La circolazione del libro. Biblioteche private e pubbliche

Storia di Venezia (1994)

La circolazione del libro. Biblioteche private e pubbliche

Marino Zorzi

Venezia nel Cinquecento è colma di opere d'arte. Una profusione di sculture, intagli, affreschi anima le facciate di chiese, confraternite, edifici pubblici e privati; e non vi è quasi casa anche modesta in cui le pareti di una o più stanze non si adornino di qualche immagine sacra, di un quadro, di un'incisione (1). Gli inventari ce ne offrono un'ampia prova. Tappeti, quadri, armi, mappamondi, suppellettili preziose abbelliscono le case più abbienti. Ovunque abbondano gli strumenti musicali: la città è "pervasa di musica" (2), si suona nelle chiese, nelle confraternite, nelle case, nelle strade.

L'immagine artistica e la nota musicale accompagnano nella Venezia del Cinquecento quasi ogni momento della vita quotidiana. Ma non trascurabile rilevanza vi ha altresì la parola scritta. La città prospera soprattutto per il commercio: un'attività che richiede, almeno ad un certo livello, l'uso quotidiano della scrittura (3). Per i maggiori mercanti, che costituiscono il ceto dirigente della città, la tenuta di scritturazioni contabili tecnicamente raffinate rientra nella pratica giornaliera: lo dimostra anche la fortuna delle opere di Luca Pacioli, che a Venezia conoscono il maggior numero di edizioni (4). Per agevolare i mercanti si pubblicavano, e circolavano, liste o tariffe di pesi, misure, cambi. Anche gli artigiani e i commercianti di non grande livello tenevano assai spesso, come si ricava dagli inventari notarili, libri mastri, registri, libri contabili, quaderni per annotazioni relative al loro mestiere. Persino i malviventi annotavano diligentemente i proventi delle loro furfanterie, come quel tale che registrava "in libro", come narra il Sanudo, i guadagni ottenuti prostituendo la moglie (5).

L'evidente utilità anche economica della scrittura certo favoriva l'alfabetizzazione, assai elevata, come si evince dall'alta percentuale degli studenti rispetto alla popolazione (secondo i calcoli del Grendler si arriverebbe, per gli uomini, al 33% di alfabetizzati) (6). Numerosi erano anche i maestri: nel 1587 un'indagine promossa dal patriarca ne identifica 258 (7). Si studiavano i classici e i testi sacri, ma anche l'abaco e le istituzioni commerciali.

La scrittura rappresentava il normale veicolo di comunicazione tra l'autorità e i cittadini. Il governo promulgava i suoi provvedimenti a mezzo di bandi, che venivano letti o "gridati" sulla Pietra del Bando a S. Marco, o sulla tribuna sorretta dal famoso Gobbo a Rialto, ma altresì affissi negli stessi luoghi, o altrove. Talvolta i bandi venivano addirittura incisi nel marmo, sui muri delle case o su appositi cippi.

Non mancavano le scritte elettorali: ne sussistono esempi sulle colonne della Libreria e delle Procuratie e nel palazzo Ducale. Talvolta le colonne a S. Marco ospitavano scritte satiriche, che comparivano anche in altri luoghi della città. Al Gobbo di Rialto, a Sior Antonio Rioba in campo dei Mori e a un tal Marocco dalle Pippone (una statua alla base di una delle due colonne della Piazzetta, che regge una cesta di poponi) si attribuivano composizioni analoghe a quelle del Pasquino romano: ma è dubbio se venissero affisse davvero o se si trattasse di una finzione letteraria. Satire e libelli circolavano in vario modo: se ne trovavano persino nei bossoli delle votazioni in maggior consiglio (8). Ad una finalità punitiva e insieme educativa rispondevano invece le scritte volte ad infamare chi si fosse mal condotto verso lo Stato: ne costituisce un illustre esempio l'iscrizione relativa al doge Marin Falier in palazzo Ducale, rifatta dopo l'incendio del 1577 (9). Non mancavano sin da età remote lapidi commemorative o contenenti massime o insegnamenti.

A mezzo della scrittura circolavano le novità di politica estera: si compilavano, a cura dei giornalisti del tempo, degli "avvisi" in forma di quaderno, in 8º o in 16º, spesso con una xilografia, magari a colori, sul frontespizio (10). Ad esempio, un "avviso" del 1536 s'intitola La gran rotta de lo exercito del Signor Turcho, fatta da le gente del Sophy, in Persia, e promette notizie su "il numero de la gente morta, et presa, et la mentione de tutti, li Bassà, et gl'huomini de conto. E la presa del Thesoro del Turcho, con le damiselle del suo serraglio, drento alla nobil città de Thauris, in Persia". Sotto il titolo, una vivace xilografia a colori mostra una città turrita, una galera all'attacco, una nave tonda in fiamme, tende da cui escono armati, cannoni, combattenti. Non manca nulla di quel che può invogliare il lettore.

I fatti di cronaca ispiravano composizioni di carattere popolare, stese su "libercoli di quattro o sei foglietti", destinati certo ad ampia circolazione. Ne è famoso esempio il Lamento di pre' Agustino, in cui si narrano le tristi vicende di quell'ecclesiastico, che era stato appeso al campanile di S. Marco in una gabbia, ad espiare la sua mala condotta: un tema che evidentemente colpiva la fantasia popolare (11).

Il Veneziano era dunque abituato al contatto con la scrittura. Essa gli entrava in casa, sotto forma, se non di libri, almeno di note contabili, di "avvisi", di tariffe. In essa egli si imbatteva nella Piazza, nelle strade, nei "campi" dove trovava le più svariate iscrizioni. Nelle chiese, nei chiostri, nei luoghi sacri era circondato dalle lapidi funerarie, il cui uso si era diffuso in età umanistica. Qui il richiamo al libro era particolarmente evidente: le cornici ricordavano con le loro eleganti volute i fregi xilografici, le borchie metalliche richiamavano le legature, le disposizioni delle parole e delle righe echeggiavano i frontespizi dei libri contemporanei (12). La stampa traeva ispirazione dall'epigrafia, e a sua volta l'influenzava, contribuendo a familiarizzare i Veneziani con le caratteristiche esterne del libro.

Del resto i Veneziani erano abituati al libro, in quanto ben lo conoscevano come merce, oggetto di produzione e di scambio. L'attività tipografica era una delle più redditizie fra le industrie cittadine, impiegava un numero considerevole di operai più o meno specializzati, di tecnici, di uomini di cultura. Una frazione non trascurabile della popolazione gravitava attorno al libro a stampa: i tipografi e i loro dipendenti, gli autori dei testi, i correttori, i commercianti di carta, i legatori e, naturalmente, i librai. Dai libri a stampa esaminati dal Borsa si ricavano 690 nomi di tipografi per il Cinquecento; il dato grezzo si riduce una volta criticamente analizzato, ma rimane pur sempre significativo. Ma ancor più indicativo è il numero delle edizioni: si va dalle 15-17.000 edizioni, secondo le valutazioni del Grendler, alle 30.000 secondo le congetture di Conor Fahy (13). In media ogni due giorni, o addirittura ogni giorno, usciva un libro nuovo (naturalmente includendo ogni opera, anche la più modesta, e le ristampe): un dato imponente, che dà l'idea dell'importanza anche economica dell'industria editoriale e della sua presenza nella vita cittadina. Meno quantitativamente cospicuo, ma non trascurabile, il mondo del manoscritto: dava lavoro a numerosi copisti, librai, mercanti.

Lo smistamento di questa imponente produzione (che si rivolgeva in buona parte all'estero: agli stati italiani, alla Germania, alla Francia, alle terre di lingua greca, armena, slava, ma che aveva uno smercio considerevole anche nella città) richiedeva l'attività di un numero adeguato di operatori. Talvolta le figure dell'editore, del tipografo e del venditore coincidevano, ma non sempre. La varietà di situazioni era grande. Al vertice del commercio librario si trovavano i grandi editori, con proprie tipografie e punti di vendita. Tali erano i Giunta, gli Scoto, i Giolito, oltre ai celeberrimi Manuzio. Venivano poi gli stampatori che curavano direttamente la vendita dei loro prodotti; indi gli editori senza propria stamperia, ma provvisti di bottega; poi i librai che si facevano occasionalmente editori; poi coloro che vendevano i libri stampati da altri in un negozio proprio; infine coloro che non avevano bottega, ma solo un banco, un banchetto (14). Vi erano infine i venditori di libri clandestini: alcuni librai si specializzavano in tale pericoloso mestiere, anche se spesso lo smercio dei libri proibiti era gestito dai librai ordinari (15).

Una lista del 1567 elenca 64 librai professionisti (16); altri 30 figurano in un altro elenco degli stessi anni, e solo in parte sono compresi nella lista precedente (17). Ma certamente ve n'erano altri, e non pochi. Il punto in cui si concentravano maggiormente era, per una tradizione risalente ai primordi della stampa, la Merceria. Dei 64 elencati nella lista del 1567, 21 avevano là la loro bottega; 6 erano in piazza S. Marco e nelle immediate vicinanze; molti altri erano distribuiti tra Rialto, S. Salvador e S. Bartolomio. Venezia si presentava quindi come città di libri e di librai: tale era la quantità e l'importanza delle aziende legate al libro, che si affollavano proprio nei luoghi economicamente e politicamente più rappresentativi della città.

I Veneziani avevano dunque familiarità non solo in generale con la scrittura, ma più specificamente con i libri, che davano da vivere a molti e mostravano i loro frontespizi nei luoghi da tutti più amati e frequentati. Ma non per questo si può concludere che il libro entrasse massicciamente nelle case dei Veneziani. Da un'analisi condotta su 937 inventari notarili conservati all'Archivio di Stato di Venezia, riguardanti persone della più varia condizione dal 1527 al 1599, i possessori di libri risultano in tutto 146: il 15% (18). Una presenza dunque modesta, quella del libro, nelle case veneziane, se raffrontata a quella dei quadri, delle incisioni, degli strumenti musicali, che non mancavano quasi mai. E si può comprendere la ragione di tale diversità: nella città dell'arte, opera d'arte essa stessa, alla cui creazione tutti concorrevano quotidianamente, il libro, prodotto più sofisticato, meno immediatamente godibile, non era sentito come indispensabile alla vita quotidiana. Va poi considerato un altro aspetto: chi non voleva o non poteva investire in libri poteva sempre ottenerne a prestito da amici o mecenati (e la cosa era largamente praticata) o poteva ricorrere alle biblioteche pubbliche.

