La civiltà islamica: scienze della vita. Zoologia, zoografia e medicina veterinaria

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: scienze della vita. Zoologia, zoografia e medicina veterinaria

Herbert Eisenstein

Zoologia, zoografia e medicina veterinaria

Gli scritti arabi di zoologia e zoografia redatti tra il IX e il XV sec. rivelano l'atteggiamento fondamentalmente pragmatico dell'uomo dell'Islam medievale nei confronti degli animali. È lo stesso Corano a indicarne lo sfondo: gli animali sono stati creati come segno e ammonimento divino ma esistono, essenzialmente, in funzione dell'uomo (Sura XVI). Essi gli sono utili, in primo luogo, come fonte di cibo e di materiali per il vestiario e, in secondo luogo, come mezzi di trasporto e come cavalcature. Utili all'uomo sono considerati soprattutto il cammello e il cavallo ‒ usati come animali da soma e da sella insieme al mulo e all'asino ‒, la pecora, la capra, il bue e il pollame (considerati animali sacrificali); fra questi, al cavallo, il cui ruolo principale è nelle imprese militari, nelle competizioni sportive e nella caccia, è riservato un posto particolare. Animali da caccia, infine, sono i rapaci, il cane (con il quale sussiste un rapporto ambivalente: da una parte esso è un animale utile, dall'altra è ritenuto impuro) e il ghepardo, riservato all'aristocrazia. Sia gli animali domestici sia quelli selvatici erano utilizzati frequentemente anche in medicina nonché nelle pratiche magiche come quelle utili alla formulazione dei pronostici. Gli animali inoltre erano esibiti nelle fiere annuali, tenuti in giardini zoologici e, occasionalmente, anche nelle case private. Alcune specie svolgevano funzioni particolari: i colombi viaggiatori, per esempio, erano usati per trasmettere notizie, gli elefanti erano talvolta impiegati in battaglia.

L'atteggiamento nei confronti degli animali, tuttavia, è ambivalente. A essi è in genere attribuita un'importanza notevole; lo dimostrano gli innumerevoli proverbi e le tante espressioni idiomatiche della lingua araba in cui sono protagonisti.

Nel complesso, tuttavia, l'interesse non si focalizza sull'animale in quanto tale ma, piuttosto, sui vantaggi o sui danni che esso procura. Anche in letteratura, gli scritti che, per diversi aspetti, riguardano gli animali rivelano un'attenzione particolare alla loro utilità per l'uomo. Nel Medioevo arabo-islamico, di conseguenza, non vi è ancora una zoologia scientifica nel senso moderno del termine e si ha invece uno studio degli animali che, pur non essendo privo di spunti più strettamente zoologici, presenta un ricchissimo materiale per lo più in forma zoografica.

Lo statuto scientifico della zoologia nelle classificazioni delle scienze

In alcune delle numerose classificazioni delle scienze elaborate dagli autori arabi, la zoologia figura come scienza autonoma. Nella classificazione dell'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze) di al-Fārābī (m. 339/950), la zoologia, assieme alla psicologia e ad altre scienze naturali, è inclusa nell'ambito della filosofia della Natura. Nell'introduzione al suo Mafātīḥ al-῾ulūm (Le chiavi delle scienze) - che consiste fondamentalmente in un elenco di termini tecnici delle varie discipline dell'epoca - Muḥammad ibn Aḥmad al-ḫwārizmī (m. nel-la seconda metà del X sec., originario di Balkh, nell'attuale Afghanistan) annovera lo studio dei minerali, delle piante e degli animali nell'ambito generale della filosofia e include quindi anch'egli la zoologia fra le scienze 'straniere', ossia fra quelle discipline che, estranee al corpus delle scienze arabo-islamiche, erano state sviluppate da altre culture ed erano state recepite attraverso le traduzioni di testi, soprattutto greci.

Anche nelle Rasā᾽il degli Iḫwān al-Ṣafā᾽ - le Epistole dei Fratelli della purezza, una comunità filosofica di probabile appartenenza ismailita, attiva a Bassora (nell'attuale Iraq), nella seconda metà del X sec. - la zoologia è inclusa tra le scienze filosofiche e, nel loro ambito, tra le scienze della Natura. Agli Iḫwān al-Ṣafā᾽ si deve anche una definizione generale della zoologia come scienza autonoma, intesa come studio del corpo che si nutre, cresce, prova sensazioni e si muove; essi, inoltre, fornirono una dettagliata descrizione dei temi della zoologia, la quale, tuttavia, non sarà ripresa dagli autori dei secoli successivi. Nelle Rasā᾽il, dunque, sono descritti non soltanto i generi e le specie dei vari animali, la loro origine e la differenza tra i sessi, ma anche le specifiche caratteristiche: il loro ambiente, il carattere e i versi, l'accoppiamento, la costruzione del nido o della tana, la cura della prole, l'alimentazione, nonché l'utilità o i danni che possono causare.

In altre classificazioni la zoologia non compare affatto, mentre nelle bibliografie arabe che seguono un ordinamento tematico vi si fa soltanto cenno. Nel Kitāb al-Fihrist (Catalogo) - l''inventario' del libraio Abū 'l-Faraǧ Muḥammad ibn Isḥāq ibn al-Nadīm (m. 380/990, vissuto prevalentemente a Baghdad) ‒ gli scritti dedicati agli animali, fatta eccezione per i trattati di equitazione, di veterinaria e di falconeria, che godono di una loro particolare collocazione, si trovano sparsi tra opere di vario genere. Soltanto alcuni secoli più tardi, nella sua opera bibliografica Kašf al-ẓunūn (Il chiarimento delle incertezze), Muṣṭafā ibn ῾Abd Allāh (1017-1067/1609-1657; noto anche come Ḥāǧǧī Ḫalīfa o, in turco, Kātib Çelebi), un prolifico autore ottomano originario di Istanbul, considera la zoologia come disciplina a sé stante accanto alla veterinaria e alla falconeria, e fornisce una definizione di tale scienza, così come avevano fatto gli Iḫwān al-Ṣafā᾽.

Fonti e testi della zoologia

Poiché quasi non esiste libro arabo in cui, in un modo o nell'altro, non compaiano gli animali, pressoché tutti i generi letterari possono essere di un qualche interesse per comprendere quale fosse la conoscenza zoologica nel mondo arabo medievale. Ciò vale per il Corano e per la letteratura giuridica, per la poesia, per la prosa narrativa, per le storielle popolari e per le favole, nonché per la prosa ornata e per le raccolte di proverbi, dei quali gli animali sono i protagonisti quasi esclusivi. Essi hanno un ruolo di primo piano già nell'antica poesia araba della tradizione preislamica; in essa gli animali utili compaiono in quanto costituiscono una ricchezza oppure perché - come il cavallo e il cammello - sono impiegati nella caccia; anche gli animali del deserto e della steppa figurano nelle poesie che spesso ne forniscono la descrizione, ascrivendo loro precise determinazioni fisiche e caratteriali. Tuttavia, sebbene nella poesia gli autori dimostrino un'esatta conoscenza delle abitudini di numerosi animali, essi attribuiscono loro, in genere, un valore prettamente metaforico; ne è un esempio eloquente il costante paragone tra la bellezza e l'eleganza delle donne e la bellezza e l'eleganza delle gazzelle o delle antilopi.

Nella letteratura di carattere scientifico i richiami agli animali sono alquanto frequenti: per esempio, nella lessicografia, nella storia, nella medicina, nella farmacologia, nei testi di agricoltura e di commercio, nei calendari, negli scritti sull'interpretazione dei sogni e sulla fisiognomica, nei trattati di mineralogia e di botanica, e soprattutto negli scritti di geografia e di cosmografia, nonché nella letteratura nautica. Anche nelle opere letterarie e nelle enciclopedie, gli animali sono un tema ricorrente; non mancano, inoltre, veri e propri trattati sugli animali, sia generali sia su singole specie.

Le fonti classiche della zoologia cominciarono a essere recepite nel mondo arabo a partire dall'VIII sec., con la traduzione dei testi greci, in particolare degli scritti di Aristotele, i quali costituiscono, accanto ad alcune idee propriamente arabe, il fondamento della zoologia arabo-islamica. Nella tradizione araba gli scritti aristotelici, insieme al corpus delle opere pseudoaristoteliche elaborato in parte in greco, in epoca ellenistica, e in parte in arabo, confluirono, infatti, in un grande opus la cui importanza non fu limitata al mondo arabo: la zoologia aristotelica, difatti, fu recepita in Europa quasi esclusivamente attraverso fonti arabe. Poiché, inoltre, anche la farmacologia araba dipende da quella greca, la conoscenza delle proprietà terapeutiche degli organi degli animali si fonda sulla traduzione del De materia medica di Dioscuride (I sec. d.C.), mentre la conoscenza di altri rimedi magico-simpatetici di origine animale si deve con tutta probabilità a Senocrate di Afrodisia (I sec. d.C.). Dal Physiologus, il più antico scritto popolare greco-alessandrino di storia naturale che si conosca (II sec. d.C.), gli autori arabi derivarono la descrizione delle curiose proprietà di vari animali, reali o immaginari. Inoltre, su fonti greche è basato uno dei primi scritti arabi di filosofia naturale, il Kitāb Sirr al-ḫalīqa (Libro del segreto della creazione), attribuito ad Apollonio di Tiana (I sec. d.C. ), in cui sono affrontate e raggruppate per argomento questioni di vario genere (per es., perché gli uccelli depongono uova, perché non hanno denti ma sono dotati di artigli, ecc.). Alcuni degli scritti arabi sono invece indipendenti dalla zoologia aristotelica; ne è un esempio il Kitāb al-ḥayawān (Libro degli animali), opera incompiuta del medico Abū Ǧa῾far Aḥmad ibn Muḥammad ibn Abī 'l-Aš῾aṯ (m. 360/970), interessante soprattutto per il sistema di classificazione adottato.

