La civiltà islamica: antiche e nuove tradizioni in matematica. Filosofia della matematica

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: antiche e nuove tradizioni in matematica. Filosofia della matematica

Roshdi Rashed

Filosofia della matematica

Gli storici della filosofia islamica dimostrano un interesse molto particolare verso la falsafa, come alcuni di essi amano chiamarla. Nella loro concezione, si tratterebbe di una di quelle dottrine dell'Essere e dell'Anima, elaborate da autori islamici, indifferenti agli altri saperi e refrattari a qualsiasi ulteriore determinazione, se non forse per il legame esistente tra tali dottrine e la religione. Questi filosofi si collocherebbero dunque nel solco della tradizione aristotelica del neoplatonismo, quali eredi della Tarda Antichità 'tinta' dei colori dell'Islam.

Questa sorta di 'partito preso' storiografico garantisce ‒ in apparenza, perlomeno ‒ un passaggio senza scosse da Aristotele, Plotino e Proclo ai filosofi fioriti in seno all'Islam, a partire dal IX secolo. Il prezzo, tuttavia, è alto: produce molto spesso (anche se non sempre) un'immagine sbiadita e immiserita dell'attività filosofica e trasforma lo storico in archeologo, privo degli strumenti appropriati. Non di rado, infatti, lo storico si è dato come compito principale quello di scavare nel terreno della filosofia islamica in cerca di vestigia di opere greche perdute nella lingua originale e conservate dalla traduzione araba o, in alternativa, si è accontentato di individuare tracce di scritti di quegli stessi filosofi dell'Antichità, studiati con competenza e talento dagli storici della filosofia greca.

È recente, tuttavia, l'interesse di alcuni storici per dottrine elaborate in altri campi, in margine al solco del retaggio greco, quali la filosofia del diritto, magistralmente sviluppata dai giuristi; la filosofia del kalām, dei teologi filosofi, profonda e raffinata; o il sufismo dei grandi maestri come al-Ḥallāǧ e Ibn al-῾Arabī. Tali studi contribuiscono ad arricchire e modificare il quadro della filosofia dell'epoca, riflettendone più fedelmente l'attività; essi permettono anche di cogliere meglio il ruolo svolto dall'eredità greca nel pensiero filosofico islamico.

Le scienze e le matematiche, tuttavia, non godono ancora degli stessi favori accordati al diritto, alla teologia filosofica (kalām), alla linguistica o al sufismo. A tutt'oggi i rapporti, a nostro avviso essenziali, fra scienze e filosofia e, in special modo, fra matematica e filosofia, devono ancora essere presi in considerazione. Certo, accade anche di occuparsi dei rapporti fra filosofia e matematica in filosofi islamici quali al-Kindī, al-Fārābī o Avicenna, ma in un modo del tutto estrinseco. Si espongono le loro concezioni sui rapporti fra questi due campi del pensiero, si tenta di ricollegarle alle dottrine platoniche o aristoteliche, si cerca con grande accuratezza la presenza di eventuali influenze neopitagoriche. Ciò significa che non si tenta mai di comprendere quali siano le ripercussioni del loro sapere matematico sulla loro filosofia, e neanche l'impatto della loro attività di scienziati (perché tali erano, in gran parte) sulle loro dottrine filosofiche.

Questa carenza non è imputabile ai soli storici della filosofia; la responsabilità ricade, infatti, anche sugli storici della scienza. È ben vero che l'esame dei rapporti fra scienza e filosofia esige il ricorso a una serie di competenze particolarmente vasta: conoscenze linguistiche ben più raffinate di quelle sufficienti per la geometria (sintatticamente elementare e di scarso peso lessicale), oltre che relative alla storia della filosofia in quanto tale. Se a tali esigenze si aggiunge una concezione dei rapporti fra scienza e filosofia mutuata dal positivismo dilagante, si può comprendere meglio l'origine di questa profonda indifferenza degli storici della scienza verso tali tematiche. Eppure, non dovrebbe essere necessario ricordare che il legame tra le scienze e il pensiero filosofico è parte integrante della storia della scienza stessa.

È una situazione, non v'è dubbio in merito, paradossale: per ben sette secoli nei centri urbani dell'Islam si elaborò in lingua araba una ricerca scientifica e matematica fra le più avanzate della storia. Può mai essere verosimile che i filosofi (i quali spesso furono matematici, medici, e così via) siano rimasti isolati nella loro attività, indifferenti ai mutamenti che si producevano sotto i loro occhi, uno dopo l'altro? Di fronte a una messe senza precedenti di successi e di innovazioni disciplinari ‒ un'astronomia critica verso i modelli tolemaici, un'ottica riformata e rinnovata, un'algebra creata dal nulla, una geometria algebrica inventata, un'analisi diofantea trasformata, discussioni approfondite sulla teoria delle parallele, elaborazione di metodi proiettivi ‒ è davvero legittimo immaginare che i filosofi siano rimasti insensibili fino al punto di autoconfinarsi nel campo relativamente ristretto della tradizione aristotelica del neoplatonismo? L'apparente povertà della filosofia dell'Islam classico è senza alcun dubbio un fatto che riguarda in particolare i suoi storici piuttosto che la storia.

Tuttavia, esaminare i rapporti tra filosofia e scienza o tra filosofia e matematica quali essi appaiono nei soli filosofi, ossia il nostro obiettivo in questa sede, equivale a percorrere un terzo della strada. Occorre, infatti, interrogare nello stesso tempo i matematici-filosofi e i matematici. La decisione di trattare la sola matematica, comunque, esige fin d'ora qualche spiegazione; ed essa è tanto più necessaria in quanto un tale approccio non è affatto appannaggio esclusivo della filosofia islamica o arabo-islamica.

Nessuna disciplina ha contribuito quanto le matematiche alla nascita della filosofia teoretica; e nessuna ha intrecciato con la filosofia legami tanto antichi quanto stretti. Dai tempi più remoti le matematiche hanno continuamente offerto ai filosofi temi centrali di riflessione; hanno fornito metodi espositivi, procedimenti argomentativi, a volte persino strumenti appropriati di analisi filosofica. Inoltre, la matematica si propone al filosofo come oggetto di studio; e infatti i filosofi si sono dedicati a cercare di chiarire il significato della conoscenza matematica, studiandone gli oggetti e i metodi e sondando le caratteristiche della sua apoditticità. Per tutto il corso della sua storia, la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi sulle condizioni di questa conoscenza, sulla sua genesi, sulla sua estendibilità, sulla natura della certezza da essa raggiunta e sul ruolo che svolge nell'ambito di altri saperi. I filosofi dell'Islam classico non hanno fatto eccezione a questa regola: fra i tanti, basti pensare ad al-Kindī, al-Fārābī, Avicenna, Avempace e Maimonide.

Tra matematica e filosofia teoretica si sono instaurati anche altri tipi di legami, seppure meno evidenti. Non è raro che entrambe queste discipline si siano trovate a collaborare per forgiare un metodo, se non una logica; si pensi ai punti di contatto fra Aristotele ed Euclide a proposito del metodo 'assiomatico' o a Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, il quale si rifà all'analisi combinatoria per risolvere il problema filosofico dell'emanazione a partire dall'Uno. Ma fra tutte le varie forme che può assumere il rapporto tra matematica e filosofia, ve ne è una che richiama l'attenzione in modo particolare e che è opera del matematico e non del filosofo: alludiamo a quelle dottrine che i matematici hanno elaborato per giustificare le loro pratiche. Le condizioni più propizie per l'elaborazione di queste costruzioni teoriche si verificano in genere quando un matematico all'avanguardia si scontra con una difficoltà insormontabile, causata dall'inadeguatezza delle tecniche matematiche disponibili a confrontarsi con i nuovi oggetti che stanno allora prendendo forma. Si pensi alle differenti varianti della teoria delle parallele, in particolare a partire da Ṯābit ibn Qurra (m. 901), o a quella sorta di analysis situs concepita da al-Ḥasan ibn al-Hayṯam (m. dopo il 1040), o, ancora, alle teorie degli indivisibili sviluppatesi nel XVII secolo.

I rapporti tra filosofia teoretica e matematiche si stabiliscono essenzialmente in tre tipologie di opere: quelle dei filosofi; quelle dei filosofi-matematici quali al-Kindī o Muḥammad ibn al-Hayṯam (da non confondere con al-Ḥasan ibn al-Hayṯam) e quelle dei matematici-filosofi come Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī o altri; e, infine, quelle dei matematici come Ṯābit ibn Qurra, suo nipote Ibrāhīm ibn Sinān, al-Qūhī e al-Ḥasan ibn al-Hayṯam. Nell'esame dei rapporti tra filosofia e matematica, limitarsi a questo o a quel genere equivale a rinunciare a cogliere una o più dimensioni essenziali. Chi scrive ha tentato a più riprese di mettere in luce alcuni temi di questa filosofia della matematica, ma si è sempre trattato di semplici sondaggi per scoprirne la ricchezza più che di un esame sistematico. In effetti un progetto del genere meriterebbe da solo un volume imponente. La strada che seguiremo in questa sede si allontana non poco dal semplice resoconto delle concezioni che i filosofi hanno esposto sulla matematica e sulla sua importanza; si addentra maggiormente nelle tematiche affrontate, negli stretti legami che uniscono matematiche e filosofia, nello studio del ruolo che le prime hanno avuto nella costruzione dell'impalcatura delle dottrine e dei sistemi filosofici, ossia il ruolo organizzatore della matematica. I filosofi-matematici si adoperarono per risolvere matematicamente problemi filosofici, un processo fecondo che portò alla nascita di nuove teorie, se non addirittura di nuove discipline. Vedremo anche come i matematici tentarono di risolvere sul piano filosofico problemi sorti nella loro disciplina e come ciò si configurò in un processo necessario e profondo.

Per fornire lumi su queste varie e diverse situazioni, affronteremo in questo capitolo essenzialmente tre temi: quello della matematica quale fonte ispiratrice o condizione di modelli dell'attività filosofica; quello della matematica nella sintesi filosofica e, in ultimo, quello dell'ars inveniendi e dell'ars analytica. Fra i numerosi filosofi che meglio si prestano a illustrare il tema delle matematiche quale fonte ispiratrice o condizione di modelli per l'attività filosofica, ne abbiamo scelti soltanto due: al-Kindī, un filosofo-matematico, e Maimonide, un filosofo andaluso che, pur senza essere matematico, ebbe delle matematiche una conoscenza non superficiale. Per ciò che riguarda il secondo tema, quello delle matematiche nella sintesi filosofica, già nella sintesi di Avicenna, la prima che conosciamo, la matematica interviene direttamente nell'opera filosofica e un risultato di sicura rilevanza è l'indirizzo 'formale' dell'ontologia, che permise di trattare matematicamente un problema filosofico. Discuteremo ovviamente del contributo di Avicenna (un filosofo dotato di notevoli conoscenze matematiche), ma anche di come questo fu riconsiderato da Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī. Infine, il terzo tema, quello dell'ars inveniendi e dell'ars analytica, coltivato soprattutto dai matematici alle prese con il problema dell'euristica e dell'invenzione, sarà illustrato attraverso l'opera di Ṯābit ibn Qurra, Ibrāhīm ibn Sinān, al-Siǧzī e al-Ḥasan ibn al-Hayṯam. In ognuno di questi campi, come sarà chiaro da quanto segue, non si ebbe soltanto il contributo di autori isolati, ma piuttosto una tradizione che prosegue ininterrotta nel corso di alcuni secoli.

Le matematiche come condizione e modello dell'attività filosofica

Al-Kindī

I legami tra filosofia e matematica sono essenziali per poter ricostruire il sistema di al-Kindī (IX sec.). È proprio a questa dipendenza che fa riferimento il filosofo intitolando una sua opera Fī anna-hu lā tunālu al-falsafa illā bi-῾ilm al-riyāḍiyyāt (La filosofia non può essere acquisita che attraverso la disciplina matematica) ed è a questa stessa dipendenza che egli si riferisce quando, nella Risāla fī kammiyat kutub Arisṭūṭālīs wa-mā yaḥtāǧu ilay-hi fī taḥṣīl al-falsafa (Epistola sulla quantità dei libri di Aristotele e su ciò che occorre per accedere alla filosofia), presenta le matematiche come effettivamente propedeutiche all'insegnamento filosofico. In questa epistola al-Kindī si rivolge allo studente di filosofia per avvertirlo dell'alternativa che ha di fronte: incominciare il proprio studio dalla matematica, prima di accostarsi ai libri di Aristotele, ordinati comunque nel modo che al-Kindī suggerisce ‒ e potere quindi sperare di diventare un vero filosofo ‒ oppure risparmiarsi lo studio della matematica, per essere tutt'al più un semplice ripetitore, nella misura in cui glielo permetteranno le sue facoltà mnemoniche. Dopo aver esposto i vari raggruppamenti dei libri di Aristotele, al-Kindī scrive: "Questo è il numero dei suoi libri [di Aristotele] che abbiamo precedentemente menzionato, quelli della cui conoscenza ha bisogno il perfetto filosofo dopo le matematiche, ossia quelle che ho definito con i loro nomi; perché se qualcuno è di esse sprovveduto ‒ dell'aritmetica, cioè, della geometria, dell'astronomia e della musica ‒ per quanto possa utilizzare questi libri per tutta la vita, non potrà mai però arrivare alla loro perfetta conoscenza e tutto il suo sforzo non gli produrrà altro che la [capacità] di ripetere, se sa imparare a memoria; ma la loro conoscenza profonda e l'acquisizione di questa non potrà mai aversi se si è sprovvisti delle matematiche" (Rasā᾽il al Kindī al-falsafiyya, I, pp. 369-370).