Il dato si definisce meglio se si considera la posizione sociale dei lettori, e non lettori. Nei ceti popolari i libri appaiono presenti in misura assai ridotta: solo il 5% circa degli inventari esaminati segnala la presenza di libri. E anche ove questi compaiono, le raccolte sono piccole, o minime: a parte poche eccezioni, gli inventari registrano la presenza di due o tre libri, spesso di uno solo. Si tratta quasi sempre di un "offitio", o di una Bibbia. Poco spazio è lasciato alla letteratura: compaiono un Sabellico, un "Guerino", un Orlando. Un sacrestano ha un libro di Lorenzo Valla. Alcuni invece hanno libri utili alla loro attività: un "marangon" lascia dei "rodoletti di disegni e pezzi di libri a stampa", un "murer" ha un "libro de abaco", un commerciante possiede una "tarifa de denari", altri hanno "carte da navegar". Gente operosa, concreta, i membri dei ceti più modesti pensano alla salute dell'anima e, nel presente, al loro mestiere. Altrove trovava soddisfazione il senso del bello, lo spirito artistico: nell'amore per le belle cose, nella contemplazione delle grandi pitture delle chiese e delle Scuole, nell'appassionata partecipazione alle fastose cerimonie pubbliche. A render così poco frequenti gli acquisti di libri concorre più la mancanza di interesse che il costo: i libri a stampa di minor qualità costavano assai poco, e lo si vede anche dallo scarso peso che ad essi veniva dato dai compilatori degli inventari.

All'opposto, il libro appare diffuso nei ceti intermedi tra popolo e patriziato: il 40% circa degli inventari include libri. Distinguendo ulteriormente, i membri del ceto dei segretari, tradizionalmente colto (nella cancelleria si sviluppa l'umanesimo veneziano, sin dal tempo del Petrarca), appaiono in possesso di biblioteche considerevoli, spesso superiori ai cento volumi, talvolta sceltissime. Altrettanto rispettabili per mole e qualità appaiono le biblioteche di vari facoltosi mercanti e quelle di avvocati, medici, "aromatari" e "spezieri" (farmacisti). Modeste invece quelle dei pittori: compare fra gli inventari quello di Jacopo Palma (il Vecchio), che lascia "undici libreti e officieti de più sorte" e un "libreto d'amor". Non sembra che la biblioteca di Tiziano fosse più ricca: aveva certamente la celebre edizione dell' Orlando Furioso contenente il suo elogio (1532), opere dell'Aretino, del Pino, del Dolce, del Vasari, e qualche classico: Catullo, Ovidio. Il Tintoretto possedeva il poema di Lucano, Pharsalia, in un'edizione del 1520 con xilografie: è il solo libro della sua biblioteca che ci sia noto, grazie alla nota di possesso: "Iacobi Robusti" (19). Fra gli inventari che andiamo esaminando compare quello dei beni di Andrea Fosco di Faenza, incisore: aveva dieci libri, fra cui vari trattati di architettura.

Purtroppo per molte biblioteche cittadinesche rimane soltanto il numero complessivo dei volumi, non l'indicazione dei titoli. Dai pochi elenchi rimasti (25 in tutto) si rilevano alcune costanti nella composizione delle raccolte. I libri sacri e i classici sono ovunque presenti, anzi numericamente preponderanti. Una parte considerevole della biblioteca riguarda libri di interesse professionale: di legge per gli avvocati, di medicina per i medici, di "semplici" per i farmacisti. Analogamente i trattati di architettura servono all'incisore; il poema di Lucano ispirò almeno una tela del Tintoretto. Frequenti i libri di viaggi e le "carte da navegar" (20). I libri volgari sono assai pochi nelle raccolte più importanti, più numerosi in quelle minori. In solo due raccolte sono presenti libri greci. Le edizioni sono in genere veneziane, ma in una raccolta, quella del segretario del senato Pietro Bressan, compaiono vari classici in edizioni di Basilea, particolarmente apprezzati dal proprietario perché "correttissimi" e valutati assai più di quelli di Aldo e di Jenson. Fra gli autori italiani, prevalgono nettamente Dante (presente in tre raccolte), Petrarca (in sei), Boccaccio (in quattro), Ariosto (in sette). Dal punto di vista delle dimensioni, 11 biblioteche su 38 contengono più di cento libri; tutte ne hanno meno di duecento, con l'eccezione di una sola, quella del musicista Zarlino, che ne ha circa mille.

Per ovvie ragioni legate alla natura del loro ministero, gli ecclesiastici risultano largamente provvisti di libri: il 64% circa ne possiede. Uno ne ha circa 350, due ne hanno un centinaio, gli altri assai meno.

Vanno infine prese in considerazione le biblioteche dei patrizi. I libri appaiono presenti in 44 inventari su 192: una percentuale del 23% circa. Le biblioteche maggiori, superiori ai cento libri (la più cospicua ne conta 270), sono soltanto quattro; undici ne hanno meno di cento ma più di venti, quattro da 20 a 10, ventidue meno di dieci. Solo 22 inventari contengono l'indicazione dei titoli, e due soli riguardano biblioteche d'importanza. Mentre in queste ultime colpisce la molteplicità degli interessi (vi sono opere di devozione, classici, opere di letteratura contemporanea, di diritto, di astrologia, di viaggi, di agricoltura), nelle biblioteche minori prevalgono le opere devozionali. Fanno eccezione due fratelli Bragadin, che hanno come unico libro un Boccaccio, e un Barbarigo, che possiede soltanto un Petrarca. Fra gli autori italiani dominano Dante (presente in due raccolte), Petrarca (in sei), Boccaccio (in tre).

I patrizi che non possedevano libri - ed erano la maggioranza - non erano dunque interessati alla cultura, o comunque non al punto da acquistare libri: anche se non si può, ovviamente, escludere che gli inventari tacciano in proposito perché essi avevano disposto dei libri in vita. Appare comunque difficilmente spiegabile il fatto che non si trovi mai menzione della presenza di quei manuali la cui utilità per la vita quotidiana del patrizio in quanto membro della comunità politica appare così evidente: i "libri d'oro", le "zucchette" e i "consegi". Le caratteristiche e l'importanza nella routine della politica di tali manuali sono state individuate di recente da Dorit Raines (21): il libro d'oro includeva i dati relativi al patriziato in quanto gruppo sociale (nascite, matrimoni); la "zucchetta" (nome di incerta origine caduto in disuso e riscoperto dalla studiosa) conteneva notizie sui vari uffici, con dati importanti quali la durata e l'emolumento; i "consegi" o "brogetti" (da "broglio") fornivano i nomi dei concorrenti alle cariche e degli eletti, con i relativi voti. L'uso di tali manuali manoscritti si venne via via diffondendo nel corso del Cinquecento, e se ne conservano ancora oggi numerosi esemplari. Forse quelli sopravvissuti sono i più eleganti e i meglio confezionati, mentre il patrizio di più modeste pretese si sarà accontentato di annotare i dati che gli interessavano su fogli sciolti senza aspirazioni librarie; forse il notaio si limitava ad elencare i volumi aventi un sia pur modesto valore venale, mentre "zucchette" e "consegi" erano assimilabili alle carte non commerciabili dell'archivio di famiglia.

Tutte le biblioteche sinora esaminate hanno alcune caratteristiche comuni: le opere a stampa prevalgono nettamente, anche se non mancano manoscritti (la presenza di questi va diminuendo nel corso del secolo); i libri sono legati "in tavole" o "in cuoro", ma spesso nelle biblioteche minori appaiono "desligadi" (i libri a stampa si vendevano sciolti, e dipendeva dal gusto e dalle disponibilità del proprietario l'eventuale legatura); i volumi sono conservati in forzieri o in casse, ovvero in uno "scrittor": esempio illustre fra tutti di tale mobile era lo scrittoio del patriarca Giovanni Grimani, tempestato di gemme e cammei, ornato di squisiti bronzetti, in cui si conservava il famoso Breviario: trasportato nella Pubblica Libreria nel 1594 (ma senza il Breviario, riposto nel Tesoro della chiesa di S. Marco), vi rimase intatto sino alla caduta della Repubblica (subito dopo venne smembrato). Solo alla fine del secolo, o al principio del successivo, compaiono - per le biblioteche maggiori - armadi o scaffali.

Le biblioteche private erano dunque per lo più di modeste dimensioni. Esisteva peraltro al vertice della società un'élite la cui eccellenza intellettuale, economica, politica si traduceva anche nel possesso di biblioteche di adeguata importanza. In tale élite confluivano i letterati e gli studiosi di primo piano, i patrizi di maggiori fortune, nelle cui mani finiva per concentrarsi l'effettivo potere e la direzione non solo politica, ma anche morale e culturale della città, e i più eminenti fra i membri del ceto cittadino. In molti casi il creatore di una grande biblioteca mirava non solo alla propria crescita culturale, ma pensava di giovare agli altri, in vita o dopo la morte, con un'iniziativa mecenatesca, che andasse a beneficio degli studi e della città, aumentando nel contempo il prestigio del suo ideatore. La magnificenza è da sempre un elemento della grandezza: e la costituzione di una grande biblioteca rientrava nelle azioni che si addicevano ad un "grande". Lo consigliava, ad esempio, ai cardinali e in generale ai senatores, ai principi, Paolo Cortesi: la magnificenza più degna di lode è quella che promuove il bene di molti, e la fondazione di una biblioteca "quae pateat omnibus" è fra le azioni più gloriose. Ad analoghi principi si ispiravano i grandi collezionisti d'arte che aprivano al pubblico le loro raccolte, destinate talvolta a trasformarsi in musei (22).

All'élite del patriziato (che - come noto - era lungi dal presentarsi come una classe omogenea) appartenevano probabilmente i quattro proprietari delle maggiori biblioteche fra quelle che si sono incontrate. Ad essa certamente apparteneva Leonardo Donà, uno dei più illustri e rappresentativi fra i patrizi dell'ultimo Cinquecento-primo Seicento, il fermo difensore della dignità veneta nei confronti della Curia romana, il doge dell'Interdetto: della sua biblioteca ci è rimasto l'accurato inventario, redatto, cosa non comune, tutto di sua mano (23). Confrontando tre inventari di biblioteche patrizie, uno del 1526, quello di Antonio Pesaro, uno del 1562, quello di Girolamo Ferro, e quello di Leonardo Donà, compilato nel primo Seicento, si possono cogliere alcune costanti e nel contempo i segni di un'evoluzione.

Carattere comune alle tre biblioteche è la vastità degli interessi che i titoli documentano. Vi sono classici, opere di devozione, di filosofia, di diritto, di medicina, di astronomia. Numerose le opere relative ai viaggi, le carte geografiche, le "carte da navegar" (il Donà ha vari volumi di carte e ne ha più di 170 sciolte). Una larga parte è assegnata alla storia (il Donà in particolare ha interessi amplissimi: possiede storie di tutti gli stati europei, dei Turchi, delle terre americane). Si tratta di biblioteche modellate sui bisogni intellettuali dell'uomo di stato, che deve conoscere il mondo in cui svolge la sua azione politica e diplomatica e deve quindi conoscere la storia di quei paesi, la loro geografia; deve avere le nozioni letterarie e culturali necessarie per esprimersi adeguatamente nei consigli sovrani; deve avere dimestichezza con i principi filosofici e giuridici del buon governo.