In tale panorama tre opere di zoografia generale meritano, a diverso titolo, un'attenzione particolare: il Kitāb al-ḥayawān (Libro degli animali) di al-Ǧāḥiẓ (160-255 ca./776-868); il Kitāb ṭabāi῾ al-ḥayawān (Libro delle nature degli animali) di al-Marwazī (m. intorno al 514/1120); e il Kitāb ḥayāt al-ḥayawān (Libro della vita degli animali) di al-Damīrī (m. 808/1405).

Il primo testo, che si deve a uno dei più famosi scrittori arabi di prosa, Abū Uṯmān ῾Amr ibn Baḥr al-Ǧāḥiẓ, mutazilita originario di Bassora (nell'attuale Iraq), è ispirato a fonti greche come a originali tradizioni arabe, sia orali sia scritte, ed è di notevole importanza; terminato prima dell'847, il Kitāb al-ḥayawān rappresenta, infatti, accanto agli scritti di Aristotele, la fonte per eccellenza di tutte le successive opere arabe di zoologia. Non si tratta di un testo strettamente zoologico; lo scopo di al-Ǧāḥiẓ non è studiare le specie animali, ma, conformemente alla dottrina teologica mutazilita, arrivare a una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e, precisamente, dimostrare l'esistenza del Creatore a partire dal Creato, evidenziando la saggezza di un Dio che non ha creato nulla di inutile, poiché anche gli animali pericolosi o quelli feroci hanno una loro ragion d'essere, in quanto mettono alla prova l'uomo. Al-Ǧāḥiẓ non scrive, dunque, un trattato di scienze naturali, ma un'antologia asistematica che include quasi 400 specie animali, in modo da comprendere le specie più piccole e meno note, come quelle più grandi e più conosciute. Lo spazio e l'attenzione dedicati ai vari animali non sono sempre uguali: alcuni - come il cane, la gallina e il colombo, la mosca e il grillo, lo struzzo, il passero e l'otarda, il gatto e il topo, la iena e l'elefante, il pidocchio e la pulce - sono trattati in modo dettagliato, mentre altri, come gli animali acquatici, non sono neppure presi in considerazione. Le intenzioni teologiche di al-Ǧāḥiẓ sono evidenti anche nell'atteggiamento che egli adotta nei confronti di Aristotele: sebbene citi spesso il filosofo greco, riconoscendone il ruolo di guida nel campo della zoologia, al-Ǧāḥiẓ non ne riprende la classificazione del regno animale; questa sua scelta influenzerà, per altro, la letteratura sull'argomento: la classificazione aristotelica, infatti, è come tale ignorata dagli autori successivi. Del resto, è l'entità stessa dell'apporto dei Greci a essere relativizzata: al-Ǧāḥiẓ afferma che il contenuto delle opere zoologiche dei filosofi greci è noto anche ai beduini arabi.

Il Kitāb ṭabāi῾ al-ḥayawān di Šaraf al-Zamān Ṭāhir al-Marwazī, un autore probabilmente sciita che visse alla corte del sultano selgiuchide Malikšāh (m. 485/1092), pur non avendo esercitato un'influenza significativa sulla letteratura successiva (il testo stesso è stato scoperto soltanto in epoca tarda), deve essere menzionato per il suo carattere sistematico. Pur contenendo molte osservazioni personali dell'autore e diverse informazioni inedite, esso riprende al suo interno una classificazione degli animali già proposta da al-Ǧāḥiẓ; essi, infatti, sono distinti in domestici, selvatici e feroci (il primo è l'elefante, e notevole è la distinzione delle varie specie di scimmie e dei loro comportamenti) e poi uccelli (a cominciare dallo struzzo), piccoli mammiferi, rettili e insetti (indicati come animali velenosi) e animali acquatici.

Infine, il Kitāb ḥayāt al-ḥayawān di Kamāl al-Dīn Muḥammad ibn Mūsā al-Damīrī, teologo e giurista di origine egiziana attivo alla Mecca, può essere considerato il dizionario arabo più importante per lo studio degli animali. I 1.069 lemmi (nomi di animali che rappresentano però un numero minore di specie) sono ordinati alfabeticamente (il primo è il leone, al-asad). Molti lemmi sono solamente resoconti sommari o semplici attribuzioni e rimandi, ma altri contengono voci più dettagliate, articolate in sette unità tematiche fondamentali che, nelle intenzioni di al-Damīrī, corrispondono agli interessi del lettore. Alle indicazioni lessicografiche sui nomi degli animali e alla descrizione delle loro caratteristiche fisiche e comportamentali, sotto il profilo delle scienze naturali, si aggiunge così la trattazione di precisi argomenti: i detti e le tradizioni risalenti al profeta Muḥammad che riguardano l'animale di volta in volta in questione; le norme giuridiche che definiscono l'uso lecito dell'animale o come alimento o per altri scopi (e l'autore registra in questo caso le opinioni dottrinali delle quattro scuole giuridiche dell'Islam sunnita); i proverbi e le espressioni idiomatiche riferite all'animale (particolarmente numerosi, sono, per es., quelli che interessano l'asino domestico); le proprietà medico-simpatetiche degli animali e delle loro parti; l'interpretazione degli animali nei sogni. Dall'introduzione dell'opera emerge come l'autore intenda chiarire e distinguere i vari concetti pertinenti al regno animale, altrimenti confusi nella lingua araba, e correggere gli errori e le false credenze sugli animali. Il Kitāb ḥayāt al-ḥayawān è un'opera di pura compilazione, pressoché priva di contributi originali; tuttavia, essendo basata sui testi di oltre 800 autori (dei quali oltre 200 sono poeti), essa attesta l'immensa erudizione di al-Damīrī. Così, se le scienze naturali vi rivestono un ruolo del tutto marginale, l'interesse dell'opera è dato soprattutto dalle numerose digressioni che essa contiene e per le quali gli animali non sono, ogni volta, che un mero pretesto; si tratta spesso di storie di una certa lunghezza (notevole è, per es., la storia del califfato che si legge alla voce 'oca' dove si narra che il califfo ῾Alī fu ammonito dalle oche prima di incontrare il suo assassino) e, in virtù di tali digressioni, il Kitāb ḥayāt al-ḥayawān è stato anche definito un testo 'parazoologico'.

Diverse opere della letteratura araba, invece, sono dedicate specificamente ad alcuni animali considerati di particolare interesse: si tratta principalmente dei cavalli e degli animali da caccia e, fra questi, soprattutto dei rapaci. La letteratura sui cavalli è molto ricca e comprende numerose opere di lessicografia nelle quali sono illustrati i lessemi della lingua araba relativi ai cavalli o le 'genealogie' di cavalli celebri nella storia araba; essa può includere anche quegli scritti di teologia o di diritto che, trattando degli animali sotto il profilo giuridico, finiscono per occuparsi anche dei cavalli e, infine, le opere letterarie di adab, nelle quali si rintracciano interessanti riferimenti al cavallo. A questo composito gruppo di opere vanno aggiunti i testi di furūsiyya, ossia quei testi di ippologia e di equitazione che spesso trattano anche di ippiatria e nei quali, oltre alle nozioni di veterinaria, vi sono anche i criteri per riconoscere un buon cavallo. Altrettanto vasta è la letteratura sull'arte venatoria, che tratta in generale degli animali da caccia e della selvaggina; di particolare rilievo sono i trattati di falconeria, specificamente dedicati ai rapaci utilizzati nella caccia (le specie più usate erano l'astore, l'averla, il falco pellegrino e l'aquila). Anche in questo genere di letteratura le nozioni di veterinaria costituiscono una componente essenziale.

