La civiltà islamica: condizioni materiali e intellettuali. Dal greco all'arabo: trasmissione e traduzione

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. Dal greco all'arabo: trasmissione e traduzione

Roshdi Rashed

Dal greco all'arabo: trasmissione e traduzione

Gli storici delle scienze e della filosofia arabe, di qualunque tendenza essi siano, concordano nel riconoscere l'importanza dell'eredità greca all'interno della cultura araba. Sanno che, se non ne tenessero conto, non potrebbero comprendere la nascita e lo sviluppo di queste discipline in arabo e, di conseguenza, in latino. È infatti sufficiente avere una certa familiarità con l'evoluzione effettiva di questi ambiti nella civiltà islamica ‒ o anche soltanto prestare ascolto alle testimonianze degli stessi storici e biobibliografi antichi, come Ibn Isḥāq al-Nadīm ‒ per misurare l'impatto dell'eredità greca.

Anche lo storico delle scienze e della filosofia greche ci fornisce una testimonianza, benché indiretta, del peso dell'eredità greca in arabo. Egli non può ignorare le versioni arabe degli scritti greci senza condannarsi a perdere una parte considerevole del suo oggetto e privarsi così di un prezioso strumento di comprensione. Infatti alcuni di questi scritti esistono solo nella versione araba, poiché il testo greco è andato perduto in parte o completamente; inoltre, i commenti dei dotti arabi e i loro progressi compiuti nelle diverse discipline sono un mezzo fondamentale per comprendere gli scritti cui si riferiscono e situarli storicamente. Si pensi, fra tanti altri, a Diocle, ad Apollonio, a Tolomeo, a Diofanto, ad Alessandro di Afrodisia.

L'ampiezza eccezionale di questo fenomeno di trasmissione scientifica e filosofica e la sua importanza per la storia delle scienze e della filosofia sono universalmente riconosciute, eppure esso è ben lungi dall'aver ricevuto l'attenzione che merita. Numerosi testi devono ancora essere ricostituiti, e molti studi dovrebbero essere intrapresi per renderne conto in modo soddisfacente. Ma è soprattutto necessario un cambiamento di prospettiva, se si vogliono riportare queste ricerche su vie più feconde. Tale cambiamento, che inizia a farsi strada, deve essere operato tanto nel metodo quanto nella concezione stessa dell'oggetto. Studiare, come accade di frequente, la trasmissione dell'eredità greca solamente dal punto di vista della filologia è la via più sicura per lasciarsi sfuggire l'essenziale, ossia la motivazione della traduzione, la sua estensione e le forme che ha assunto. Esaminare questa trasmissione con il solo intento di ricostruire gli scritti greci definitivamente o provvisoriamente perduti impedisce di cogliere l'evoluzione stessa del fenomeno. Tali studi, del resto legittimi e spesso importanti localmente, diventano, una volta generalizzati, gli alberi che nascondono la foresta, se presi come modelli per descrivere l'evoluzione del movimento della traduzione dal greco all'arabo. Alcune ricerche recenti su questo fenomeno si sono sforzate di correggere una tale prospettiva e qui cercheremo di presentare questi risultati, proseguendo nella stessa direzione.

Per un nuovo approccio

Sarà opportuno iniziare ricordando due fatti a tutti noti: in primo luogo, che il nuovo Stato islamico si estendeva sulla maggior parte del mondo ellenistico, abbracciando quindi le medesime popolazioni, che però cambiano, in maniera più o meno significativa, lingua e religione. Queste popolazioni avevano dunque ricevuto in eredità un insieme di conoscenze, di oggetti tecnici, di istituzioni: tutti elementi di un patrimonio sociale ed economico che interessano la storia della tecnica come quella delle istituzioni. All'interno di tale patrimonio si trova anche un corpus di testi per così dire sepolti, e un sapere elementare, in particolare in teologia, astrologia, alchimia o medicina. In secondo luogo, a quest'eredità vengono ad aggiungersene altre, provenienti da diversi orizzonti (persiano, sanscrito e siriaco soprattutto). Dimenticare tutto questo vuol dire trascurare il ruolo importante delle pratiche, delle conoscenze e degli oggetti tecnici o delle istituzioni nella circolazione del sapere. Questa dimenticanza non tarderebbe a ridurre la questione della trasmissione alla sola traduzione e dell'eredità greca non resterebbe che la parte libresca. In altri termini, ci si espone in tal caso a non cogliere tutto ciò che è connesso ai mezzi evocati: una geometria elementare, una logistica, un'agronomia, un'idrostatica, una metrologia, ecc. ‒ tutti rami del sapere che più tardi faranno parte di discipline costituite, o semplicemente della geometria pratica. Certo, quest'eredità da sola non può spiegare il sorgere e lo svilupparsi delle scienze e della filosofia nella nuova cultura islamica, della quale resta nondimeno un elemento importante.

Non è raro, d'altronde, che l'atto di tradurre venga presentato come passivo, scolastico, sempre dello stesso livello, qualunque sia l'ambito a cui si applica. Si tratterebbe per lo più dell'opera di un traduttore ‒ spesso un medico ‒ che conoscerebbe il greco, e che tradurrebbe sulla base delle circostanze e della casualità degli incontri, scritti greci appartenenti a varie discipline, non sempre di sua competenza. La traduzione a partire dal greco sarebbe perciò stata aleatoria, priva di motivazioni specifiche nella scelta dei libri. In breve, se si accetta questa rappresentazione spesso implicita, si sarebbe tradotto ciò che si trovava e come si poteva. Si sarebbe trattato inoltre di una traduzione scolastica ‒ nella misura in cui i testi tradotti avevano per sola destinazione l'insegnamento ‒ e sempre dello stesso livello, poiché l'atto di tradurre non avrebbe richiesto altro che la conoscenza del greco (se non del siriaco).

Questa immagine della trasmissione e poi della traduzione ha generato una dottrina che si incontra ogni tanto, soprattutto nei biobibliografi moderni. Secondo i suoi sostenitori la traduzione sarebbe il primo stadio di una 'legge' di tre stadi che si succedono logicamente e storicamente: tradurre per acquisire le scienze e la filosofia greche; assimilare ciò che si è acquisito, in una seconda fase, prima di passare alla terza tappa, ossia la produzione creatrice. Questa dottrina, per lo meno ingenua, vede per così dire nella traduzione soltanto un desiderio di acculturazione. Ma tanto la dottrina quanto la rappresentazione della traduzione su cui si fonda si scontrano con diversi fatti, fra i quali ne ricorderemo soltanto due.

Innanzitutto non è stata sottolineata a sufficienza la concomitanza della traduzione e dell'innovazione, che si verifica, per citare solamente qualche esempio, in ottica e in catottrica con al-Kindī; nella geometria delle coniche con al-Ḥasan ibn Mūsā e con il suo allievo Ṯābit ibn Qurra (m. 901); nella teoria dei numeri con quest'ultimo. Ben interpretata, questa concomitanza solleva la questione dimenticata delle relazioni intrinseche esistenti fra traduzione e ricerca, della forma stessa della traduzione e del suo pubblico.

Il secondo fatto riguarda l'ipotesi ammessa e raramente discussa di una forte continuità tra la ricerca scientifica e filosofica fiorita nell'Antichità e nella Tarda Antichità e quella sviluppatasi in arabo. Questa continuità è effettiva solo per casi puntuali e sembra non solo fragile, ma anche paradossale. Anzitutto, sul piano istituzionale si pone la questione dell'arabizzazione dell'amministrazione e degli organi di governo, cioè dei dīwān. Abbiamo mostrato altrove che questa arabizzazione, come l'evoluzione del dīwān, ha permesso di tradurre una logistica e di avviare una ricerca intorno a essa, che ha contribuito alla concezione, con al-Ḫwārizmī, di una disciplina non ellenistica: l'algebra. Abbiamo delineato inoltre in che modo questa cultura del dīwān, necessaria alla formazione di una burocrazia altrimenti farraginosa, abbia creato uno strato sociale le cui esigenze linguistiche e letterarie, ma anche i bisogni in ambito logistico, algebrico e geometrico, hanno suscitato simultaneamente traduzione e ricerca creativa. È vero dunque che a questo livello, come in altri settori quali l'architettura, le tecniche agronomiche, ecc., si può riconoscere una certa continuità. Le cose sono ben diverse, però, quando ci si rivolge alla ricerca scientifica e filosofica. A partire dal IX sec., infatti, mentre tale ricerca si rarefaceva e scompariva ad Alessandria e a Bisanzio, nella lingua araba si assisteva a un vero e proprio rinascimento scientifico e filosofico, le cui basi ‒ linguistiche, storiche, teologico-filosofiche ‒ erano state edificate solidamente nell'VIII secolo.

In breve, Alessandria e Bisanzio, come peraltro le altre città dell'ecumene, costituiscono per la nuova repubblica delle scienze una biblioteca sepolta, ricca di manoscritti dell'Antichità e della Tarda Antichità. Tutte le testimonianze storiche sono orientate in questo senso. Tuttavia, l'assenza di continuità a questo livello solleva due questioni strettamente legate, delle quali solamente una interessa in questa sede. Come rendere conto infatti di un rinnovamento che si realizzò saltando i secoli immediatamente precedenti, con il ritorno, per esempio, ad Apollonio e ad Aristotele? Quali sono i rapporti fra la trasmissione dell'eredità greca, in particolare la traduzione, e questa rinascita? È infatti soltanto alla luce di questa rinascita scientifica e filosofica che la questione della traduzione assumerà tutto il suo senso. Ora, il modo più efficace per comprendere la questione è appunto mettere in rapporto tali fenomeni.

La trasmissione del patrimonio greco in arabo ha seguito principalmente, ma non unicamente, due vie solidali benché di importanza diseguale e di natura differente. La prima, ancora poco esplorata, per quanto nota agli storici della società e della cultura, è quella dei mestieri, degli oggetti tecnici, delle istituzioni; cioè di quelle tecniche, organizzazioni e ideologie che gli antichi cittadini e abitanti del Mediterraneo ellenofono praticavano localmente per garantire la loro esistenza materiale e sociale. Questa via è quella della trasmissione dal greco in arabo del dīwān intrapresa sotto Hišām ibn ῾Abd al-Malik (r. 724-743) ed è la stessa che hanno seguito i procedimenti della geometria pratica, della logistica, di discipline come la medicina, l'alchimia, l'astrologia, l'agronomia, le arti militari o l'architettura.