Ma non meno significative sono le differenze. Antonio Pesaro ha opere latine serissime, ma anche la Macharonea di Merlin Cocai, ha Dante e Petrarca, ma anche il Boccaccio. Opere latine e volgari, antiche e moderne, sacre e profane, serie e giocose coesistono in un armonioso complesso, che dà l'idea di una cultura serena, equilibrata. Girolamo Ferro non conserva opere facete o leggere: solo l'Ariosto è ammesso in una biblioteca austera, in cui prevalgono i filosofi e gli oratori (il Ferro, bailo a Costantinopoli nel 1560, era anche traduttore di Cicerone e di Demostene). Sulle scelte avrà influito il carattere del raccoglitore, ma forse anche il mutare dei tempi, l'incupirsi della controriforma. L'influsso dello spirito controriformistico è drammaticamente evidente nella biblioteca del Donà: Machiavelli, Boccaccio, Agrippa sono presenti, ma cancellati. Evidentemente il Donà aveva preferito alienarli e distruggerli, e talvolta egli lo dichiara esplicitamente; ciò per evitare fastidi, impegnato com'era in battaglie di ben altra portata. La stessa sorte tocca a varie opere nella sezione teologica, a cominciare da una "Bibbia volgare". Girolamo Ferro tiene nella sua biblioteca opere di Erasmo; il Donà conserva le edizioni critiche curate dal sommo erudito, ma le corregge "abradendo" - come egli stesso annota - "ciò che c'era di Erasmo".

Il Pesaro si procura libri su mercanzie, tariffe; ha forse viaggiato in Oriente (gli sono rimasti un liuto "turchesco" e una "simitarra") probabilmente per esercitarvi la mercatura; il Ferro non ha interesse per il commercio, se si reca in Oriente è per una missione diplomatica; il Donà si interessa a ogni aspetto delle società straniere, ma da diplomatico e da uomo politico, non da mercante. La mercatura non è più, ormai, in mani patrizie.

Anche la dimensione delle biblioteche si modifica: dai 155 libri di Antonio Pesaro si passa ai 270 di Girolamo Ferro e agli 800 e più del Donà. Nel secondo Cinquecento la biblioteca delle grandi casate è ormai su quelle cifre: 800 libri hanno i Calergi a Candia, 500 ne ha Vincenzo Grimani. La facilità di trovare in stampa ogni sorta di libri e il depositarsi di eredità fanno sì che nel Seicento un migliaio di libri non sia più una cifra eccezionale per una raccolta. Tanti ne conta ad esempio la biblioteca dei Valier (24).

Dimensioni ancora maggiori avevano le biblioteche di quei raccoglitori che si proponevano, in aggiunta all'ovvio intento di provvedere ai propri bisogni intellettuali, quello di soddisfare esigenze più ampie: ci riferiamo a quelle biblioteche nella cui costituzione intervenivano finalità mecenatesche. Si tratta di biblioteche che si potrebbero definire "principesche", sia per le caratteristiche sociali dei proprietari, veri "principes" nell'ambito del patriziato, sia per gli scopi che li animavano in tanto dispendio di mezzi e spesso di appassionate energie. Tali sono molte di quelle elencate da Francesco Sansovino nella sua celebre guida Venetia città nobilissima et singolare, edita a Venezia nel 1581: esse sono incluse nella guida appunto perché "meritevoli di essere ricordate e vedute", meta consigliata al visitatore colto. Non si trattava quindi di raccolte strettamente personali: tali invece certamente erano quelle di Antonio Pesaro, di Girolamo Ferro e anche di Leonardo Donà, che se l'era costruita da sé, per soddisfare le proprie necessità e curiosità intellettuali col denaro sottratto ai "piaceri", come egli stesso si esprime, dando prova di quel moralismo che caratterizzava la sua corrente politica in seno al patriziato. Il Sansovino elenca 22 biblioteche patrizie, 5 cittadinesche. Altre 3 aggiunge lo Stringa (1604) e altre 19 il Martinioni (1663) (25).

Che cosa esse contenessero si può indurre dagli inventari superstiti: quelli delle biblioteche di Girolamo Corner Piscopia, padre di Zanbattista, da cui nacque la celebre Elena Lucrezia; quella di Giacomo Contarini e quella di Alvise Lolin (o Luigi Lollino). La prima contava 2.000 volumi a stampa, oltre a un numero non precisato di manoscritti; la seconda 175 manoscritti e 1.500 libri a stampa; la terza circa 2.000 volumi, fra cui circa 200 manoscritti. Ricchissima era la parte riservata alla storia nelle prime due, forse più rappresentative della terza, il cui proprietario aveva abbracciato lo stato ecclesiastico; e la prevalenza della storia si spiega con le ragioni esposte dal Corner stesso nel suo testamento e condivise dall'intero ceto nobiliare: la cultura, nella visione patrizia, deve avere un fine civile, deve giovare al pubblico servizio. Ricca e preziosa la parte manoscritta: abbondanti, soprattutto nella terza, i codici greci. Evidente nei due ultimi casi la finalità mecenatesca: i volumi del Contarini furono destinati alla Pubblica Libreria, quelli del Lolin alla Biblioteca Apostolica Vaticana e al capitolo della cattedrale di Belluno.

Il primo esempio di biblioteca mecenatesca - primo in ordine cronologico, di grandezza e di prestigio - è peraltro una raccolta di un secolo più antica: quella del cardinale Domenico Grimani. Teologo, umanista, protettore del Sansovino, in rapporto con Erasmo e con i circoli neoplatonici di Firenze e di Venezia, il cardinale è figura intellettualmente complessa, di grande rilievo nel mondo rinascimentale. Immensamente ricco, raccoglieva quadri, statue, cammei, medaglie: la parte delle sue collezioni di marmi ch'egli destinò alla Repubblica rappresenta il primo nucleo del Museo Statuario, che poi avrà la sua definitiva fisionomia a seguito del lascito ancor più cospicuo del nipote Giovanni, patriarca di Aquileia; la rara scelta di dipinti fiamminghi ch'egli lasciò a Venezia costituì un primo museo pubblico d'arte nel palazzo Ducale; il Breviario fiammingo ch'egli aveva acquistato tramite il misterioso Antonio Siculo costituì per secoli uno dei cimeli del Tesoro di San Marco, sino a che non giunse nel 1801 alla Biblioteca Marciana. Non meno importante era la biblioteca. Anche se la cifra di 15.000 volumi fornita da Battista Casali nell'orazione funebre recitata in memoria del cardinale sembra eccessiva, non vi è dubbio che le dimensioni di essa dovevano essere imponenti. Vi erano cose preziosissime: vi era anche compresa l'intera biblioteca di Pico della Mirandola, con i suoi rarissimi codici ebraici; il cardinale pur di assicurarsela non aveva esitato a vendere, per sopperire ad una necessità di cassa che non è difficile supporre di breve durata, la sua argenteria (26). Vi erano libri in greco, latino, caldaico, aramaico, arabico, armeno. Benché eruditissimo, il cardinale Grimani non acquistava certamente solo per sé. È probabile che egli pensasse ad una donazione a Venezia; e il ritardo della Repubblica nell'adempiere alla promessa fatta al Bessarione, la costruzione di una biblioteca a San Marco, lo distolse forse dal designare come erede la Pubblica Libreria non ancora costituita (27). I dubbi sulla volontà della Repubblica di costruire la sede promessa al Bessarione erano al tempo di Domenico Grimani più che giustificati: ancora dieci anni dopo la morte del cardinale il Sanudo pensava che la Libreria non sarebbe mai sorta. Certo è che il cardinale Grimani intendeva che la sua biblioteca giovasse a Venezia, e attuò il suo proposito. Nel 1523 egli divideva la sua raccolta tra il monastero di S. Antonio di Castello e il nipote cardinale Marino. Quest'ultimo volle seguire l'esempio del grande zio e lasciò poi, a sua volta, i libri al monastero di S. Giorgio Maggiore. Ma la disposizione non ebbe effetto: nel 1572 circa 950 volumi si trovavano in 22 casse presso la sorella di lui, Paola, maritata Querini (28). È probabile che i preziosi volumi rimanessero nella famiglia e finissero poi dispersi, al pari di quelli lasciati dal cardinale Domenico a S. Antonio di Castello: qui le vendite effettuate dai monaci ridussero di molto la preziosa raccolta sino all'incendio del 1687 che distrusse o disperse quello che ne restava. Prima di tale tristissimo evento il monastero conservava circa 900 codici donati dal cardinale, come si ricava dall'elenco pubblicato dal Tomasini nel 1650.

Alla metà del secolo un personaggio ben diverso da Domenico Grimani concepì un disegno mecenatesco di analoga ampiezza: il medico Tommaso Giannotti da Ravenna, autodenominatosi Rangone (29). Ascetico, severo, aristocratico, erede di un'immensa sostanza il cardinale; bizzarro, un po' ciarlatanesco, ma geniale, il Rangone, che si era fatto da sé, accumulando con l'arte medica una fortuna ragguardevole. Fortuna ch'egli impiegò nel modo migliore, favorendo le arti (fu committente del Sansovino, del Vittoria e di molti altri artisti) e concependo il nobile disegno di dotare Venezia di una biblioteca pubblica laica. Una pubblica libreria di proprietà statale e non religiosa esisteva già, quella di San Marco, ma il suo funzionamento era poco regolare e le raccolte non molto ampie, anche se preziose, sicché l'iniziativa era opportuna e poteva dare buon frutto.

Nel testamento, del 1584, egli dedica largo spazio alla biblioteca, che progetta grandiosa, sede e sostegno di una sorta di accademia di ogni lingua, che invano - egli scrive - i dotti avevano tentato di realizzare sin dal tempo di Leone X. Precedenti illustri sono invocati (Tolomeo, Giustiniano, Gordiano), ambiziosi programmi di universalità sono sin troppo diffusamente enunciati. Ma una sorta di allegato fornisce dati concreti sul lascito. Anzitutto il Ravenna prevede l'acquisto di una "apotheca" ovvero di un "locus inferius" o "terrenus" in Merceria, che peraltro dev'essere luminoso e ampio. Qui gli esecutori testamentari dovevano erigere una biblioteca "communem et publicam" a beneficio di tutti gli uomini "mundi totius", aperta sempre, con la sola eccezione di Natale e Pasqua, "ad audientium utilitatem et virtutis commodum". Alla conservazione della biblioteca erano destinati "in sempiternum" sei ducati annui, e altri sei al bibliotecario. La suppellettile è accuratamente descritta. Doveva esserci uno "scamnum magnum", di noce, col piede a zampa di leone, diviso in sette sezioni chiuse a chiave, per la conservazione di quegli oggetti ch'egli definisce "iconia seu stemmata": si tratta di medaglie col suo ritratto, opera di Alessandro Vittoria e di altri artisti, di lettere ducali, monete, un magnifico scudo di Francesco re di Francia, un disegno di Giulio Romano, una spada, una serie di sfere, di astrolabi e di orologi. Una sorta di museo di oggetti si accostava così alla biblioteca vera e propria. Vi dovevano poi essere "scamna sedilia", due forzieri, un grande calamaio, alcuni vasi per conservare farmaci "edenda ac potanda", due sculture di Jacopo Sansovino, un ritratto del Rangone dipinto da Domenico Molin e un Cristo Crocifisso, "pictura greca".

