È anche fin troppo noto che, da tale orientamento, la Corte costituzionale non ha tratto tuttavia il corollario della assoluta inderogabilità di quel principio, opponendo che, a differenza di quello della irretroattività della legge penale sfavorevole, enunciato dall’art. 25, co. 2, Cost., il principio della retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni, come dimostrano le varie discipline transitorie destinate, con un regime intertemporale, a limitare proprio gli effetti retroattivi delle modificazioni normative più vantaggiose.

Ne discende che la retroattività in mitius ammette – salva l’ipotesi di abolitio criminis – limiti “interni” di tipo processuale, costituiti, quanto alla successione di norme penali “migliorative”, dalla inesistenza di una sentenza irrevocabile. Ma ne discende anche – ed in parallelo – che allorquando una norma – quale quella di cui all’art. 131 bis c.p. – conduca a effetti favorevoli direttamente sul versante della pena, diviene operativa la garanzia offerta dall’art. 7 CEDU per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, con tutto quel che ne deriva sul piano dell’ordinamento interno. Sicché, in assenza di disciplina transitoria, l’applicazione nel processo della norma di maggior favore in punto proprio di applicazione della “pena” (recte: la sua applicazione “retroattiva” ai fatti commessi sotto la vigenza della normativa più sfavorevole), si struttura quale obbligo ex lege: di più, come dovere di rango costituzionale, pur nei limiti sopra accennati. In breve, quella norma dovrà essere applicata “in ogni stato e grado del procedimento”, pur nei limiti di compatibilità per lo “stato” o “grado” dei processi in corso, vale a dire con i necessari adattamenti scaturenti dalle peculiarità, ad esempio, del giudizio di legittimità.

Alla luce di tale premessa di metodo, si pone quindi il problema dello strumentario a disposizione per il giudice di legittimità per l’interlocuzione con una richiesta – quella di “non punibilità”– che ha marcati tratti per collocarsi esclusivamente nell’alveo processuale di merito. L’unico parametro processuale cui sembra poter fare riferimento è allora la disciplina dettata dall’art. 129 c.p.p., dal momento che, superati i gradi di merito, esso (disciplinando la declaratoria di determinate formule di proscioglimento, prevista, appunto, “in ogni stato e grado del processo”) sembrerebbe rappresentare l’unico veicolo “applicativo” diretto della nuova causa di non punibilità.

Sotto tale profilo, l’art. 131 bis c.p. fronteggia l’art. 129 c.p.p., chiedendogli quasi di divenire lo strumento applicativo diretto nel giudizio di legittimità.

Ma, in realtà, tale utilizzazione prospetta più di un problema di coerenza di sistema, che segnala un uso forzato e non appropriato dello strumento del 129 c.p.p. all’ipotesi di specie. Invero, l’art. 129 c.p.p. è disposizione che sancisce uno specifico dovere del giudice, piuttosto che un diritto per l’imputato, di declaratoria “immediata” di «determinate cause di non punibilità» nell’ambito delle quali, tuttavia, ben difficilmente può incastonarsi l’ipotesi della non punibilità per irrilevanza penale del fatto, neppure in via analogica. Infatti, la pronuncia ex art. 131 bis c.p. non può farsi rientrare – a pena di evidenti forzature – né in quelle della insussistenza del fatto o della mancata commissione del fatto da parte dell’imputato o del fatto non costituente reato o non previsto dalla legge come reato. L’ipotesi delineata dall’art. 131 bis c. p. presuppone infatti, al contrario, che il fatto-reato sia stato accertato e che di esso sia pienamente responsabile l’imputato e della lesività della condotta: a nulla rilevando, ai fini dell’applicazione dell’art. 129 c.p.p., che la nuova causa di non punibilità operi sulla pena (senza determinare, appunto, l’estinzione del reato).