A questa categoria appartengono anche alcuni trattati di logica elementare e di teologia, necessari all'insegnamento religioso quale lo si concepiva nell'ambiente dei monasteri nestoriani e giacobiti. Emblematica, a questo proposito, è la figura del patriarca Timoteo, che collabora alla traduzione dei Topica di Aristotele dal siriaco in arabo, ordinata dal califfo al-Mahdī. Questa via, per così dire naturale, poiché veniva seguita da popolazioni ellenizzate da un millennio, ha visto anche circolare traduzioni di testi scientifici. La seconda via, molto meno diffusa e meglio conosciuta, è quella della traduzione dotta degli scritti filosofici e scientifici dell'Antichità e della Tarda Antichità; per la sua ampiezza si distingue da tutte le esperienze storiche di traduzione che l'hanno preceduta, comprese quelle in ambito latino e siriaco. Sarebbe inverosimile ritenere che questi due percorsi non si siano mai intersecati. Numerosi indizi provano il contrario e la ricerca futura identificherà certamente delle piste intermedie che permetteranno di comprendere meglio il fenomeno sociale della trasmissione dell'eredità greca e della sua traduzione. È sufficiente qui mettere in luce un tratto generale e incontestabile: questo movimento di traduzione andava di pari passo con l'unificazione, l'arabizzazione e l'islamizzazione dell'Impero musulmano e della sua amministrazione.

Trasmissione dotta: un mito e alcune verità

Comunque sia, secondo la leggenda, la seconda via fu aperta, per così dire ufficialmente, da una conversazione tra Aristotele e il grande califfo al-Ma᾽mūn avvenuta in sogno. Dopo aver riferito questo episodio, il biobibliografo antico al-Nadīm scrive:

Questo sogno fu una delle ragioni più forti per rendere [in arabo] i libri. Al-Ma᾽mūn scrisse allora al re dei Bizantini chiedendogli il permesso di farsi spedire quanto egli [al-Ma᾽mūn] avrebbe scelto delle scienze antiche depositate e conservate nel paese dei Romani. Il re accettò dopo una certa esitazione. Al-Ma᾽mūn inviò allora un gruppo composto da al-Ḥaǧǧāǧ ibn Maṭar, Ibn al-Biṭrīq, Salmān associato alla Casa della sapienza, e altri. Essi presero quanto avevano scelto. Quando lo portarono ad al-Ma᾽mūn, egli ordinò loro di tradurre le opere, ed esse sono state tradotte. Si dice che tra coloro che si recarono nel paese dei Romani si trovasse Yūḥannā ibn Māsawayh. (Kitāb al-Fihrist, ed. Tajaddud, p. 304)

Al-Nadīm ricorda quindi che il modello imperiale fu imitato da molti altri e che i protetti di al-Ma᾽mūn, i Banū Mūsā, inviarono nel "paese dei Romani" (l'Impero di Bisanzio) il celebre traduttore Ḥunayn ibn Isḥāq (m. 877), che ne tornò "con libri preziosi e scritti singoli di filosofia, geometria, musica, aritmetica e medicina" (ibidem). Secondo un'altra versione, sembra che uno dei Banū Mūsā, il primogenito Muḥammad (m. 873), abbia partecipato a una spedizione nell'Impero bizantino. Diverse altre fonti storiche evocano missioni inviate durante tutto il IX sec. e anche più tardi a Bisanzio, ad Alessandria e nei monasteri all'interno dell'antico mondo ellenistico, alla ricerca di manoscritti greci di scienza e filosofia.

Il sogno di al-Ma᾽mūn, per quanto leggendario, esprime bene la presa di coscienza, da parte degli storici e biobibliografi dell'epoca, che il movimento di traduzione fu qualitativamente differente da quelli che lo avevano preceduto.

Il rinnovamento della ricerca

In effetti gli storici antichi non ignoravano che il movimento di traduzione fosse anteriore al califfato di al-Ma᾽mūn (r. 813-833). Più precisamente, si possono riconoscere prima di questo periodo due tappe di una prima fase. Sappiamo da alcune testimonianze riportate dai biobibliografi che già sotto gli Omayyadi erano stati assunti dei traduttori. Il nipote del fondatore della dinastia, Ḫālid ibn Yazīd (m. dopo il 704), avrebbe così chiesto a un certo Stefano di tradurre dal copto e dal greco alcuni libri di alchimia. Per al-Nadīm si sarebbe trattato della "prima traduzione nell'Islam da una lingua a un'altra" (Kitāb al-Fihrist, p. 419). Pur essendo stata contestata (Ullmann 1978), questa testimonianza ha almeno il merito d'indicare il ruolo attribuito dagli storici antichi alla traduzione e a Ḫālid ibn Yazīd. Essa è inoltre corroborata da un'altra testimonianza, riferita sempre da al-Nadīm, secondo cui in questo periodo, sotto il regno del califfo Hišām ibn ῾Abd al-Malik, la lingua dell'amministrazione non è più il greco ma l'arabo; mentre Ibn al-Aṯīr e al-Nuwayrī riferiscono che durante il regno del padre di quest'ultimo, e su consiglio dello stesso Ḫālid ibn Yazīd, si iniziarono a coniare monete con l'esergo in arabo e non più in greco. Un'altra testimonianza, dello stesso tenore, afferma che sempre alla fine del VII sec. Māsarǧawayh aveva tradotto in arabo un compendium medico di Ahrūn. Queste vestigia indicano che contemporaneamente al movimento di arabizzazione, in particolare dei dīwān, cioè dell'amministrazione e dei suoi testi, fu realizzata qualche traduzione grazie a iniziative individuali per rispondere a esigenze pratiche immediate. Altre vestigia, di data incerta, ma che possono essere situate con molta verosimiglianza tra questo periodo e gli inizi della dinastia seguente ‒ gli Abbasidi ‒ attestano l'esistenza di altre traduzioni, riguardanti in particolare il campo astronomico, come quella dell'Introduzione di Teone di Alessandria all'Almagesto, qualificata da al-Nadīm come 'traduzione antica' (naql qadīm).

Anche sotto la dinastia abbaside continuò il processo di arabizzazione e iniziò una politica incentrata su grandi lavori pubblici, dovuti anche al trasferimento del centro dell'Impero e all'urbanizzazione crescente. L'attività di traduzione dunque non poteva che accelerarsi ed estendersi, come illustra l'esempio del secondo califfo abbaside, al-Manṣūr (r. 754-775). Gli storici antichi concordano nel sottolineare il fatto che al-Manṣūr si interessasse personalmente all'astrologia. Quando decise di fondare la nuova capitale, Baghdad, fece appello agli astrologi per calcolare il tema astrale e determinare il momento più favorevole all'inizio dei lavori. Incontriamo allora i nomi di Abū Sahl ibn Nawbaḫt, di Ibrāhīm al-Fazārī e di Māšā᾽allāh. Il califfo fece anche venire da diverse province tutte le corporazioni necessarie alla realizzazione del progetto, ossia operai, artigiani, giuristi e geometri: "Egli [al-Manṣūr] ha scritto a tutti i paesi perché inviino artigiani e muratori, e ha ordinato che vengano scelti uomini eminenti, giusti, informati in giurisprudenza, onesti e che conoscano la geometria" (al-Nuwayrī, Nihāyat al-arab fī funūn al-adab, ed. al-Hīnī, XXII, p. 90). Soffermiamoci un momento su queste informazioni: Abū Sahl ibn Nawbaḫt non è solo un astrologo, ma anche un mutakallim, cioè un teologo-filosofo, autore di un testo, citato da al-Nadīm, in cui è riportata una sorta di storia leggendaria della scienza, la cui origine sia logica sia storica è ascritta all'astrologia babilonese-persiana. Forse questa dottrina era destinata a giustificare la pratica astrologica cara al califfo in persona, la quale in ogni caso necessitava di un vero sapere astronomico e in particolare della composizione degli zīǧ. Quanto ad al-Fazārī (seconda metà dell'VIII sec.), non è un semplice astronomo, ma anche un matematico, autore di uno zīǧ e di scritti sugli strumenti astronomici ‒ astrolabi e quadranti ‒, dai quali si desume che possedesse una solida conoscenza delle proiezioni stereografiche. Sembra dunque possibile che questo gruppo di astrologi-astronomi, insieme ad altri geometri, abbia effettuato tutti i rilevamenti necessari alla fondazione di Baghdad, nonché il calcolo del tema astrale.

Emergono e traspaiono in filigrana nuove esigenze, che spingono a intraprendere determinate ricerche: comporre gli zīǧ, rappresentare esattamente una sfera su un piano, ecc. Se la scomparsa dei testi ci priva irrimediabilmente delle fonti che avrebbero permesso di valutare questa ricerca ai suoi inizi, restano però alcune tracce che ci indicano la presenza di una nuova atmosfera. Al-Manṣūr avrebbe ricevuto una delegazione indiana comprendente un astronomo, il quale avrebbe dato ad al-Fazārī, pure presente, uno zīǧ indiano. Al-Fazārī si sarebbe fatto carico, insieme con Ya῾qūb ibn Ṭāriq, di adattarlo in arabo. Storia incerta, forse, ma che ben ritrae l'idea che si aveva di quell'epoca. L'interesse di al-Manṣūr per l'astrologia e la presenza intorno a lui di Abū Sahl ibn Nawbaḫt e di al-Fazārī (e dell'astrolabista ῾Alī ibn ῾Īsā, quest'ultimo molto più giovane) sono attestati anche da un'altra testimonianza, sempre tarda (datata 330/941), di un certo al-Aḫbārī, riferita dallo storico al-Mas῾ūdī, secondo la quale al-Manṣūr sarebbe stato "il primo califfo per il quale furono tradotti dei libri da lingue straniere in lingua araba" (Murūǧ al-ḏahab, ed. Barbier de Meynard, IV, p. 333). Al-Aḫbārī elenca allora alcuni dei titoli tradotti, tra cui l'Almagesto, gli Elementi e l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa. Scrive quindi che sono stati tradotti per lui "tutti i libri antichi a partire dal greco, dal bizantino, dal pahlavi, dal persiano e dal siriaco, e che essi sono stati diffusi tra coloro che li hanno esaminati e si sono dedicati al loro studio" (ibidem).

Qualunque sia il valore storico che si può attribuire a questa tarda testimonianza, essa riflette fedelmente l'opinione dei successori dell'epoca di al-Manṣūr. Vengono intraprese traduzioni per iniziativa del sovrano, mentre sullo sfondo si dispiega una ricerca che esige la traduzione di determinate opere, e il rapido processo di arabizzazione richiede la costituzione di una nuova biblioteca adatta alle dimensioni di un Impero che si estende dall'India all'Atlantico. Quanto ai libri evocati da al-Aḫbārī, niente esclude l'esattezza dell'informazione sull'Almagesto, corroborata da un passo di al-Nadīm, secondo il quale il visir di al-Manṣūr, Ḫālid ibn Barmak, avrebbe ordinato una prima traduzione che, essendosi rivelata insoddisfacente, sarebbe stata corretta più tardi su sua richiesta. L'Introduzione aritmetica di Nicomaco, invece, è stata tradotta una prima volta dal siriaco da Ḥabīb ibn Bahrīz, il quale però avrebbe tradotto anche diversi libri per al-Ma᾽mūn, vale a dire almeno quattro decenni più tardi ‒ cosa possibile ma improbabile. Quanto agli Elementi di Euclide, si tratterebbe di una traduzione anteriore a quella di al-Ḥaǧǧāǧ, ipotesi non confermata da nessun'altra informazione.