Si devono menzionare, infine, alcuni trattati di breve respiro dedicati a particolari specie animali, la cui importanza non è tuttavia paragonabile alla letteratura sui cavalli e sui rapaci. In molti casi si tratta di opere di natura lessicografica e giuridica; vi sono poi altri scritti - dedicati al gatto, al cane, alla gallina o al mulo - che rientrano nel genere dell'adab. Alcuni di essi assumono però uno spessore particolare: il Kitāb al-Naḥl (Libro delle api) dello storico Tāqī al-Dīn Aḥmad ibn ῾Alī al-Maqrīzī (765-845/1363-1442), per esempio, può essere considerato un trattato di scienza della Natura. Sul cammello, l'animale simbolo degli Arabi, non fu composta, invece, alcuna opera scientifica e non si è conservato neppure un originale dei numerosi trattati sui piccioni che caratterizzavano la letteratura protoislamica.

Come si è accennato, numerose nozioni si rintracciano anche nelle opere letterarie o scientifiche in cui abbondano i riferimenti zoologici o in cui, talvolta, persino interi capitoli sono dedicati agli animali. Un posto importante va riservato, per esempio, alla letteratura medica, in cui rientrano le opere su manāfi῾ (utilità) e ḫawāṣṣ (proprietà specifiche) dove sono descritti gli animali, le loro parti e le loro secrezioni, al fine di illustrarne l'uso farmacologico e, non da ultimo, quello di tipo magico-simpatetico. Fra tali opere ‒ i cui manoscritti sono in genere riccamente miniati ‒ spicca il Kitāb Badā᾽i῾ al-alwān (Libro delle meravigliose notizie sulle specie) di Ǧamāl al-Dīn ῾Uṯmān ibn Aḥmad ibn Abī 'l-Ḥawāfir (m. 701/1301), che, ordinato alfabeticamente, elenca circa 100 animali, dei quali offre una trattazione sotto il profilo sia terapeutico sia delle scienze naturali. Un approccio analogo caratterizza il Kitāb Manāfi῾ al-ḥayawān (Libro sull'utilità degli animali) di ῾Alī ibn Muḥammad ibn al-Durayhim al-Mawṣilī (774-853/1372-1449), che costituisce uno dei vertici di questa letteratura. Una trattazione degli animali interessante anche dal punto di vista zoologico è data, inoltre, in altri scritti di medicina generale e di alimentazione. Nelle opere di medicina i capitoli sui veleni, per esempio, contengono spesso alcune descrizioni di serpenti velenosi, ragni e scorpioni. L'autore andaluso Abū Marwān ῾Abd al-Malik ibn Zuhr (484 o 487-557/1092 o 1095-1161) dimostra di conoscere anche diversi parassiti, come il verme di Medina (Dracunculus Medinensis).

Nella prosa letteraria vi sono interi capitoli dedicati agli animali. Ne sono un esempio il Kitāb ῾Uyūn al-aḫbār (Libro delle fonti delle notizie) dell'erudito Abū Muḥammad ῾Abd Allāh ibn Muslim ibn Qutayba (213-276/828-889), uno dei più significativi autori sunniti del IX sec., cui si devono opere di diverso genere; il Kitāb al-῾Iqd al-farīd (Libro della collana di perle) del prosatore e poeta andaluso Abū ῾Umar Aḥmad ibn Muḥammad ibn ῾Abd Rabbih (246-328/860-940); e al-Mustaṭraf (Curiosità) di Bahā᾽ al-Dīn Muḥammad ibn Aḥmad al-Ibšīhī (790-850/1388-1446 ca.), un'antologia che godette di grande popolarità. Va poi ricordato Abū Ḥayyān ῾Alī ibn Muḥammad al-Tawḥīdī (329-414/932-1023 ca.), un autore di grande eleganza e profondità, il cui Kitāb al-Imtā῾ wa-'l-mu᾽ānasa (Libro del godimento e della conoscenza) fornisce nozioni che non è dato rintracciare in altre fonti. In particolare, sono di grande interesse i raggruppamenti zoologici effettuati in base a caratteristiche di vario tipo (per es., il numero dei denti, la posizione del cuore, il periodo di cova degli uccelli o la capacità di assumere velocità, ecc.). Con le opere di adab, devono essere ricordate le enciclopedie che fiorirono in Egitto in epoca mamelucca (XIII-XVI sec.) e che offrono in forma sistematica un ricco materiale di interesse zoologico. La Nihāyat al-arab (Il conseguimento dello scopo) di Šihāb al-Dīn Aḥmad ibn ῾Abd al-Wahhāb al-Nuwayrī (677-733/1279-1333) e il Kitāb ṣubḥ al-a῾šā (Libro dell'alba del nictalope) di Šihāb al-Dīn Aḥmad ibn ῾Alī al-Qalqašandī (756-821/1355-1418) ne costituiscono due esempi.

Temi di zoologia sono trattati anche nelle cosmografie arabe, in cui talvolta interi capitoli riguardano gli animali. È questo il caso del Kitāb ῾Aǧā᾽ib al-maḫlūqāt (Libro delle meraviglie della creazione) di Abū Yaḥyā Zakariyyā ibn Muḥammad al-Qazwīnī (600-682/1203-1283) in cui un capitolo è dedicato specificamente agli animali e uno alle acque, e in entrambi si trova la trattazione degli animali acquatici. Anche in questo caso, come nella prosa letteraria, le descrizioni degli animali di al-Qazwīnī non contengono soltanto osservazioni zoologiche, ma pure diversi elementi di folklore, superstizioni, nonché richiami a concezioni religiose. Uno spazio particolare è riservato alle proprietà medico-simpatetiche degli animali. Anche l'opera di Šams al-Dīn Muḥammad ibn Abī Ṭālib al-Dimašqī (m. 727/1327) riveste un certo interesse per la zoologia: pur mancando di un capitolo dedicato espressamente agli animali, la Nuḫbat al-dahr (L'essenza del tempo) descrive numerosi animali meravigliosi, indicandone la provenienza geografica.

Infine, gli animali ‒ in quanto tipici di determinate regioni ‒ compaiono anche negli scritti dei geografi e dei viaggiatori arabi. È il caso del Kitāb al-Ifāda wa-'l-i῾tibār (Libro dell'informazione e della considerazione) di ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (557-629/1162 o 1163-1231) che nella descrizione dell'Egitto, comprende anche quella degli animali che lo popolano; oppure dell'opera del celebre viaggiatore nordafricano Šams al-Dīn Muḥammad ibn ῾Abd Allāh ibn Baṭṭūṭa (703-770/1304-1368 o 1369), Riḥla (Viaggi), dove, per esempio, si trova un'esatta descrizione della sanguisuga di Ceylon.

La descrizione degli animali: dalle opere lessicografiche ai 'mirabilia'

Dall'esame delle opere letterarie e zoografiche arabo-islamiche è possibile ricavare quale fosse l'interesse e l'atteggiamento generale di questo ambito culturale nei confronti del mondo animale. Tre aspetti percorrono l'intera letteratura e svolgono un ruolo privilegiato nella descrizione e nell'osservazione degli animali: l'aspetto lessicografico, quello pratico e la raccolta di particolari notevoli e curiosi.

L'importanza dell'aspetto lessicografico è dimostrata anche dal fatto che i contributi arabi allo studio degli animali ebbero inizio, nell'VIII sec., proprio con una serie di brevi trattati lessicografici. Poiché gli autori arabi attribuiscono grande importanza all'impiego corretto dei lessemi, la letteratura lessicografica araba include la spiegazione di numerosi termini rari od oscuri che riguardano il mondo animale, comprendendo in tal modo un elenco dettagliato delle varie designazioni dei singoli animali, del maschio e della femmina, dei cuccioli e dei branchi, delle forme plurali e diminutive, delle denominazioni degli arti, delle andature, dei versi, del colore del manto, della pelliccia e del piumaggio. Nonostante quest'imponente raccolta di espressioni arabe, molti termini menzionati dagli autori nei singoli testi restano equivoci o polisemici e spesso vi sono diversi lessemi per un singolo animale (per es., per il leone e per il cammello).

Altrettanto importante nei testi è l'aspetto pratico, incentrato sull'utilità che gli animali rivestono per l'uomo. Considerazioni di ordine pratico si trovano in particolare nelle prescrizioni giuridico-religiose sui cibi di origine animale e nella descrizione delle proprietà medico-simpatetiche degli animali e delle loro parti (il fegato di cane curerebbe, per es., il morso dello stesso cane, i denti di leone lenirebbero il mal di denti, mentre il topo avrebbe molteplici proprietà terapeutiche). Così come le indicazioni lessicografiche non riguardano soltanto i dizionari, le più varie tematiche mediche e giuridiche sono trattate, oltre che nelle opere di diritto o nei compendi di medicina, anche nella letteratura propriamente zoologica. Inoltre, i testi di medicina si occupano, per esempio, degli animali velenosi e i trattati di agricoltura spiegano come tenere lontani i parassiti e le bestie feroci ed elencano anche in modo preciso sia gli animali utili all'uomo sia quelli nocivi. Indicazioni sull'allevamento degli animali si ritrovano poi in particolare nella letteratura specifica sui cavalli, sull'arte venatoria e sulla falconeria.