Ora, è ben vero che non mancano pronunce che decisamente affermano la possibilità di riconoscere anche in sede di legittimità, a norma dell’art. 129 c.p.p. la sussistenza di una causa di non punibilità, sulla base delle circostanze di fatto appurate dal giudice del merito24, con ciò facendo dichiarata applicazione analogica del principio sancito dall’art. 129 del codice di rito25. Ed è vero anche che le Sezioni Unite “De rosa”26 hanno assegnato all’art. 129 c.p.p. il valore di «una regola di condotta rivolta al giudice, il quale, di fronte ad una riconosciuta causa di non punibilità, deve adottare la corrispondente decisione allo stato degli atti, senza che possa trovare spazio una qualsiasi altra attività non essenziale». Ma è vero anche che tale principio non giova per una causa di non punibilità (o forse meglio, di “non applicazione della pena”) che presuppone reato e responsabilità e che, pertanto, non potrebbe certo essere ricondotta nel perimetro del “fatto che non costituisce reato”.

In breve, ciò che risulta davvero ostativo alla possibilità di inserire l’art. 131 bis c.p. fra le cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p., è il carattere di “ufficialità” che caratterizza quest’ultima declaratoria, e che finirebbe per attribuire al giudice di legittimità un inedito compito di “merito”, misurandosi direttamente con l’apprezzamento dei vari parametri, oggettivi e soggettivi, che caratterizzano il meccanismo decisorio dell’art. 131 bis c.p. Non senza considerare che una applicazione “diretta” da parte del Giudice di legittimità della causa di non punibilità in questione con una declaratoria ex art. 129 c.p.p. avverrebbe in assenza di un qualsiasi contraddittorio sul punto, senza che le parti (soprattutto il pubblico ministero) abbiano potuto interloquire sul versante delle prove atte a corroborare o escludere la sussistenza dei presupposti legali per l’applicazione della causa di non punibilità stessa.

Dunque, un primo e sicuro limite dei poteri della Corte di cassazione sembra tracciato. Essa non potrà applicare “d’ufficio” (a mezzo di una pronuncia ex art. 129 c.p.p.) la causa di non punibilità dell’art. 131 bis c.p., proprio in quanto la norma presuppone uno scrutinio di merito, da svolgersi in contraddittorio, del tutto simile a quello sulla responsabilità e sulla sussistenza del reato. Conclusione, questa, che pare perfettamente armonica con la (necessaria) calibratura processuale dell’applicazione di una lex mitior quale indubbiamente è quella innestata con l’art. 131 bis c.p.

I profili problematici. I poteri della Cassazione sulla richiesta

Questo primo punto fermo, tuttavia, non elide le evidenti e residue problematicità connesse ai poteri del giudice di legittimità investito dalla richiesta, in quella sede, dell’applicazione della nuova e più favorevole disposizione.

I primi, secondo sequenza, riguardano il quomodo della richiesta: se ammissibile innanzitutto quella avanzata dal difensore (ritenendo, dunque, la richiesta stessa atto non personalissimo dell’imputato) e quella avanzata in sede di discussione. Al primo quesito è agevole fornire risposta affermativa: pur con gli effetti secondari negativi che comporta l’applicazione della non punibilità ex art. 131 bis c.p. (iscrizione nel casellario; possibili effetti nei giudizi civili, ecc.), non par dubbio che essa sia ricompresa nell’ampio mandato conferito in cassazione, il cui sviluppo è solo problema di deontologia forense. Deve invece condividersi l’esigenza manifestata dalla prevalente giurisprudenza secondo cui lo strumento formale debba essere quantomeno quello della memoria scritta depositata entro i quindici giorni antecedenti all’udienza di cassazione. Se collocata, infatti, in sede di discussione, la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p. eluderebbe il contraddittorio, impedendo al procuratore generale d’udienza (che ha già concluso) di poter interloquire, anche con modalità minimalista.

Al di là di tali problemi marginali, resta da delineare la serie dei poteri dell’organo decidente. La soluzione più fedele alla littera legis ed alle armonie di sistema sembra esigere che alla Corte competa solo un vaglio di “non manifesta infondatezza” della richiesta, sul modello dell’incidente di costituzionalità e con gli opportuni adattamenti. Infatti, la ammissibilità/rilevanza della richiesta stessa si compendia nella verifica – parametrata sulla modalità della evidenza – dei presupposti innanzitutto formali.