La parte libraria era divisa in 12 sezioni: Cosmographia (distinta in depicta e impressa), Mathematici, Humani latini, Logici latini seu dialettici, Philosophici latini, Legum, Astronomici, Astrologi Phisionomi, Chiromantici geomantici et similes divinatori, Medici latini, Vulgares, Multiplicis omnigenis suae linguae. Nonostante i titoli altisonanti, la biblioteca comprendeva in tutto meno di seicento volumi, alcuni peraltro di indubbio pregio, molti riccamente legati. I migliori erano certo quelli di argomento medico. La sognata molteplicità delle lingue non trovava riscontro alcuno nella realtà: era più che altro un'aspirazione, che si sarebbe potuta realizzare se la biblioteca si fosse aperta e via via accresciuta (ma la volontà testamentaria del Rangone non poté essere rispettata, e i libri furono destinati ai Cappuccini della Giudecca, ove ne vide alcuni nel 1770 Jacopo Morelli). Non si trattava insomma della straordinaria biblioteca che il bizzarro medico sognava: ma pur sempre di una bella raccolta specializzata, che poteva diventare la prima biblioteca medica pubblica in Europa. Il sogno del Ravenna nasceva senza dubbio anche da una certa vanità, quella che lo spingeva a presentare la sua scienza come capace di far vivere i pazienti centovent'anni: ma anche da una nobile aspirazione a giovare agli studi e alla sua città d'adozione.

Come si è accennato, biblioteche importanti avevano i professionisti della cultura: letterati, studiosi, storici. Ad uno storico appartiene la biblioteca privata più grande che Venezia abbia visto sino al Settecento: quella di Marin Sanudo (30). La stessa febbrile passione che spingeva l'infaticabile diarista ad annotare giorno per giorno, si direbbe di minuto in minuto, tutto quel che accadeva attorno a lui o di cui veniva a conoscenza, lo animava anche nell'accumulare libri, documenti, cronache, tutto ciò che poteva attrarre in qualche modo la sua insaziabile curiosità. Seimilacinquecento titoli: tale è la formidabile cifra a cui giunge la biblioteca sanudiana (si trattava peraltro di titoli, non di volumi, probabilmente di numero assai inferiore). Essa rimane il prototipo, insuperato, della biblioteca dello storico di professione. L'accrescimento della biblioteca era stato veloce: nel 1502 i libri del Sanudo erano, a dire di Aldo Manuzio, circa 500; nel 1516 erano 2.800; nel 1533 la biblioteca contava ormai i 6.500 titoli di cui si è detto.

I libri del Sanudo erano manoscritti e a stampa. Ai primi egli teneva particolarmente: si raccomanda nel testamento che i commissari "non butino via detti libri, maxime quelli a penna". La preoccupazione del Sanudo, ripetuta anche più oltre nel testamento, che i suoi libri potessero essere buttati via, sembra confermare l'osservazione del Bühler: i libri, ancorché cari, non erano conservati con cura (31). Ma egli possedeva anche libri a stampa: in particolare aveva "opere stampate in Alemagna che costano assai", come scrive egli stesso. I libri erano riposti in una apposita stanza, adorna di numerose iscrizioni. Erano tutti contrassegnati da un numero d'ordine: forse erano numerati di mano in mano che venivano acquistati. Il nr. 1 contiene un'orazione di Leonardo, padre di Marino, a Sisto IV, del 1474, autografa; il nr. 6570, che contiene orazioni ed esercitazioni scolastiche tenute in casa di Stefano Plazon (un noto maestro di scuola) nel 1530, potrebbe essere uno degli ultimi acquisti. Gli argomenti storici prevalevano nettamente, ma non mancavano opere letterarie (Plauto, Petrarca), filosofiche, giuridiche, religiose. Abbondavano cronache, orazioni, trascrizioni di documenti, poesie d'occasione, curiosità: miniere di notizie per lo storico.

Il tutto era registrato, con lo scrupolo che si può immaginare, in un "inventario" - spiega il Sanudo - "con il precio di quello mi costorono"; alcuni, con una croce davanti, erano stati venduti. E la vendita fu poi il destino dell'intera raccolta, che il Sanudo dovette, con lo strazio che è facile immaginare, alienare per far fronte alle necessità economiche che lo affliggevano negli ultimi anni della vita (32).

L'esempio offerto dall'originale raccolta del Sanudo non era certo facile da imitare. Aldo Manuzio offriva invece col complesso delle sue edizioni una sorta di biblioteca ideale: un modello culturale universalmente valido, spiritualmente completo (33). Certo non pochi umanisti cercarono di seguirlo, procurandosi le sue edizioni sempre apprezzatissime: non v'è inventario che non le ponga in evidenza, ove esistano. Molti dotti peraltro ponevano il loro orgoglio nel possesso, soprattutto, di manoscritti preziosi.

Per prima viene in considerazione la squisita biblioteca di Pietro Bembo. Pierre de Nolhac ha identificato una cinquantina di manoscritti appartenuti a lui (molti erano appartenuti al padre, Bernardo). Si tratta di 15 codici greci, 25 latini, 7 italiani, uno francese. Altri sono stati individuati successivamente. Alcuni sono di incredibile preziosità: basti pensare al Virgilio Vaticano del IV secolo o al Terenzio coevo o di poco posteriore, ceduti, assieme a molti altri straordinari tesori, dal figlio del Bembo, Torquato, a Fulvio Orsini, da cui passarono alla Biblioteca Apostolica Vaticana (34).

Biblioteche di eccezionale pregio si ritrovavano nell'ambiente di Aldo. Particolarmente importanti erano le raccolte di codici greci: l'Accademia Aldina riuniva i maggiori cultori della grecità. Marco Musuro, Giovanbattista Egnazio, Francesco d'Asola, cognato di Aldo, possedevano biblioteche greche di primissimo ordine, ricche di codici preziosi spesso usati - e talvolta consumati - da Aldo nella sua tipografia. Non si trattava di vaste raccolte, ma la qualità era altissima: non per nulla se le contendevano i maggiori collezionisti d'Europa. Il re di Francia si assicurò 76 manoscritti greci di Francesco d'Asola attorno al 1542; Ulrich Fugger acquistò più di 70 codici dell'Egnazio dopo la sua morte nel 1533. I manoscritti del Musuro, alcuni dei quali erano appartenuti all'Argiropulo, giunsero invece in parte almeno al convento dei Domenicani di SS. Giovanni e Paolo di Venezia (35).

Belle biblioteche avevano altri personaggi eminenti nella cultura: Giovanbattista Ramusio, Vettor Fausto, il cancellier grande Andrea Franceschi (36). Nella seconda metà del Cinquecento avevano forse carattere prevalentemente specialistico alcune delle biblioteche menzionate fra le eccellenti dalla guida del Sansovino: tali erano probabilmente quella del musicista Zarlino, che - come si è detto - contava circa mille volumi, e quella di Sebastiano Erizzo, celebre studioso di medaglie antiche (ma anche novelliere di successo), che ne aveva 1.150 (37).

Nel primo Seicento la maggior biblioteca veneziana è forse quella di uno studioso di astronomia e di scienze, Marc'Antonio Celeste, autore di un'opera sui moti dei corpi astrali pubblicata nel 1633. Egli possiede ben 2.700 volumi, una cifra invero cospicua; l'orientamento della biblioteca è prevalentemente filosofico e scientifico. Particolarmente ampia la raccolta di opere di cosmografia, geografia, viaggi (38).

Come si è visto, la presenza di codici greci nelle raccolte degli uomini di cultura veneziani era particolarmente alta; il rapporto privilegiato di Venezia col mondo greco facilitava un cospicuo afflusso di materiale manoscritto, che giungeva attraverso gli stessi canali commerciali che conducevano in notevoli quantità oggetti d'arte antica ad alimentare le grandi raccolte della capitale (39). Talvolta eruditi patrizi traevano vantaggio dalle cariche in Oriente per arricchire le loro raccolte: così Carlo Cappello, che fu duca a Candia ed ebbe modo di effettuarvi ottimi acquisti.

Altri invece acquistavano sul mercato veneziano o ricorrevano ad amanuensi, che traevano copie dai codici conservati nelle grandi biblioteche, come quella di San Marco, o altrove: è il caso di Domenico Morosini, senatore, stimato studioso di Platone, che aveva una biblioteca di codici greci, in buona parte copie recenti tratte da codici marciani, di cui Ulrich Fugger trattò l'acquisto nel 1561 (40).

Anche Daniele Barbaro, patriarca eletto di Aquileia, eminente studioso di architettura, promotore della rinascita delle scienze matematiche, protettore del Palladio, aveva una biblioteca importante, con libri a stampa e codici latini e greci (41). Nella seconda metà del secolo era ancora possibile formare grandi raccolte specialistiche di codici. Francesco Barozzi, cultore di studi filosofici e matematici e di scienze esoteriche, mise assieme un'eccezionale biblioteca di manoscritti, soprattutto greci. Una parte della raccolta (246 codici) è oggi alla Bodleiana di Oxford (42).

Si vendevano e si compravano manoscritti, in particolare greci, grazie all'intermediazione dell'attivissima colonia ellenica, che si rafforzava per l'afflusso dei profughi che lasciavano la patria invasa dai Turchi. "Proprietari di una o più opere o veri collezionisti, mercanti di professione o intermediari occasionali, copisti organizzati in ateliers o isolati - attività tutte che spesso si assommavano nella stessa persona - essi ebbero una funzione capitale nel salvare la cultura ellenica e nel diffonderla in Occidente" (43). A Venezia si approvvigionavano di manoscritti greci, originali o più spesso copie, i monarchi d'Europa attraverso i loro ambasciatori, le città (come Augusta che acquistava attraverso il suo incaricato d'affari Philipp Walter), i grandi collezionisti (come don Diego Hurtado de Mendoza, o i fratelli Hans Jacob e Ulrich Fugger, acquirenti questi ultimi in grande stile a Venezia anche di statue e marmi antichi, o Augerius von Busbeck, diplomatico fiammingo i cui codici sono oggi a Vienna, o i cardinali Cervini e Sirleto, o il nunzio apostolico Lodovico Beccadelli), gli eruditi italiani e stranieri, come lo storico ungherese Giovanni Sambuco.

Tale grande commercio si alimentava soprattutto grazie all'attività dei copisti: a Venezia vi erano almeno dieci o quindici copisti greci attivi contemporaneamente, nella Libreria di San Marco, in quella di S. Antonio di Castello o altrove.