Per al-Kindī alla base del cursus filosofico vi sono, dunque, le matematiche. Chi approfondisse il ruolo che esse rivestono nella sua filosofia ‒ ciò che esula da questo contributo ‒ potrebbe cogliere più rigorosamente la specificità del suo pensiero. L'opera di al-Kindī è spesso presentata dagli storici secondo due punti di vista nettamente distinti: da un lato, egli viene proposto come un rappresentante musulmano della tradizione aristotelica del neoplatonismo, ed è in tal senso filosofo di un'Antichità doppiamente tardiva; dall'altro, è considerato un continuatore del kalām, che preferisce parlare, invece della lingua del teologo, quella della filosofia greca. Se però si restituisce alle matematiche il ruolo che loro spetta nell'elaborazione della filosofia di al-Kindī, le sue opzioni fondamentali si ridispongono sotto i nostri occhi, collegandosi fra loro. La prima deriva dalle sue convinzioni islamiche, così come esse saranno esplicitate e formulate nella tradizione del kalām, e in particolare quella di Abū Ḥayyān al-Tawḥīdī, e sostiene che la Rivelazione ci permette di accedere al vero, unico e razionale; la seconda rinvia agli Elementi di Euclide quali modello e metodo della ricerca: si può accedere al razionale in modo conciso, compatto e quasi istantaneo grazie alla Rivelazione, ma anche attraverso uno sforzo collettivo e cumulativo ‒ quello dei filosofi ‒ a partire dalle verità di ragione, indipendenti dalla Rivelazione, che devono rispondere ai criteri fissati per le dimostrazioni geometriche. Queste verità di ragione, che svolgono il ruolo di nozioni primitive e di postulati, provenivano ad al-Kindī dalla tradizione aristotelica del neoplatonismo e furono da lui scelte per sostituire le verità offerte dalla Rivelazione nella teologia filosofica perché potevano soddisfare le esigenze di un pensiero geometrico e permettere un'esposizione di tipo assiomatico. In questo modo, l''esame matematico' (al-faḥṣ al-riyāḍī) diventa lo strumento della metafisica.

È quello che avviene con le epistole o i trattati filosofici di al-Kindī, come il Kitāb fī 'l-falsafa al-ūlā (Libro della 'Filosofia prima') o la Risāla fī īḍāḥ tanāhī ǧirm al-῾ālam (Epistola per spiegare la finitezza del corpo del mondo). Consideriamo per esempio quest'ultima. Al-Kindī procede ordinatamente per arrivare a dimostrare la contraddittorietà del concetto di corpo infinito. Egli comincia con il definire i termini originari di 'grandezza' (῾iẓm) e 'grandezze omogenee' (a῾ẓam mutaǧānisa). Introduce poi quella che chiama 'proposizione certa' o 'vera' (qaḍiyya ḥaqq) (Rashed 1998, p. 161, r. 16) o, come precisa altrove, "le premesse prime, vere e immediatamente intelligibili" (al-muqaddimāt al-uwal al-ḥaqqiyya al-ma῾qūla bi-lā tawassuṭ; ibidem, p. 29, r. 8), o anche, come scrive nella Risāla fī waḥdāniyyat Allāh wa tanāhī ǧirm al-῾ālam (Epistola sull'unicità di Dio e la finitezza del corpo del mondo; ibidem, p. 139, r. 1), "le premesse prime, evidenti, vere e immediatamente intelligibili" (al-muqaddimāt al-ūlā al-wāḍiḥa al-ḥaqqiyya al-ma῾qūla bi-lā tawassuṭ), ossia le proposizioni tautologiche. Esse sono formulate in termini di nozioni primitive, di relazioni di ordine tra di esse, di operazioni di unione e separazione su di esse, di predicazioni, finite e infinite. Si tratta di proposizioni di questo tipo: "le grandezze omogenee che non sono reciprocamente una più grande dell'altra, sono uguali"; oppure: "date delle grandezze omogenee uguali, se si aggiunge a una di esse una grandezza a essa omogenea, esse diventano diseguali" (ibidem, p. 160). Poste queste premesse, al-Kindī procede in maniera dimostrativa con l'aiuto della reductio ad absurdum, introducendo l'ipotesi che la parte di una grandezza infinita sia necessariamente finita.

Al-Kindī si attiene a questo procedimento in moltissimi altri scritti. Seguendo sempre l'esempio del Kitāb fī 'l-falsafa al-ūlā, egli procede more geometrico anche nella Risāla fī mā᾽iyyat mā lā yumkin an yakūna lā nihāyata [la-hu] wa-mā allaḏī yuqālu [fī-hi] lā nihāyata la-hu (Epistola sulla quiddità di ciò che non può essere infinito e di ciò che viene detto infinito), nella quale il suo intento è dimostrare l'impossibilità che il mondo e il tempo siano infiniti. Anche qui al-Kindī prende le mosse enunciando quattro premesse: (1) da tutto ciò da cui si toglie qualcosa, ciò che resta è più piccolo di quello che era prima che venisse diminuito; (2) da tutto ciò da cui si toglie qualcosa, se si restituisce ciò che è stato tolto, si ritorna alla quantità iniziale; (3) riunendo cose qualunque finite, si otterrà una cosa finita; (4) se si hanno due cose di cui l'una è più piccola dell'altra, la più piccola misurerà la più grande o una sua parte e, se la misura tutta, ne misura una parte. A partire da queste premesse, direttamente ispirate agli Elementi di Euclide, al-Kindī intende fondare la sua proposta filosofica. Egli suppone dunque che esista un corpo infinito; da questo si tolga una cosa finita: ciò che resta sarà finito o infinito? Entrambe le alternative, come egli mostra, conducono a contraddizioni sicché se ne deve concludere che non possono esistere corpi infiniti. Al-Kindī passa poi a mostrare come lo stesso discorso valga per gli accidenti del corpo e in particolare per il tempo, poiché il tempo, il moto e il corpo si implicano reciprocamente. Egli mostra poi che non esiste un tempo infinito a parte ante e che né il corpo né il movimento né il tempo sono eterni: non esistono dunque cose eterne; l'infinito esiste soltanto in potenza, come nel caso dei numeri. Già questi esempi, esposti sinteticamente, mostrano come al-Kindī collegasse i principî, gli strumenti matematici e la filosofia all'interno della tradizione aristotelica del neoplatonismo. Si osservi, però, che il filosofo al-Kindī era al tempo stesso un matematico, come attestano le sue ricerche in ottica e in matematica. In filosofia, inoltre, egli non ebbe familiarità solamente con i testi aristotelici e con quelli della tradizione aristotelica e neoplatonica, ma anche con le opere di commentatori di Aristotele come Alessandro di Afrodisia.

Maimonide

Per quanto riguarda la matematica, Maimonide (1135-1204) non fu produttivo quanto al-Kindī, anche se la sua formazione matematica fu vasta. Egli conosceva infatti sufficientemente questa disciplina per tentare di leggere e, penna alla mano, forse persino commentare e insegnare opere come le Coniche di Apollonio, uno dei testi matematici più avanzati dell'epoca. Il suo commento non verte mai, tuttavia, sulle idee essenziali e sulle proprietà che sono al centro dello studio in questo testo, ma si rivolge unicamente alle tecniche elementari di dimostrazione, spiegate, per la maggior parte, nei primi sei libri degli Elementi. In parole povere, il suo commento non è affatto al livello delle opere commentate. Perché, allora, Maimonide dedicò tempo e senza dubbio notevoli energie per arrivare a un così esiguo risultato? Si potrebbe rispondere invocando, secondo quanto egli stesso afferma nella Dalālat al-ḥā᾽irīn (Guida dei perplessi), il ruolo che le matematiche svolgono nell'allenare la mente (tarwīḍ al-ḏihn) al raggiungimento della perfezione umana. Ma c'è molto di più: si tratta dei rapporti fra matematica e filosofia. Ci limiteremo a indicare quelli più importanti.

Bisogna ricordare che il punto di partenza di Maimonide è il dogma e non la filosofia. "Illuminare le difficoltà del dogma (muškilāt al-šarī῾a) e rendere manifeste le sue nascoste verità che superano di gran lunga la comprensione volgare" (Dalālat al-ḥā᾽irīn, ed. Atay, p. 282), è questo uno dei compiti principali della ricerca filosofica, da al-Kindī in poi (si pensi alla sua Risāla fī kammiyat kutub Arisṭūṭālīs), un compito che consisteva nel riuscire a raggiungere la verità trasmessa dalle Scritture per mezzo della ragione e della speculazione filosofica. Per portarlo a compimento, o anche soltanto per cominciare a occuparsene, occorreva ammettere una concordanza perfetta fra i due ordini di verità, quello delle Scritture e quello della ragione e della filosofia. Questa 'concordanza' è fondata su un principio, che Averroè (1126-1198) formulava in questi termini: "una verità non ne contraddice un'altra, ma si accorda con essa e testimonia a suo favore" (Kašf ῾an manāhiǧ al-adilla, p. 32). Su questo punto, i mezzi scelti da Maimonide coincidono con quelli di cui si erano muniti i suoi predecessori, e cioè "la via dimostrativa che non può essere messa assolutamente in dubbio (al-ṭarīq allaḏī lā rayba fī-hi)" (Dalālat al-ḥā᾽irīn, p. 187). In altre parole, si tratta di stabilire per mezzo della 'vera dimostrazione' (al-burhān al-ḥaqīqī) le verità del dogma: l'esistenza di Dio, la sua unicità e la sua incorporeità. Per questi filosofi una dimostrazione del genere non poteva procedere se non seguendo il modello matematico. Perché ciò potesse avvenire occorreva, però, utilizzare un linguaggio diverso da quello della Rivelazione, i cui concetti, definiti dalla sola ragione, fossero dotati di una sorta di neutralità ontologica.

La 'vera dimostrazione' ‒ quella secondo il modello matematico ‒ è dunque la via necessaria perché le verità della Rivelazione accedano anche allo status di verità di ragione, status che non è in alcun modo proprio di una religione particolare, sia essa o meno una religione rivelata. È questa, dunque, la prima relazione fra matematica e filosofia, anche se, come vedremo, essa consiste in realtà di relazioni stratificate. In primo luogo, Maimonide segue un procedimento generale che consiste nell'appropriarsi dei concetti della filosofia aristotelica dei suoi predecessori e dei mezzi espositivi e dimostrativi delle matematiche; è questo, per esempio, il procedimento che mette in opera nella parte principale del Libro II della Guida dei perplessi. Il metodo segue dunque quello dei geometri, cui si devono alcuni procedimenti (e in particolare la reductio ad absurdum) per stabilire ogni singolo elemento dell'esposizione. Nella Guida questi elementi sono venticinque: venticinque lemmi che per la maggior parte sono evocati dai loro enunciati, ma che Maimonide considera rigorosamente dimostrati dai suoi predecessori. A questi lemmi egli aggiunge un postulato, e dalle ventisei proposizioni così ottenute deduce il suo teorema principale: Dio esiste, è unico, e non è né un corpo né è in un corpo.

L'interesse di questo passo della Guida non sta tanto nella forza della dimostrazione, quanto nel deliberato dispiegamento di un'esposizione more geometrico nel contesto di un discorso metafisico. I primi lemmi sono essi stessi suscettibili di essere trattati in modo logico-matematico, seguendo l'Aristotele riproposto da al-Kindī e ripreso poi da tanti metafisici quali, fra gli altri, Ibn Zakariyyā al-Rāzī, Abū 'l-Barakāt al-Baġdādī (XI-XII sec.), Faḫr al-Dīn al-Rāzī (1150-1210), Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī (1201-1274); quei lemmi si ritroveranno poi nei commenti alla Guida scritti da al-Tabrīzī e, successivamente, in quelli di Ḥasdai Crescas (1340 ca.-1412). I primi due trattano dell'impossibilità dell'esistenza di una grandezza infinita e di un numero infinito di grandezze coesistenti. Il terzo enuncia l'impossibilità di una catena infinita di cause-effetti, materiali o non materiali, bloccando così preventivamente il regresso infinito delle cause. Seguono poi tre enunciati. Il primo riguarda il mutamento; esso avviene secondo quattro categorie: la sostanza, la quantità, la qualità e il luogo. Il secondo è relativo al moto: ogni moto è un mutamento e un passaggio dalla potenza all'atto. Il terzo enunciato enumera le specie del moto. Arriviamo così al settimo lemma, che afferma: "ogni soggetto di mutamento è divisibile, ed è questo il motivo per cui tutto ciò che si muove è divisibile ed è necessariamente un corpo; inversamente nessun indivisibile si muove, e per questo motivo non può in nessun modo essere un corpo" (Dalālat al-ḥā᾽irīn, p. 249). Secondo l'ottavo lemma "tutto ciò che si muove per accidente necessariamente si ferma" (ibidem, p. 251). Il nono sostiene che "ogni corpo che ne muove un altro si muove anch'esso in occasione di questo movimento" (ibidem, p. 252). La lista delle proposizioni continua a svilupparsi in questo modo; per citare altri due esempi, nella quattordicesima proposizione si afferma che lo spostamento precede ogni moto, e nella venticinquesima che ogni sostanza individuale composta possiede materia e forma.