Dunque, un esame volto, innanzitutto, a respingere o dichiarare inammissibile la richiesta incompatibile con essi: perché la pena prevista per il reato cui la non punibilità si riferisce eccede i limiti legali27; perché ricorre una abitualità ostativa; perché il fatto, alla luce delle emergenze delle (sole) pronunce di merito, non appare “pacificamente” sussumibile nella cornice della particolare tenuità. Ma hinc sunt leones: è proprio questo il terreno inesplorato e ricco di insidie. Quello della cassazione non potrà essere sindacato penetrante e “di merito”(perché la speciale tenuità dovrà essere oggetto di prova specifica sul punto, in contraddittorio) ed il rigetto della richiesta, se non argomentato su indici formali, dovrà fondarsi, con grande prudenza, su “evidenze” di disvalore aventi carattere dirimente in ordine alla gravità, dunque alla non “particolare tenuità”.

Non potrà essere una valutazione sostitutiva rispetto a quella del giudice del merito: ma una valutazione, piuttosto, che renda inutile ictu oculi il ritorno del processo alla fase di merito. Giudizio indubbiamente complesso: stretto tra esigenze di economia processuale e ragioni di garanzia individuale.

L’epilogo, insomma, non può che essere quello dell’annullamento della sentenza con rinvio, senza indulgere nelle tentazioni decisorie e circoscritto alla verifica delle condizioni per l’applicazione della nuova disposizione di legge. Considerando, inoltre, superate le preoccupazioni della eventuale prescrizione (assai contratta in questa tipologia di reati), poiché diverrebbero irrevocabili, a norma dell’art. 624 cc.p.p. – ed in linea con la nota giurisprudenza relativa al cosiddetto giudicato progressivo – le statuizioni relative alla responsabilità penale ed alla sussistenza del fatto.

Un ultimo punto problematico: quid iuris in caso di richiesta di applicazione della causa di non punibilità ex 131 bis c.p. avanzata con ricorso (nel resto) inammissibile? Ove si muova dalla tesi – più volte riaffermata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite – secondo la quale il ricorso inammissibile non è idoneo a costituire un valido rapporto processuale (precludendo anche l’applicazione delle formule di proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p.), la risposta è obbligata: solo un ricorso ammissibile può veicolare la richiesta stessa, altrimenti condannata anch’essa dalla sorte del mezzo con cui è espressa28.

1 Sui quali, tra la bibliografia già corposa prodotta, vedi, quanto agli aspetti processuali, Marandola, A., Profili processuali della “tenuità del fatto”, in Il libro dell’anno del Diritto 2016, roma, 2016, retro; Aprati, R., Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, in Cass. pen., 2015, p. 1317; quanto ai profili più generali, ex multis, oltre ai numerosi contributi apparsi su Guida dir., 2015, fasc. 15, 15 ss. v. Pomanti, P., La clausola di particolare tenuità del fatto, in www.archiviopenale.it, 2015, fasc. 2 e, volendo, Gaeta, P.- Macchia, A., Tra nobili assiologie costituzionali e delicate criticità applicative: riflessioni sparse sulla non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, in Cass. pen., 2015, p. 2595, cui si rinvia per ulteriori indicazioni bibliografiche.

2 Infatti, le ord. 7.5.2015, nn. 21014, 21015 e 21016 con cui la III sez. della Corte di cassazione rimetteva la questione alle SS.UU. sono state restituite alla sezione rimettente dal Presidente della Corte, nell’esercizio dei suoi poteri ex art. 172 disp. att. cod. proc. pen., sul presupposto, in un caso, dell’imminente maturazione della prescrizione e, negli altri due casi, sul rilievo che non fosse ancora maturato alcun contrasto giurisprudenziale sulla nuova disciplina e che dunque difettasse il presupposto per l’intervento del vertice della legittimità.

3 Cass. pen., sez. III, 8.4.2015, n. 15449, in Cass. pen., 2015, p. 2590.

4 Canoni metodologici che hanno portato, nel caso di specie, a rigettare la richiesta, avendo la Corte rilevato come, nel giudizio di merito, l’irrogazione di una pena in misura superiore al minimo, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la non reiterazione dei benefici di legge fossero indici sicuri di una valutazione incompatibile con la particolare tenuità del fatto.