Le dimensioni delle biblioteche maggiori andavano dunque da circa 1.000 a circa 2.000 volumi, con rarissime punte superiori. Una quota del 10-20% era costituita da manoscritti, molti di pregio grandissimo, che il mercato ancora forniva in quantità. Anche altrove le biblioteche dei grandi raccoglitori raggiungevano, e talvolta superavano, quelle cifre. Circa 2.200 volumi contava la biblioteca che il medico Guilandino aveva raccolto a Padova: essa confluì, come si accennerà, nella Libreria di San Marco. Ulisse Aldrovandi, a Bologna, aveva circa 4.200 libri, di cui 360 manoscritti. Benedetto Varchi, a Firenze, ne aveva oltre 2.000. Eccezionale la raccolta di Giovanni Vincenzo Pinelli, a Padova: nel 1604 contava 6.428 libri a stampa e 738 manoscritti (44).

In Francia le biblioteche della nobiltà di spada non superavano - quando esistevano - i 100-500 volumi; quelle della nobiltà di toga andavano da 500 a 1.500 libri. Biblioteche di dimensioni maggiori esistevano, ma erano pochissime: 2.000 libri aveva Claude Fouchet, 3.000 Jean Grolier, 4.600 Claude d'Urfé (ma sono valutazioni incerte) (45).

Nell'Inghilterra del Cinquecento e dei primi anni del Seicento, la maggior biblioteca di studiosi di cui rimangano gli inventari è quella di John Dee: 2.500 volumi a stampa e 170 manoscritti, nel 1583. John Rainolds ne aveva più di 2.000 nel 1607, William Branthwaite circa altrettanti nel 1618. Cospicua era la raccolta di Andrew Pern (oltre 1.300 i soli manoscritti). Gli altri eruditi seguivano a molta distanza. Nell'ambito della nobiltà, la sola raccolta di Lord Lumley, nel 1609, superava i 3.000 volumi, di cui 400 manoscritti; altri, ma poco numerosi, gentiluomini ne possedevano qualche centinaio. Qualche decina di testi al massimo avevano gli altri ceti. Durante e dopo la guerra civile le dimensioni cresceranno poi di molto (46).

Quel che dunque non sembra ritrovarsi in altri luoghi se non a Venezia è il numero così elevato di grandi biblioteche. Come per le collezioni d'arte e di antichità, come per le dimore sontuose e i ricchi arredi, la densità che si riscontra a Venezia è forse senza pari. Altrove potevano esservi singole raccolte anche maggiori; ma forse solo a Venezia ve n'erano tante di tali dimensioni e di tale pregio.

Caratteristica comune di tutte le biblioteche cinquecentesche è il poco spazio lasciato alla letteratura amena: i libri di evasione sono ben pochi, qualche Boccaccio, qualche Ariosto. Solo più tardi, nel Seicento, comincia a diffondersi la moda del romanzo. Nello stesso codice contenente il catalogo autografo dei libri del Donà la mano di un erede registra altre opere, acquisite successivamente, verso la metà del Seicento. L'aggiunta più cospicua è quella di un'intera sezione: Amori e romanzi, di 21 titoli.

Va poi rilevato che dalla biblioteca vera e propria era distinto idealmente, anche se spesso conservato fisicamente nello stesso luogo, l'archivio della famiglia: lettere, carte di carattere patrimoniale, relazioni d'ambascerie e di reggimenti. Spesso si trattava di cose di grande importanza storica e culturale. La distinzione produceva effetto in caso di successione: le carte dell'archivio di Giacomo Contarini, incluse nella biblioteca da lui lasciata alla Repubblica nel 1595, non passarono alla Marciana quando il legato divenne efficace, nel 1713 all'estinzione della discendenza maschile del patrizio, bensì ai pubblici archivi. I libri furono invece consegnati alla Libreria di San Marco.

Si nota infine che le biblioteche maggiori erano conservate non in casse, come quelle di minori dimensioni, ma in scaffali o "armeri". Questi trionfano ovunque, rispetto anche ai plutei o banchi della tradizione monastica, nel corso del Seicento.

L'atteggiamento dei proprietari delle biblioteche era generalmente molto liberale. Francesco Amadi, insigne collezionista del primo Cinquecento, apponeva sui suoi libri la simpatica nota: "Francisci Amadi et amicorum". Eguale la dizione adottata dal cancellier grande Andrea Franceschi: "Andrea de Franciscis et amicorum". Si trattava di una formula nata, sembra, a Venezia: l'aveva coniata nel Quattrocento Leonardo Giustinian (47). In generale per i proprietari sia di biblioteche sia di collezioni d'arte farne godere ai dotti e agli intenditori era un piacere e un punto d'onore. In molti casi la biblioteca del mecenate diventava un centro vivo di cultura, un punto di ritrovo dove gli intellettuali scambiavano informazioni, idee, eleboravano nuove concezioni o nuovi programmi: attorno a Giacomo Contarini si riuniva il circolo di uomini di cultura e di potere che determinò la chiamata di Galileo a Padova; gli uomini vicini a Daniele e Marc'Antonio Barbaro davano uno straordinario impulso alla matematica e all'architettura, determinando anche il trionfo del Palladio, come una generazione prima l'ambiente dei Grimani aveva portato a Venezia l'arte romana. Alla fine del secolo le idee del Sarpi trovavano alimento e diffusione nel ridotto dei Morosini (48). Strumento indispensabile per ogni approfondimento culturale, la biblioteca del mecenate animatore del circolo era a disposizione degli amici. In tanta dovizia di biblioteche private facilmente accessibili si sentiva meno il bisogno di biblioteche pubbliche.

Queste ultime, in quanto almeno teoricamente aperte al pubblico, esistevano e in buon numero. Anzitutto ve n'era una pubblica quanto alla proprietà e quanto all'uso: la Libreria Pubblica per antonomasia, quella di San Marco (49).

Nata a seguito della donazione del 1468 del cardinale Bessarione, aveva avuto qualche difficoltà ad avviarsi. Dal 1469 al 1532 libri erano rimasti in casse, senza che vi fosse un luogo ove leggere: l'unico modo per usufruire dei tesori bessarionei era il prestito, che comunque era largamente praticato. Ne approfittavano professori, ambasciatori stranieri, dotti patrizi. Il fatto che i codici venissero conservati in casse non è in sé prova di un disinteresse della Repubblica: era usuale all'epoca conservare in casse le biblioteche principesche (50). Del resto si è visto dagli inventari esaminati sopra che quasi tutti i privati tenevano i loro libri in casse: una simile sistemazione anziché suscitare scandalo doveva apparire naturale. Quando poi Pietro Bembo fu nominato pubblico bibliotecario (preceduto nella prestigiosa ma più che altro onorifica carica da Marco e Agostino Barbarigo, Marc'Antonio Sabellico, Andrea Navagero), ottenne che i libri fossero trasportati nella chiesa di San Marco, in un locale sito al piano superiore dell'edificio, e qui fu possibile la consultazione sul posto. Nel 1537 fu decisa finalmente, in un momento particolarmente favorevole, la costruzione della Libreria sulla Piazzetta. Ciò avvenne grazie alla contemporanea presenza in posizioni essenziali di tre personaggi persuasi dell'importanza storica, politica e culturale dell'edificazione di una libreria: il doge Gritti, il bibliotecario Pietro Bembo e il procuratore di San Marco Vettor Grimani. Entrava in gioco anche la disponibilità di un grande architetto moderno, Jacopo Sansovino, e l'opportunità politica di un'affermazione della classicità e romanità di Venezia, sia di fronte alla potenza di Carlo V sia nei confronti del papa. Nel frattempo continuava il prestito, sia pure soggetto a norme assai restrittive: era necessaria la firma di due dei tre riformatori dello Studio di Padova sul mandato, e si chiedeva anche il deposito in denaro o preziosi per almeno 25 ducati. Nel 1560 la costruzione fu pronta a ricevere i libri: nella grande sala, lunga 22 metri e larga 10, sontuosamente decorata, essi furono collocati in 36 plutei, o banchi, posti in due file parallele; i codici erano collocati sugli spioventi, incatenati, o in un ripiano sottostante. Subito affluirono studiosi e soprattutto copisti di libri greci.

L'apertura era tuttavia saltuaria: non si poteva pretendere un'assidua frequenza dal bibliotecario patrizio (un gentiluomo di prestigio, non remunerato (51), spesso gravato da molti altri compiti), né il fante o bidello della Procuratia poteva badare a tutto. Solo nel 1636 un decreto del senato istituì accanto al bibliotecario patrizio un custode e un fante, con cui garantire un'apertura a giorni alterni.

Fino alla fine del Cinquecento la Biblioteca di S. Marco comprendeva solo i manoscritti e i pochi, preziosissimi incunaboli donati dal Bessarione: in tutto un migliaio di libri (con un numero di titoli peraltro di gran lunga maggiore, dato che il cardinale amava legare insieme molte opere dello stesso autore). I codici erano greci e latini, ma soprattutto i manoscritti greci erano particolarmente importanti: il cardinale aspirava a costituire una biblioteca nazionale ellenica in un momento in cui la cultura greca correva il pericolo di una totale scomparsa per il distruttivo dilagare dei Turchi, e aveva concentrato i suoi sforzi nell'acquisto di opere greche.

Oltre ad alcuni pezzi inestimabili (basti pensare ai due codici più antichi dell'Iliade), la raccolta bessarionea offriva un panorama pressoché completo della cultura greca classica e bizantina, attraverso codici per lo più di alta qualità filologica. È naturale quindi che quei testi, spesso difficilissimi da reperire altrove in buone lezioni, attirassero l'attenzione di principi e signori, desiderosi di formare biblioteche degne del loro prestigio. Molti copisti agivano per conto degli ambasciatori del re di Francia, Francesco I, che voleva accrescere la sua biblioteca a Fontainebleau. Altri operavano, come si è già accennato, per incarico di don Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore del re di Spagna, altri per conto dei fratelli banchieri Hans Jacob e Ulrich Fugger di Augusta. La Libreria di S. Marco era la miniera alla quale più di frequente si ricorreva.

Nel 1589 la Biblioteca si accrebbe di un lascito di libri a stampa: quelli del medico e botanico Guilandino di Marienburgo, professore a Padova, amico del bibliotecario di S. Marco Benetto Zorzi. Si trattava di circa 2.200 volumi dei più vari argomenti. Altri volumi si aggiunsero poi, grazie ad un lascito in denaro disposto da Guilandino. Qualche frutto diede anche il "diritto di stampa", istituito nel 1603 dal senato a beneficio della Pubblica Libreria. Attorno al 1623 i libri a stampa erano circa 5.800. Tuttavia quel che continuava ad attirare lo sceltissimo pubblico che frequentava l'istituzione era soprattutto la raccolta dei codici greci. In sostanza la Pubblica Libreria era più che altro una biblioteca altamente specializzata. Altre biblioteche potevano meglio sopperire alle esigenze culturali di più larghi strati della popolazione veneziana: quelle degli ordini religiosi.