Questi venticinque lemmi, come è già chiaro dagli esempi riportati, si rifanno tutti alla filosofia aristotelica. Essi non sono però omogenei: hanno origini diverse, così come diverso è il grado della loro complessità logica. Maimonide non ignora affatto questa eterogeneità. Per quanto riguarda le sue fonti, egli le segnala sommariamente: la Fisica e i suoi commenti e la Metafisica e il suo commento. Se non è difficile identificare i libri della Fisica (il III e l'VIII) e della Metafisica (il X e l'XI), è invece ben più arduo il compito di individuare con precisione i commenti alla Fisica e il commento alla Metafisica che egli cita. Per ciò che riguarda poi la questione della complessità logica, Maimonide la descrive in questi termini: "ci sono lemmi che risultano chiari alla minima riflessione e grazie alle premesse dimostrative e alle nozioni intelligibili prime o a esse vicine" e "ci sono lemmi che necessitano di dimostrazione e di numerose premesse, ma che sono stati dimostrati con dimostrazioni indubitabili" (Dalālat al-ḥā᾽irīn, p. 272). In altre parole, ci sono lemmi che sono così prossimi agli assiomi da risultare evidenti alla minima riflessione (aysar ta᾽ammul); e altri che se ne allontanano tanto da esigere varie proposizioni intermedie che permettano di dimostrarli, come del resto avevano compreso Aristotele e i suoi commentatori e successori. I venticinque lemmi del sistema si suddividono quindi in questi due tipi.

Maimonide non ignora che una dimostrazione degna di questo nome deve essere al tempo stesso universale e vincolante. Non potrà però essere il caso del problema qui trattato, se si tiene conto dell'opposizione irriducibile fra le due posizioni (quella della religione rivelata e quella filosofica) sulla questione dell'eternità del mondo. Perché la dimostrazione possa rispecchiare le argomentazioni matematiche, in altre parole essere veramente apodittica, bisogna che essa sia sempre valida, che si creda o meno all'eternità del mondo. È dunque da matematico che Maimonide introduce nel suo sistema ‒ e contro le sue stesse convinzioni ‒ il postulato dell'eternità del mondo, facendo salire il numero delle proposizioni preliminari a ventisei. Egli scrive, senza alcuna traccia di ambiguità: "Aggiungo ai lemmi precedenti un solo lemma che necessita dell'eternità: Aristotele pretende che sia vero e che meriti di essere creduto per primo; l'ammettiamo, dunque, convenzionalmente (῾alā ǧihat al-taqrīr), per mostrare ciò che abbiamo voluto dimostrare" (ibidem). È, dunque, come postulato necessario alla completezza del sistema e perciò alla deduzione del suo 'teorema' che Maimonide introduce l'eternità del mondo. L'aspetto convenzionale ‒ ma non arbitrario ‒ di tale proposizione può essere meglio apprezzato ove si ricordi che Maimonide non credeva affatto all'eternità del mondo. Si legga cosa scrive al riguardo: "A mio avviso il vero modo ‒ la via dimostrativa, non suscettibile di alcun dubbio ‒ per stabilire l'esistenza di Dio, la sua Unicità e la negazione della sua corporeità, è quello di percorrere la strada dei filosofi, fondata però sull'eternità del mondo: non perché io creda all'eternità del mondo o che la conceda loro, ma perché è attraverso questa via che la dimostrazione diventa valida; e si arriva alla certezza perfetta di queste tre cose ‒ l'esistenza di Dio, che Egli sia unico e che non sia un corpo ‒ senza preoccuparsi di dover giudicare se il mondo sia eterno o creato" (ibidem, p. 187).

In effetti, Maimonide sapeva bene che il problema dell'eternità del mondo non può avere soluzione positiva; altri diranno in seguito che la ragione dialettica si scontra qui con un'antinomia, poiché si dovrebbero determinare le proprietà di cose di cui non si è ancora dimostrata l'esistenza.

L'architettura di questa parte della Guida dei perplessi è decisamente concepita secondo il modello di un'esposizione matematica, secondo l'ordine della geometria. Tale ordine appare difatti come una condizione della certezza di una conoscenza metafisica, in special modo la conoscenza di Dio, della sua esistenza, della sua unicità e della sua incorporeità. È questa idea fondamentale, già presente in al-Kindī, che si ritroverà poi in Spinoza. Tuttavia, come osserverà Ḥasdai Crescas, il vero problema è quello di sapere se questi venticinque lemmi siano stati dimostrati effettivamente e se da essi si possa realmente dedurre il 'teorema'. Questi due problemi tormenteranno senza posa i successori di Maimonide. Così, il commento di al-Tabrīzī è volto a dimostrare l'insieme di queste proposizioni; e quello di Crescas ha lo stesso obiettivo. Maimonide stesso tentò questa deduzione, che possiamo seguire soltanto in maniera molto schematica, ma sottolineando lo spirito con cui fu compiuta.

Secondo il venticinquesimo lemma, ogni sostanza individuale composta ha bisogno, per esistere, di un motore che prepari adeguatamente la materia e la renda atta a ricevere la forma. Per il quarto lemma, però, esiste necessariamente un altro motore (non obbligatoriamente della stessa specie) che precede quest'ultimo. In base al terzo lemma, tale catena di motori/mobili è necessariamente finita: il moto arriva dunque fino alla sfera celeste e ivi si arresta. Tale sfera è animata da un moto di traslazione, che precede ogni altro movimento secondo le quattro categorie del mutamento, come vuole il lemma quattordicesimo. Tuttavia, per il diciassettesimo lemma, tutto ciò che si muove ha necessariamente un motore, e dunque la sfera celeste ha necessariamente un motore. Questo motore sarà o esterno al mobile o interno a esso. È questa una divisione necessaria. Se il motore è esterno, o è un corpo esterno alla sfera celeste, o non è in un corpo; in quest'ultimo caso il motore sarà detto 'separato' dalla sfera celeste. Se il motore è nel mobile, o è una forza diffusa in esso o una forza indivisibile, come l'anima per l'uomo. Ci si trova così di fronte a quattro possibilità. Maimonide ne escluderà tre come impossibili in forza di vari lemmi, sicché, quale unica possibilità, rimane che il motore sia un non-corpo esterno alla sfera celeste, da essa separato, che la muove di un moto di traslazione nello spazio. Il lungo ragionamento si conclude con queste parole.

Abbiamo così dimostrato (fa-qad tabarhana) che il motore della prima Sfera, se il suo moto è eterno e continuo, necessariamente non è né un corpo, né in nessun modo una potenza presente in un corpo, se il suo motore non può avere moto né per essenza né per accidente; è per questo motivo che esso non ammette né divisione né mutamento, come si è detto nel quinto e nel settimo lemma. Esso è Dio, glorioso sia il suo nome: Egli è la causa prima che muove la Sfera celeste; ed è impossibile che sia due o molteplice […]. Come dovevasi dimostrare. (ibidem, p. 276)

Abbiamo appena visto, dunque, che per Maimonide le matematiche si presentano come condizione della conoscenza metafisica secondo un triplice senso. In primo luogo, quello più immediato, le matematiche sono un esercizio della mente; in secondo luogo, esse forniscono un modello di costruzione ‒ un'architettonica ‒ che permette di raggiungere la certezza; infine, esse offrono procedure dimostrative e in particolare il metodo apagogico. Questi legami tra matematiche e metafisica non sono tuttavia gli unici presenti nella Guida dei perplessi. Abbiamo già attirato l'attenzione su un'altra di queste relazioni: le matematiche possono svolgere un ruolo di argomentazione in metafisica. L'esempio più famoso e più pertinente è tratto dalle Coniche di Apollonio: l'asintoto di un'iperbole equilatera permette di pensare i rapporti fra immaginare e concepire. Nella sua critica al kalām, Maimonide intende confutare la tesi per cui "tutto ciò che può essere immaginato è possibile per la ragione". Vuole con ciò stabilire la negazione di questa tesi: esistono cose che non si possono immaginare, che l'immaginazione non ci permette di rappresentare, ma la cui esistenza può essere stabilita per via dimostrativa. Ciò implica che per Maimonide non esiste alcun principio che permetta di passare dall'immaginazione alla realtà metafisica. Egli formula così la sua tesi: "Sappi che esistono cose tali che l'uomo non arriva in nessun modo a rappresentarsele quando le considera con l'immaginazione; al contrario, esse sembrano impossibili alla sua immaginazione quanto l'unione di cose contrarie; e tuttavia, di questa cosa impossibile a immaginarsi, può essere stabilita l'esistenza per mezzo della dimostrazione e se ne può far rilevare la realtà" (ibidem, p. 214).

Maimonide riprende il problema della dimostrazione di ciò che non si può concepire inserendolo nei termini di questa discussione. Si tratta di un problema sollevato nel X sec. dal matematico al-Siǧzī e l'esempio di cui si avvale Maimonide per illustrarlo è lo stesso usato del suo predecessore: la prop. 14 del Libro II delle Coniche di Apollonio. Essa tratta dell'iperbole equilatera e dei suoi asintoti: la curva e gli asintoti si avvicinano via via che vengono prolungati, senza però mai incontrarsi. Scrive Maimonide: "questa è cosa che non può essere immaginata e in nessun modo può essere catturata dalla rete dell'immaginazione. Queste due linee sono una retta e l'altra curva, come abbiamo esposto. Resta dunque dimostrata l'esistenza di cose che non possono essere immaginate, né possono venir colte dall'immaginazione e che, anzi, appaiono a essa impossibili" (Dalālat al-ḥā᾽irīn, p. 215). L'immaginazione qui invocata da Maimonide è l'immaginazione matematica: anche nel suo caso niente garantisce il passaggio alla realtà metafisica. E si può affermare senza pericolo di sbagliare che ciò che è vero per l'immaginazione matematica lo è a fortiori per tutte le altre forme di questa facoltà. L'evocazione di questa proposizione delle Coniche sembra dunque, secondo lo stile di Maimonide, avere ben altra forza di un semplice esempio: è un procedimento argomentativo che il metafisico prende a prestito dalle matematiche.

Per concludere: non diversamente dai suoi predecessori, da al-Kindī in poi, Maimonide trovò nelle matematiche un modello architettonico, procedimenti dimostrativi e strumenti d'argomentazione. Il ruolo delle matematiche non si riduceva affatto a una propedeutica all'insegnamento filosofico. Oggi possiamo comprendere che Maimonide consacrò tempo ed energie a impadronirsi di un sapere matematico ‒ anche se di modesto spessore ‒, perché, al pari dei suoi predecessori, egli concepiva questa fatica come un compito intimamente filosofico: quello di risolvere matematicamente i problemi della metafisica.

Le matematiche nella sintesi filosofica e l'indirizzo 'formale' dell'ontologia

Avicenna

Avicenna (980-1037) accordò alle matematiche un posto di rilevante importanza nella sua opera, in particolare nel monumentale Kitāb al-Šifā᾽ (Libro della guarigione), nel Kitāb al-Naǧāt (Libro della salvezza) e nel Dāniš-nāma (Libro della scienza), la prima summa filosofica a essere redatta in persiano. Nel solo Kitāb al-Šifā᾽ non meno di quattro libri sono dedicati alle discipline matematiche e a questi si potrebbero aggiungere altre redazioni indipendenti relative alla musica e all'astronomia. In tutti questi scritti la presenza delle matematiche ‒ un fatto che non è stato finora sufficientemente sottolineato ‒ possiede contemporaneamente due diverse valenze.