L'elemento preponderante nelle descrizioni degli animali è costituito, comunque, dall'interesse per i particolari bizzarri e curiosi; ampio spazio è dedicato alla descrizione dell'aspetto e delle proprietà degli animali nella misura in cui si riteneva che questi divertissero o istruissero il lettore. Ed è questo interesse per il particolare curioso ad aver dato origine a quella sterminata letteratura che, nel suo complesso, costituisce la scienza naturale o la zoologia in senso stretto del Medioevo arabo. Gli autori arabi privilegiano sempre i particolari strani o curiosi, trascurando spesso le caratteristiche più ovvie che si suppongono note al lettore. Di conseguenza, dell'aspetto di molti animali familiari si dice soltanto che è conosciuto (ma῾rūf) senza fornirne descrizioni. In genere, la descrizione dell'aspetto degli animali ha, per gli autori arabi, scarso rilievo; così, quando del leone si dice che 'ha la testa grossa, il muso tondeggiante, larghe fauci, zanne e artigli acuminati, un torace ampio, zampe anteriori robuste e una coda sottile' si dà una descrizione relativamente dettagliata. Descrizioni più precise sono fornite invece per alcuni animali rari, quando sia possibile osservarli agevolmente. Nella sua opera sulla cultura delle Indie, il Kitāb Taḥqīq mā li-'l-Hind (Libro dell'accertamento di ciò che è in India) Abū 'l-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Bīrūnī (362-442/973-1050 ca.) fornisce, per esempio, una descrizione dettagliata del rinoceronte, notandone gli occhi infossati e il corno ricurvo; in un testo geografico nordafricano del XIII sec. vi è persino la descrizione di un orso bianco; ugualmente dettagliata è la descrizione dell'aspetto del topo delle piramidi, dell'ippopotamo, oppure degli ibridi, reali o presunti, come la giraffa. Gli autori arabi di epoca medievale non erano in grado di distinguere con esattezza le specie affini. Per quanto fosse noto che di molti animali - soprattutto di quelli di piccole dimensioni come i ragni e le farfalle - esistono numerose specie, nei testi esse generalmente non sono distinte ma semplicemente raggruppate sotto un unico lemma. Per esempio, sebbene esistano molti lemmi distinti per indicare piccoli animali, i piccoli mammiferi, i rettili e gli insetti sono di solito raggruppati sotto un unico nome collettivo (tra gli altri quello di ḥašarāt). Nemmeno gli animali più familiari come l'oca e l'anatra sono sempre distinti; non mancano neppure le confusioni tra gli animali di diversa specie, causate da un'inesatta ricezione del Corpus aristotelico (un equivoco tra il riccio di mare e quello di terra avrebbe, per es. portato ad affermare che quest'ultimo depone cinque uova).

I comportamenti degli animali sono descritti in modo più dettagliato di quanto non avvenga per il loro aspetto esteriore ma, anche in questo caso, l'attenzione si incentra sugli elementi curiosi e bizzarri; si nota, per esempio, l'abitudine del ragno di tessere la tela o la particolare tecnica di nidificazione dei Ploceidi tessitori; pressoché tutti gli autori menzionano la consuetudine della leonessa a confondere le tracce per non mettere in pericolo i piccoli, o la propensione del lupo ad attaccare soltanto le persone che mostrano di avere paura. Occasionalmente, sono comparati i comportamenti degli animali di diverse specie oppure quelli animali e quelli umani (si osserva, per es., che il maschio e la femmina del colombo si comportano nel corteggiamento come l'uomo e la donna, e si mettono altresì in evidenza le affinità tra il comportamento delle scimmie e quello umano). In tale contesto, agli animali non sono attribuiti istinti, ma caratteristiche psicologiche analoghe a quelle dell'uomo: nei numerosi proverbi e nei modi di dire essi sono pazienti, intelligenti o invidiosi, seguono un capo, si comportano in modo coraggioso, vile, sciocco, orgoglioso o superbo (l'aquilotto è particolarmente 'accorto', perché riesce a non cadere dal nido; la gazza è 'ladra', le mosche sono 'arroganti' perché si posano persino sul naso dei re).

Per quanto riguarda gli uccelli, particolare rilievo è dato alle tecniche di costruzione del nido e al numero delle uova deposte, alla cura della prole, alla frequenza dell'accoppiamento, alla durata della cova o della gestazione. Nel complesso sono riportate numerose notizie che attestano un'osservazione molto precisa; talvolta, tuttavia, osservazioni in sé corrette sono interpretate in modo erroneo (è, per es., questo il caso della muta del serpente, considerata un ringiovanimento). Notevole spazio è dedicato inoltre alle inimicizie tra le specie, che riflettono in generale i comportamenti legati alla caccia e alla preda in Natura. Un antagonismo di questo tipo è osservato, per esempio, tra la martora e la colomba, tra la civetta e tutti gli altri uccelli, oppure tra il cammello e il cavallo.

L'interesse per tutto ciò che appare curioso e insolito si rivela anche negli estesi elenchi di mirabilia, attinti dalla cultura araba o da quella ellenistica. Talvolta sono descritti comportamenti e caratteristiche di animali reali (si dice così che il maiale e la lucertola non perdono i denti, che la lepre dorme con gli occhi aperti, che la salamandra può attraversare il fuoco indenne, che i piccoli messi al mondo dall'orsa sono pezzi di carne informi, o che lo stomaco dello struzzo è in grado di digerire le pietre), ma il più delle volte si tratta di animali fantastici, soprattutto uccelli e pesci come, per esempio, l'uccello gigante delle isole Comore (ruḫḫ) o il pesce dell'Egeo su cui è scritto 'non esiste altro Dio al di fuori di Dio' (lā ilāha illā Allāh). Numerose altre meraviglie sono menzionate negli scritti cosmografici e nei resoconti di viaggi nei quali si parla di antilopi, di serpenti o di formiche di dimensioni gigantesche, e in cui spesso la realtà è unita alla fantasia, come quando si afferma che l'elefante può vivere sino a quattrocento anni.

Sebbene in alcune sure del Corano agli animali sia attribuita la parola, è soltanto nelle favole di origine non araba che agli animali è, in generale, riconosciuta la capacità di parlare; neppure le metamorfosi di uomini in animali, frequenti nella favolistica, costituiscono un tema dominante della letteratura parazoologica, anche se, talvolta, è citata la metamorfosi in maiali o scimmie. Si registra, invece, la credenza che alcune specie possano tramutarsi in altre (per es., l'aquila in nibbio), che alcuni animali cambino sesso (le iene, gli asini) o siano monosessuati (gli uccelli rapaci; la qual cosa potrebbe spiegare perché si addestrassero soltanto le femmine). Fra le idee ancora condivise vi era poi quella, di chiara derivazione greca, della generatio spontanea (o eterogenesi), secondo la quale alcuni piccoli animali - di cui non si era in grado di osservare il processo di generazione - non si sarebbero riprodotti ma sarebbero nati dalla polvere, dalla putrefazione o dalla sporcizia. Questo sarebbe accaduto, per esempio, per le mosche, per i pidocchi e per i vermi e persino per i topi e per le rane che, secondo alcuni autori arabi, possono nascere da una combinazione di materia organica e inorganica. Anche gli alberi possono generare organismi animali, e le foglie dare origine a insetti; diversa è invece l'idea della fecondazione operata dal vento (che spiegherebbe, per es., il caso della pernice, poiché si pensava che il vento portasse lo sperma del maschio alla femmina).

La possibilità che si realizzino incroci tra elementi di differenti regni della Natura, per esempio tra un animale e una pianta, sussiste invece tutt'al più come credenza popolare, sempre confutata dai dotti. In altre credenze popolari, frequentemente registrate pur nella consapevolezza della loro infondatezza, alcuni animali sarebbero privi di certi organi (per es., il cavallo non avrebbe la milza, né il cammello la cistifellea o lo struzzo il midollo osseo; ai pesci marini mancherebbero la lingua e il cervello).

Non mancano infine gli accenni a una competenza farmacologica degli animali. Essi si curerebbero talvolta cibandosi di determinate piante (il leone ferito da un colpo di lancia ricorrerebbe alla radice della curcuma), talaltra facendo ricorso ad animali di altre specie (come le iene e i leoni, che mangerebbero i cani). Da rilevare è poi la credenza secondo la quale alcune caratteristiche di uomini e di animali siano legate all'habitat (le cavallette, per es., sarebbero verdi perché vivono tra l'erba; analogamente nei terreni vulcanici di colore scuro tutti gli animali sarebbero neri); in tale contesto si ritrova anche l'idea dell'adattamento (tutti i serpenti sono originariamente animali acquatici; quelli che vivono lontano dall'acqua diventano sottili, mentre quelli che vivono in regioni umide diventano più grossi; analogamente, i piccoli dei coccodrilli che crescono in acqua diventerebbero coccodrilli, mentre quelli che crescono sulla terraferma diventerebbero varani).