Non vi è dubbio che tali biblioteche fossero considerate bene a disposizione dei fedeli e quindi aperte al pubblico, sia pure senza precise regole circa l'uso, gli accessi, gli orari. Francesco Sansovino, nella sua celebre guida, dichiara di volersi limitare a trattare di alcune "librerie particolari, di singolar stima", "tacendo delle pubbliche et comuni de monisteri". Un secolo dopo, il Coronelli segnala al visitatore che "troverà libri rari nelle pubblice Biblioteche di S. Marco, di S. Giorgio [...]" e prosegue elencando varie biblioteche religiose. Per il loro numero e la loro ricchezza esse integravano ampiamente le raccolte della biblioteca dello Stato. A quest'ultima infatti "non abbisognava grande estensione per la parte moderna, atteso le numerose biblioteche delle corporazioni religiose, che stavano aperte ad uso pubblico, oltre le nbn poche dei cittadini, delle quali con facilità approfittar si poteva" (52).

Rimane tuttavia difficile determinare quale fosse il grado di effettiva accessibilità di tali biblioteche. Georg Tanner, un giurista tedesco in visita a Venezia e Padova nel 1555, poté esaminare "diligenter" la biblioteca di S. Antonio di Castello; viceversa non gli riuscì di penetrare in quella di S. Zanipolo, dove il frate bibliotecario "ineptissimus et suspiciosissimus" accampò la scusa che i manoscritti che interessavano al Tanner non erano ancora legati (53). Della biblioteca di S. Giorgio Maggiore parla con ammirazione Paul Hentzner, che vi entrò nel 1599 (54). Molto certo dipendeva dalla disponibilità dei bibliotecari: se ciò è vero per la Libreria di S. Marco, resa nel Seicento impenetrabile da alcuni custodi, a maggior ragione ciò sarà avvenuto per le biblioteche religiose. Per gli stranieri come il Tanner, che per di più era in rapporto con ambienti protestanti, la diffidenza era certo maggiore che per i cittadini della Repubblica: verso la metà del Seicento, epoca della massima chiusura per la Pubblica Libreria e presumibilmente per le altre, Giacomo Filippo Tomasini, ad esempio, aveva tranquillo accesso alle librerie religiose. Vi erano poi differenze nella composizione e nelle origini di tali biblioteche, che determinavano conseguenze circa l'effettiva apertura al pubblico; mentre alcune biblioteche erano chiaramente destinate al solo uso dei religiosi, altre invece erano sin dal loro sorgere rivolte a un pubblico più vasto. Tale era il caso di S. Antonio di Castello, la cui raccolta era nata dal disegno mecenatesco del cardinale Grimani; o di quella di S. Giorgio Maggiore, ricostruita, secondo la tradizione, da Michelozzo, a spese di casa Medici; o di SS. Giovanni e Paolo (o S. Zanipolo), soprattutto per l'impulso che ebbe dal padre generale Gioachino Torriano, che la arricchì di molto alla fine del Quattrocento, portandovi tra l'altro tre magnifici manoscritti - oggi alla Marciana provenienti dalla leggendaria biblioteca di re Mattia Corvino.

Circa le biblioteche di cui stiamo trattando rimane un'imponente documentazione per gli ultimi anni del Cinquecento. Nel 1598 prese infatti avvio una vasta indagine, promossa dalla Congregazione dell'Indice, per ispirazione del cardinale Agostino Valier, volta ad accertare la situazione e la consistenza delle biblioteche conventuali e monastiche di tutta l'Italia. Tra quell'anno e il 1603 affluirono alla Congregazione circa 7.500 inventari, inviati da 31 ordini religiosi. Molte istituzioni veneziane risposero: si conservano gli inventari provenienti da 25 case (55). Il quadro che essi forniscono è ampio, anche se alcune riserve sono d'obbligo: anzitutto, il timore delle sanzioni romane avrà certo suggerito qualche omissione, quando non si fosse già attuata la materiale eliminazione dei volumi sospetti; in secondo luogo, la maggiore o minor cultura del compilatore determina considerevoli differenze nella redazione degli elenchi, non sempre rispettosi di alcune sagge norme generali (era disposto che si indicassero autore, titolo, luogo, stampatore, anno, formato); infine, proprio la descrizione dei manoscritti, che tanto ci interesserebbe, è sommaria, approssimativa, o addirittura mancante. Non tutti gli ordini peraltro risposero. Non inviarono elenchi, in particolare, i Domenicani, che avevano biblioteche a SS. Giovanni e Paolo, S. Domenico di Castello, S. Secondo in Isola, S. Pietro Martire a Murano; quella di S. Zanipolo era così importante che il governo veneto aveva pensato, negli ultimi anni del Quattrocento, di trasferirvi il lascito bessarioneo e di farne la Pubblica Libreria. I Camaldolesi di S. Michele di Murano, che pure avevano una celebre biblioteca, non risposero, né risposero quelli di S. Clemente, mentre inviò un accurato inventario il piccolo monastero camaldolese di S. Mattia di Murano. Non inviarono elenchi i Cappuccini del Redentore, che avevano ereditato i libri del medico Tommaso Rangone, i Teatini di S. Nicolò di Tolentino, che pure avevano una buona raccolta di manoscritti (il Tomasini elenca una cinquantina di pezzi), i Minimi di S. Francesco di Paola, i Gesuiti, che avevano a Venezia una delle loro biblioteche maggiori. I Frati Minori conventuali di S. Maria Gloriosa, S. Giacomo in Paluo e S. Nicolò della Lattuga inviarono solo gli elenchi dei libri conservati dai frati nelle loro celle: forse quei conventi non avevano biblioteche comuni di rilievo.

Al vertice del sistema delle biblioteche religiose vi era un gruppo di raccolte maggiori, che raggiungevano, o superavano, i mille volumi. I Certosini di S. Andrea ne avevano 1.500; 1.200 i Frati Minori osservanti di S. Francesco della Vigna; i Canonici Regolari Lateranensi di S. Antonio di Castello, che conservavano il lascito del cardinale Domenico Grimani, ne avevano 911 stando agli elenchi forniti dal Tomasini; quelli di S. Salvador 1.200. Circa 800 erano i libri dei frati Serviti della casa maggiore, Santa Maria dei Servi. Circa 700 erano quelli dei Benedettini di San Nicolò di Lido e dei Frati Minori osservanti di S. Giobbe.

In alcune biblioteche si notano caratteri tradizionali, come la distinzione, tipica degli ordini mendicanti, tra la parte della biblioteca che era destinata alla lettura dei fedeli e quella invece riservata al prestito; quest'ultima, detta "segreta" perché chiusa in armadi o anche "circolante" per la sua destinazione, era di solito più fornita dell'altra. Tale è il caso della biblioteca di S. Francesco della Vigna, in cui la biblioteca pubblica o "minor" contiene 300 volumi e 900 quella segreta o "maior". La biblioteca di consultazione degli ordini mendicanti era di regola costituita da una sala oblunga, ove i libri erano collocati, spesso assicurati da catene, sui banchi di lettura; questi, posti in due file parallele, lasciavano libero un corridoio centrale. In quella di S. Francesco della Vigna, stando alla descrizione del Sanudo, le pareti erano ornate da numerosi ritratti di personaggi illustri dell'ordine.

In molti casi gli inventari segnalano anche le raccolte private dei religiosi, conservate nelle celle di questi: biblioteche talvolta consistenti, come quella del celebre servita, Paolo Sarpi.

Per completare il mosaico delle biblioteche religiose, bisogna poi ricordare le biblioteche parrocchiali, di cui si hanno notizie più tardi, ma che probabilmente cominciavano a formarsi nel Cinquecento, con il diffondersi del libro a stampa. Le Scuole (o confraternite) avevano se non altro qualche libro di devozione e la Mariegola, spesso riccamente miniata, e talvolta l'elenco dei confratelli d'onore.

In alcuni casi le biblioteche hanno prevalentemente carattere antiquario, conservano manoscritti antichi e preziosi: tali sono le biblioteche di SS. Giovanni e Paolo, di S. Antonio di Castello, di S. Giorgio Maggiore. In generale peraltro sul fondo antico, che potremmo dire museale, prevalgono i libri destinati all'uso: libri recenti o recentissimi, acquistati con uno sforzo costante di aggiornamento, editi per lo più a Venezia, più raramente altrove. Modesto per alcuni ordini, il livello culturale dei conventi appare in alcuni casi elevato, alla luce degli acquisti fatti e del metodo adottato nella redazione degli inventari. Al lettore esterno, una volta ammesso, si offrivano ampie possibilità di studi e di letture.

Va peraltro notato che, a differenza dei conventi francesi, che conservavano opere di eretici per poterne meglio combattere le idee (56), quelli veneziani, come gli altri italiani, con la sola eccezione forse dei Gesuiti, non ne conservavano alcuna. Tale mancanza, e in genere la scarsità di opere di valore scientifico o filologico prodotte all'estero, l'assenza di autori dell'importanza di Erasmo, messo totalmente al bando nel 1596, la soffocante presenza di opere di edificazione religiosa a scapito di altre e più vive, fa sì che le biblioteche religiose, più delle altre di necessità ossequienti alle direttive della Curia, appaiano a Venezia come altrove "immagine autentica del rifiuto della Chiesa di una cultura il cui recupero, quando in parte avverrà, sarà in grave ritardo" (57).

Ciò vale peraltro per il tardo Cinquecento e per il Seicento. Prima l'atmosfera era ben diversa. Se un'opera come l'Hypnerotomachia Poliphili, così ricca di umori e così libera nell'espressione, anche se avvolta nel paludamento formale dell'arduo linguaggio latineggiante, aveva potuto nascere nell'ambiente di un convento, quello dei SS. Giovanni e Paolo, non è difficile immaginare la vitalità e la vivacità della vita intellettuale dei conventi del Quattrocento e primo Cinquecento. Poi la situazione mutò, con l'avanzare della controffensiva cattolica. Alla fine del secolo la libertà intellettuale era soffocata. Era ormai difficile trovare nei conventi libri non ortodossi; anche se, a onor del vero, molti fra gli inquisiti del Santo Uffizio erano religiosi.