Come abbiamo osservato, al-Kindī s'interessò a queste discipline da un duplice punto di vista, quello del filosofo e quello del matematico. Così, quando egli discute degli specchi ustori, dell'ottica, dei quadranti solari, dell'astronomia o quando commenta Archimede, egli discute e commenta da matematico. Le matematiche sono però anche una fonte di ispirazione e un modello di argomentazione nel momento in cui al-Kindī si pone come filosofo. Questa tradizione sopravvisse negli scritti di Muḥammad ibn al-Hayṯam, mentre Avicenna appartiene soltanto in parte a questa corrente. Le sue conoscenze matematiche, pur rimanendo fondamentalmente classiche, furono, come si può constatare, abbastanza ampie. Egli aveva letto le opere di Euclide e di Nicomaco di Gerasa e, verosimilmente, anche quelle di Ṯābit ibn Qurra sui numeri amicabili, e gli erano familiari anche l'algebra elementare, la teoria dei numeri e alcuni lavori di analisi diofantea; ma ignorava, a quanto pare, la ricerca a lui contemporanea, come è attestato del resto dalle sue affermazioni sull'ettagono regolare. Si può dunque ragionevolmente sostenere che Avicenna avesse una buona conoscenza delle matematiche che gli permise di studiarne alcune applicazioni, ma non di dedicarsi alla ricerca vera e propria in questo campo. Sostenere che le sue conoscenze si riducessero agli Elementi di Euclide e all'Introduzione aritmetica di Nicomaco è inesatto quanto fare di lui un matematico del X sec. come al-Kindī lo era stato del IX. Per questo grande metafisico, logico e medico, le matematiche avevano un ruolo diverso da quello che avevano per al-Kindī; esse non sono soltanto una fonte di ispirazione per talune ricerche filosofiche, ma sono anche parte integrante della sintesi filosofica. È esattamente questo, crediamo, il senso della presenza nel Kitāb al-Šifā᾽ di quattro libri dedicati alle discipline che nella tradizione occidentale costituirono il 'quadrivio' (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Il problema del rapporto tra filosofia e matematica in Avicenna si riduce quindi a misurare le implicazioni filosofiche di questa scelta.

Di fatto, se ci si attiene alle sue affermazioni teoriche a proposito dello status della matematica, della natura dei suoi oggetti e del numero delle discipline da cui è composta, se ne può concludere che Avicenna fu l'erede diretto della tradizione. Lo status delle discipline matematiche è infatti definito utilizzando la classificazione aristotelica delle scienze, essa stessa fondata sulla celebre dottrina dell'Essere; gli oggetti delle scienze sono definiti grazie all'astrazione; e quanto al numero di tali discipline esso è ripreso dalla tradizione greca. Si tratta, dunque, della scienza intermedia (al-῾ilm al-awsaṭ) fra le tre discipline che costituiscono la filosofia teoretica, i cui oggetti ‒ a seconda della loro materialità e mobilità ‒ si ripartiscono tra fisica, matematica e metafisica (ordine questo che è mantenuto nella redazione del Kitāb al-Šifā᾽). Le matematiche, così, si interessano di oggetti astratti dal sensibile, separati da quelli fisici, materiali e mobili. Quanto al numero delle discipline appartenenti alla matematica, esse sono quelle che compongono il quadrivio. A questa dottrina Avicenna si rifà costantemente, tanto nell'Isagoge quanto nella Metafisica del Kitāb al-Šifā᾽, quanto in un opuscolo dedicato alla classificazione delle scienze, la Risāla fī aqsām al-῾ulūm al-῾aqliyya (Epistola sulle divisioni delle scienze razionali); e questo, per citare solo alcuni dei suoi scritti. Egli scrive nell'Isagoge:

I vari tipi di scienze o si rivolgono a considerare gli esseri in quanto essi sono in moto, secondo la loro concezione e la loro costituzione, e in quanto riguardano materie e specie particolari; o si rivolgono a considerare gli esseri in quanto separati da queste materie, secondo la loro concezione e non secondo la costituzione; o si rivolgono a considerare gli esseri in quanto separati, secondo la concezione e la costituzione.

La prima parte di queste scienze è la fisica; la seconda è costituita dalle matematiche pure, fra le quali è celebre la scienza dei numeri. Per ciò che riguarda la conoscenza della natura dei numeri in quanto numeri, essa non appartiene a questa scienza. La terza parte è la metafisica. Siccome gli esseri sono per natura secondo queste tre parti, queste sono le scienze filosofiche teoretiche. La filosofia pratica si occupa o dell'insegnamento delle opinioni il cui uso permette di regolare la partecipazione alle cose umane comuni e [questa parte] è nota come l'organizzazione della città e si chiama politica; o di ciò che permette di regolare la partecipazione alle cose umane private e [questa parte] è nota come l'organizzazione della casa [l'economica]; o, infine, si occupa di ciò che permette di regolare la condotta di una singola persona in modo che la sua anima sia edificata, e questa si chiama etica. (al-Šifā᾽, al-Madḫal, I, p. 14)

Non vi è niente di particolarmente nuovo in questa concezione. Tuttavia, se ci si fermasse a tale impostazione aristotelica di Avicenna, non si riuscirebbe a cogliere il vero ruolo che le matematiche svolgono all'interno del Kitāb al-Šifā᾽. Bisognerebbe forse cominciare con il domandarsi se tale posizione di principio corrisponda alle conoscenze matematiche del filosofo e se la classificazione teorica rifletta realmente una classificazione di fatto. Tuttavia, per misurare e cogliere l'eventuale distanza fra tali due classificazioni, è necessario esaminare preliminarmente gli studi matematici di Avicenna. Parleremo qui della sola aritmetica, anche se la geometria fornì al filosofo spunti importanti di riflessione: il quinto postulato euclideo, per esempio, nel Dāniš-nāma.

Cominciamo con l'esaminare il piano biografico. È noto che Avicenna, proprio mentre riceveva la sua educazione filosofica, imparava anche l'aritmetica indiana e l'algebra. Soltanto in seguito studierà la logica, gli Elementi di Euclide e l'Almagesto. Questi dati ci sono forniti da biobibliografi come al-Bayhaqī, Ibn al-῾Imād, Ibn Ḫallikān, al-Qifṭī, Ibn Abī Uṣaybi῾a. Per esempio, al-Bayhaqī racconta: "Quando compì dieci anni, conosceva a memoria alcuni testi fondamentali della letteratura. Suo padre stava allora studiando e meditando su un opuscolo dei Fratelli della purezza. Anch'egli lo meditava, e suo padre lo indirizzò a un mercante di verdure che si chiamava Maḥmūd al-Massāḥ, che conosceva il calcolo indiano, l'algebra e al-muqābala" (Ta᾽rīḫ ḥukamā᾽ al-Islām, p. 53).

Ibn al-῾Imād riferisce questa notizia biografica negli stessi termini, citando Ibn Ḫallikān, e scrive: "Quando compì dieci anni, aveva perfezionato la scienza del glorioso Corano, della letteratura e conosceva a memoria alcuni fondamenti della religione, il calcolo indiano, l'algebra e al-muqābala" (Šaḏarāt al-ḏahab, III, p. 234; Ibn Ḫallikān, Wafayāt al-a῾yān, ed. 1969, II, pp. 157-158). E Avicenna stesso scrive: "Mio padre mi indirizzò a un uomo che vendeva verdure e che praticava il calcolo indiano perché mi istruisse" (al-Qifṭī, Tā᾽rīḫ al-ḥukamā᾽, p. 143 e Ibn Abī Uṣaybi῾a, ῾Uyūn al-anbā᾽, ed. Riḍā, p. 437).

L'aritmetica indiana e l'algebra, discipline nuove, ignote agli alessandrini, non potevano trovar posto nella classificazione tradizionale delle scienze, senza quanto meno modificarne lo schema generale o sconvolgerne addirittura le concezioni soggiacenti. E, si noti, nella classificazione di Avicenna esse compaiono solamente come 'parti secondarie' (al-aqsām al-far῾iyya) dell'aritmetica, anche se egli non spiega affatto che cosa si debba intendere con 'parti secondarie dell'aritmetica'; Avicenna si limita infatti a enumerarle:

Le parti secondarie delle scienze matematiche, branche della [scienza] dei numeri: la scienza dell'addizione e della separazione del calcolo indiano; la scienza dell'algebra e di al-muqābala. E le branche della geometria: la scienza della misurazione, la scienza dei procedimenti mobili ingegnosi, la scienza della trazione dei gravi, la scienza dei pesi e delle bilance, la scienza degli strumenti specifici per le arti, la scienza della perspectiva e degli specchi, la scienza dell'idraulica. E le branche dell'astronomia: la scienza delle tavole astronomiche e dei calendari. E le branche della musica: l'utilizzazione degli strumenti meravigliosi e curiosi come l'organo e simili. (Risāla fī aqsām al-῾ulūm al-῾aqliyya, p. 112)

Sappiamo soltanto, dunque, che l'aritmetica ha come sue parti secondarie il calcolo indiano e l'algebra. Il numero delle discipline aritmetiche evocate da Avicenna non si limita però a queste due che menziona nella sua classificazione delle scienze. Come già detto, all'interno del Kitāb al-Šifā᾽ egli dedica un libro alla scienza del calcolo detta al-ariṯmāṭīqī. A questa dobbiamo aggiungere altre due discipline: quella che chiama al-ḥisāb, di cui peraltro Avicenna non fissa mai lo status teorico, e un'altra, presentata soltanto attraverso i suoi oggetti, che è l'analisi diofantea degli interi.

Teoria dei numeri, al-ariṯmāṭīqī, calcolo indiano, algebra, al-ḥisāb e analisi diofantea degli interi: sei discipline che a volte si sovrappongono e si accavallano per abbracciare lo studio dei numeri. La realtà ci appare senza dubbio assai più complessa di quanto possa sembrare leggendo lo schema della classificazione delle scienze. Tuttavia, per districarsi nel gioco delle sovrapposizioni fra tali discipline e chiarire i loro reciproci rapporti, bisogna brevemente ricordare i lavori dei matematici dell'epoca. Costoro infatti distinguevano, utilizzando due termini diversi, fra 'teoria dei numeri' (῾ilm al-῾adad, ossia l'aritmetica di tradizione ellenistica e i suoi sviluppi arabi) e la disciplina indicata come al-ariṯmāṭīqī, trascrizione fonetica del greco ἡ ῝ϱιθμητιϰή. Non che esse fossero assolutamente prive di rapporti, ma i due termini designano discipline derivate da tradizioni distinte. L'espressione 'teoria dei numeri' si riferiva ai libri aritmetici di Euclide e a lavori successivi in questo campo, come per esempio quelli di Ṯābit ibn Qurra. Con il termine al-ariṯmāṭīqī si designava invece la tradizione aritmetica neopitagorica, nel senso cioè in cui l'intendeva Nicomaco di Gerasa nell'Introduzione aritmetica, che però era stata tradotta da Ṯābit ibn Qurra con il titolo al-Madḫal ilā ῾ilm al-῾adad (Introduzione alla teoria dei numeri). Anche se non sistematica, questa differenza terminologica che si stabilisce fra i secc. IX e X sembra marcare lo scarto che separava queste due discipline. Si può leggere al riguardo ciò che scrive Ibn al-Hayṯam: "Le proprietà dei numeri si mostrano in due modi: la prima è l'induzione, perché se si seguono i numeri uno a uno e se li si distingue, distinguendoli e considerando tutte le loro proprietà si fanno scoperte e scoprire i numeri in questo modo si chiama al-ariṯmāṭīqī. Queste cose sono mostrate nell'opera al-Ariṯmāṭīqī [di Nicomaco di Gerasa]. L'altro modo con cui si mostrano le proprietà dei numeri procede per dimostrazioni e deduzioni. Tutte le proprietà del numero ottenute con dimostrazioni sono contenute in questi tre libri di Euclide o in ciò che a essi si riconduce" (Rashed 1980, p. 236).

Per questo eminente matematico si trattava dunque in entrambi i casi di una scienza: è tanto più importante rilevarlo esplicitamente, in quanto Ibn al-Hayṯam esigeva sempre dimostrazioni rigorose. In effetti, almeno nel X sec., queste due tradizioni offrirono ai matematici la stessa concezione dell'oggetto dell'aritmetica: un'aritmetica degli interi rappresentati per mezzo di segmenti rettilinei. Tuttavia, mentre nella teoria dei numeri la dimostrazione è particolarmente rigorosa, nella disciplina detta al-ariṯmāṭīqī si può procedere per mezzo di semplice induzione. Per gli studiosi del X sec. la differenza fra le due tradizioni si riduce quindi a una distinzione di metodi e di norme di razionalità.