Nel complesso, le descrizioni delle singole specie contenute nei vari testi non sono uniformi. Se negli scritti il cui ordine è dato dal nome di ogni singola specie è menzionata all'occasione un'unica o la principale caratteristica (nel caso della vipera, per es., sono descritti soprattutto gli occhi), negli scritti che non hanno carattere sistematico, gli animali sono raggruppati in base a proprietà determinate (come l'abitudine di accumulare provviste che accomuna gli uomini, le formiche e i topi). In ragione della diversità degli elementi di volta in volta presi in considerazione, uno stesso animale non può essere descritto in base al medesimo schema. Inoltre, poiché gli autori tendono in genere a fornire tutte le informazioni disponibili, essi finiscono per menzionare anche affermazioni tra loro contraddittorie; del resto, tutte le informazioni registrate, anche quelle di carattere pratico, sono generalmente derivate dai libri dei loro predecessori e soltanto di rado sono il frutto dell'esperienza diretta: nella maggior parte dei casi, anzi, gli autori descrivono animali che non hanno mai visto.

Classificazioni del regno animale

Alle nozioni zoologiche contenute nei testi del Medioevo arabo-islamico non si possono, naturalmente, applicare criteri di valutazione tratti dal pensiero scientifico moderno. Tuttavia, per quanto la ricca letteratura araba sugli animali abbia un carattere eminentemente descrittivo, in essa possono essere sicuramente rintracciati alcuni elementi considerati essenziali anche per la scienza in senso moderno. Tre di questi elementi è necessario menzionare in particolare: l'elaborazione del concetto di specie animale, la classificazione del regno animale e, infine, le ricerche e gli esperimenti zoologici, inclusa la raccolta degli animali nei giardini zoologici.

Nell'Islam medievale manca l'idea di specie animali nel senso moderno di 'comunità riproduttive', ossia di gruppi di popolazioni naturali che, sotto il profilo riproduttivo, restano tra loro separate. Esiste però una terminologia araba - anche se non uniforme - per indicare la specie animale o concetti ancora più generali. Soltanto alcuni autori operano una distinzione tra species e genus, la quale, peraltro, non risponde a criteri moderni. I concetti di ordine, famiglia e genere sono accennati nell'opera di al-Ǧāḥiẓ che, per il resto, ordina tutti gli elementi della Natura secondo uno schema gerarchico, per altro tipico della filosofia neoplatonica araba, che va dai minerali, alle piante, agli animali e culmina con l'uomo.

Elementi caratteristici dell'approccio al concetto di specie nella letteratura araba sono le descrizioni di animali ibridi reali (come il mulo) o presunti (come la giraffa, ritenuta un incrocio tra varie specie animali come, per es., il leopardo e il cammello); la metamorfosi delle specie; l'idea secondo cui uno stesso animale assume caratteristiche differenti a seconda dell'ambiente in cui vive; o, ancora, le credenze nella possibilità del mutamento di sesso o nell'asessualità di alcuni animali. Solamente negli scritti degli Iḫwān al-Ṣafā᾽ si afferma che ogni individuo conserva sempre le forme del proprio genere e della propria specie (e si fa il preciso esempio della femmina del cammello che non potrà mai generare puledri). Specie simili, inoltre, sono sovente identificate e, viceversa, poiché per la stessa specie animale possono esistere molti lessemi differenti, si credeva che questi designassero animali diversi; la definizione delle classi resta spesso molto imprecisa, sicché per esempio sotto i cordati sono inclusi soltanto i vertebrati (principalmente i mammiferi e gli uccelli, alcuni rettili, un numero ancor minore di anfibi e di pesci); nella classe degli articolati sono compresi gli insetti, i ragni e i gamberi; in quella dei molluschi solamente alcuni lamellibranchi e i serpenti. Nel caso dei vermi soltanto di rado sono descritte le singole specie; per i piccoli animali esistono tuttavia molti concetti generali riferiti a specie che, secondo la zoologia moderna, non sono affini.

Un intento classificatorio del mondo animale è evidente negli scritti di al-Ǧāḥiẓ che adotta un sistema basato sul tipo di locomozione e sull'ambiente in cui vivono le diverse specie, operando una distinzione tra animali che camminano, volano, nuotano e strisciano; tale ordinamento corrisponde a quello della Bibbia e di Plinio il Vecchio, anche se non si può stabilire con certezza quale fosse il rapporto con questi testi. Simile al sistema di al-Ǧāḥiẓ è quello proposto dagli Iḫwān al-Ṣafā᾽ (Fratelli della purezza), basato sulla distinzione tra animali dell'aria, dell'acqua, della terraferma e del suolo (o della polvere). Una tale classificazione degli animali è bizzarra alla luce dei criteri moderni, ma corrisponde alla concezione diffusa all'epoca nel mondo islamico: lo struzzo rientra tra gli animali che camminano, il pipistrello tra quelli che volano; gli animali acquatici non sono ulteriormente distinti e in tal modo i pesci, i crostacei, gli anfibi, i molluschi e i mammiferi sono compresi nella stessa categoria; anche gli animali che strisciano sono raggruppati, sicché i piccoli mammiferi, gli insetti e i rettili sono riuniti sotto un unico gruppo.

Al-Ǧāḥiẓ attuò una suddivisione ulteriore degli animali che volano e di quelli che camminano, ma le sue definizioni non sono del tutto chiare. Il suo sistema fu perfezionato successivamente da altri autori che suddividono ulteriormente in vari sottogruppi la categoria degli animali che camminano (essenzialmente i mammiferi) in ragione della loro importanza per l'uomo. Così, al-Qazwīnī distingue tra cavalcature (il cavallo, il mulo, l'asino); bestie da pascolo (il cammello, il bue, il bufalo, la pecora, la capra, l'antilope); predatori (e altri animali selvatici: il leone, il leopardo, l'elefante, lo scoiattolo, il maiale, la scimmia); uccelli e infine alcuni piccoli mammiferi e i rettili, insieme agli insetti alati (la mosca, la vespa, la lucertola, la tartaruga, il topo, il riccio, i gasteropodi). Gli animali acquatici (i pesci, i rettili, i mammiferi, gli articolati, i molluschi, gli anfibi) sono trattati separatamente. Suddivisioni analoghe si ritrovano nelle lessicografie arabe ordinate per argomento. Anche al-Marwazī opera una distinzione simile, dividendo gli animali in domestici, selvatici e predatori; uccelli; piccoli mammiferi, rettili, insetti; animali acquatici.

Nella letteratura araba vi sono, tuttavia, anche criteri più elementari di classificazione, basati sulla presenza (o l'assenza) di determinate caratteristiche. Al-Qazwīnī, per esempio, classifica gli animali sulla base dei mezzi di offesa e di difesa di cui dispongono, distinguendo quelli che allontanano i nemici in virtù della loro forza (il leone, l'elefante); quelli che si difendono con la fuga (la gazzella, la lepre, gli uccelli); gli animali dotati di armi speciali (i porcospini, le tartarughe); e quelli che si rifugiano in una tana (i topi, i serpenti). Gli Iḫwān al-Ṣafā᾽ classificano gli animali in base alle modalità di riproduzione: quelli che si accoppiano con la monta e partoriscono (i mammiferi); quelli che si accoppiano alla maniera degli uccelli e depongono uova (gli uccelli); quelli che nascono da processi di putrefazione (animali nati per generazione spontanea). A questi autori si deve anche una classificazione degli insetti in base al tipo di locomozione e al numero delle zampe e delle ali. Una classificazione originale del regno animale, ispirata, probabilmente, a quella medica delle parti del corpo umano, distinte in 'servitrici' o 'serventi' e 'servite', è offerta poi da Ibn Abī 'l-Aš῾aṯ, che distingue nel mondo vivente: esseri che governano (l'uomo); esseri che sono governati (gli animali domestici) ed esseri che non governano né sono governati (gli animali selvatici).

Le classificazioni più coerenti, tuttavia, sono quelle delle enciclopedie di epoca mamelucca che, ancora una volta, si riallacciano all'opera di al-Ǧāḥiẓ. Al-Nuwayrī distingue cinque gruppi, a loro volta ulteriormente suddivisi, di cui tre categorie di (quasi) mammiferi: i predatori (che comprendono anche gli scoiattoli e il maiale), gli animali selvatici, e infine le cavalcature e gli animali da pascolo; le altre due classi del regno animale comprendono: la prima, le bestie velenose (che in altri autori corrispondono alle ḥašarāt, e includono le specie il cui veleno è mortale, come i serpenti e gli scorpioni, e quelle dal veleno non mortale, come la lucertola, il topo e il pidocchio) e, la seconda, gli animali non terricoli, suddivisi ulteriormente in sette sottogruppi (sei sono costituiti dagli uccelli, che non sono distinti dagli insetti alati, e uno dai pesci). Al-Qalqašandī distingue invece soltanto tre classi: cavalcature, animali selvatici e da caccia e uccelli (dove è interessante la distinzione tra uccelli estivi e invernali); in tal modo, pur non fornendo un elenco degli animali 'utili', al-Qalqašandī si dimostra più attento di altri autori all'aspetto dell'utilità che gli animali presentano per l'uomo.