5 Infatti, è stata ritenuta inammissibile la richiesta contenuta in memoria tardiva ex art. 611 c.p.p.: Cass. pen., sez. III, 2.7.2015, n. 38126, Dell’Acqua ed altri.

6 Cass. pen., sez. IV, 10.7.2015, n. 38348, Calabrese; Cass. pen., sez. III, 7.7.2015, n. 38135, Leone.

7 Così Cass. pen., sez. V, 17.4.2015, n. 20994 e Cass. pen., sez. V, 17.4.2015, n. 20986 (riferite, rispettivamente, ad ipotesi di ingiurie/minaccia e false generalità).

8 Cass. pen., sez. IV, 22.9.2015, n. 41491, Scavone ed altro.

9 Cass. pen., sez. VII, ord. 15.7.2015, n. 37945, Izzo.

10 Cass. pen., sez. IV, 15.9.2015, n. 40058, fantucci; Cass. pen., sez. III, 10.7.2015, n. 40350, Savia.

11 Cass. pen., sez. III, 2.7.2015, n. 38791, ragini.

12 rilevando peraltro «che la fattispecie concreta avrebbe richiesto finanche un più severo trattamento sanzionatorio»: Cass. pen., sez. V, 24.6.2015, n. 39806, Lembo.

13 In tal senso, espressamente Cass. pen., n. 39086/2015; Cass. pen., sez. VII, ord. 30.9.2015, n. 41155, Sgambellone; Cass. pen. n. 40350/2015.

14 Cass. pen., sez. IV, 14.5.2015, n.22840, Seveso.

15 Cass. pen., sez. III, 22.4.2015, n. 21474, fantoni.

16 Così, Cass. pen., sez. III., 5.5.2015, n. 40774, falconieri.

17 Cass. pen., sez. II, 10.9.2015, n. 38711, Paci.

18 Cass. pen. n. 22840/2015.

19 Cass. pen., sez. IV, 17.4.2015, n. 22381, in fattispecie di lesioni colpose (art. 590 c.p.) a carico di un datore di lavoro che non aveva fornito al lavoratore idoneo vestiario antinfortunio e condannato pertanto a pena pecuniaria, sia pure superiore al minimo edittale.

20 V., ad esempio, Cass. pen., sez. VI, 23.9.2015, n. 39913, fava.

21 Cass. pen., sez. III, 16.7.2015, n. 40355, Pastore.

22 Si v. Cass. pen., sez. VI, 23.6.2015, n. 39337, Di Bello; Cass. pen., sez. I, 9.7.2015, n. 35824, Cafagna; Cass. pen., sez. f, 25.8.2015, n. 35979, Massaro.

23 Cass. pen., sez. III, 15.7.2015, n. 38380, Ferraioulo.

24 Cass. pen., sez. V, 15.2.2005, n. 25155, Sampaolesi, in CED rv. n. 231896, fattispecie nella quale la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza del Giudice di pace con la quale l’imputato era stato riconosciuto responsabile del reato di ingiuria, ritenendo integrata la causa di non punibilità della provocazione ex art. 599, co. 2, c.p.

25 Cass. pen., sez. V, 13.6.2014, n. 46122, Oguekemma, in CED rv. n. 262108: fattispecie in cui la Corte, annullando senza rinvio la sentenza con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di minacce alla pena di euro 100 di multa, ha rideterminato la pena nel massimo edittale di euro 51 di multa.

26 Cass., S.U., 25.6.2005, n. 12283, PG in proc. De rosa, in CED rv. n. 230529.

27 Ad es., Cass. pen., sez. II, 21.7.2015, n. 36442, Zhu Xiaochai, in ipotesi di ricettazione nella quale era stata riconosciuta l’attenuante di cui al cpv. dell’art. 648 c.p.

28 In tal senso, Cass. pen, sez. III, 15.4.2015, n. 39367, Neve; Cass. pen., sez. III, 24.6.2015, n. 34932, Elia.

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