È esattamente questa concezione del rapporto fra le due discipline che ritroviamo espressa nell'opera di Avicenna. Nel Kitāb al-Šifā᾽ l'aritmetica è presentata infatti in due riprese: la prima volta, nella parte dedicata alla geometria, si tratta di un semplice riassunto dei libri aritmetici di Euclide; la seconda volta Avicenna espone la sua redazione del libro al-Ariṯmāṭīqī (che verrà letto e insegnato per secoli) e i cui veri fondamenti, a detta di Avicenna stesso, si trovano principalmente negli Elementi. È forse questa visione della relazione fra le due discipline che può contribuire a spiegare come mai, in al-Ariṯmāṭīqī, Avicenna non si sia limitato a un semplice riassunto di Nicomaco, come aveva fatto per la teoria dei numeri, con gli Elementi di Euclide. In questo modo si chiarirebbe anche il motivo della sua presa di distanza rispetto alla tradizione neopitagorica. Di fatto, al-ariṯmāṭīqī è considerata come una scienza e da essa vengono bandite tutte le considerazioni ontologiche e cosmologiche di cui era stato sovraccaricato il concetto di numero. Resta unicamente l'obiettivo filosofico comune a tutte le branche della filosofia, siano esse teoretiche o pratiche: la perfezione dell'anima. È proprio contro i neopitagorici che Avicenna scrive: "si usa, fra coloro che coltivano l'arte aritmetica, richiamarsi in questo luogo e in altri analoghi a sviluppi estranei a quest'arte e più estranei ancora all'uso di coloro che procedono dimostrativamente; sviluppi più simili agli scopi dei retori e dei poeti. È necessario rinunciarvi" (al-Šifā᾽, al-ḥisābī, ed. Mazhar, p. 60). Si osservi che poche righe dopo il passo citato, 'coloro che coltivano l'arte aritmetica' vengono esplicitamente designati come 'pitagorici'. Avicenna può allora persino parzialmente rinunciare al linguaggio tradizionale e far ricorso a quello degli algebristi, per poter esprimere le potenze successive di un intero. I termini 'quadrato' (māl), 'cubo' (ka῾b), 'quadrato-quadrato' (māl māl), che designavano le potenze dell'incognita, sono così adottati dal filosofo per dare un nome alle potenze di un intero.

Data la situazione, nulla vietava che Avicenna integrasse in al-Ariṯmāṭīqī teoremi e risultati ottenuti altrove, senza doverne ricordare la dimostrazione, laddove esisteva. Senza dimostrarlo, per esempio, egli riprende il teorema di Ṯābit ibn Qurra sui numeri amicabili, seguendo il nitido stile euclideo di Ṯābit e, allo stesso modo, riprende anche vari problemi di congruenza: "se sommi i numeri parimenti pari e l'unità, se ottieni un numero primo, a condizione che se si aggiunge loro l'ultimo fra essi e se si toglie quello che lo precede e se la somma e il resto sono primi, allora il prodotto della somma per il resto e poi il tutto per l'ultimo dei numeri addizionati, fornisce un numero amicabile; e il suo associato è il numero ottenuto addizionando la somma e il resto, moltiplicati per l'ultimo dei numeri addizionati e aggiungendo il prodotto al primo numero amicabile. Questi due numeri sono amicabili" (ibidem, p. 28; alcuni errori dell'edizione sono stati corretti).

A queste due tradizioni è opportuno aggiungerne una terza, anch'essa presente nell'opera di Avicenna: l'analisi diofantea degli interi. Nella sezione del Kitāb al-Šifā᾽ dedicata alla dimostrazione, egli discute il primo caso della congettura di Fermat, già trattato da almeno due matematici del X sec., al-Ḫuǧandī e al-Ḫāzin. Avicenna scrive: "quando ci si chiede […] se la somma di due numeri cubi è un cubo, allo stesso modo in cui la somma di due numeri quadrati era un quadrato, ci si sta ponendo un problema aritmetico (ḥisāb)" (al-Šifā᾽, ed. Afifi, V, pp. 194-195). Si vede qui chiaramente che il termine ḥisāb sembra indicare una disciplina che abbraccia anche branche diverse dalla teoria euclidea dei numeri e di quella denominata al-ariṯmāṭīqī. Parrebbe infatti che con questo termine Avicenna voglia intendere una scienza che ingloba tutte quelle discipline che trattano dei numeri, razionali e irrazionali algebrici, e l'ultimo paragrafo del suo libro, dedicato ad al-ariṯmāṭīqī, non lascia spazio ad ambiguità a questo riguardo. Possiamo infatti leggere: "Questo è quanto abbiamo voluto dire in merito alla scienza al-ariṯmāṭīqī. Abbiamo tralasciato certi casi la cui menzione qui ci è sembrata estranea alla regola di quest'arte. Essi appartengono alla scienza di al-ḥisāb, che serve nell'uso e nella determinazione dei numeri. Infine, ciò che resta, nella pratica, segue l'esempio dell'algebra e di al-muqābala, e della scienza indiana dell'addizione e della separazione. Ma queste ultime è meglio menzionarle fra le parti secondarie" (al-Šifā᾽, al-ḥisābī, ed. Mazhar, p. 69). Tutto sta a indicare, dunque, che, in al-Ariṯmāṭīqī, come nel riassunto dei libri aritmetici di Euclide, Avicenna, al pari dei suoi predecessori e dei contemporanei, limita il suo studio ai numeri naturali. Non appena si imbatte in problemi che lo porterebbero a discutere condizioni di razionalità ‒ che si tratti di cercare una soluzione razionale positiva o, più in generale, di considerare una classe di numeri irrazionali ‒ egli ritiene di trovarsi al di fuori di queste due scienze. Il termine al-ḥisāb abbraccia dunque l'insieme di tutte queste ricerche aritmetiche, che si effettuano grazie a discipline come l'algebra, il calcolo indiano e simili. Discipline che, di conseguenza, assumono un aspetto strumentale e, per così dire, applicato, venendosi a contrapporre all'antica teoria dei numeri. È proprio per queste caratteristiche strumentali e applicate che Avicenna distingue nella sua classificazione l'insieme delle 'parti secondarie' (al-aqsām al-far῾iyya). Allo stesso modo, le 'parti secondarie' della fisica sono la medicina, l'astrologia, la fisiognomica, l'oniromanzia, le arti divinatorie, il talismano, la scienza della teurgia e l'alchimia.

Tuttavia, per ben comprendere l'atteggiamento di Avicenna nei confronti delle classificazioni tradizionali (greche ed ellenistiche), come anche nei confronti della sua stessa classificazione teorica, è opportuno rifarsi a uno dei suoi predecessori, al-Fārābī (872-950). Ci si deve chiedere infatti se la Risāla fī aqsām al-῾ulūm al-῾aqliyya di Avicenna fosse o no legata alla classificazione data da al-Fārābī nell'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze). Il problema è stato posto per la prima volta da Steinschneider, che lo risolse negando ogni rapporto fra questi due studi. Wiedemann (1970) è di questa stessa opinione, notando che Avicenna enumera soltanto scienze separate, mentre al-Fārābī le designa e le caratterizza secondo le loro reciproche dipendenze. Tuttavia, un accostamento tra i due filosofi si impone, perché l'esame delle 'parti secondarie' dell'aritmetica, che Avicenna individua, mostra che esse non sono altro che quelle discipline che al-Fārābī raggruppa sotto il titolo di "scienza dei procedimenti ingegnosi" e che definisce come "la scienza del modo di procedere quando si applica ai corpi fisici tutto ciò di cui si dimostra l'esistenza, per mezzo della predicazione e della dimostrazione, nelle matematiche precedentemente menzionate; e quando lo si realizza e lo si mette in atto nei corpi fisici" (Iḥṣā᾽ al-῾ulūm, p. 108). Secondo al-Fārābī, infatti, la scienza matematica ha per oggetto le linee, le superfici, i solidi, i numeri che considera intellegibili di per sé e separati (muntazi῾a) ‒ astratti ‒ dagli oggetti fisici. Per scoprire e manifestare intenzionalmente nei corpi fisici i concetti matematici occorre un'arte apposita, è necessario cioè dar forma a procedimenti, inventare tecniche e metodi che permettano di superare gli ostacoli costituiti dalla materialità e dalla natura sensibile di questi oggetti. In aritmetica questi procedimenti ingegnosi comprendono fra l'altro, scrive al-Fārābī, "la scienza che i nostri contemporanei conoscono con il nome di algebra e di al-muqābala, e ciò che le è analogo" (ibidem, p. 109). Osservando, tuttavia, che questa "scienza è comune all'aritmetica e alla geometria" e, poco più avanti, che

essa comprende i procedimenti ingegnosi per la ricerca di numeri che si tenta di determinare e di utilizzare; sia quelli, fra i razionali e gli irrazionali, di cui Euclide ha fornito i principî nel Libro X della sua opera al-Uṣtuqusāt, sia quelli che non sono stati menzionati in questo libro. In effetti, poiché il rapporto dei razionali rispetto agli irrazionali ‒ gli uni rispetto agli altri ‒ è come il rapporto dei numeri rispetto ai numeri, allora ogni numero è omologo a una certa grandezza razionale o irrazionale. Se dunque si determinano i numeri che sono omologhi ai rapporti delle grandezze, si determineranno queste grandezze in un modo specifico. È per questo che si pongono certi numeri razionali in modo da essere omologhi alle grandezze razionali e certi numeri irrazionali in modo che essi siano omologhi alle grandezze irrazionali. (ibidem)

In questo testo d'importanza capitale l'algebra si pone come scienza per due ragioni: essendo apodittica come ogni altra scienza, essa costituisce il campo di applicazione non di un'unica scienza, ma di due scienze contemporaneamente, l'aritmetica e la geometria; quanto al suo oggetto, esso comprende sia grandezze geometriche sia numeri, che possono essere razionali o irrazionali algebrici. Di fronte a questa nuova disciplina, di cui non possono non tener conto, le nuove classificazioni delle scienze con pretesa di universalità e completezza devono giustificare in un qualche modo l'abbandono di certe tesi aristoteliche. Vengono così coniate denominazioni quali 'scienza dei procedimenti ingegnosi', 'parti secondarie' e così via, per poter ricavare uno spazio non-aristotelico all'interno di una classificazione che nel suo impianto resta aristotelica.

La portata filosofica di questo rimaneggiamento è più vasta e soprattutto più profonda di una mera modificazione tassonomica. Se è vero che l'algebra è comune all'aritmetica e alla geometria, senza peraltro perdere nulla dello status di scienza, è perché il suo oggetto stesso, l'incognita ‒ la 'cosa', l'oggetto che gli Arabi chiamano al-šay᾽ e che sarà detta res nell'Occidente latino ‒, può designare indifferentemente un numero o una grandezza geometrica. Ma c'è di più: poiché un numero può essere anche irrazionale, la 'cosa' designa in questo caso una quantità conoscibile soltanto per approssimazione. L'oggetto degli algebristi, la 'cosa', deve quindi essere sufficientemente generale per poter ricevere contenuti diversi, ma deve anche esistere indipendentemente dalle sue determinazioni se si vuole che sia sempre possibile migliorarne l'approssimazione. La teoria aristotelica non può ovviamente dar conto dello status ontologico di un tale oggetto ed è pertanto necessario ricorrere a una nuova ontologia che autorizzi a parlare di un oggetto sprovvisto di quei caratteri che permetterebbero di discernere di che cosa esso possa essere l'astrazione; un'ontologia che ci consenta, nello stesso tempo, di conoscere un oggetto pur non essendo noi in grado di rappresentarlo esattamente.

Ora, proprio a partire da al-Fārābī, si può osservare in seno alla filosofia islamica lo sviluppo di un'ontologia sufficientemente 'formale' da poter rispondere, fra l'altro, ai problemi ora sollevati. In questa ontologia, il concetto di 'cosa' riveste una connotazione più generale di quello di 'esistente'. È in questo senso che al-Fārābī scrive: "la cosa può essere predicata di tutto ciò che ha una quiddità, vuoi che essa sia esterna all'anima o vuoi che sia [soltanto] concepita in un qualunque modo", mentre "l'esistente è sempre predicato di tutto ciò che ha una quiddità esterna all'anima, e non lo si può predicare di una quiddità che è soltanto concepita" (Kitāb al-Ḥurūf, p. 128). Così, secondo al-Fārābī, l''impossibile' (al-mustaḥīl) può essere detto 'cosa', ma non 'esistente'.

Sul piano della storia della matematica tale tendenza si andò confermando fra al-Fārābī e Avicenna. In particolare, al-Karaǧī assegnò all'algebra uno status ancora più generale, accentuando l'estensione del concetto di numero; e un contemporaneo di Avicenna, al-Bīrūnī, si spingerà ancora più lontano, non esitando a scrivere: "La circonferenza del cerchio ha un rapporto dato con il suo diametro. Il numero dell'una rispetto al numero dell'altra è anch'esso un rapporto, anche se è irrazionale" (al-Qānūn al-mas῾ūdī, ed. Hyderabad, I, p. 303). Sul piano filosofico, Avicenna ‒ da metafisico coerente ‒ integra dunque la concezione di al-Fārābī con una dottrina che egli voleva più sistematica e che espone nel Kitāb al-Šifā᾽. Secondo tale dottrina la 'cosa' ‒ al pari dell'esistente e del necessario ‒ è data per evidenza immediata (nel suo linguaggio essa 'si inscrive immediatamente nell'anima') e con queste altre due idee si trova al principio di ogni altra. Tuttavia, mentre il concetto di esistente rinvia al significato di 'affermato' (muṯbit) e di 'realizzato' (muḥaṣṣal), la 'cosa' è, come scrive Avicenna, ciò cui si riferisce l'attribuzione (l'enunciato). Ogni esistente è dunque una 'cosa', ma il reciproco non vale, anche se è impossibile che una 'cosa' non esista né come oggetto concreto né nell'anima (Kitāb al-Šifā᾽, al-Ilāhiyyāt, ed. Anawati, I, p. 29 e segg., p. 195 e segg.). Non è questo il luogo per descrivere la dottrina di Avicenna, ma basterà sottolineare che questa ontologia, né platonica né aristotelica, è stata almeno in parte ispirata dalle nuove acquisizioni delle scienze matematiche.