Per quanto riguarda la ricerca zoologica, gli esperimenti ebbero un ruolo assai marginale nel Medioevo arabo. Sebbene siano noti alcuni esperimenti che attestano l'interesse personale degli studiosi che li effettuarono, il loro esito rimase però spesso incerto: al-Ǧāḥiẓ, per esempio, sezionò una lucertola e una forbicina, e spaccò alcune uova di vipera per studiarne la vita all'interno. Più frequenti furono, invece, le indagini e le osservazioni personali sugli animali, le quali avevano in parte lo scopo di verificare la fondatezza delle credenze tradizionali. Al-Marwazī condusse, per esempio, una serie di osservazioni sulla giraffa che lo portarono a respingere l'idea secondo la quale questo animale sarebbe un incrocio tra il leopardo e il cammello; inoltre, in base a quanto riferisce al-Damīrī, un certo Ibn ῾Aqīl portò dall'Oriente un mosco al fine di sottoporre a verifica le teorie contrastanti in merito al marsupio dell'animale. Ancora al-Ǧāḥiẓ cercò di appurare l'esistenza di serpenti a due teste e di scoprire perché la volpe mangiasse il riccio, e osservò altresì come un topo, imprigionato, fosse liberato dai compagni. ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī osservò la fauna egiziana, e già il filologo Abū Manṣūr Muḥammad ibn Aḥmad al-Azharī (282-370/895-980) nel suo scritto lessicografico (Tahḏīb al-luġa, La rettifica del linguaggio) riportava numerose osservazioni personali sugli animali che vivevano nella penisola araba.

Per quanto riguarda i giardini zoologici, essi si trovavano di solito nelle corti e ospitavano animali considerati di una certa utilità pratica. Gli animali selvatici, sia di pregio, come leoni ed elefanti, sia uccelli rari dei quali si apprezzava il piumaggio o il canto, erano rinchiusi come selvaggina. Non è dato, tuttavia, trovare raccolte sistematiche di animali selvatici, per quanto occasionalmente fossero collezionati animali strani, come nel caso di un visir egiziano del X sec., che allevava scorpioni, tarantole, vipere e serpenti.

Un cenno meritano, infine, le conoscenze degli autori arabi sulla diffusione geografica delle singole specie. Anche se nella letteratura araba non esiste una zoogeografia sistematica, per determinate specie esotiche o tipiche di uno specifico territorio gli autori indicano l'area di diffusione oppure associano specie a determinate regioni (alcuni animali fantastici sono di solito collocati nell'Oceano Indiano o nel Mare della Cina). In generale, comunque, manca una cognizione complessiva, anche approssimativa, della distribuzione geografica delle specie sulla superficie terrestre. Nondimeno, la letteratura araba fornisce importanti contributi ai primi sviluppi della zoogeografia. Lo storico Aḥmad ibn Yaḥyā al-Balāḏurī (IX sec.) individua nel Vicino Oriente l'origine del bufalo. Sull'habitat degli animali si hanno, invece, informazioni molto dettagliate (è noto, per es., che lo sciacallo vive negli orti e nei vigneti) e, per quanto riguarda gli uccelli, è ben nota la distinzione tra specie stanziali e specie migratrici, sebbene essa non sempre sia menzionata in modo esplicito.

La conoscenza zoologica nel Medioevo arabo-islamico ha, nel complesso, essenzialmente il carattere di una zoografia che registra una sterminata quantità di notizie e informazioni, tra le quali anche alcune credenze popolari accettate come vere. Agli occhi degli Arabi questo genere di studi non costituisce una disciplina autonoma; essa non è, di conseguenza, equiparata a scienze come la matematica o l'astronomia: per quanto la zoologia araba sia caratterizzata da molte idee corrette, essa resta una disciplina eminentemente pratica. Il patrimonio delle conoscenze non è arricchito attraverso una ricerca metodica, sistematica e programmata; si accettano, invece, in modo più o meno acritico le nozioni e le concezioni degli Antichi, perché 'autentico' è tutto ciò che deriva da un'autorità riconosciuta o è a essa attribuibile. Nonostante l'importanza che rivestono gli animali nella vita quotidiana, nel diritto e nella letteratura del mondo islamico, l'interesse degli Arabi non è rivolto all'animale in sé, ma all'uomo, i cui bisogni determinano il rapporto con gli animali.

Medicina veterinaria

I termini che in arabo designano, rispettivamente, il medico veterinario (al-bayṭār) e la scienza veterinaria (al-bayṭara) derivano dal greco hippiatrós (medico dei cavalli, veterinario o maniscalco). Anche la posizione preminente che l'ippiatria occupa nell'ambito della veterinaria araba si deve, fondamentalmente, all'influenza greca che, tuttavia, non deve essere sopravvalutata. Se, da una parte, gli stessi Arabi preislamici possedevano un proprio sapere veterinario, dall'altra, a influenzare la veterinaria araba furono anche le culture orientali, come quella persiana: il termine che designa la seconda branca importante della scienza veterinaria, per esempio, lo studio delle malattie dei falconi, deriva dal persiano (i vocaboli arabi che indicano la falconeria, bayzara, bazdara e simili, derivano tutti dal lessema bāz, in persiano 'falco').

Delle terapie che le tribù nomadi dell'Arabia preislamica riservavano agli animali si conosce poco; tuttavia, già nel IX sec. i lessicografi arabi, in alcune brevi monografie dedicate agli animali, accanto alla nomenclatura zoologica, riportavano anche le varie denominazioni delle malattie di quegli animali che erano di particolare importanza per la vita beduina (soprattutto il cammello, ma anche le pecore). A partire da questo periodo, inoltre, grazie alla traduzione di vari testi, la veterinaria araba si arricchisce del patrimonio di conoscenze dell'antica Grecia. Una fonte importante è rappresentata da un testo d'ippiatria di Teomnesto di Magnesia (prima metà del IV sec.), il cui originale greco è andato perduto e di cui si conoscono soltanto estratti. Attraverso Teomnesto, gli Arabi poterono conoscere anche l'epistolario di Absirto di Prusa, il più famoso veterinario dell'Antichità (IV sec.). Ad arricchire il patrimonio del sapere veterinario arabo furono anche alcuni trattati pseudoepigrafici, come gli scritti del 'veterinario Ippocrate' (la cui versione latina, di Mosè da Palermo, è del 1277) e dello Pseudo-Aristotele (la cui versione araba è andata perduta).

La veterinaria figura come disciplina autonoma già in alcune classificazioni arabe delle scienze, come negli scritti degli Iḫwān al-Ṣafā᾽ (seconda metà del X sec.), che la collocano tra le scienze naturali, accanto alla medicina, all'arte di addestrare cavalli e rapaci da caccia, e all'agricoltura. La veterinaria aveva, tuttavia, un carattere eminentemente pratico, che la differenziava dalle altre discipline, e il suo esercizio era una prerogativa pressoché esclusiva dei rappresentanti dell'élite sociale musulmana, ai quali era affidato il compito di allevare e ammaestrare i cavalli e i rapaci usati per la caccia. Si può così affermare che, laddove la medicina del Medioevo islamico annovera tra i suoi più illustri esponenti molti autori non musulmani, la veterinaria resta, in generale, dominio dei musulmani.

Il carattere pratico della veterinaria è reso evidente anche dal fatto che non esiste un vero genere letterario dedicato a questa disciplina. Sono soprattutto i vari riferimenti alla cura degli animali inclusi nella letteratura araba ‒ che in particolare riguardano gli animali utili all'uomo ‒ a costituire il patrimonio letterario della veterinaria araba il quale, comunque, è relativamente scarso se paragonato a quello di altre scienze. Inoltre, la conoscenza dei testi è alquanto carente: pochi sono gli scritti editi e, nel migliore dei casi, gli studi si basano su traduzioni anziché su testi originali. Sotto alcuni aspetti, quindi, nell'esaminare la letteratura veterinaria dal IX al XVI sec., questa trattazione si dovrà attenere al materiale attualmente disponibile, senza poter anticipare i possibili sviluppi della ricerca. Anche l'attività dei singoli veterinari non è del tutto nota e, nella maggior parte dei casi, si sa poco degli autori delle opere che trattano degli animali e della loro cura. Secondo la concezione islamica, d'altronde, anche la guarigione degli animali era rimandata, in ultimo, all'aiuto e alla misericordia divina.

Le malattie dei cavalli: i testi e le terapie

A prescindere da quei trattati filologici che spiegano i nomi delle varie malattie degli animali, si possono individuare fondamentalmente quattro gruppi di opere in cui è considerata la cura degli animali: i trattati di ippiatria e di falconeria, gli scritti di medicina e quelli relativi all'agricoltura.