L'intervento del potere politico allo scopo di sollecitare la traduzione dal greco e da altre lingue; la costituzione in arabo di una biblioteca adeguata alle dimensioni del nuovo mondo, conseguenza, almeno in parte, dell'arabizzazione continua dello Stato e della cultura da più di un secolo e mezzo; la risposta alle esigenze della ricerca: questi sono gli imperativi ai quali doveva rispondere l'attività di traduzione, alla fine della prima fase e all'inizio della seconda. Numerose traduzioni antiche, a noi sconosciute fino a un'epoca recente, potrebbero appartenere a questa fase intermedia. Sappiamo così che al-Kindī disponeva di una traduzione della Misura del cerchio di Archimede differente da quella che venne realizzata più tardi a partire da un manoscritto greco. Sempre al-Kindī conosceva una traduzione dell'Ottica di Euclide diversa da quella che ci è pervenuta e, molto probabilmente, realizzata prima di questa. Infine, abbiamo recentemente ritrovato una traduzione antica della parte iniziale dei Paradossi meccanici di Antemio di Tralle.

La varietà dei testi tradotti colpisce: l'Ottica di Euclide, la Misura del cerchio di Archimede, i Paradossi meccanici di Antemio di Tralle, ai quali si potrebbe aggiungere qualche altro trattato. Tuttavia, per quanto ci permette di giudicare la nostra conoscenza attuale, si tratta di testi relativamente brevi, legati però alla ricerca, le cui traduzioni sono letterali e si servono di una terminologia che verrà profondamente rimaneggiata in seguito, nella fase successiva.

Istituzione e professione: l'età delle Accademie

Nella seconda fase, contrassegnata dal sogno di al-Ma᾽mūn, la traduzione diventa allo stesso tempo una professione scientifica e un'istituzione. Anche al suo apogeo, ossia all'inizio della dinastia degli Abbasidi, la prima fase del movimento di traduzione non può essere confusa con quella che le succede, per numero di traduzioni, diversità degli scritti tradotti, tecnicità e accresciuta specializzazione dei traduttori. Ci sono diverse ragioni per questa trasformazione, che inizia all'epoca di al-Ma᾽mūn e si sviluppa poi con i suoi successori: una di esse, poco sottolineata, è la mutazione dell'enciclopedia del sapere. Tra la seconda metà dell'VIII sec. e la prima metà del IX emergono numerose discipline direttamente legate alla nuova società, alla sua ideologia e alla sua organizzazione. Si tratta, per esempio, dei differenti campi di ricerca aperti dal bisogno di accedere ai testi sacri e alla loro interpretazione, che danno vita a uno spettro di discipline linguistiche, che vanno dall'etnolinguistica alla lessicografia fondata su una vera e propria ricerca fonologica, per mezzo di un pensiero combinatorio (al-Ḫalīl ibn Aḥmad), passando per la grammatica e la filologia. Si pensi anche allo sviluppo della scienza filosofico-teologica del kalām, con le sue molteplici scuole e le loro ramificazioni. Si possono ricordare inoltre i differenti settori della storia e la nascita dei metodi di analisi critica delle fonti; lo sviluppo degli studi ermeneutici, specie quello del Corano; le diverse scienze logico-giuridiche necessarie alla ricerca nel diritto islamico, ecc. Aggiungiamo ancora l'algebra stessa, insieme ad altre discipline nate dalla pratica e dall'amministrazione dell'Impero. L'enciclopedia del sapere è dunque ben diversa da quella della Tarda Antichità: al-Fārābī traccerà poco più tardi, nell'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze), il quadro del suo contenuto.

Tuttavia se questa nuova enciclopedia è un'eco della diversità delle discipline e della cultura del tempo, essa indica anche un modo di procedere individuabile attraverso la lettura dei libri di ṭabaqāt (le vite dei dotti) e dei biobibliografi antichi: una specializzazione accresciuta. Un dotto non soltanto appartiene principalmente a una professione, a volte a due riunite insieme (come il mutakallim, filosofo-teologo e giurista), ma, all'interno della stessa professione, fa capo a una scuola specifica: Kufa e Bassora, per esempio, per un grammatico, o quelle di Bassora e Baghdad per un teologo-filosofo. Tutte queste nuove discipline con i loro specialisti, il cui numero cresceva continuamente, hanno creato una domanda e formato un pubblico. Il teologo-filosofo voleva conoscere di più e meglio la filosofia, la logica, e ugualmente la statica e la fisica. Le esigenze di ordine religioso (determinare la direzione della Mecca e le ore della preghiera in un Impero così vasto) richiedevano nuove conoscenze astronomiche, così come i progressi della scienza medica erano resi necessari dalle richieste di cure mediche nei centri urbani. Le mansioni dei funzionari del dīwān o dei segretari privati (i quali avevano dato luogo a una vera e propria professione) esigevano una cultura generale piuttosto ampia. In breve, tutti costoro costituivano un largo pubblico per alcune discipline e una cultura da tradurre, in particolare dal greco e dal persiano. Non mancano neppure, tra i libri tradotti, opere rispondenti a esigenze più prettamente culturali, che hanno per oggetto temi come le sentenze morali dei filosofi (per es., la traduzione del Testamento di Platone per l'educazione dei giovani da parte di Ḥunayn ibn Isḥāq) oppure l'interpretazione dei sogni (come, per es., la traduzione del Libro dei sogni di Artemidoro di Efeso dello stesso Ḥunayn).

In questa seconda fase si assiste rapidamente all'istituzionalizzazione della traduzione e all'assimilazione dell'eredità greca. Abbondano fatti e aneddoti dai quali apprendiamo che califfi, visir, prìncipi, benestanti e persino certi dotti avevano fondato biblioteche e osservatori, e incoraggiato la traduzione e la ricerca. Tuttavia, non è stato sottolineato a sufficienza che in queste nuove istituzioni non figuravano solamente individui, ma gruppi spesso rivali e in competizione. A titolo di esempio, il Bayt al-Ḥikma (Casa della sapienza), fondato a Baghdad da al-Ma᾽mūn, comprendeva astronomi come Yaḥyā ibn Abī Manṣūr, traduttori come al-Ḥaǧǧāǧ ibn Maṭar (traduttore degli Elementi di Euclide e dell'Almagesto di Tolomeo), matematici come al-Ḫwārizmī. Troviamo più tardi, in un altro gruppo legato a questa stessa Casa, i tre fratelli matematici e astronomi Banū Mūsā, che hanno finanziato e incoraggiato la traduzione; il traduttore di Apollonio, Hilāl ibn Hilāl al-Ḥimṣī, e il traduttore e matematico Ṯābit ibn Qurra. Sappiamo anche che traduttori e dotti forma-vano dei gruppi attorno ai Banū Mūsā, ad al-Kindī (gli antichi biobibliografi riferiscono di contrasti tra i due gruppi), a Ḥunayn ibn Isḥāq, ecc. La moschea, l'osservatorio e l'ospedale, infine, erano anch'essi luoghi e istituzioni nei quali lavoravano altri gruppi di specialisti.

L'organizzazione della traduzione a quest'epoca mostra due caratteristiche particolarmente importanti legate tra loro: essa, condotta su grande scala, non si limita solamente a scritti con fini pratici; inoltre, accade sempre più spesso che vengano riprese traduzioni della prima fase e persino alcune dell'inizio della seconda. Gli Elementi di Euclide sono così stati tradotti tre volte e lo stesso vale per l'Almagesto. Questa ripresa della traduzione risponde a un cambiamento di criteri nella stessa tecnica traduttiva, che è diventata una pratica per individui appartenenti a scuole e a gruppi rivali in possesso di una doppia formazione, linguistica e scientifico-filosofica. Tuttavia, prima di spiegare questa evoluzione, iniziamo con il notare che la traduzione non seguiva né un ordine didattico ‒ dai libri più facili ai più difficili ‒ né l'ordine cronologico della successione degli autori greci. Certo, non c'era alcun piano prestabilito che presiedesse alla traduzione, ma non bisogna perciò credere che essa fosse condotta a caso, sulla base della scoperta di nuovi testi. Diverse testimonianze dell'epoca indicano invece che il testo da tradurre veniva scelto prima di intraprendere la ricerca dei manoscritti necessari alla sua ricostruzione. Così, Ḥunayn ibn Isḥāq aveva deciso di tradurre il De demonstratione di Galeno prima di avviarsi alla ricerca dei manoscritti; lo stesso accadde quando i Banū Mūsā vollero far tradurre le Coniche di Apollonio. Tutte queste caratteristiche fanno emergere un fenomeno passato troppo a lungo inosservato: gli stretti rapporti che intercorrono tra una traduzione imponente e una ricerca attiva e innovatrice.

Un tipo ideale di traduttore: il percorso di Ḥunayn ibn Isḥāq

Soffermiamoci dunque sulla formazione di questa nuova generazione di traduttori, che, durante tutto il IX sec. e soprattutto nella seconda metà, trasmetteranno l'essenziale dell'eredità filosofica e scientifica greca. Diversamente dalla maggioranza dei loro predecessori, questi traduttori non erano né dilettanti illuminati che avevano familiarità con una lingua antica, né uomini dell'arte ‒ medici o alchimisti ‒ capaci di rendere in un arabo approssimativo un testo della loro disciplina. Siamo ormai di fronte a veri e propri professionisti, tanto delle lingue quanto delle scienze. Il tipo ideale è rappresentato dal celebre Ḥunayn ibn Isḥāq, la cui biografia, così come è pervenuta fino a noi, è di grande interesse: una composizione letteraria molto colorita che, vera o leggendaria, delinea in ogni caso i tratti ideali del nuovo mestiere. Arabo cristiano (nestoriano), nato nell'808 da un padre farmacista ad al-Ḥīra, il suo percorso inizia a Bassora, dove perfeziona il suo arabo, sapendo dunque che la lingua di traduzione non è quella usata nella vita quotidiana. Questa scelta, del resto, sta dietro alla leggenda secondo la quale Ḥunayn avrebbe incontrato al-Ḫalīl ibn Aḥmad, uno dei più grandi linguisti arabi, una leggenda che nel racconto della sua vita assume un ruolo insieme iniziatico ed emblematico. Lo ritroviamo in seguito a Baghdad, tappa della sua formazione scientifica propriamente detta, dove compie studi di medicina sotto l'egida di uno dei più grandi medici dell'epoca: Yūḥannā ibn Māsawayh. Qui Ḥunayn incontra il suo destino; cacciato dal suo circolo da Ibn Māsawayh, egli riprende il cammino della sua formazione: è la terza tappa. Si reca in uno dei centri ellenistici per perfezionare il greco (non si sa se nell'Impero bizantino o ad Alessandria). Qualche anno più tardi riappare a Baghdad, citando a memoria alcuni versi di Omero; una tale padronanza del greco corrisponde certamente ‒ a livello emblematico ‒ al ruolo di patrocinatore dello studio dell'arabo di al-Ḫalīl.