I libri sospetti comunque circolavano. Non pochi librai, anche importanti, li vendevano, nonostante il rischio economico (multe e confische) e personale. Se tanti si cimentavano in tale pericoloso mestiere, e anzi vi perseveravano, facendosi talvolta cogliere di nuovo in fallo a distanza di anni (uno, Piero Longo, ci rimise la vita), è segno che per tali libri vi era una notevole clientela, evidentemente soprattutto locale, dato che gli stranieri potevano approvvigionarsi altrove. I nomi degli eretici e dei sospetti inquisiti dal Santo Uffizio non sono molti, ma sono certo una minoranza rispetto a quanti acquistavano o leggevano i libri proibiti senza essere sorpresi dall'Inquisizione (58). Fra i sospetti e i condannati vi sono patrizi, membri del ceto burocratico, monaci, precettori. Persone colte, dovevano avere biblioteche di una certa importanza, ma per lo più rimane traccia solo dei titoli proibiti trovati in loro possesso o che erano accusati di possedere. Anche se la circolazione dei libri proibiti era considerevole, la minaccia incombente su chi li leggeva e li acquistava costituiva un limite gravissimo allo scambio aperto e proficuo delle idee; l'intellettuale era costretto a muoversi in una soffocante atmosfera di segretezza, gravida di timori e di sospetti (59).

Una categoria a parte era quella dei cultori di negromanzia. Per eseguire gli incantamenti bisognava avere a disposizione un certo numero di manuali. Così il patrizio Giulio Morosini, incappato nel Santo Uffizio nel 1579, aveva messo assieme una vera e propria bibliotechina specializzata, contenente opere di Bacone, Agrippa, Pietro d'Abano e un diffusissimo trattato di magia, la Clavicula Salomonis. In generale le finalità che gli aspiranti maghi si proponevano erano abbastanza innocenti: far innamorare qualcuno, o rintracciare un tesoro nascosto (60).

Fra i pur numerosi lettori di libri proibiti, gli eretici veri e propri costituivano una minoranza numericamente assai modesta, anche se culturalmente molto attiva. Un'altra minoranza, sorvegliata attentamente e perseguitata, la comunità ebraica, era per vocazione e tradizione legatissima alla scrittura (61). I libri acquistati dagli ebrei, provenienti dall'estero, erano strettamente controllati: così nel 1583 un funzionario esamina in Ghetto una partita di libri ebraici provenienti da Tripoli in Siria. Così Maria Lopez accusa Diego Lopez e Caterina Mendez, nella famosa vicenda che portò alla fuga in Turchia del finanziere Joseph Nasi, futuro duca di Nasso, di possedere "el testamento vecchio et altri libri d'oration hebrei volgari" (62). Certo i libri non mancavano nelle case degli ebrei.

Per quanto riguarda le altre minoranze etniche, dei greci si è detto. I tedeschi avevano portato a Venezia l'arte della stampa: è probabile che presso alcuni di loro vi fossero biblioteche importanti (63). Anche gli armeni, che pubblicavano a Venezia opere nella loro lingua destinate alla vendita in Oriente, avranno avuto biblioteche, ma non ci è noto di quale dimensione. Meno ancora sappiamo delle altre minoranze etniche, pur attive e prospere a Venezia.

Nella Venezia del Cinquecento il libro è dunque una presenza costante. A migliaia i volumi a stampa escono dai torchi veneziani, a migliaia si avviano verso i mercati di tutta l'Europa. Le navi portano dalla Grecia lotti di manoscritti antichi o più recenti, assieme a oggetti di scavo, iscrizioni, statue, e ripartono cariche di libri a stampa in slavo, armeno, greco, dirette ai mercati d'oltremare. I negozi dei librai affollano le Mercerie; altri libri si accumulano nei banchetti della Piazza e nelle botteghe di Rialto e S. Polo. I libri si comprano e si vendono, entrano nella città per mille canali, leciti e illeciti, per altrettanti ne escono. Le biblioteche si formano, si sciolgono, si ricreano, al pari delle collezioni d'arte, di curiosità naturali, di antichità. La via delle spezie e la via della seta giungono a Venezia; e a Venezia conduce anche "la via del libro" (64). Venezia, grande mercato, vitale e civilissima capitale, è anche la "città del libro" (65).

1. Per l'ornamentazione scultorea esterna v. Alberto Rizzi, Scultura esterna a Venezia, Venezia 1987. Per gli interni, v. Isabella Palumbo-Fossati, L'interno della casa dell'artigiano e dell'artista nella Venezia del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 109-153.

2. Gaetano Cozzi, La società veneziana all'epoca di Andrea Gabrieli, in Andrea Gabrieli e il suo tempo, Atti del Convegno internazionale, Venezia 16-18 settembre 1985, a cura di Francesco Degrada, Firenze 1987, pp. 1-17.

3. Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento Veneziano, Bologna 1981, pp. 15-42.

4. Il mercante "debbe essere buono scriptore, abachista e quaderniere", spiega il raguseo Benedetto Cotrugli nel suo Libro dell'arte di mercatura, composto nel 1458 e riedito a cura di Ugo Tucci, Venezia 1990, p. 210.

5. Marino Sanuto, I diarii, IV, a cura di Nicolò Barozzi, Venezia 1880, col. 291 (alla data del luglio 1502).

6. Paul F. Grendler, Schooling in Renaissance Italy. Literacy and Learning, 1300-1600, Baltimore-London 1989, pp. 42-51. Per le donne il Grendler calcola una percentuale di alfabetizzazione del 12,2-13,2%. La media per i due sessi è del 23%.

7. Vittorio Baldo, Alunni, maestri e scuole in Venezia, Como 1977, pp. 43-81. Gli allievi erano 4.625.

8. Emanuele A. Cicogna, Del Gobbo di Rialto, nel giornale "Il Vaglio", 1, nr. 38, 1836, pp. 301-308; Andrea Moschetti, Il Gobbo di Rialto e le sue relazioni con Pasquino, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, pp. 5-93.

9. Gherardo Ortalli, La pittura infamante nei secoli XII-XVI, Roma 1979, p. 169.

10. Franco Gaeta, Manuale di storia del giornalismo, I, Trieste 1951, pp. 70-72; Ugo Bellocchi, Storia del giornalismo italiano, Bologna 1974, pp. 102-104; Valerio Castronovo - Giuseppe Ricuperati - Carlo Capra, La stampa italiana dal Cinquecento all'Ottocento, con introduzione di Nicola Tranfaglia, Bari 1976, p. 9.

11. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Bergamo 19287, p. 260.

12. Armando Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino 1980, pp. 31-32, 62-63.

13. Le due stime sono in Paul F. Grendler, L'inquisizione romana e l'editoria a Venezia (1540-1605), Roma 1983, pp. 25-26 e in Conor Fahy, The "Index librorum prohibitorum" and the Venetian Printing Industry in the Sixteenth Century, "Italian Studies", 35, 1980, pp. 52-61. L'elenco dei tipografi veneziani del Cinquecento è in Gedeon Borsa, Clavis typographorum librariorumque Italiae (1465-1600), Aureliae Aquensis 1980. Sull'industria editoriale v. Ugo Tucci, Venezia nel Cinquecento: una città industriale?, in Crisi e rinnovamenti nell'autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1991, p. 76 (pp. 61-83).

14. Paolo Veneziani, Introduzione a Il libro italiano del Cinquecento: produzione e commercio. Catalogo della mostra, Roma 1989, pp. 15-23; Id., La marca tipografica di Comin da Trino, "Gutenberg Jahrbuch", 65, 1980, pp. 162-173; P.F. Grendler, L'inquisizione romana, pp. 21-50.

15. Sul "traffico clandestino dei libri" v. P.F. Grendler, L'inquisizione romana, pp. 259-284. Vi erano implicati anche i soci di Aldo: v. Andrea Del Col, Il controllo della stampa a Venezia e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), "Critica Storica", 17, 1980, pp. 457-510.

16. Pubblicata da P. Veneziani, Introduzione, pp. 21-23.

17. Giacomo Moro, Insegne librarie e marche tipografiche in un registro veneziano del '500, "La Bibliofilia", 91, 1989, pp. 51-80.

18. Gli inventari, conservati all'A.S.V., Cancelleria Inferiore, Miscellanea notai diversi, sono analizzati da Marino Zorzi, La circolazione del libro a Venezia nel Cinquecento. Biblioteche private e pubbliche, "Ateneo Veneto", 177, 1990, pp. 117-189. A tale scritto mi permetto di rinviare per più ampie notizie, anche di carattere bibliografico e archivistico, in merito a questo e agli altri argomenti trattati nel presente lavoro. Gli inventari conservati all'Archivio di Stato sono utilizzati anche da Isabella Palumbo-Fossati, Livres et lecteurs dans la Venise du XVIe siècle, "Revue Frannaise d'Histoire du Livre", n. ser., 54, 1985, pp. 481-513.

19. Neri Pozza, La casa di Tiziano a Biri Grande, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Vicenza 1976, pp. 35-37. Per i volgarizzamenti di Ovidio come possibile fonte d'ispirazione per alcune "poesie" tizianesche, v. Carlo Ginzburg, Tiziano, Ovidio e i codici della figurazione erotica del '500, ibid., pp. 125-135. Il Lucano del Tintoretto è descritto a p. 30 del catalogo di vendita nr. 1145, Italian Books, di Bernard Quaritch, Londra 1991. Il volume Pharsalia, edito nel 1520, "in aedibus Guillelmi de Fontaneti", reca due volte la nota di possesso del Maestro.

20. Sulla presenza di carte geografiche e mappamondi a Venezia, v. Federica Ambrosini, "Descrittioni del mondo" nelle case venete dei secoli XVI e XVII, "Archivio Veneto", 117, 1981, pp. 67-69 (pp. 67-79).

21. Dorit Raines, Office Seeking, "Broglio" and the Pocket Political Guidebooks in "Cinquecento" and "Seicento" Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1992, pp. 137-194.

22. Giorgio Montecchi, Cardinali e biblioteche, "Società e Storia", 12, 1989, pp. 729-739; Krzysztof Pomian, Collezioni, specchio della cultura, "Ateneo Veneto", 171, 1984, pp. 17-36.

23. Conservato nella biblioteca del veneziano Museo Correr, ms. P.D. c. 2735.2. Sulla biblioteca del Donà, Federico Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959, p. 32; Federica Ambrosini, Paesi e mari ignoti, Venezia 1982, pp. 9, 13-15; Gaetano Cozzi, Donà, Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 757-771. Sul riservato carattere del Donà, di cui è prova il sobrio stile delle poche note al catalogo, Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 32.

24. Sulla biblioteca Calergi, v. Nikolaos M. Panayotakis, Λέων ὁ ΔιάϰονοϚ "῾ΕπετηϱὶϚ τῆϚ ῾ΕταιϱείαϚ Βυζαντινῶν Σπουδῶν ", 34, 1965, pp. 58-71 (pp. 1-138); Id., ῾Ο ποιητήϚ τοῦ "῾Εϱωτοϰϱίτου" ϰαὶ ἄλλα βενετοϰϱητιϰὰ μελετήματα, Eraclion 1989, pp. 60-61. Sulla biblioteca Valier, Antonio Niero, Libri di teologia nella biblioteca dogale dei Valier, "Studia Patavina", 16, 1969, pp. 279-290.

25. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venetia 1581; Id., Venetia città nobilissima et singolare [...] corretta, emendata e più d'un terzo di cose nuove ampliata dal M.R.D. Giovanni Stringa, Venetia 1604; Id., Venetia città nobilissima et singolare [...] con aggiunta di tutte le cose notabili [...] dall'anno 1580 fino al presente 1663 da D. Giustiniano Martinioni, Venetia 1663. Per una descrizione delle biblioteche citate dal Sansovino e in particolare di quelle Contarini, Corner, Lolin mi permetto di rinviare a M. Zorzi, La circolazione del libro, pp. 145-149, ove sono reperibili i principali riferimenti bibliografici.

26. Sulla biblioteca del cardinale Grimani v. Theobald Freudenberger, Die Bibliothek des Kardinals Domenico Grimani, "Historisches Jahrbuch des Görres Gesellschaft", 56, 1936, pp. 15-45; Giovanni Mercati, Codici latini Pico Grimani Pio e di altra biblioteca ignota del secolo XVI esistente nell'Ottoboniana e i codici greci Pio di Modena, Roma 1938, pp. 1-38.

27. Martin Lowry, Two Great Venetian Libraries in the Age of Aldus Manutius, "Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester", 57, 1974, pp. 128-166.

28. Emanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane raccolte ed illustrate, IV, Venezia 1834, p. 597; G. Mercati, Codici latini, pp. 2-25, 29-34; Pio Paschini, Il cardinale Marino Grimani e alcuni prelati della sua famiglia, Roma 1945, p. 80. L'inventario dei libri di Marino è conservato in Venezia, Museo Correr, mss. PD 745/C/II.

29. L'ampio recente studio sul Rangone di Erasmus Weddigen, Thomas Philologus Ravennas, Gelehrter, Wohltäter und Mäzen, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 9, 1974, pp. 7-76, dedica non grande spazio alla biblioteca (pp. 44-45); sulla quale cf. F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti, p. 7, per le opere geografiche. Il testamento autografo del Rangone è in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Cod. Marc. Lat. XIV, 105 (= 4282), legato assieme ad una copia settecentesca; l'elenco dei libri è, ivi, nel Cod. Marc. Lat. XIV, 982 (= 4298).

30. Guglielmo Berchet, Prefazione a I diarii di M. Sanuto, Venezia 1903, pp. 57-67 (pp. 7-138).

31. Carl Bühler, Scribi e manoscritti nel Quattrocento europeo, in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1979, p. 42 (pp. 37-57); Giovanni Ciappelli, Libri e letture a Firenze nel XV secolo, "Rinascimento", 29, 1989, p. 270 (pp. 267-291).

32. Parte dei codici del Sanudo passò a Siviglia, nella biblioteca di Fernando Colombo: Klaus Wagner, Sulla sorte di alcuni manoscritti appartenuti a Marin Sanudo, "La Bibliofilia", 73, 1971, pp. 247-262; Id., Aldo Manuzio e i prezzi dei suoi libri, ibid., 77, 1975, pp. 77-82.

33. Vittore Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 123-175.

34. Pierre De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris 1887, v. pp. 302-327; Cecil H. Clough, The Library of Bernardo and Pietro Bembo, "The Book Collector", 33, 1984, pp. 305-331; Nella Giannetto, Bernardo Bembo umanista e politico veneziano, Firenze 1985, pp. 259-358.

35. Sulla biblioteca del Musuro, v. Elpidio Mioni, La biblioteca greca di Marco Musuro, "Archivio Veneto", ser. V, 93, 1971, pp. 5-28; Gabriele Mazzucco, Il maestro legatore dei manoscritti di Giovanni Argiropulo a S. Zanipolo, "Miscellanea Marciana", 2-4, 1987-1989, pp. 117-121. Sulla biblioteca dell'Egnazio v. Elpidio Mioni, Cipelli, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 698-702. Su Francesco d'Asola v. Henri Omont, Catalogues des manuscrits grecs de Fontainebleau, Paris 1889, p. XXIV; Jean Irigoin, Les ambassadeurs à Venise et le commerce des manuscrits grecs dans les années 1540-1550, in AA.VV., Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, II, Firenze 1977, p. 402 (pp. 399-416).

36. Sul Franceschi, Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano 1987, pp. 114-116. Sul Ramusio, Giuliano Lucchetta, Viaggiatori e racconti di viaggio nel Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 443-489. Sul Fausto, Nigel G. Wilson, Vettor Fausto, Professor of Greek and Naval Architect, in The Uses of Greek and Latin, Historical Essays, a cura di Anna Carlotta Dionisotti - Anthony Grafton - Jill Kraye, London 1988, pp. 89-96; Ennio Concina, Navis, Torino 1990, pp. 34, 136.

37. Sullo Zarlino, Isabella Palumbo-Fossati, La casa veneziana di Gioseffo Zarlino nel testamento e nell'inventario dei beni del grande teorico musicale, "Nuova Rivista Musicale Italiana", 20, 1986, pp. 633-649. Sull'Erizzo, Renzo Bragantini, Introduzione e Nota biografica, in Sebastiano Erizzo, Le sei giornate, Roma 1977, pp. IX-XXXI; Isabella Palumbo-Fossati, Il collezionista Sebastiano Erizzo e l'inventario dei suoi beni, "Ateneo Veneto", 171, 1984, pp. 201-218.

38. Sulla biblioteca del Celeste, F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti, pp. 8, 22-25.

39. Sul collezionismo archeologico nel Veneto, v. Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990.

40. Paul Canart, Jean Nathanaël et le commerce des manuscrits grecs, in AA.VV., Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, II, Firenze 1977, p. 422 (pp. 417-438).

41. Sulla biblioteca del Barbaro, Paul Canart, Les Vaticani Graeci 1487-1962, Città del Vaticano 1979, pp. 150-152; Id., Jean Nathanaël, p. 421; M. Zorzi, La circolazione del libro, pp. 174-180.

42. Gino Benzoni, Barozzi, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 495-499; Paul L. Rose, A Venetian Patron and Mathematician of the Sixteenth Century: Francesco Barozzi (1537-1604), "Studi Veneziani", n. ser., 1, 1977, pp. 119-180.

43. P. Canart, Jean Nathanaël, p. 423. Sull'attività culturale dei greci a Venezia, Deno J. Geanakoplos, Greek Scholars in Venice, Cambridge, Mass. 1962; Giorgio Fedalto, Stranieri a Venezia e a Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 499-535; Leonard Vranoussis, Manuscrits, livres, impriméries et maisons d'éditions, "Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik", 32/I, 1982, pp. 393-480.

44. Piero Innocenti - Marielisa Rossi, La biblioteca e la sua storia, "Biblioteche oggi", 5, 1987, p. 44 (pp. 25-65); Marcella Grendler, A Greek Collection in Padua: The Library of Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), "Renaissance Quarterly", 33, 1980, pp. 386-416.

45. Annie Charon Parent, Les grandes collections du XVIe siècle, in AA.VV., Histoire des bibliothèques françaises, II, Paris 1988, pp. 85-100.

46. Sears Jayne, Library Catalogues of the English Renaissance, Berkeley-Los Angeles 1956; Nicolas K. Kiessling, The Library of Robert Burton, Oxford 1988; Richard J. Roberts, recensione all'opera del Kiessling, "The Library", ser. III, 12, nr. 3, 1990, pp. 248-252.

47. Geoffrey D. Hobson, Et amicorum, "The Library", ser. V, 4, nr. 2, 1949-50, pp. 95-97 (pp. 87-99); Luciano Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Le biblioteche del mondo antico e medievale, a cura di Guglielmo Cavallo, Bari 19892, p. 185 (pp. 163-186).

48. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1978, pp. 137-138.

49. Per più ampie notizie sulla Biblioteca Marciana, mi permetto di rinviare a M. Zorzi, La Libreria di San Marco, pp. 87-212.

50. Tiziana Pesenti, La Biblioteca Marciana nella sua storiografia più recente, "Il Bibliotecario", 25, settembre 1990, p. 147 (pp. 143-159).

51. Il solo remunerato fu Andrea Navagero, cui nel 1516 fu assegnato uno stipendio di 200 ducati annui.

52. Così il bibliotecario marciano Pietro Bettío in un rapporto citato in M. Zorzi, La Libreria di San Marco, p. 320.

53. Victor Bibl, Nidbruck und Tanner, "Archiv für Österreichische Geschichte", pt. 2, 1898, p. 408 (pp. 379-430).

54. Paul Hentzner, Itinerarium Germaniae, Galliae, Angliae, Italiae, Norimbergae 1612, p. 232.

55. Romeo De Maio, Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli 1973, pp. 365-381; Luigi Fiorani, Premessa al catalogo Codices Vaticani Latini. Codices 11266-11326. Inventari di biblioteche religiose italiane alla fine del Cinquecento, Roma 1985, pp. VII-XVI. Per un esame particolareggiato degli inventari conservati alla Biblioteca Vaticana, rinvio al mio lavoro, La circolazione del libro, pp. 152-164. Un lucido quadro dei caratteri che identificano le biblioteche religiose dei vari ordini nel loro divenire storico è offerto da Guglielmo Cavallo, Dallo "scriptorium" senza biblioteca alla biblioteca senza "scriptorium", in AA.VV., Dall'eremo al cenobio, Milano 1987, pp. 331-422.

56. Benché collocati in luoghi separati, essi sono "en général ni détruits ni exclus": Claude Jolly, Unité et diversité des collections religieuses, in AA.VV., Histoire des bibliothèques françaises, I, Paris 1988, pp. 11-27.

57. Si trovano numerose indicazioni di biblioteche contenenti libri proibiti nella citata opera di P.F. Grendler, L'inquisizione romana, e in quella di Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia. 1520-1580, Torino 1987.

58. R. De Maio, Riforme e miti, p. 373.

59. Gaetano Cozzi, Books and Society, "Journal of Modern History", 51, marzo 1979, pp. 86-98.

60. Ruth Martin, Witchcraft and Inquisition in Venice. 1550-1650, Oxford-New York 1989, pp. 87-99.

61. Pier Cesare Joly Zorattini, Gli ebrei a Venezia, Padova e Verona, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 536-576.

62. Id., Processi del Santo Uffizio contro ebrei e giudaizzanti (1582-1585), VI, Firenze 1988, pp. 22, 27.

63. Ad esempio Peter Ugleheimer, uno dei finanziatori dei primi tipografi veneziani, possedeva vari incunabuli miniati: Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio, Roma 1984, p. 29; Id., Nicholas Jenson and the Rise of the Venetian Publishing in Renaissance Europe, Oxford-Cambridge 1991, pp. 87-88.

64. Vittore Branca, L'umanesimo veneziano e l'arte del libro, "Revue des Etudes Italiennes", 27, 1981, p. 327 (pp. 325-333).

65. Venezia città del libro è il titolo della mostra tenuta nel 1973 nell'Isola di San Giorgio Maggiore, dedicata a "Cinque secoli di editoria veneta".