La dottrina dell'emanazione della molteplicità dall'Uno e il contributo di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī

Le matematiche sembrano dunque aver contribuito a spingere Avicenna a piegare l'ontologia in un modo che potremmo chiamare 'formale'. Esse hanno agito tuttavia anche sulla concezione avicenniana dell'ontologia dell'emanazione, come vedremo tra poco a proposito del commento di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī. L'emanazione dall'Uno delle Intelligenze e delle sfere celesti, come degli altri mondi ‒ quello della Natura e quello delle cose corporee ‒ è una delle dottrine centrali nella metafisica di Avicenna. Questa dottrina solleva un problema che è al tempo stesso ontologico e gnoseologico: come è possibile che da un essere unico e semplice emani una molteplicità che è anche una complessità, la quale, alla fine, comprende al tempo stesso la materia delle cose, le forme dei corpi e le anime umane? Questa dualità ontologica e gnoseologica trasforma il problema in un ostacolo, una difficoltà logica e metafisica a un tempo, che deve essere superata e risolta. Ciò spiega, almeno in parte, perché nei suoi vari scritti Avicenna torni instancabilmente su questa dottrina e, implicitamente, su tale problema.

Lo studio dell'evoluzione del suo pensiero al riguardo ci mostrerebbe come egli abbia potuto correggere la formulazione che ne aveva inizialmente dato, proprio in funzione di questa difficoltà. Ci limiteremo tuttavia a esaminare due grandi opere del Corpus avicenniano: il Kitāb al-Šifā᾽ e il Kitāb al-Išārāt wa-'l-tanbīhāt (Libro dei segni e dei moniti), in cui l'autore espone i principî di questa teoria e le regole dell'emanazione dei multipli dall'unità semplice. La sua spiegazione ha l'andamento di un'esposizione articolata e ordinata, ma non il valore di una dimostrazione rigorosa: Avicenna infatti non fornisce le regole sintattiche adatte a coniugarsi con la semantica dell'emanazione. E proprio in ciò risiede la difficoltà della derivazione della molteplicità dall'Uno, che da molto tempo era stata avvertita e studiata come problema.

Il matematico, filosofo e commentatore di Avicenna, Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, non solo colse tale difficoltà, ma volle fornire le regole sintattiche che mancavano negli scritti del suo predecessore. Tuttavia, per comprendere il contributo da lui fornito, dobbiamo tornare ad Avicenna non soltanto per richiamare gli elementi essenziali della sua dottrina, ma anche per cogliere nell'esposizione sintetica e sistematica che ne ha dato le tracce ‒ per deboli che siano ‒ di quel principio formale la cui presenza rese possibile ad al-Ṭūsī l'introduzione delle regole dell'analisi combinatoria. Fu infatti questo il principio soggiacente che permise ad Avicenna di sviluppare la propria esposizione in maniera deduttiva. Da un lato, infatti, egli aveva la necessità di assicurare l'unicità dell'Essere, che si predica di tutto nello stesso senso; dall'altro quella di affermare una differenza irriducibile fra il Principio Primo e le sue creazioni. Egli elaborò così una concezione generale ‒ in certo qual modo 'formale' ‒ dell'Essere: considerato in quanto essere, esso non è oggetto di alcuna determinazione, neanche di quella delle modalità; non è altro che essere. Non è un genere, è piuttosto uno 'stato' proprio di tutto ciò che è; si lascia cogliere soltanto nella sua opposizione al non-essere, senza però che questo lo preceda temporalmente: tale opposizione quindi ha luogo unicamente nell'ordine della ragione. Per contro, solo il Principio Primo ha l'esistenza da sé stesso; si osservi che Avicenna distingue fra esistenza ed essenza per tutti gli altri esseri. È, dunque, il Principio Primo, l'unica esistenza necessaria, cioè l'unica in cui l'esistenza coincide con l'essenza. Tutti gli altri esseri ricevono l'esistenza dal Principio Primo, per emanazione. Questa ontologia e la cosmologia che l'accompagna forniscono i tre punti di vista secondo cui si può considerare un essere: in quanto essere, in quanto emanazione dal Principio Primo e in quanto essere della sua quiddità (secondo i due primi punti di vista, la necessità di questo essere s'impone, mentre è la sua contingenza che rivela il terzo). Sono queste le nozioni, qui riassunte schematicamente, su cui Avicenna stabilisce i suoi postulati: (1) esiste un Principio Primo, Essere necessario per essenza, Uno, assolutamente indivisibile che non è un corpo né è in un corpo; (2) la totalità dell'essere emana dal Principio Primo; (3) l'emanazione non avviene né 'secondo un'intenzione' (῾alā sabīl qaṣd), né per raggiungere un fine, ma per una necessità dell'essere del Principio Primo, cioè per la sua auto-intellezione; (4) dall'Uno non emana che l'Uno; (5) c'è una gerarchia nell'emanazione, che va da coloro il cui essere è più perfetto (al-akmalu wuǧūdan) a coloro il cui essere è meno perfetto (al-aḫassu wuǧūdan).

Si potrebbero cogliere alcune contraddizioni fra questi postulati, per esempio fra il secondo e il quarto, o sospettare che alcuni di essi portino a conseguenze contraddittorie. È per evitare questa impressione che Avicenna introdusse determinazioni supplementari nel corso della sua deduzione. Così, dai postulati 1, 2, 4 e 5 segue che la totalità dell'essere, insieme al Principio Primo, è un insieme ordinato secondo la relazione ‒ logica e assiologica al tempo stesso ‒ predecessore-successore, laddove va tenuto conto sia della priorità dell'essere sia della sua eccellenza. In effetti, se si eccettua il Principio Primo, ogni essere non può non avere che un solo predecessore (e il predecessore del suo predecessore, e così via). D'altronde, ogni essere, compreso il Principio Primo, può avere soltanto un unico successore (e il successore del suo successore, ecc.), ma il filosofo e il suo commentatore al-Ṭūsī sapevano che, se preso alla lettera, quest'ordinamento vieta l'esistenza degli esseri molteplici, vieta cioè la loro coesistenza indipendente, senza che gli uni siano logicamente primi rispetto agli altri o più perfetti di essi; cosa che, come dirà al-Ṭūsī nel Kitāb al-Išārāt wa-'l-tanbīhāt, rende quest'ordine manifestamente falso. È dunque necessario introdurre ulteriori precisazioni, e anche esseri intermedi. I postulati 1 e 2 a loro volta vietano che la molteplicità proceda dagli 'slanci' (nuzū῾āt) e dalle 'prospettive' (ǧihāt) del Principio Primo, perché supporre in esso slanci e prospettive equivale a negare la sua unicità e semplicità. Infine, i postulati 3, 4 e 5 implicano che l'emanazione, in quanto atto del Principio Primo, non corrisponda all'immagine di un atto umano, perché il suo Autore non conosce né intenzione né fine. Tutto sta a indicare dunque la necessità di introdurre 'esseri intermedi' (mutawassiṭa), che certo saranno anch'essi gerarchizzati, ma permetteranno di dar conto della molteplicità-complessità.

Cominciamo, com'è d'uopo, dal Principio Primo, e designiamolo, come fa Avicenna nell'opuscolo al-Nayrūziyya (Epistola di Capodanno), con la prima lettera dell'alfabeto: a. Il Principio Primo 'intende' sé stesso, per la sua stessa essenza. In questa auto-intellezione, esso 'intende' la totalità dell'essere di cui è il principio proprio, senza che in esso ci sia rifiuto od ostacolo all'emanazione di questa totalità. È solo in tal senso che si dice del Principio Primo che è 'agente' (fā῾il) della totalità dell'essere. Ciò ammesso, resta da spiegare come si effettui questa emanazione necessaria della totalità dell'essere senza che si debba aggiungere alcunché che possa contraddire l'unicità del Principio Primo. Per i postulati 1, 4 e 5, dal Principio Primo emana un solo essere, che è necessariamente al secondo rango di esistenza e perfezione. Tuttavia, poiché esso emana da un essere unico, puro, semplice, che è al tempo stesso verità pura, potenza pura, bontà pura, ecc. (senza che nessuno di questi attributi vi esista indipendentemente, in modo che sia garantita l'unicità del Principio Primo), quest'essere derivato non potrà essere che un Puro Intelletto. Tale implicazione soddisfa il postulato 4, perché se questo intelletto non fosse puro, se ne dovrebbe concludere che dall'Uno emana 'più' che uno. Siamo dunque di fronte al primo Intelletto separato, al primo 'effetto' o 'causato' (ma῾lūl) del Principio Primo. Con Avicenna, designiamolo con la lettera b.

A questo punto tutto è pronto per spiegare la molteplicità-complessità. Per sua essenza, questo Intelletto Puro è un effetto, ed è perciò contingente, ma in quanto emanazione del Principio Primo, esso è necessario, perché è stato emanato dall''intellezione' di quest'ultimo. A questa dualità ontologica si sovrappone poi una molteplicità noetica: questo Intelletto Puro si conosce e conosce il suo essere come possibile o contingente, sa cioè che la sua essenza è diversa da quella del Principio Primo, che è necessario. Ma, d'altra parte, esso conosce il Principio Primo come Essere necessario e, infine, conosce la necessità del proprio essere in quanto emanazione del Principio Primo. Ciò che abbiamo appena descritto parafrasa il testo di Avicenna del Kitāb al-Šifā᾽, in cui si anticipa l'obiezione di un possibile critico osservando che questa molteplicità-complessità non è, se così si può dire, una proprietà ereditaria: l'Intelletto Puro non la riceve dal Principio Primo, e per due ragioni. In primo luogo, la contingenza dell'essere dell'Intelletto Puro appartiene alla sua stessa essenza, e non al Principio Primo, che gli ha dato la necessità del suo essere. D'altra parte, la conoscenza che l'Intelletto ha di sé stesso, come la conoscenza che ha del Principio Primo, è una molteplicità che deriva dalla necessità del suo essere a partire dal Principio Primo. Con queste condizioni Avicenna può respingere l'accusa di attribuire la molteplicità al Principio Primo.

Nel testo Avicenna passa poi a descrivere come, a partire da questo Intelletto Puro, emanino gli altri Intelletti separati, le Sfere celesti e le Anime che permettono agli Intelletti di agire. Così, dall'Intelletto Puro b emana, grazie alla sua intellezione di a, un secondo Intelletto c; e grazie all'intellezione della sua essenza, emana l'Anima della nona Sfera celeste; e grazie all'intellezione del suo essere come essere contingente, emana il corpo della stessa nona Sfera. Indicheremo l'Anima e il corpo di questa Sfera con d. Avicenna continua la descrizione dell'emanazione degli Intelletti, delle Sfere, delle loro Anime e dei corpi. Dall'ultimo Intelletto emanano la materia delle cose sublunari, le forme dei corpi e le anime umane. Questa spiegazione di Avicenna ‒ che pur presenta il pregio di non separare il problema della molteplicità a partire dall'Uno da quello della complessità, ovvero del contenuto ontologico di tale molteplicità ‒ non permette però una conoscenza rigorosa di tale molteplicità, dato che non viene fornita nessuna regola generale. Avicenna si limita a ricondurre gli elementi all'Intelletto Agente.