Tre tappe ben distinte, dunque, e necessarie alla formazione del nuovo tipo di traduttore. Si tratta ormai di un traduttore-dotto, che padroneggia il greco, l'arabo, il siriaco e, al tempo stesso, la scienza. Queste esigenze forti rispecchiano due fatti: la scienza tradotta è ancora una scienza viva (vedremo infatti che non si traduceva per ricostruire la storia di una scienza, ma per far avanzare una ricerca e una pratica in atto); uno dei compiti che il traduttore sente come proprio è ormai la creazione di un arabo scientifico. Ci troviamo di fronte a una ricerca linguistica nel senso più specifico, che rende necessaria una formazione simile a quella che può aver ricevuto Ḥunayn ibn Isḥāq.

Ḥunayn trascorre il resto della sua vita a tradurre i libri medici greci e qualche libro di filosofia, alcuni dei quali erano necessari al cursus medico. È nel corso di quest'opera di traduzione, la cui qualità è unanimemente riconosciuta, che intraprende alcune ricerche sull'arabo scientifico. Si contano 129 libri da lui tradotti, due terzi circa in siriaco e un terzo in arabo. Lo squilibrio manifesto in favore del siriaco riflette la composizione della comunità medica del tempo, e dunque la tipologia della domanda. Tale comunità era costituita ancora per la maggior parte da medici di origine siriaca che continuavano a occupare il posto di medico di corte, dai quali proveniva la gran parte delle richieste di traduzione per le necessità di tipo pratico o della ricerca. In effetti, tra i committenti di cui le fonti storiche hanno conservato il nome troviamo Baḫtīšū῾ ibn Ǧibrīl, Salmawayh e Dāwūd, Yūḥannā ibn Māsawayh, tutti medici siriaci, e i Banū Mūsā, matematici colti. Ḥunayn ibn Isḥāq ha composto anche diverse opere mediche, in aggiunta al suo esercizio della professione, e qualche libro sulla grammatica e la lessicografia arabe. Ibn Abī Uṣaybi῾a menziona tra i suoi scritti un Kitāb fī 'l-naḥw (Libro dedicato alla grammatica) e un Kitāb fī asmā᾽ al-adwiya 'l-mufrada ῾alā ḥurūf al-mu῾ǧam (Libro sulla classificazione dei nomi dei farmaci semplici). Per comprendere questa imponente produzione, ricordiamo, inoltre, un secondo elemento: l'organizzazione della traduzione e della ricerca in veri e propri gruppi di lavoro. Intorno a Ḥunayn troviamo così tutta una scuola, di cui fanno parte il figlio Isḥāq, il nipote Ḥubayš e ῾Īsā ibn Yaḥyā, oltre ai copisti al-Aḥwal e al-Azraq.

Questo nuovo tipo di traduttore, come si vede, non si distingue solamente per l'esigenza di formazione linguistica e scientifica cui risponde, ma anche per i nuovi compiti che gli competono, ossia la ricerca tanto nell'ambito dell'arabo scientifico quanto in quello della scienza. Una trasformazione lenta e graduale, con l'avanzare del secolo, viene d'altronde a confermare quanto era in germe già all'epoca di Ḥunayn ibn Isḥāq: quella da traduttore-dotto a dotto-traduttore. È la distanza che separa Ḥunayn da Ṯābit ibn Qurra.

Terza fase: dal traduttore-dotto al dotto-traduttore

Ṯābit ibn Qurra è uno dei più grandi matematici non solo dell'Islam ma di tutti i tempi. Inizia la sua vita come agente di cambio; la sua lingua materna è il siriaco e perfeziona il greco e l'arabo abbastanza da tradurre l'astronomia, la matematica e la filosofia. È in ogni caso per i suoi talenti e le sue conoscenze linguistiche che Muḥammad ibn Mūsā, di ritorno da una missione di ricerca di manoscritti nell'Impero bizantino, lo 'scopre' nel suo paese natale, Ḥarrān (o in un villaggio dei dintorni, Kafr Tūṯa), e lo porta con sé a Baghdad. Accolto da Muḥammad ibn Mūsā nella propria casa, riceve una formazione matematica sotto l'egida dei tre fratelli, e soprattutto del cadetto, matematico geniale, al-Ḥasan. Una volta compiuta la sua formazione, Ṯābit ibn Qurra traduce un numero considerevole di trattati matematici greci, tra cui Della sfera e del cilindro di Archimede, gli ultimi tre libri (oggi perduti in greco) delle Coniche di Apollonio e l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa. Realizza anche la revisione di numerose traduzioni, tra le quali citiamo gli Elementi di Euclide e l'Almagesto di Tolomeo. Ṯābit ibn Qurra compone infine numerose opere di astronomia e matematica, di importanza tale da relegare praticamente in secondo piano la sua opera, pur capitale, di traduttore.

Fra il traduttore-dotto come Ḥunayn e il dotto-traduttore come Ṯābit ibn Qurra si colloca tutta una categoria per così dire intermedia, composta da eminenti traduttori in possesso di una solida formazione scientifica: il figlio stesso di Ḥunayn, Isḥāq ibn Ḥunayn (m. 911), e Qusṭā ibn Lūqā (m. all'inizio del X sec.), tra molti altri. A ogni modo, con questa nuova fase si osserva un cambiamento delle esigenze di formazione e dei criteri stessi che presiedono alla traduzione e un rafforzamento maggiore dei rapporti con la ricerca scientifica e filosofica. Tutti fattori che hanno generato, come abbiamo notato con Ṯābit, un'attività sconosciuta in precedenza: la revisione delle traduzioni antiche o di quelle fatte da un non specialista.

Traduzione e ricerca: una dialettica multiforme

Trascurare la ricerca scientifica e filosofica vuol dire condannarsi a non comprendere affatto il movimento di traduzione dal greco all'arabo. È essa infatti che spiega la scelta dei libri tradotti e ne dirige l'evoluzione. Questa affermazione non discende da un postulato, né è un'intuizione eidetica dell'atto di tradurre; si tratta piuttosto di una constatazione di tipo storico. Prenderemo dunque alcuni esempi da diversi campi, per illustrare ed esplicitare questa dialettica della ricerca e della traduzione, rivolgendoci principalmente all'ottica, alla geometria e all'aritmetica.

Concomitanza e superamento: il caso dell'ottica e della catottrica

Cominciamo in modo del tutto empirico, elencando i titoli delle principali opere ottiche e catottriche greche tradotte in arabo e i loro traduttori.

a) L'Ottica di Euclide, tradotta almeno due volte in arabo; una volta prima della metà del IX secolo. Al-Kindī ne fa un commento critico a partire dalle proprie ricerche di ottica.

b) L'Ottica di Tolomeo. Il testo greco è perduto; la traduzione araba, che molto probabilmente non è stata realizzata prima della fine del IX sec., è anch'essa perduta. Resta soltanto la traduzione latina compiuta da Eugenio di Sicilia. A partire dai documenti oggi disponibili, sembra che quest'opera, e in particolare il Libro V sulla rifrazione, sia intervenuta molto tardi, durante il X sec., nello sviluppo dell'ottica (in particolare nelle ricerche di al-῾Alā᾽ ibn Sahl).

c) La Catottrica attribuita a Euclide. Abbiamo mostrato che ne esistono tracce in arabo, in particolare in un libro del IX sec. composto da Qusṭā ibn Lūqā.

d) Gli Specchi ustori di Diocle di cui soltanto due proposizioni sono state citate da Eutocio. Il libro è perduto in greco e ci resta solamente la versione araba, relativamente antica a giudicare dal vocabolario.

e) Gli Specchi ustori (i Paradossi meccanici) di Antemio di Tralle. Il testo greco conservato è incompleto. Esso è stato tradotto due o forse tre volte in arabo; la prima volta prima della metà del IX sec., la seconda più tardi; almeno una delle versioni arabe sembra completa.

f) Gli Specchi ustori e i compendi delle Coniche. Si tratta della traduzione araba di un libro greco perduto, di un certo Dtrūms, secondo la trascrizione araba, personaggio che non è stato ancora identificato.

g) Il Frammento di Bobbio sugli specchi ustori. Non resta nessuna traccia di questo testo in arabo.

A ciò si aggiungono alcuni titoli di minore importanza, come la Catottrica di Erone di Alessandria, di cui restano alcuni frammenti in arabo in una traduzione antica.

Questo è dunque l'insieme dei testi di ottica e catottrica, rispetto al quale s'impongono immediatamente alcune conclusioni. L'essenziale dei lavori greci era conosciuto e tradotto in arabo, in alcuni casi più di una volta (in altre parole la traduzione era imponente e multipla); diversi trattati sono stati tradotti in arabo prima della metà del IX sec.; infine, non solo essi sono stati studiati, ma sono stati sottoposti a una critica scientifica fin dalla metà dello stesso secolo. Al-Kindī, per esempio, critica in modo minuzioso e dettagliato tanto l'Ottica di Euclide quanto il libro di Antemio di Tralle.

Non bisogna credere che le traduzioni si siano succedute nell'ordine esposto sopra: abbiamo infatti seguito l'ordine della ricerca. Prima di tornare su questo punto, però, cominciamo con il notare la differenza tra le due fasi della traduzione, per portarne alla luce i criteri.

Useremo come esempio Antemio di Tralle, la cui prima traduzione dei Paradossi meccanici è stata compiuta, lo sappiamo con certezza, prima della metà del IX sec., nello stesso momento, sembra, in cui fu intrapresa una ricerca araba sugli specchi ustori. I lavori di al-Kindī e di Qusṭā ibn Lūqā in questo campo non lasciano alcun dubbio al proposito. All'esame dettagliato di questa traduzione si constata che essa è letterale e ha un vocabolario arcaico, abbandonato già dallo stesso al-Kindī. La seconda traduzione ha tratto profitto dalla ricerca compiuta, non solo optando per un lessico più esatto e più appropriato, ma anche migliorando la sintassi, ottenendo così un testo più leggibile.