Nella letteratura araba che si occupa dei cavalli, in sé piuttosto ricca, è possibile distinguere vari tipi di testi. Molti sono dedicati alla furūsiyya, ossia all'ippologia in senso stretto, all'equitazione e all'ippiatria. In tal senso, la veterinaria costituisce una parte dell'ippologia, e in alcuni scritti ne è persino la sezione prevalente, anche se è bene tener presente che, talvolta, i trattati sui cavalli che hanno per titolo Kitāb al-Bayṭara (Libro della medicina veterinaria) non si occupano soltanto di veterinaria, ma d'ippologia in generale. Tra le circa quindici opere arabe, alcune delle quali molto estese, che già nel titolo hanno per argomento la scienza veterinaria, la più antica a essere pervenuta fino a noi è il Kitāb al-ḫayl wa-'l-bayṭara (Libro dei cavalli e della medicina veterinaria; conosciuto anche con denominazioni diverse) di Muḥammad ibn Ya῾qūb ibn Aḫī Ḥizām al-ḫuttūlī (seconda metà del IX sec.), caposcudiero alla corte dei califfi abbasidi in Iraq, il quale equiparò il proprio trattato alla Terapeutica di Galeno.

I testi d'ippiatria di maggiore interesse sono, naturalmente, quelli scritti dai veterinari sulla base delle proprie esperienze. È questo il caso dell'opera che costituisce il vertice della letteratura araba sull'argomento, Kāšif al-wayl fī ma῾rifat amrāḍ al-ḫayl (Il disvelatore del male nella conoscenza delle malattie del cavallo), noto anche sotto altri titoli, tra cui Kāmil al-ṣinā῾atayn al-bayṭara wa-'l-zarṭaqa (Trattato completo delle due arti della medicina veterinaria e dell'equitazione) o, sinteticamente, Kitāb al-Nāṣirī (Libro dedicato ad al-Nāṣir), dal nome del sultano mamelucco d'Egitto, al-Malik al-Nāṣir Nāṣir al-Dīn Muḥammad ibn Qalāwūn (709-741/1309-1341), sotto il quale fu redatta anche quest'opera: l'autore del Kāšif al-wayl, Abū Bakr ibn Badr al-Dīn ibn al-Munḏir (che nella letteratura risulta però anche con altri nomi), infatti, era uno dei veterinari del sultano. L'opera può essere considerata uno dei migliori testi medievali d'ippiatria ed è una tipica espressione della cultura egiziana dell'epoca: il cavallo rivestiva, infatti, un ruolo di primo piano nella società mamelucca e in Egitto si trovavano i più grandi ippodromi del mondo arabo-islamico. Nelle dieci parti in cui si articola il Kāšif al-wayl e che riguardano, oltre all'ippologia in senso stretto, anche l'ippiatria, l'autore si sofferma sulle malattie e sulla salute del cavallo, sulle singole patologie e sulle relative terapie. Non mancano accenni a un'etica deontologica, e sono indicate regole di condotta cui il medico veterinario deve attenersi: oltre a conoscere le ferite, le malattie e i rimedi, egli deve rispettare il proprio maestro, comportarsi in modo veritiero e onesto e prestare gratuitamente i suoi servizi ai proprietari poveri di animali, oltre che astenersi dal trattare malattie incurabili. Ibn al-Munḏir, a supplemento del Kāšif al-wayl, include il compendio di un libro anonimo sull'allevamento e sulle malattie di altri animali (mulo, asino, cammello, elefante, bue, pecora), nel quale i vari argomenti sono trattati in modo piuttosto sommario.

Lo stesso visir del sultano d'Egitto al-Malik al-Nāṣir, Tāǧ al-Dīn Abū ῾Abd Allāh Muḥammad ibn Muḥammad (640-707/1242-1307), scrisse un'opera di qualche interesse per l'ippiatria, il Kitāb al-Bayṭara. Nonostante il titolo, infatti, l'opera non riguarda soltanto la veterinaria, ma anche l'ippologia in senso ampio e l'ammaestramento dei cavalli, considerando del pari altri ungulati. Tra le altre opere di ippiatria fondate sull'esperienza personale dell'autore, va menzionato il cosiddetto Kitāb al-Aqwāl al-kāfiyya wa-'l-fuṣūl al-šāfiyya fī ῾ilm al-bayṭara (Libro dei detti sufficienti e dei capitoli esaurienti della scienza veterinaria), redatto dal sultano yemenita al-Malik al-Muǧāhid ῾Alī ibn Dāwūd (r. 1321-1363). Il trattato si occupa anche dell'allevamento e dell'addestramento dei cavalli, nonché di altri animali domestici (mulo, asino, cammello, elefante, pecora, bue); vi è descritta altresì un'epidemia tra i cavalli e i muli scoppiata nello Yemen nel 1327-1328, che si propagò attraverso la vendita e il trasporto di bestie ammalate; del resto, già lo zio di al-Malik al-Muǧāhid, il sultano al-Malik al-Ašraf ῾Umar ibn Yūsuf (r. 1295-1296), aveva scritto un Kitāb al-muġnī fī 'l-bayṭara (Libro dell'arricchimento [delle conoscenze] in veterinaria), in cui, oltre al cavallo, erano considerati il mulo, l'asino, il cammello, il bue e la pecora.

Le malattie dei rapaci: i testi e le terapie

Negli scritti arabi sulla falconeria sono considerati fondamentalmente i quattro generi di rapaci usati per la caccia: l'astore, l'averla, il falco pellegrino e l'aquila. Sono illustrati diffusamente l'aspetto esteriore, il tipo di preda, l'addestramento alla caccia, l'allevamento e la cura, la muta dell'animale, nonché numerose nozioni di veterinaria. Sino al XIII sec. vi sono soltanto dieci opere sulla falconeria degne di menzione, che trattano anche di veterinaria e, come si è già osservato a proposito dell'ippologia, nemmeno in questo caso esistono scritti dedicati esclusivamente alla veterinaria. È a partire dall'VIII sec., alla corte degli Abbasidi in Iraq, che fu redatta gran parte delle opere riguardanti l'argomento. Nel corso del tempo la falconeria araba si sviluppò accogliendo, oltre al-le nozioni della trattatistica greca, tutto quello che prove-niva dalle culture indiana, persiana e turca.

Il primo trattato significativo (giuntoci in due recensioni risalenti al massimo al IX sec.) è attribuito a un certo Adham ibn Muḥriz al-Bāhilī, ma fu probabilmente rielaborato per il califfo abbaside al-Mahdī (r. 775-785) da al-Ġiṭrīf ibn Qudāma al-Ġassānī. L'opera è nota sotto vari titoli, tra cui Kitāb Ḍawārī al-ṭayr (Libro degli uccelli da caccia), e descrive quindici specie di rapaci, ripartite tra i quattro 'generi' che si ritrovano nella restante letteratura araba sull'argomento; essa illustra, fra l'altro, i criteri per distinguere gli animali buoni e quelli cattivi. Nella prima parte sono descritti i segni che indicano la presenza di malattie (si tratta, fondamentalmente, di alterazioni dell'aspetto e del comportamento normale dell'animale); nella seconda parte sono indicate le malattie, i loro sintomi e i relativi rimedi.

Bisogna inoltre ricordare un testo che, pur non essendoci giunto nell'originale in arabo, costituisce uno dei principali trattati medievali dedicati alla cura dei falconi. Attribuito a un autore di nome Moamin, questo trattato fu copiato più volte e tradotto in varie lingue europee. Nella sua versione latina dell'erudito e poliglotta Teodoro di Antiochia (m. probabilmente nel 1250), attivo a Palermo alla corte di Federico II, questo trattato si presenta come una rielaborazione di varie opere di falconeria e di un Kitāb al-Mutawakkilī, un testo sui falconi dedicato al califfo abbaside al-Mutawakkil (r. 847-861). Come per altre traduzioni latine di testi arabi, la sua importanza risiede soprattutto nelle conoscenze mediche e farmacologiche che contiene. In tale contesto, va ricordato poi che lo stesso Federico II scrisse un testo di falconeria, il De arte venandi cum avibus. Nel 378/988 ca. un anonimo falconiere (bāzyār) del califfo fatimida d'Egitto al-῾Azīz (r. 975-996) redasse un Kitāb al-Bayzara (Libro della falconeria), che contiene anche esperienze personali. Vi sono trattate sette specie di rapaci (oltre alle quattro usuali - astore, averla, falco pellegrino e aquila - anche lo sparviero, il laniere e l'aquila del Bonelli), nonché la caccia con il ghepardo e con i cani; anche in questo trattato sono descritti dettagliatamente i colori, la taglia, le qualità e l'addestramento degli uccelli, nonché le malattie da cui questi possono essere affetti.