Al-Ṭūsī interviene proprio su questo punto. Egli dimostrerà, sulla base delle regole di Avicenna e di un ridotto numero di enti intermedi, che una molteplicità emana effettivamente a partire dal Principio Primo, di modo che ogni effetto non abbia che una sola causa esistente indipendentemente da esso. Come ora vedremo, questo notevole progresso nella conoscenza della molteplicità dovrà però pagare il prezzo di un impoverimento del contenuto ontologico: di fatto, la molteplicità-complessità si ridurrà a sola molteplicità. In effetti, al-Ṭūsī, nel commento al Kitāb al-Išārāt wa-'l-tanbīhāt, introduce il linguaggio e i procedimenti dell'analisi combinatoria per seguire il processo di emanazione fino al terzo rango degli esseri. Egli si ferma a questo punto, concludendo che "se noi andiamo oltre questi [tre primi] ranghi, può esistere una molteplicità innumerevole (lā yuḥṣā ῾adadu-hā) in un solo rango, e così all'infinito" (Kitāb al-Išārāt, III, pp. 217-218). L'intenzione di al-Ṭūsī è chiara, e il procedimento applicato per i primi tre ranghi degli esseri non lascia alcun dubbio: egli vuole fornire la dimostrazione e i mezzi che mancavano ad Avicenna. A questo stadio, tuttavia, al-Ṭūsī è ancora lontano dal raggiungere il suo scopo. Una cosa è infatti procedere per combinazioni di un certo numero di oggetti, altra è introdurre un linguaggio dotato di una sua sintassi. Il linguaggio in questo caso sarà quello delle combinazioni. All'introduzione di questo linguaggio al-Ṭūsī si dedicò in un altro scritto, il cui titolo non lascia spazio ad ambiguità: Fī bayān kayfiyyat ṣudūr al-ašyā᾽ al-ġayr al-mutanāhiya ῾an al-mabda᾽ al-awwal al-wāḥid (Sulla dimostrazione del modo di emanazione delle cose [in numero infinito] a partire dal Principio Primo Unico). Qui, come ora vedremo, al-Ṭūsī procede in modo generale, basandosi sull'analisi combinatoria e il suo testo insieme ai risultati, che si ritrovano in un'opera tarda dedicata all'analisi combinatoria, non scompariranno con lui. Così, la soluzione di al-Ṭūsī non è soltanto distintiva di uno stile di ricerca filosofica, ma rappresenta un interessante contributo alla storia delle matematiche.

L'idea di al-Ṭūsī è dunque quella di affrontare il problema per mezzo di uno studio combinatorio. Tuttavia, affinché ciò sia possibile, occorre garantirsi che la variabile 'tempo' sia neutralizzata. Nel caso della teoria dell'emanazione ciò significa o scartare il divenire, o, almeno, ridurlo a un'interpretazione puramente logica. Tale condizione, come si è visto, era offerta da Avicenna stesso: abbiamo sottolineato che nella sua filosofia l'emanazione non si svolge nel tempo e che l'anteriorità e la posteriorità devono essere intese in quanto essenziali e non in senso temporale. Quest'interpretazione ‒ che a nostro avviso riveste un'importanza capitale nel sistema avicenniano ‒ rinvia alla concezione del necessario, del possibile e dell'impossibile di Avicenna. Ricordiamo infatti, in modo del tutto schematico, che nel Kitāb al-Šifā᾽ egli riprende quest'antica questione per respingere fin dall'inizio tutte le dottrine antiche, a suo avviso circolari poiché fanno ricorso, per definire uno dei tre termini (possibile, necessario, impossibile), a uno o all'altro dei restanti due (Kitāb al-Šifā᾽, III, cap. 4 del Sillogismo, IV, ed. Zayid). Per rompere il circolo vizioso, Avicenna pensa di restringere la definizione di ogni termine riconducendolo alla nozione di esistenza. E distingue allora fra ciò che è ritenuto dotato in sé di esistenza necessaria e quello che, considerato in sé, può esistere e può anche non esistere. Necessità e contingenza sono per lui inerenti agli esseri. Quanto poi all'essere possibile, la sua esistenza, come la sua non-esistenza, dipende da una causa esterna a esso. La contingenza non appare più, quindi, come una sorta di necessità degradata, ma come un altro modo dell'esistenza. E può persino accadere che l'essere possibile, pur restando tale in sé, abbia un'esistenza necessaria, data l'azione di un altro essere. Pur non potendo qui inoltrarci nelle sottili raffinatezze del ragionamento avicenniano, noteremo che è su questa particolare definizione del necessario e del possibile che Avicenna fonda i termini dell'emanazione nella natura degli esseri, neutralizzando fin da principio, come abbiamo or ora rilevato, la variabile 'tempo'. Da queste definizioni, infatti, egli deduce alcune proposizioni che dimostra quasi tutte per assurdo: per esempio, come il necessario non possa non esistere; come non possa, per la sua stessa essenza, avere una causa; come la sua necessità abbracci tutti i suoi aspetti; come esso sia uno e non possa in nessun modo ammettere molteplicità; come esso sia semplice e privo di composizione, ecc. Su tutti questi punti, il necessario si oppone al possibile. È dunque nella definizione stessa di necessario e possibile e nella dialettica che fra di essi si genera che si ritrovano, fissati per sempre, l'anteriorità del Principio Primo e i suoi rapporti con gli Intelletti.

Si può dunque descrivere l'emanazione senza ricorrere al tempo perché i suoi termini sono dati in una logica del necessario e del possibile. Non discuteremo qui delle possibili difficoltà di questa teoria; possiamo però affermare che le condizioni per l'introduzione di un'analisi combinatoria erano già state assicurate da Avicenna stesso.

Abbiamo detto che da a emana b; quest'ultimo si trova dunque collocato nel primo livello degli effetti. Da a e b insieme emana c, il secondo Intelletto; e dal solo b emana d, la Sfera celeste. Nel secondo livello abbiamo dunque due elementi, c e d, di cui nessuno dei due è causa dell'altro. Ma abbiamo in tutto quattro elementi: la causa prima a e i tre effetti b, c e d. Al-Ṭūsī li chiama i quattro principî. Combiniamo ora questi quattro elementi a due a due, poi a tre a tre, poi a quattro a quattro. Otteniamo rispettivamente sei combinazioni (ab, ac, ad, bc, bd, cd), poi quattro (abc, abd, acd, bcd) e infine una sola (abcd). Se si tiene conto delle combinazioni dei quattro elementi uno a uno, abbiamo in tutto 15 elementi, di cui 12 appartengono al terzo livello degli effetti, senza che siano esseri intermedi per derivare gli altri. Questo è quanto al-Ṭūsī espone nel commento al Kitāb al-Išārāt wa-'l-tanbīhāt e nel trattato Fī bayān kayfiyyat ṣudūr al-ašyā᾽ al-ġayr al-mutanāhiya già citato. Tuttavia, è chiaro che, quando si va oltre il terzo rango degli esseri, le cose si complicano rapidamente e al-Ṭūsī è costretto a introdurre, in questo trattato, un lemma che nel linguaggio matematico moderno possiamo enunciare così: il numero di combinazioni di n elementi è uguale a

Formula 1

Per calcolare tale numero al-Ṭūsī utilizza l'identità

Formula 2

Così, per n=12 si ottengono 4095 elementi. Si osservi che per dedurre questi numeri egli mostra le espressioni della somma combinando le lettere dell'alfabeto. Ciò fatto, al-Ṭūsī ritorna al calcolo dei numeri degli elementi del quarto rango. Consideriamo i quattro principî e i dodici esseri del terzo rango: abbiamo 16 elementi da cui si ottengono 65.520 effetti. Per arrivare a questo numero al-Ṭūsī si serve di una formula equivalente a:

Formula 3

per 1≤p≤16, m=4, n=12, il cui valore è il coefficiente binominale

Formula 4

Nessuno di questi elementi, a eccezione di a, b e ab, è un intermediario per gli altri. E la risposta di al-Ṭūsī è generale: la formula [3] fornisce una regola che permette di conoscere la molteplicità in ciascun grado o rango dell'emanazione.

Dopo aver stabilito queste regole e fornito l'esempio del quarto rango con i suoi 65.520 elementi, al-Ṭūsī è in grado di affermare di avere risposto al problema della possibilità dell'emanazione della molteplicità numerabile a partire dal Principio Primo, con la condizione che dall'Uno non emani che uno, senza che gli effetti siano successivi (concatenati). Al-Ṭūsī riuscì dunque a far parlare all'ontologia avicenniana il linguaggio dell'analisi combinatoria, e questo suo successo fu il motore di due importanti evoluzioni, da una parte della dottrina di Avicenna e, dall'altra, della stessa analisi combinatoria. È chiaro che nel suo studio il problema della molteplicità venne tenuto separato da quello della complessità dell'essere. Al-Ṭūsī, infatti, non si preoccupa minimamente dello status ontologico di ciascuno delle migliaia di esseri che compongono, per esempio, il quarto rango dell'essere. Ma c'è di più: il discorso metafisico ci permette ora di parlare di un essere senza doverlo rappresentare esattamente. Questa evoluzione dell'ontologia, che potremmo chiamare 'formale', è qui evidente: essa non fa che amplificare una tendenza già presente in Avicenna e che abbiamo sottolineato in precedenza, a proposito delle sue considerazioni sulla 'cosa'. Questo movimento 'formale' è accentuato dalla possibilità di designare gli esseri per mezzo di lettere dell'alfabeto, regola cui non sfugge nemmeno il Principio Primo, designato infatti con la lettera a. Anche qui al-Ṭūsī amplifica una tendenza avicenniana già presente, ma forzandone il senso. Nell'epistola al-Nayrūziyya Avicenna aveva utilizzato un tale simbolismo, ma con due differenze: da un lato aveva attribuito alla successione delle lettere dell'alfabeto arabo (prese nell'ordine abǧad hawaḍ) il valore di un ordine di priorità, di anteriorità logica; dall'altro aveva utilizzato i valori numerici delle lettere (a=1, b=2, e così via). Al-Ṭūsī, invece, pur conservando implicitamente l'ordine di priorità e indicando come Avicenna il Principio Primo con a e l'Intelletto Puro con b, abbandonò questa gerarchizzazione a favore del valore convenzionale del simbolo. Egli lasciò in tal modo scomparire ogni accenno al valore numerico. La cosa era necessaria, se si voleva che le lettere divenissero oggetto di un'analisi combinatoria. Da matematico e filosofo, al-Ṭūsī ripensò la dottrina avicenniana dell'emanazione in senso formale, favorendo in questo modo alcune tendenze che erano già presenti nell'ontologia di Avicenna.

Dall''ars inveniendi' all''ars analytica'

I matematici del IX sec., per ragioni interne all'evoluzione delle loro discipline, si imbatterono nel problema della dualità dell'ordine: l'ordine di esposizione è identico a quello di scoperta? Il problema, in modo del tutto naturale, fu sollevato proprio a proposito di ciò che all'epoca era il modello principe dell'esposizione matematica, gli Elementi di Euclide. Ṯābit ibn Qurra dedicò una memoria a questo problema, nella quale sostenne che l'ordine di esposizione degli Elementi coincide con l'ordine logico delle dimostrazioni ma differisce da quello di scoperta. Per caratterizzare quest'ultimo, Ṯābit ibn Qurra sviluppò una teoria psico-logica dell'invenzione matematica. In un certo qual modo ci troviamo già nel campo della filosofia della matematica.

La questione dell'ordine sarà rapidamente inglobata in una problematica più generale, quella dell'analisi e della sintesi, destinata a conoscere notevoli trasformazioni. Evocata più o meno en passant da Galeno, Pappo e da Proclo, tale problematica non aveva mai conosciuto l'estensione che assunse nel corso del X secolo. Durante questo secolo, infatti, lo sviluppo della matematica e la nascita al suo interno di nuove discipline, processi iniziati già nel IX sec., ebbero un'enorme ripercussione sull'amplificazione e la comprensione di questo tema. La riflessione relativa all'analisi e alla sintesi portò allo sviluppo di una vera e propria filosofia delle matematiche. Si assiste prima all'elaborazione di una logica filosofica per queste discipline, poi al progetto di elaborazione di un'ars inveniendi e infine di un'ars analytica.

Tutto cominciò, a quanto pare, con Ibrāhīm ibn Sinān (909-946), che scrisse un libro dedicato interamente e unicamente all'analisi e alla sintesi, intitolato Fī ṭarīq al-taḥlīl wa-'l tarkīb fī 'l-masā᾽il al-handasiyya (Sul metodo dell'analisi e della sintesi nei problemi di geometria). L'importanza di questo evento è chiarissima: l'analisi e la sintesi indicavano ormai un campo cui il matematico poteva dedicarsi, sia nei panni del geometra sia in quelli del logico-filosofo. Ibn Sinān descrive con le parole che seguono gli scopi del suo progetto:

Ho dunque esaurientemente fondato in questo libro un metodo destinato agli scolari, che contiene tutto ciò che è necessario per risolvere i problemi di geometria. Vi ho esposto in termini generali le varie classi di problemi di geometria; ho poi suddiviso queste classi, illustrando ciascuna di esse con un esempio; ho quindi guidato lo scolaro sulla via che gli potrà far conoscere in quale di queste classi dovrà collocare i problemi che gli verranno posti, la via che gli insegnerà come condurre l'analisi dei problemi ‒ così come le suddivisioni e le condizioni necessarie a questo scopo ‒ e farne la sintesi ‒ insieme alle condizioni necessarie per questo fine; ho infine esposto come farà a sapere se il problema è di quelli che sono solubili una volta sola o molte e, in generale, tutto ciò che è necessario conoscere in queste materie.