Questa differenza tra i due tipi di traduzione non è passata inosservata all'epoca, anche se la sua dimensione storica sfuggiva. Non è affatto un caso, infatti, che nel IX sec., e più tardi, sia stata sollevata la questione dei differenti stili di traduzione. Al-Kindī ne discute e ne tratta anche il letterato e filosofo al-Ǧāḥiẓ, suo contemporaneo. Basti qui riportare le parole di al-Kindī rivolte a un corrispondente che non comprendeva la descrizione di uno strumento fatta da Tolomeo, nel Libro V dell'Almagesto:

Mi hai chiesto, o fratello colmo di lodi, di descriverti lo strumento che Tolomeo ha menzionato all'inizio del Libro V dell'Almagesto, quando hai concepito dei dubbi sulla descrizione da lui fatta di questo strumento e del suo uso. Ora i tuoi dubbi non dipendono da un difetto della sua esposizione, ma dalla difficoltà dell'ordinamento delle sue parole, poiché quest'uomo di linguaggio elevato è lungi dall'osservare le consuetudini della maggioranza nell'uso delle parole; sicché l'accesso all'ordinamento delle sue parole è difficile, benché i significati ne siano chiari per coloro che si incaricano di tradurre i suoi libri dal greco in arabo, poiché la difficoltà dell'ordinamento delle parole è diventata la ragione della difficoltà della loro comprensione per il traduttore. Così, per timore di invocare le proprie opinioni invece del significato delle sue parole, e di farsi indurre in errore sulla loro vera essenza, [i traduttori] si sono limitati a riprodurre lo stesso ordinamento in arabo, e hanno scritto, al posto di ogni parola, ciò che essa vuol dire in arabo, successivamente.

I traduttori hanno riflettuto a lungo su ciò che hanno ottenuto da questo libro, hanno cercato e portato alla luce i suoi significati per liberarsi dell'errore. Ma, tra quelli che hanno tradotto alcuni di questi libri, non tutti vi sono riusciti, bensì solo i più sicuri e abbastanza abili in greco da non lasciarsi sfuggire due cose insieme, la conoscenza dei significati del libro e l'esattezza delle sue parole. Infatti, colui che si appresta a interpretare il senso di quanto ha tradotto, senza comprendere questo senso, provoca entrambe le cose contemporaneamente: perde i significati e le parole. E, a tal riguardo, ciò è pregiudizievole per chi esamina le loro traduzioni, al fine di cogliere veramente qualche cosa delle opinioni dell'autore del libro.

Invece, se il traduttore gli descrive la parola tale e quale, anche se la sua comprensione è difficile, suscita allora la comprensione del pensiero dell'autore, anche se la si raggiunge a fatica. (Risāla fī ḏāt al-ḥalaq, ff. 56-60)

Questo testo fondamentale ci spiega nel linguaggio dell'epoca cos'era la traduzione dal greco in arabo e ricorda i due stili principali che abbiamo menzionato. Oltre alla difficoltà lessicale, è la difficoltà sintattica che domina, ed entrambe caratterizzano la lingua specializzata, in questo caso quella dell'astronomia. Ci sono in realtà alcuni stili di traduzione: quello del traduttore che procede parola per parola, correndo il rischio di perdere il senso; quello dei traduttori-dotti che cercano anzitutto di cogliere il senso delle nozioni; tra questi, solamente quelli che sono "sicuri e abili in greco" riescono a evitare gli errori. In mancanza di questa competenza (quella di Ḥunayn, di Isḥāq, ecc.), al-Kindī preferisce la traduzione parola per parola.

Il significato storico di queste riflessioni è chiaro, anche se non è segnalato da al-Kindī: il primo tipo di traduzione è spesso stato realizzato per rispondere ai bisogni di una ricerca ai suoi inizi, mentre il secondo è generalmente legato a una ricerca già avanzata. Un esempio di questo caso è dato dagli studi di al-Kindī e del suo contemporaneo Ibn Lūqā, nel campo della catottrica. In possesso della prima versione araba dei Paradossi meccanici, al-Kindī scrive un intero trattato sugli specchi ustori, dove si trovano non solo una critica delle numerose ingenuità del testo di Antemio, ma anche una grande quantità di nuovi risultati. Pure Ibn Lūqā intraprende una ricerca di catottrica e redige un trattato sugli specchi ustori; nello stesso periodo, viene tradotta in arabo la maggior parte dei trattati sugli specchi, come mostra uno studio attento del vocabolario. Il progresso della ricerca compiuta da al-Kindī, e in seguito da altri, porta a un risultato in parte paradossale: da un lato, esso induce a rifare la traduzione, migliorandola, dei Paradossi meccanici, che verrà usata dai successori di al-Kindī, come Ibn ῾Īsā (un autore di secondo piano); dall'altro lato, esso spinge a ridurre al solo valore storico il ruolo dei testi greci tradotti. Se all'inizio del X sec. un ῾Uṭārid e un Ibn ῾Īsā si interessano ancora a essi, alla fine del secolo, nell'opera di Ibn Sahl, o in quella dei suoi contemporanei e successori, non ne resta più che un pallido ricordo.

Gli specchi ustori non rappresentano tuttavia che un capitolo dell'ottica greca. Vi figurano anche l'ottica propriamente detta, ossia lo studio geometrico della prospettiva e delle sue illusioni ottiche; la catottrica, cioè lo studio geometrico della riflessione dei raggi visivi sugli specchi; l'ottica meteorologica, in cui si esaminano fenomeni atmosferici come l'alone o l'arcobaleno, ecc. Sono questi capitoli che al-Fārābī ricorda nel suo Iḥṣā᾽ al-῾ulūm, ai quali bisogna ancora aggiungere le dottrine della visione che costellano i lavori di medicina e le opere dei filosofi. Ora, in tutti questi campi, la trasmissione dell'eredità greca si è svolta secondo il modello già analizzato per gli specchi ustori.

Le ricerche storiche non sono ancora in grado di dirci quali erano le nozioni ottiche trasmesse prima della fine dell'VIII sec. dalla pratica medica. Assistiamo invece in questo periodo e durante la prima metà del IX sec. a una ricerca oftalmologica da parte di medici come Ǧibrīl ibn Baḫtīšū῾ (m. 828-829) e più tardi Yūḥannā ibn Māsawayh. Tale ricerca era in ogni caso oggetto di un interesse tale da indurre Ḥunayn ibn Isḥāq a comporre per la comunità medica un compendio degli scritti di Galeno sull'anatomia e la fisiologia dell'occhio e a tradurre anche il trattato pseudogalenico Sull'anatomia dell'occhio. Occorre chiedersi se, come sembra plausibile, la ricerca e la pratica oftalmologica abbiano stimolato lo studio dell'ottica e della catottrica. Di sicuro in quest'epoca viene tradotta la maggior parte delle principali opere greche ‒ quelle di Euclide, Teone ed Erone ‒ di ottica e catottrica (l'Ottica di Tolomeo, con molta probabilità, ha dovuto attendere la fine del secolo). Se, dunque, l'ottica araba è erede esclusivamente di quella greca, la sua storia è comunque quella di una posizione di critica e di correzione.

Alla metà del IX sec., fatto significativo, l'Ottica di Euclide era non solo disponibile, ma già oggetto di rettifica. Oggi sappiamo che in quel periodo non vi era un'unica traduzione di tale opera, ma ben due. Una è stata trasmessa in diversi manoscritti e si allontana spesso dal testo proposto dalle due versioni greche finora conosciute in alcuni passaggi fondamentali, come quello delle definizioni liminari. Questa traduzione araba sarà commentata nel XIII sec. da due matematici Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī e Ibn Abī Ǧarāda. La seconda traduzione è antica almeno quanto la prima, poiché si tratta di quella usata da al-Kindī verso la metà del IX secolo. La scoperta di questa versione ha profondamente modificato la nostra conoscenza della storia testuale dell'Ottica di Euclide, delineata da J.L. Heiberg, il quale distingueva tra l'Optica genuina (Vind. phil. gr. 103) e la redazione da lui denominata 'di Teone', il cui più antico manoscritto è il Vat. gr. 204. Ultimamente questa tesi è stata criticata ed è stato affermato che il testo da Heiberg attribuito a Teone sarebbe quello di Euclide, mentre l'Optica genuina ne costituirebbe uno sviluppo tardo. Ora l'esame delle due versioni arabe ci permette di superare questa alternativa e di mostrare che non c'erano solo due tradizioni testuali dell'Ottica di Euclide, ma ben quattro indipendenti a due a due, nessuna delle quali ha conservato da sola la versione corretta del testo di Euclide.

Al-Kindī scrive il primo commento critico dell'Ottica di Euclide di cui si abbia conoscenza, il cui titolo esprime nel modo più chiaro l'intenzione dell'autore: Fī taqwīm al-ḫaṭa wa-'l-muškilāt allatī li-Uqlīdis fī 'l-Manāẓir (Sulla rettifica degli errori e delle difficoltà riscontrabili nell'Ottica di Euclide). Il testo era preceduto da un altro, sempre del medesimo autore, intitolato Kitāb fī iḫtilāf al-manāẓir (Sulla diversità delle prospettive), il quale, perduto in arabo, era stato tradotto in latino Liber de causis diversitatum aspectus (De aspectibus). La prima parte dell'opera è destinata a giustificare la propagazione rettilinea dei raggi luminosi per mezzo di considerazioni geometriche sulle ombre e sul passaggio della luce attraverso le fenditure; al-Kindī sviluppa così delle osservazioni del prologo alla seconda versione dell'Ottica di Euclide, attribuito da Heiberg a Teone. Ora, poco importa in questa sede che tale attribuzione sia fondata o meno, mentre è interessante sottolineare che verso la metà del IX sec. almeno il prologo, se non la versione stessa, era conosciuto in arabo. Nella seconda parte al-Kindī riprende le principali dottrine della visione conosciute dall'Antichità dimostrando di essere informato delle teorie sulla visione dei suoi predecessori, fra le quali adotta, con alcune modifiche, quella dell'emissione. Nell'ultima parte egli studia il fenomeno della riflessione e definisce l'uguaglianza degli angoli formati dal raggio incidente e dal raggio riflesso con la normale dello specchio nel punto di incidenza. La sua dimostrazione non è solo geometrica, ma ricorre anche a una 'verifica sperimentale' compiuta in un linguaggio tradizionale, di cui si individuano le tracce nel prologo dell'Ottica attribuita a Teone, e che sarà ripensato radicalmente all'inizio dell'XI sec. da Ibn al-Hayṯam.

Questo richiamo rapido e succinto al contenuto del De aspectibus intende mostrare tanto il tipo di ricerca condotta nel campo dell'ottica alla metà del secolo, quanto la distanza che lo separa dall'ottica euclidea intesa in senso stretto e che costituisce lo sfondo della ricezione di quest'ultima. Infatti è solo dopo aver composto il De aspectibus che al-Kindī scrive il suo commento critico all'Ottica di Euclide. Quest'ordine spiega, almeno in parte, il senso assunto dal commento critico, dove l'autore esamina le definizioni e le proposizioni di Euclide una di seguito all'altra alla luce dei suoi risultati, integra le critiche che aveva già rivolto a Euclide nel corso dell'elaborazione del suo libro, rettifica ciò che gli sembra inesatto, propone altre dimostrazioni che gli appaiono migliori e tenta di esibire, infine, secondo le proprie forze, le idee soggiacenti.

I lavori ottici di al-Kindī, come quelli sugli specchi ustori, sono un caso esemplare di questa concomitanza fra ricerca e traduzione dell'eredità greca. Essi mostrano inoltre che è impossibile ricostituire non solo la tradizione concettuale dell'Ottica, ma anche la sua tradizione testuale, senza lo studio approfondito delle versioni arabe.

Nel IX sec. esistono altri esempi simili a quello di al-Kindī: Qusṭā ibn Lūqā, uno dei suoi collaboratori e colleghi, si interessa all'ottica e alla catottrica, e compone a sua volta, intorno agli anni Settanta dello stesso secolo, un libro intitolato Kitāb ῾Ilal mā ya῾riḍu fī 'l-marāyā 'l-muḥriqa min iḫtilāf al-manāẓir (Sulle cause della diversità di prospettiva che si produce negli specchi). Un attento esame di questo testo mostra che l'autore conosceva non solo l'Ottica di Euclide, ma anche la Catottrica a lui attribuita. Nel capitolo 10 Ibn Lūqā sembra utilizzare la prop. 1 della Catottrica; mentre nel capitolo 22 si possono identificare tracce delle propp. 7, 16 e 19, e in quello seguente si riconosce la prop. 21; infine nel 28 ritroviamo la prop. 5. Questi accostamenti, se non attestano che Ibn Lūqā aveva fra le mani una versione araba della Catottrica, suggeriscono con forza che egli aveva accesso a una fonte, attualmente sconosciuta, che riprendeva certe proposizioni di quel libro.

Il secondo importante trattato lasciatoci dall'ottica greca è quello di Tolomeo. Siamo purtroppo privi di qualsiasi informazione riguardo alle date e al contesto della sua traduzione, oggi perduta. Recentemente, è sembrato di poter riconoscere nel De aspectibus di al-Kindī diversi passaggi "che si ispirano in modo evidente alle esposizioni che si trovano nella versione di Eugenio" (Lejeune 1956, p. 29), ossia la traduzione latina dall'arabo, identificando così in al-Kindī un terminus ante quem per la traduzione araba. Questa posizione ci sembra inesatta, poiché, come abbiamo mostrato, il contenuto del De aspectibus è giustificabile anche solo sulla base del prologo alla redazione attribuita a Teone. La prima testimonianza a noi nota attualmente della traduzione araba dell'Ottica di Tolomeo è assai tarda, della fine del X sec.: si tratta di al-῾Alā᾽ ibn Sahl. Su questa base, procedendo per congetture, si può ipotizzare che questa traduzione sia stata realizzata alla fine del IX sec. o all'inizio del X. È probabile che si sia avvertita la necessità di tradurre quest'opera quando la ricerca sulla rifrazione si era sviluppata tanto in ottica quanto in catottrica per le lenti, come provano appunto i lavori di Ibn Sahl, il quale, non a caso, era stato attratto proprio dal Libro V di Tolomeo. Ma fino a quando ignoreremo la data della traduzione, qualsiasi affermazione, a cominciare dalla nostra, resta una congettura. È invece certo che il progresso dell'ottica araba, con Ibn Sahl e soprattutto con Ibn al-Hayṯam (m. dopo il 1040), ha ridotto queste traduzioni al loro interesse storico e non ne ha potuto impedire, spesso, un certo naufragio testuale.

Con l'ottica geometrica abbiamo visto in che modo si articolano le fasi del movimento di traduzione. Benché facilmente individuabili, queste fasi si moltiplicano e si sovrappongono. Abbiamo notato inoltre un certo tipo di traduzione, per così dire in medias res, direttamente legata alla ricerca, della quale segue l'evoluzione: Antemio ed Euclide vengono tradotti 'in fase' con le ricerche di al-Kindī, di Qusṭā ibn Lūqā e di altri, i cui studi, a loro volta, spingono a riprendere le precedenti traduzioni. Quanto alla traduzione dell'opera di Tolomeo, tutto suggerisce che fu necessario attendere che entrasse in scena lo studio della rifrazione.

Traduzione e lettura ricorrente: il caso Diofanto

Ci interesseremo ora a un altro tipo di traduzione, che si distingue dal precedente nella misura in cui non è concomitante alla ricerca, ma le succede dopo un certo intervallo e scaturisce proprio dalla necessità di arricchire una ricerca già avviata, attiva e prospera. La traduzione è in questo caso equivalente a un recupero controllato di un testo antico, che sarà riattivato e, in certo modo, reinterpretato in un senso che non era inizialmente il suo, senza una revisione o una seconda traduzione. L'Aritmetica di Diofanto offre l'illustrazione ideale di questo tipo di traduzione.

Diofanto di Alessandria, forse del II sec. (ma non abbiamo nessuna certezza al riguardo), ha composto una summa aritmetica in tredici libri, probabilmente secondo il modello degli Elementi di Euclide. L'intenzione di Diofanto è chiaramente enunciata nella prefazione al Libro I: costruire una teoria aritmetica (arithmētikḕ theōría), i cui elementi sono gli interi considerati come pluralità di unità (monádōn plẽthos) e le parti frazionarie come frazioni di grandezze. Questi elementi costitutivi della teoria non sono solo presenti "in persona", ma anche come specie dei numeri. Il termine eĩdos, tradotto in arabo con naw῾ e più tardi in latino con species, non si riduce affatto al senso di "potenza dell'incognita". Nell'Aritmetica questa nozione copre anche e indifferentemente la pluralità indeterminata e la potenza di un numero di una pluralità qualunque, cioè provvisoriamente indeterminata. Quest'ultimo numero è il numero "non detto" (álogos arithmós). Per intendere meglio questa nozione di specie, bisogna ricordare che Diofanto parla di tre specie: quella del numero lineare, quella del numero piano e quella del numero solido. Queste specie generano tutte le altre, che devono, al limite, prendere i loro nomi. Così il quadroquadrato e il cuboquadrato sono dei quadrati; il cubo del cubo è un cubo. In altri termini, le specie generate non possono esserlo che per composizione e la potenza di ciascuna è necessariamente un multiplo di 2 o di 3. Nell'Aritmetica non c'è, per esempio, una settima potenza, né una quinta potenza negli enunciati dei problemi; insomma, la nozione di polinomio è del tutto assente. La composizione dell'opera di Diofanto è dunque chiara: si tratta di combinare tra loro delle specie, a certe condizioni, per mezzo di operazioni dell'aritmetica elementare. Risolvere un problema vuol dire tentare di procedere per ogni caso "finché non resta una specie da una parte e dall'altra" (IV, p. 103). L'Aritmetica di Diofanto non è un libro di algebra, contrariamente a quanto si legge spesso, ma un vero e proprio trattato di aritmetica in cui si cercano, per esempio, due numeri quadrati la cui somma sia un quadrato dato.

La seconda spiegazione che si impone riguarda un'opera composta all'epoca del califfo al-Ma᾽mūn: il Kitāb al-Ǧabr wa-'l-muqābala (Libro dell'algebra) di al-Ḫwārizmī, che per la prima volta concepisce l'algebra come disciplina autonoma. Al-Ḫwārizmī, dopo aver definito i termini primitivi e le operazioni, studia le equazioni algebriche di primo e secondo grado, i binomi e i trinomi associati, l'applicazione dei procedimenti algebrici ai numeri e alle grandezze geometriche, poi conclude il suo libro con problemi indeterminati di primo grado. Questi problemi sono posti nei termini dell'algebra e risolti per mezzo dei suoi concetti. I successori di al-Ḫwārizmī, e in particolare Abū Kāmil, hanno proseguito la ricerca sul capitolo dell'analisi indeterminata come parte integrante dell'algebra. È nel corso di questa ricerca che Qusṭā ibn Lūqā ha tradotto sette dei tredici libri dell'Aritmetica: i primi tre corrispondono ai primi tre libri della versione greca; i quattro successivi sono andati perduti nella lingua originale; mentre i Libri IV, V e VI della versione greca non sembrano essere stati tradotti in arabo.

Queste due spiegazioni preliminari permettono di porre più precisamente il problema della traduzione dell'Aritmetica: da una parte siamo in presenza di una disciplina non ellenistica, costituita da mezzo secolo, di cui un capitolo riguarda l'analisi indeterminata; dall'altra, abbiamo un libro l'Aritmetica ‒ che tratta di problemi che, una volta tradotti nei termini di questa nuova disciplina, ne diverranno parte. Tuttavia, questa interpretazione non era alla portata di un traduttore qualsiasi. Qusṭā ibn Lūqā, il traduttore dell'Aritmetica, aveva intuito l'utilità del libro di Diofanto per la ricerca nella nuova disciplina, e in particolare per il capitolo sull'analisi indeterminata. Fu lui a compiere la prima lettura algebrica ‒ e anacronistica dell'Aritmetica. Si immaginano facilmente gli effetti di questa lettura sulla ricerca, ma anche sulla traduzione.

Qusṭā ibn Lūqā era un greco, cristiano di Baalbek, che, secondo al-Nadīm, traduceva bene e padroneggiava il greco, il siriaco e l'arabo. Sempre secondo i biobibliografi antichi, intorno all'860, fu chiamato nella capitale, Baghdad, per partecipare al movimento di traduzione dell'eredità greca. Apparteneva dunque a quella generazione di traduttori di epoca un po' più tarda che, per eredità e formazione, era in possesso di una terminologia già elaborata e perfezionata in numerosi campi (tra i lessici, va segnalato quello dell'algebra). Faceva parte inoltre di quella categoria di professionisti, i traduttori-dotti, esperti nelle diverse discipline scientifiche, che disponevano quindi dei mezzi per penetrare il senso delle opere che traducevano. I titoli delle opere tradotte da Qusṭā e a noi pervenute rivelano un largo spettro di competenze: la 'piccola astronomia' (I tramonti eliaci di Autolico; Sulle case, Sui giorni e le notti e le Sferiche di Teodosio; Sulle grandezze e distanze del sole e della luna di Aristarco); la Meccanica di Erone di Alessandria; Della sfera e del cilindro di Archimede; il commento di Alessandro al De generatione et corruptione e una parte del suo commento alla Fisica di Aristotele; infine i Libri XIV-XV di Ipsicle, entrambi aggiunti agli Elementi di Euclide. Si tratta di opere di matematica e di filosofia, campi nei quali Qusṭā ha inoltre composto i suoi scritti.

È dunque con tutte le competenze che ci si attende da un traduttore-dotto che Qusṭā ibn Lūqā ha affrontato l'Aritmetica intorno agli anni Settanta del IX secolo. La sua traduzione si caratterizza per un'aperta impostazione algebrica, come se Diofanto fosse il successore di al-Ḫwārizmī e parlasse la lingua di quest'ultimo. È infatti dal lessico di al-Ḫwārizmī che Qusṭā ha attinto per rendere in arabo gli enti matematici e le operazioni. Una scelta lessicale che riflette la posizione interpretativa del traduttore che considera l'Aritmetica un'opera di algebra; una posizione destinata a resistere a lungo, tanto da ritrovarla in Thomas Heath (1885) e persino in studiosi contemporanei.