Ho segnalato in quale tipo di errore cadono i geometri nel corso dell'analisi, che dipende dal loro uso di un'abitudine che hanno acquisito: abbreviare eccessivamente. Ho anche indicato per quale motivo ai geometri può sembrare che ci sia, nelle proposizioni e nei problemi, una differenza fra l'analisi e la sintesi, e ho mostrato che la loro analisi non differisce dalla sintesi se non per le abbreviazioni e che, se avessero completato l'analisi nel modo esatto, essa sarebbe risultata uguale alla sintesi; e il dubbio avrebbe abbandonato il cuore di coloro che sospettano che i geometri producano nella sintesi cose di cui nell'analisi precedente non era stata fatta menzione, linee, superficie e altro che figurano nella loro sintesi senza essere state menzionate nell'analisi; questo ho mostrato, e illustrato con esempi. Ho presentato un metodo grazie al quale l'analisi risulta tale da coincidere con la sintesi; ho messo in guardia contro le cose che i geometri tollerano nell'analisi e ho mostrato in quale tipo di errori si incorre tollerandole. (Rashed 2000, pp. 96-98)

Gli scopi di Ibn Sinān sono chiari e il suo progetto è ben articolato: classificare i problemi geometrici secondo diversi criteri, in modo da mostrare come procedere per analisi e sintesi in ciascuna classe di problemi e in modo da mettere in evidenza i punti che si prestano a errori, così da poterli evitare. A grandi linee, ecco la sua classificazione.

1) I problemi le cui ipotesi sono assegnate completamente:

a) problemi veri;

b) problemi impossibili.

2) I problemi in cui è necessario modificare qualche ipotesi:

a) problemi con discussione (diorisma);

b) problemi indeterminati:

problemi indeterminati in senso proprio;

problemi indeterminati con discussione;

c) problemi sovrabbondanti:

problemi indeterminati a cui si fa un'aggiunta;

problemi con discussione a cui si fa un'aggiunta;

problemi veri a cui si fa un'aggiunta.

A questa classificazione ne segue una modale delle proposizioni. Essa è effettuata secondo vari criteri: numero delle soluzioni, delle ipotesi, loro compatibilità ed eventuale indipendenza. Poco più di due secoli dopo, al-Samaw᾽al riprese questa classificazione, sempre basandosi sul numero di soluzioni e su quello delle ipotesi. Affinandola maggiormente, egli arrivò a distinguere fra le identità e i problemi che hanno infinite soluzioni senza però essere identità. Introdusse inoltre il concetto di problema indecidibile, quello di cui non si può "dimostrare né l'esistenza, né la negazione" (Rashed 1984b, p. 52). L'autore, purtroppo, non fornisce esempi; ma il meno che si possa dire della sua opera è che al-Samaw᾽al seppe piegare le nozioni aristoteliche di necessario, possibile e impossibile in direzione di quelle di calcolabilità e indecidibilità semantica. Nel libro di Ibn Sinān sono discussi anche altri problemi logici, quali il ruolo delle costruzioni ausiliarie, la reversibilità dell'analisi, il ragionamento apagogico. Insomma: l'analisi e la sintesi sono qui presentate come teoria e, al tempo stesso, come metodo. Metodo che è in effetti una logica filosofica e pragmatica, nella misura in cui permette di associare un'ars inveniendi e un'ars demonstrandi, che è presentata come un procedimento fondato su una teoria della dimostrazione che Ibn Sinān tentò di elaborare.

Nella generazione successiva a Ibn Sinān, al-Siǧzī, un matematico dell'ultimo terzo del X sec., concepì un progetto diverso: quello di un'ars inveniendi che rispondesse contemporaneamente a esigenze didattiche e logiche. Egli incomincia con l'enumerare alcuni metodi ‒ almeno sette ‒ destinati a facilitare l'invenzione matematica. Fra questi ve n'è uno più importante, quello della 'analisi e sintesi', e vari altri particolari che possono fornire al primo efficaci strumenti di scoperta: per esempio, il metodo delle trasformazioni puntuali e quello dei procedimenti ingegnosi. Tutti questi metodi particolari hanno in comune l'idea di trasformare e variare le figure, le proposizioni e i procedimenti risolutivi. Riassumendo il suo progetto, al-Siǧzī scrive: "L'esame della natura delle proposizioni [al-aškāl] e delle loro proprietà in sé avviene secondo uno di questi due modi: noi immaginiamo la necessità delle loro proprietà o facendo variare le loro specie, a partire da un'immaginazione che attinge dalla sensazione o da ciò che è comune per i sensi; o, ponendo queste proprietà, e anche i lemmi che sono loro necessari, in successione, seguendo una necessità geometrica" (Rashed 2002, Appendice I, p. 818).

Per al-Siǧzī, dunque, l'ars inveniendi comporta essenzialmente due sole vie possibili. Tutti i metodi particolari si raggruppano intorno alla prima, mentre la seconda non è altro che 'l'analisi e la sintesi'. Ora, ciò che rende singolare la concezione di al-Siǧzī, e che costituisce la novità del suo contributo, è proprio questa distinzione fra le due vie, insieme alla natura della prima e allo stretto legame che intrattengono.

Bisogna anche notare che la prima di queste due vie si sdoppia, seguendo i due sensi del termine šakl. Tale termine è quello che i traduttori dei testi matematici greci avevano scelto per tradurre diagrámma e come questo designa indifferentemente la figura e la proposizione. Tale doppio significato non risulta equivoco finché la figura traduce graficamente ‒ si potrebbe dire staticamente ‒ la proposizione; in altre parole, fin tanto che la geometria resta essenzialmente uno studio di figure. Tuttavia tutto si complica quando si cominciano a trasformare le figure e a variarle, come già avveniva in certe branche della geometria al tempo di al-Siǧzī. L'ambiguità del termine rende allora necessaria una chiarificazione. Cominciamo con il primo significato, quello di 'figura'.

Nel suo trattato al-Siǧzī raccomanda a tre riprese di procedere per variazioni della figura: quando si effettua una trasformazione puntuale, quando si varia un elemento della figura mentre tutti gli altri restano fissi e, infine, quando si sceglie una costruzione ausiliaria. Questi procedimenti hanno molti elementi in comune, a cominciare dallo scopo: si cerca sempre di arrivare, per trasformazione e variazione, a proprietà invariabili della figura associate alla proposizione, quelle che la caratterizzano propriamente. E queste sono precisamente le proprietà invariabili enunciate nella figura in quanto proposizione. Il secondo elemento comune è anch'esso relativo allo scopo: variazioni e trasformazioni sono mezzi di scoperta nella misura in cui conducono a queste proprietà invariabili. È qui che interviene l'immaginazione, questa facoltà dell'anima capace di attingere nella molteplicità offerta dai sensi, superando le proprietà variabili della figura, le proprietà invariabili, le essenze delle cose. Il terzo elemento si riferisce a un ruolo particolare della figura, questa volta intesa come rappresentazione: più volte al-Siǧzī ci ricorda il ruolo che esso svolge nel fissare l'immaginazione e aiutarla nel suo compito quando fa appello ai sensi. Il quarto elemento non è meno importante: esso riguarda questa dualità figura-proposizione che non si configura come una relazione biunivoca. A una stessa proposizione può corrispondere una varietà di figure, così come a una sola figura può corrispondere un'intera famiglia di proposizioni. Quest'ultimo caso, d'altronde, è trattato estesamente da al-Siǧzī. Egli fu il primo, per quanto ne sappiamo, ad affrontare i nuovi rapporti fra figure e proposizioni, per i quali era necessario pensare un nuovo capitolo dell'ars inveniendi, dedicato all'analisi delle figure e dei loro rapporti con le proposizioni: al-Siǧzī sembra proprio aver scritto le prime pagine di questo capitolo.

Nella generazione successiva troviamo un progetto ancora diverso: quello di Ibn al-Hayṯam. Si tratta ora di fondare un'arte scientifica, dotata di proprie regole e di un proprio vocabolario. Ibn al-Hayṯam ricorda innanzitutto che le matematiche sono fondate sulla dimostrazione, intendendo con ciò "il sillogismo che indica necessariamente la verità della sua conclusione" (Rashed 1991, p. 36). Questo sillogismo si compone a sua volta di "premesse di cui l'intelletto riconosce la verità e la validità, senza essere turbato da alcun dubbio al loro riguardo; e di un ordine e di una disposizione di queste premesse tali da costringere chi le ascolta a essere convinto delle loro conseguenze necessarie e a credere alla validità di ciò che risulta dalla loro disposizione" (ibidem). L'arte dell'analisi (ṣinā῾at al-taḥlīl) fornisce il metodo per ottenere questi sillogismi, permette cioè di "perseguire la ricerca delle loro premesse, di ingegnarsi a trovarle e di cercarne la disposizione" (ibidem). In questo senso, l'arte dell'analisi è un'ars demonstrandi; ma è anche un'ars inveniendi, in quanto è grazie a essa che si arriva "a scoprire le cose incognite nelle scienze matematiche e si apprende come procedere per perseguire la ricerca delle premesse [lett.: 'per dare la caccia (taṣayyud) alle prove'], ossia il materiale delle dimostrazioni che indica la validità di ciò che si scopre delle cose incognite in queste scienze e il metodo per arrivare alla disposizione di tali premesse e alla figura della combinazione" (ibidem, p. 38). Per Ibn al-Hayṯam è dunque una vera ars (in greco téchnē, in arabo ṣinā῾a) analytica quella che si deve progettare e costruire. Ora, per quanto ne sappiamo, nessuno prima di lui aveva considerato l'analisi e la sintesi come un'arte, o, più precisamente, come un'arte duplice: della dimostrazione e della scoperta. Per prima cosa l'analista (al-muḥallil) deve conoscere i principî (uṣūl) delle matematiche. Questa conoscenza deve essere sostenuta dall''ingegnosità' e da un''intuizione formata dall'arte' (ḥads ṣinā῾ī). Tale intuizione ‒ indispensabile per la scoperta ‒ si dimostra altrettanto necessaria quando la sintesi non risulta essere la pura e semplice inversione dell'analisi, ma richiede dati e proprietà supplementari che dovranno essere scoperti. Conoscenza dei principî, ingegnosità e intuizione sono altrettanti mezzi che l'analista deve possedere per scoprire le incognite delle matematiche. Tuttavia, restano ancora da conoscere le 'leggi' e i 'principî' di quest'arte analitica. Tale conoscenza necessaria è l'oggetto di una disciplina che riguarda i fondamenti della matematica, tratta di ciò che è 'noto' ed è anch'essa da costruire. Quest'ultimo aspetto è decisamente peculiare a Ibn al-Hayṯam, dato che nessuno prima di lui ‒ nemmeno Ibn Sinān ‒ aveva mai pensato di concepire un'arte analitica fondata su una disciplina matematica propria. A questo argomento Ibn al-Hayṯam dedica un altro trattato, Fī 'l ma῾lūmāt (Sui noti), che aveva promesso nel trattato Fī 'l taḥlīl wa-'l-tarkīb. Egli stesso presenta questa nuova disciplina come quella che fornisce all'analista 'le leggi' dell'arte e i 'fondamenti' su cui si compie la scoperta delle proprietà e la conquista delle premesse. Come dire che essa attiene alle basi stesse delle matematiche, la cui conoscenza preliminare, come abbiamo visto, è effettivamente necessaria per portare a termine l'arte dell'analisi: si tratta delle nozioni che egli chiama 'i noti', le 'cose conosciute'. Osserviamo che ogni volta che affronta un problema di fondamenti, come nel trattato Fī tarbī῾ al-dā᾽ira (Sulla quadratura del cerchio), Ibn al-Hayṯam torna sempre su questi 'noti'.

Secondo la sua terminologia un concetto è detto 'noto' quando resta invariabile e non ammette cambiamento, sia o non sia esso pensato da un soggetto. I 'noti' designano così le proprietà invariabili, indipendentemente dalla conoscenza che ne possediamo, che restano immutate persino quando variano gli altri elementi dell'oggetto matematico. Lo scopo dell'analista, secondo Ibn al-Hayṯam, è proprio quello di accedere a queste proprietà invariabili. Una volta che tali elementi fissi siano stati raggiunti, il suo compito è terminato e si può quindi passare alla sintesi. L'ars inveniendi non è né meccanica né cieca, ma è grazie all'ingegnosità che essa conduce ai 'noti'. Per potersi costituire, l'arte analitica esige quindi una disciplina matematica che deve a sua volta essere costruita; in quest'ultima sono contenute le leggi e i principî della prima. Secondo questa concezione, l'arte analitica non può ridursi a una logica qualunque, ma la sua parte logica in senso stretto è immersa in questa disciplina matematica futura. Possiamo qui toccare con mano i limiti dell'estensione di quest'arte.

I contributi che abbiamo delineato indicano varie situazioni in cui i matematici affrontarono la filosofia della matematica e, nel resto di questo capitolo, abbiamo visto altre situazioni in cui filosofi-matematici o matematici-filosofi contribuirono allo sviluppo di questa disciplina. Nel loro complesso questi contributi fanno parte, indubitabilmente, della storia del pensiero matematico dell'Islam classico. Dimenticarli equivarrebbe a impoverire la storia della filosofia e, al tempo stesso, a mutilare la storia delle matematiche.

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