La scelta di Ibn Lūqā si rivela fin dalla traduzione del titolo dell'opera. Invece di Problemi aritmetici (problḗmata arithmētiká, che incontriamo del resto nei colophon di alcuni libri, al-Masā᾽il al-῾adadiyya), troviamo come titolo Fī ṣinā῾at al-ǧabr (L'arte dell'algebra). I termini primitivi sono anch'essi tradotti con quelli usati dagli algebristi, nonostante la differenza semantica irriducibile. L'espressione álogos arithmós, concetto chiave della teoria aritmetica di Diofanto, che designa il numero provvisoriamente indeterminato che sarà necessariamente determinato alla fine della soluzione ‒ concetto che ha messo in difficoltà i traduttori moderni come Ver Eecke, che lo rende con "aritmo" ‒ è stato così tradotto da Ibn Lūqā con il termine "cosa" (res), cioè "l'incognita" degli algebristi. Le potenze successive di questo ente ‒ dýnamis, kýbos, ecc. ‒ sono ugualmente rese con i termini degli algebristi: māl (quadrato), ka῾b (cubo), ecc. Ma soprattutto, Ibn Lūqā traduce il termine pleurá con la parola araba ǧiḏr (radice del quadrato), allontanandosi così dall'uso di Diofanto.

Anche le operazioni sono algebrizzate. Così, quando Diofanto formula la prima operazione: "sommare le specie sottratte da una parte e dall'altra dei due membri [prostheĩnai tà leíponta eídē en amphotérois toĩs méresin]", Ibn Lūqā traduce con un solo sostantivo, al-ǧabr, la parola stessa da cui è stato derivato il nome della disciplina. Ugualmente, quando Diofanto scrive: "sottrarre il simile dal simile [apheleĩn tà hómoia apò tõn homoíōn]", Ibn Lūqā rende la formula con una sola parola, quella con cui gli algebristi designano questa operazione: al-muqābala. Proseguendo l'esame, si giunge alla conclusione che questa scelta di algebrizzazione è deliberata e sistematica.

Tale scelta, però, non poteva coprire tutto il vocabolario di Diofanto. Ibn Lūqā doveva inevitabilmente inventare nuovi termini ed espressioni, se non altro per rendere i termini propri con i quali Diofanto designava certi metodi di soluzione. Egli dunque forgiò i propri termini, come quando traduce hē diplẽ isótēs, concetto caro a Diofanto, con al-musāwāt al-muṯannā (la doppia uguaglianza), ritrovando così con questa espressione l'approccio semantico del matematico greco. Infine, per tradurre le espressioni di origine filosofica impiegate da Diofanto, come génos, eĩdos, oikeĩon, phýsis, méthodos, Ibn Lūqā, egli stesso traduttore di testi filosofici, attinge al lessico già canonico di questa disciplina.

L'Aritmetica di Diofanto è dunque stata tradotta alla luce dell'Algebra di al-Ḫwārizmī. Questa traduzione si distingue nettamente da quella degli scritti sugli specchi ustori e sull'ottica, ma anche dalla traduzione degli Elementi di Euclide o dell'Almagesto di Tolomeo. Resta il problema di sapere quali siano le ragioni di tale traduzione, e quali quelle che hanno spinto il traduttore alla sua scelta. Comprenderemmo allora forse meglio la trasmissione di questa parte dell'eredità greca.

Per rispondere alla domanda è utile esaminare il destino di questa traduzione. Le prime ricerche in arabo sull'analisi indeterminata (chiamata oggi analisi diofantea) sono state intraprese, secondo ogni probabilità, immediatamente dopo al-Ḫwārizmī. Abbiamo già osservato che, nell'ultima parte del suo libro di algebra, al-Ḫwārizmī affronta alcuni problemi indeterminati; tuttavia niente indica che egli si sia interessato alle equazioni indeterminate per sé stesse e, in ogni caso, nella sua opera l'analisi indeterminata non appare in quanto tale. Essa occupa invece un posto importante nel libro di Abū Kāmil, scritto verso l'880, dal quale è possibile desumere che l'autore non era né il primo né il solo successore di al-Ḫwārizmī a essersi occupato attivamente di equazioni indeterminate: l'alto livello, il richiamare altri matematici che hanno lavorato in questo campo dopo al-Ḫwārizmī (e i cui scritti sono attualmente perduti), il riferimento, infine, alla loro terminologia propria, non lasciano infatti alcun dubbio.

L'ambiente che poteva interessarsi all'Aritmetica di Diofanto si era dunque costituito nel corso di mezzo secolo. D'altra parte, letta alla luce della nuova algebra, come aveva fatto Ibn Lūqā, l'Aritmetica trovò immediatamente il suo posto tra i lavori allora in corso sull'analisi indeterminata. Essa arrivò a comunicare un vero impulso allo sviluppo di questo capitolo, che fu indicato in seguito come fī 'l-istiqrā᾽. Vediamo quindi che l'impatto dell'Aritmetica di Diofanto sugli algebristi arabi è più dell'ordine dell'estensione che dell'innovazione.

La traduzione come vettore della ricerca: il progetto Apollonio

Finora sono stati esaminati due tipi di traduzione: quella concomitante alla ricerca, sul suo stesso terreno, e quella che segue la ricerca a una certa distanza e finisce per integrare l'opera tradotta con una tradizione inizialmente differente. Abbiamo inoltre tre stili: quello del dilettante, quello del professionista e quello del dotto, sempre più dominante con l'avanzare del IX secolo. Questi tipi e questi stili, però, non sono i soli: capita anche che la traduzione sia provocata non da una sola attività di ricerca, ma da tutta una varietà, tra cui alcune non direttamente riconducibili al campo dell'opera tradotta. L'opera viene allora tradotta per proseguire la ricerca cui essa appartiene insieme a quella di altre discipline costituite o in corso di costituzione. Troviamo un'illustrazione esemplare di tale schema nella traduzione delle Coniche di Apollonio.

Lo studio delle sezioni coniche rappresenta la parte avanzata della ricerca geometrica greca. Le Coniche di Apollonio sono state considerate come l'opera matematica più difficile ereditata dall'Antichità. Esse comprendono la summa delle conoscenze sulle curve coniche prodotte in geometria a partire da Euclide, Aristeo il Vecchio, ecc., che Apollonio ha arricchito con il suo apporto magistrale, in particolare negli ultimi tre libri. Questo trattato resterà il più completo su tale tema almeno fino al XVIII secolo. Composto inizialmente di otto libri, non ne restano che sette: l'ottavo è infatti andato perduto assai presto, forse prima di Pappo, nel IV secolo. I primi sette sono sopravvissuti nella traduzione araba, mentre il testo greco disponibile è l'edizione curata da Eutocio nel VI sec. e comprende solamente i primi quattro libri.

Ricordiamo d'altra parte che all'inizio della seconda metà del IX sec. i matematici trattavano problemi che richiedevano l'intervento delle sezioni coniche, come quelli posti in astronomia, in ottica (gli specchi parabolici, ellissoidali e conici); la determinazione delle aree e dei volumi delle superfici e dei solidi curvi, ecc. È sufficiente leggere la lista delle opere di al-Kindī, di al-Marwarrūḏī, di al-Farġānī e dei Banū Mūsā per convincersene. Al-Farġānī fece un tale ricorso alle sezioni coniche da dare la prima presentazione dimostrativa della teoria delle proiezioni stereografiche, necessaria a quella dell'astrolabio. Ancora più importante è una tendenza della ricerca che emerge in quest'epoca e che si affermerà progressivamente durante tutto il secolo: a partire dai Banū Mūsā ci si interessa simultaneamente alla geometria delle coniche e alla misura delle superfici e dei volumi curvi. Così il cadetto dei tre fratelli Banū Mūsā, al-Ḥasan, scrive un trattato di importanza capitale sulla generazione delle sezioni ellittiche e sulla misura delle loro aree. Al-Ḥasan elaborò una teoria dell'ellisse e delle sezioni ellittiche che seguiva un metodo diverso da quello di Apollonio (il metodo bifocale). Egli considera così le proprietà dell'ellisse come sezione piana di un cilindro, nonché le differenti specie di sezioni ellittiche. Secondo la testimonianza dei suoi fratelli, al-Ḥasan compose il libro senza conoscere veramente le Coniche di Apollonio, poiché disponeva solo di una copia lacunosa, che non poteva far tradurre né comprendere. La via che ha seguito conferma del resto, se ce ne fosse bisogno, tale testimonianza.

L'interesse per le Coniche è facilmente comprensibile: non soltanto veniva espresso da più parti il desiderio di vedere l'opera tradotta, ma diventava urgente studiare questo capitolo della geometria. Di conseguenza i Banū Mūsā si misero alla ricerca di una copia traducibile dell'opera di Apollonio e, dopo la morte di al-Ḥasan, suo fratello Aḥmad scoprì a Damasco una copia dell'edizione di Eutocio dei primi quattro libri: la chiave che aprirà la via alla traduzione dell'opera. Tale impresa non era però alla portata di un traduttore ordinario. Inizialmente si trattò di un lavoro d'équipe, in seguito l'impresa fu affrontata da un dotto-traduttore: Ṯābit ibn Qurra, il quale tradusse gli ultimi tre libri, i più difficili e, secondo l'opinione di Apollonio, i più originali; e, molto probabilmente, partecipò con i due Banū Mūsā ancora in vita ‒ vale a dire Aḥmad e Muḥammad ‒ alla revisione della traduzione nel suo insieme.

L'impresa è stata quindi sicuramente il frutto di un lavoro di gruppo, tanto più che ha coinvolto anche altri traduttori, come Hilāl ibn Hilāl al-Ḥimṣī, ma nella sostanza resta un'opera che, almeno nella fase della revisione, ha visto l'intervento di scienziati in veste di traduttori, i dotti-traduttori. In questo si è dunque distinta sia dalla traduzione ordinaria sia da quella dei traduttori-dotti, poiché, oltre a volgere in arabo uno scritto greco che si comprende e si padroneggia perfettamente, essa possiede un valore euristico preciso: la traduzione dei dotti-traduttori è un autentico strumento di scoperta e di riorganizzazione del sapere. Se essa svolge questo nuovo ruolo è perché, tra tutte le traduzioni, è la più intimamente legata alla ricerca. Per illustrare questa nuova funzione, ritorniamo a Ṯābit ibn Qurra e, per iniziare, al suo libro Kitāb fī quṭū῾ al-usṭūwāna wa-basīṭi-hā (Sulle sezioni del cilindro e sulla sua superficie laterale).

In possesso della traduzione dei sette libri delle Coniche, Ṯābit ibn Qurra la utilizza per elaborare una nuova teoria del cilindro e delle sue sezioni piane, mentre il libro del suo maestro, al-Ḥasan ibn Mūsā, gli fornisce come strumenti le proiezioni e le trasformazioni geometriche. Così egli arriva a considerare la superficie cilindrica come una superficie conica e il cilindro come un cono il cui vertice sarebbe proiettato all'infinito in una direzione data. Seguendo Apollonio, che nelle Coniche aveva prima definito la superficie conica e poi il cono, Ṯābit ibn Qurra inizia definendo la superficie cilindrica e poi il cilindro. Anche per le definizioni segue l'ordine di Apollonio: asse, generatrice, base, cilindro retto od obliquo; lo stesso vale per le prime proposizioni del libro. Le Coniche gli sono dunque servite da modello per elaborare la sua nuova teoria del cilindro, per la quale egli sviluppa anche lo studio delle trasformazioni geometriche.

Il richiamo alla traduzione delle Coniche è così iscritto nella ricerca condotta da al-Ḥasan ibn Mūsā e dal suo allievo Ṯābit ibn Qurra, la quale però non era l'unica a suscitare un interesse per questo testo: Ṯābit e i suoi contemporanei si occupano anche di costruzioni geometriche per mezzo delle coniche (in particolare le due medie e la trisezione dell'angolo); gli astronomi matematici, come al-Farġānī, fanno ricorso alle coniche nello studio delle proiezioni, per teorizzare rigorosamente la figura dell'astrolabio.

Si potrebbe pensare che l'esempio della traduzione delle Coniche sia un caso particolare, a causa del suo elevato livello geometrico. In realtà non è così, poiché lo stesso Ṯābit ibn Qurra ha tradotto anche l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa, un libro di aritmetica neopitagorica, che non era di altissimo livello, ma si iscriveva nell'ambito della sua ricerca. Egli arriva a elaborare con il suo celebre teorema la prima teoria dei numeri amicabili, a partire da un'affermazione, per così dire, descrittiva di Nicomaco. Tuttavia, perché tale ricerca si realizzasse, era necessaria una vasta cultura scientifica, la quale si arricchiva e si estendeva continuamente con il formarsi della comunità scientifica e delle sue istituzioni. E uno dei mezzi di questa formazione era, retroattivamente, la traduzione.

Quest'attività di traduzione del patrimonio greco progrediva non solo in estensione, ma anche, e ancora una volta grazie alla ricerca, in comprensione. Così i criteri della buona traduzione non hanno smesso di evolversi, come dimostra il movimento, anch'esso imponente, di ritraduzione e di revisione dei lavori tradotti. Infatti ritradurre e rivedere erano diventati due tratti distintivi di questo movimento di traduzione dell'eredità greca in arabo. Gli Elementi di Euclide sono così stati oggetto di tre traduzioni, l'ultima delle quali è stata ulteriormente sottoposta a revisione. Lo stesso accadde per l'Almagesto, per certi scritti di Archimede, per alcuni scritti di ottica, ecc. Quanto alla revisione, essa finì per divenire una norma, a partire dal momento in cui al-Kindī rivide alcune traduzioni di Qusṭā ibn Lūqā, e Ṯābit ibn Qurra quelle di Isḥāq ibn Ḥunayn.

Testimonianze antiche sulla dialettica traduzione-ricerca: il caso dell''Almagesto'

Nonostante il carattere altamente tecnico, la traduzione delle Coniche riflette dunque una situazione pressoché generale. Questo esempio è l'illustrazione concreta delle ragioni sottese all'atto di tradurre, quelle che ne hanno provocato il rifacimento e quelle infine che hanno suscitato la revisione della traduzione. A parte qualche piccola differenza, imputabile alla natura propria della disciplina e dei suoi oggetti, così come al grado di apoditticità da essa richiesto, troviamo una situazione analoga tanto per le altre scienze matematiche quanto per l'alchimia e la medicina. Tale è anche la situazione dell'astronomia, per esempio, e tale è il contesto della traduzione dell'opera maggiore dell'astronomia antica: l'Almagesto. A questo proposito, lo scienziato ed erudito del XII sec. Ibn al-Ṣalāḥ ci fornisce una preziosa testimonianza:

Furono realizzate cinque versioni dell'Almagesto, da lingue e da traduzioni diverse: una versione siriaca che era stata tradotta dal greco, una seconda versione tradotta dal greco all'arabo da al-Ḥasan ibn Qurayš per al-Ma᾽mūn, una terza versione tradotta dal greco all'arabo da al-Ḥaǧǧāǧ ibn Yūsuf ibn Maṭar e Hilyā ibn Sarǧūn, sempre per al-Ma᾽mūn, una quarta versione dal greco all'arabo realizzata da Isḥāq ibn Ḥunayn per Abū 'l-Ṣaqr ibn Bulbul ‒ abbiamo l'originale di Isḥāq, scritto di sua mano ‒ e una quinta versione, riveduta da Ṯābit ibn Qurra sulla traduzione di Isḥāq ibn Ḥunayn. (Zur Kritik der Koordinatenüberlieferung im Sternkatalog des Almagest, p. 155)

Nel corso di circa mezzo secolo assistiamo dunque ad almeno tre traduzioni dell'Almagesto, più una revisione da parte di uno dei più prestigiosi matematici e astronomi dell'epoca. Nel IX sec. era tradotta in arabo, tranne qualche eccezione, la biblioteca greca di astronomia. Altrettanto significativo è il fatto che i due decenni del regno di al-Ma᾽mūn abbiano visto produrre due traduzioni dell'Almagesto.

Fatto comprensibile soltanto all'interno della ricerca, quale è descritta da Ḥabaš al-Ḥāsib, eminente astronomo del tempo.

Egli ricorda che, prima di al-Ma᾽mūn, alcuni astronomi avevano formulato dei principî e preteso di aver raggiunto una grande scienza in materia di conoscenza del Sole, della Luna, delle stelle, ma senza aver "proposto su tutto ciò una sola dimostrazione chiara e una deduzione vera" (al-Ziǧ al-dimašqī, f. 70r). Ḥabaš tace sull'identità di questi astronomi e sui loro lavori. Si restò fermi a questa situazione, secondo lui, fino ad al-Ma᾽mūn, quando si procedette alla verifica e alla comparazione delle differenti tavole astronomiche già tradotte in arabo: la tavola astronomica indiana (Zīǧ al-Sindhind), la tavola astronomica di Brahmagupta (Zīǧ al-Arkand), la tavola astronomica del re persiano (Zīǧ al-Šāh), il "canone greco", cioè le Tavole manuali di Tolomeo, e "altri zīǧ". Questa verifica dei risultati delle diverse tavole astronomiche portò alla conclusione che "ciascuno di questi zīǧ è a volte corretto, e a volte si allontana dalla via della verità" (ibidem).

Ḥabaš non precisa chi ha compiuto la prima ricerca,ma sappiamo che quest'attività era iniziata con al-Fazārī eYa῾qūb ibn Ṭāriq, mentre all'epoca di al-Ma᾽mūn i nomi non mancano. A ogni modo, è dopo la verifica, il cui esito era stato negativo, che al-Ma᾽mūn dà ordine a Yaḥyā ibn Abī Manṣūr al-Ḥāsib di "ritornare alla base delle tavole astronomiche e di riunire gli astronomi e i dotti del suo tempo per collaborare alla ricerca dei fondamenti di questa scienza, con l'intenzione di rettificarla, dal momento che Tolomeo ha provato che non è impossibile cogliere ciò che gli astronomi tentano di conoscere" (ibidem). Il matematico e astronomo Yaḥyā ibn Abī Manṣūr al-Ḥāsib fece ciò che al-Ma᾽mūn gli ordinava. Egli e i suoi colleghi optarono allora per l'Almagesto come libro di base e procedettero, a Baghdad, all'osservazione del movimento del Sole e della Luna in momenti diversi. Dopo la morte di Yaḥyā ibn Abī Manṣūr al-Ḥāsib, al-Ma᾽mūn incaricò a Damasco un altro astronomo, Ḫālid ibn ῾Abd al-Malik al-Marwarrūḏī, di procedere alla prima osservazione continua (un anno intero) del movimento del Sole e della Luna. È durante questo periodo di ricerca astronomica attiva che l'Almagesto di Tolomeo viene tradotto due volte. La stessa analisi può essere ripresa per le altre discipline legate all'astronomia, come la ricerca sulle meridiane e la traduzione dell'Analemma di Diodoro, o la geometria sferica e la traduzione della celebre opera di Menelao.

Quest'analisi non solo ci fa comprendere le modalità di tale movimento di traduzione, ma ne fa anche prevedere la fine, nel momento in cui la nuova ricerca supera per risultati e metodi la scienza trasmessa. Per un buon numero di discipline il movimento di traduzione ha infatti termine alla fine del secolo.

In conclusione, la questione della trasmissione dell'eredità greca in arabo resta interamente aperta, malgrado i lavori fondamentali già realizzati in questo campo. Tali lavori si collocano, fatta salva qualche eccezione, sotto una delle seguenti rubriche: filologica, filologico-archeologica, storica. La ricerca filologica si occupa dei problemi lessicali o sintattici sollevati dalla traduzione araba. Lo studio filologico-archeologico cerca di identificare sotto il testo arabo uno scritto greco reale o supposto, partendo dal postulato secondo il quale la diffusione della parola riflette quella del concetto. Quanto alla ricerca storica, essa esamina l'impatto del testo tradotto sulle filosofie dell'Islam classico. Se la filologia e la storia sono necessarie, gli studi sulla traduzione che si richiamano a esse non dispensano tuttavia dalla necessità di scoprire il significato e le ragioni della traduzione e delle scelte operate dai traduttori. Questo compito esigerà, ci sembra, di andare al di là del 'primo filosofo degli Arabi', al-Kindī, e di rivolgersi invece ai teologi-filosofi (al-mutakallimūn) che l'hanno preceduto o sono stati suoi contemporanei. Questi, come mostrano gli esempi di Abū Sahl ibn Nawbaḫt, di Abū 'l-Huḏayl e di al-Naẓẓām, tra tanti altri, andavano in cerca di metafisica, fisica, biologia e logica con spirito altamente critico, per sviluppare il loro discorso deliberatamente razionale. Lo stesso al-Kindī ha trovato negli scritti della tradizione aristotelica del neoplatonismo quella disciplina che fornisce non solo il fondamento di un discorso razionale accettabile per tutti, ma che permette inoltre un ragionamento matematico. È molto probabile che tale ambiente di teologi-filosofi ci fornirà un giorno la chiave per comprendere tanto le ragioni dei primi passi di questo movimento imponente di traduzione filosofica, quanto la scelta che, in esso, ha privilegiato gli scritti della tradizione aristotelica del neoplatonismo.

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