Il culmine e al contempo la conclusione della letteratura araba classica sulla falconeria e sulla caccia devono essere collocati nel XIII secolo. All'emiro Faḫr al-Dīn Buǧdī ibn Quštimur (m. dopo il 667/1268 o 1269) si deve al-Qānūn al-wāḍiḥ fī mu῾ālaǧāt al-ǧawāriḥ (Il canone sul trattamento medico degli uccelli predatori), diviso in due parti, l'una 'scientifica' e l'altra 'pratica', in cui si illustrano l'addestramento, l'allevamento e le malattie dei falconi. Conformemente alla dottrina degli umori, delle qualità e degli elementi, i falconi sono considerati in quest'opera portatori di tre principî (sangue, umori e aria), e le malattie sono interpretate nei termini della prevalenza di uno di essi. Questo testo costituisce peraltro soltanto la versione abbreviata di un'opera di maggior respiro che lo stesso Faḫr al-Dīn dovette comporre sugli animali da caccia in generale. Nell'area nordafricana, invece, all'epoca di Muḥammad al-Mustanṣir (r. 1249-1277), sovrano hafside dell'Ifrīqiyā, il territorio corrispondente all'attuale Tunisia, fu composto un trattato sui falconi, l'anonimo Kitāb al-Manṣūrī (Libro dedicato ad al-Manṣūr) che si rifà al Kitāb al-Mutawakkilī e descrive anche altri animali da caccia, in particolare, il cane. L'unico esempio di trattato andaluso sulla caccia con i rapaci sembra essere dovuto a un famoso visir, Lisān al-Dīn ibn al-Ḫaṭīb (713-776/1313-1375).

Malattie, terapie e strumenti della veterinaria

Nella letteratura veterinaria islamica è dedicata particolare attenzione alle malattie dei cavalli e dei rapaci da caccia, dei quali si occupavano, oltretutto, due distinte categorie di veterinari. In molti casi, gli autori si soffermano anche sull'esatta somministrazione dei farmaci e sulle modalità di determinati interventi terapeutici, quasi a voler rendere utilizzabili i loro trattati anche da un lettore inesperto. Scarsi sono, invece, gli accenni agli animali domestici, e gli animali selvatici non sono presi affatto in considerazione; la sola notizia che ci è pervenuta in proposito riguarda al-Marwazī, autore di un trattato di zoologia generale risalente all'XI-XII sec. che avrebbe curato una cicogna avvelenata e la zampa ulcerata di un elefante del sultano selgiuchide Malikšāh (m. 485/1092).

Dato il particolare carattere della letteratura e il forte squilibrio nelle conoscenze veterinarie sarà necessario esaminare separatamente le patologie e i mezzi terapeutici e chirurgici che il mondo arabo riservava alle singole categorie di animali: i cavalli, i rapaci e gli altri animali utili all'uomo.

Per quanto riguarda il cavallo, Ibn al-Munḏir nel suo Kāšif al-wayl fī ma῾rifat amrāḍ al-ḫayl descrive duecento malattie, mentre Ibn al-῾Awwām nel Kitāb al-Filāḥa (Libro dell'agricoltura) centoundici; entrambi raggruppano le malattie in base alle parti del corpo o agli organi colpiti. L'elenco di Ibn al-Munḏir (simile, ma non identico, a quello di Ibn al-῾Awwām) comprende: malattie dell'apparato digerente e respiratorio; del sistema circolatorio e di quello nervoso; della pelle (come l'eczema e la lebbra, inclusi i morsi di serpente e le punture di scorpione); malattie cerebrali (commozioni cerebrali, convulsioni); delle orecchie (sordità, ulcere), degli occhi (cecità, tumori) e del naso (polipi); della bocca, della lingua e della laringe (tosse); del collo (meningite cerebrospinale), delle spalle e dei gomiti (fratture, lussazioni); del petto e del sottogola; delle ginocchia, degli stinchi e dei tendini (il soprosso); dell'articolazione del piede e degli zoccoli in generale (inclusa la penetrazione di spine) e, in particolare, del cercine coronario degli zoccoli; dei garretti e del femore (è descritta una forma di paralisi sconosciuta, secondo Ibn al-Munḏir, fino ad allora ai veterinari); del retto (emorroidi); degli organi sessuali; della mammella; della coda, dei lombi, della schiena, dei fianchi, del ventre e dell'ombelico (ernie); dell'intestino; del fegato (l'itterizia e, cosa curiosa, anche la tisi); del cuore; dei polmoni; dei reni e delle giunture (reumatismi, gotta, tetano) e, infine, le malattie dovute a forme di avvelenamento, ossia quelle causate dall'ingestione di corpi estranei.

Particolare rilievo assumono nei testi arabi le patologie esterne, poiché sono più evidenti e i farmaci sono di più facile impiego. Grande attenzione è prestata alle malattie delle zampe e degli zoccoli del cavallo, anche perché in questo importante equide da soma e da sella gli zoccoli sono esposti a numerose affezioni. Oltre alle contusioni provocate dalla penetrazione di oggetti appuntiti, la lacerazione della suola e la caduta degli zoccoli, sono menzionati il rossore del piede (contusioni del cheratogeno ungueale che può infiammarsi), diversi tipi di mal dello zoccolo (crepature verticali dello strato corneo) e il piede incastellato (una stenosi dello zoccolo a seguito di una carie).

I testi arabi enumerano con precisione anche i sintomi che si riferiscono alle patologie della bocca e delle fauci, lingua e palato compresi. Inoltre, le conoscenze (in realtà piuttosto generiche) che vi si rintracciano, riguardo alle malattie degli organi genitali e dell'apparato urinario, agli aborti e alle ernie inguinali, risultano derivate dagli autori dell'antica Grecia. In certi casi, come per quanto riguarda le patologie della spina dorsale, i trattati arabi di veterinaria sono persino più precisi di quelli greci: molte malattie e molti interventi chirurgici che vi compaiono non sono ancora descritti nei testi antichi. È il caso, per esempio, dell'anasarca e dell'idropsia nelle gambe, della lacerazione del retto o dell'intestino, di alcune forme di lussazione e di distorsione degli arti e di alcune patologie dello zoccolo cagionate dalla penetrazione di oggetti appuntiti; egualmente sconosciute al mondo greco erano il soprosso, l'artrite, le infiammazioni reumatiche degli arti, il vescicone (ossia gonfiori alle giunture, infiammazioni della guaina tendinea o borsiti), le fungosità (escrescenze molli che si formano nella piega delle ginocchia), determinati disturbi dell'area addominale e toracica, le ernie ombelicali, le mastiti, e le malattie degli occhi come orzaioli, infiammazioni delle palpebre e fistole lacrimali. I disturbi dell'apparato respiratorio sono trattati, invece, in modo piuttosto generico (sebbene i tumori delle frogie e le bronchiti siano ben descritti) e non mancano le confusioni (per es., tra le faringiti e la linfangite). Alcune malattie degli occhi e delle orecchie sono di difficile identificazione, e lo stesso vale per molte malattie della pelle descritte in modo poco chiaro. Particolarmente oscure sono le descrizioni delle malattie nervose (tra cui la paralisi del nervo ottico e il 'ballo di san Vito'), e si ha l'impressione che a volte sussista una confusione tra tendini e nervi.

La veterinaria araba conosce anche otto malattie contagiose, cinque delle quali erano già note ai Greci. Benché la sintomatologia sia poco chiara, vi si distinguono, comunque, il farcino o mal del verme, la morva e la scabbia e, tra quelle nominate per la prima volta dagli autori arabi, il carbonchio, lo scolo vaginale, gli aborti e la nascita di esseri malformati dovuti alle epizoozie.

Già nella patologia araba si ritrova l'idea che si possano stabilire analogie tra uomini e animali (in particolare con il cavallo) e che sussistano somiglianze tra le patologie umane e quelle animali (come esempi sono menzionati, tra le altre malattie, la congiuntivite catarrale, l'edema delle palpebre, la sordità, le emorragie nasali, le infiammazioni gengivali, i foruncoli e l'alopecia) e che, di conseguenza, le cure per gli animali e per gli uomini possano essere simili. Sul piano terapeutico la differenza è data soprattutto dal fatto che all'uomo sono somministrati farmaci composti, mentre per gli animali, soprattutto per il cavallo, sono più adatti rimedi semplici, talvolta anche più rozzi, poiché si ritiene che gli animali abbiano una costituzione più grossolana. In generale, però, al cavallo si somministravano tutti i rimedi adoperati per l'uomo. I farmaci, ordinati in base all'azione che esplicano e alle forme di somministrazione, si distinguono in espulsivi, astringenti, caustici, diuretici, depilatori, emostatici, purganti, diaforetici, farmaci che provocano gli starnuti e vermifughi, nonché fasciature per curare fratture e lussazioni. Inoltre sono raccomandati rimedi specifici sia per impedire sia per favorire la fecondazione.

I medicinali potevano essere assunti mescolati a cibi solidi o liquidi, sotto forma di pillole o di supposte e spesso erano somministrati come rinfrescanti; talvolta potevano essere applicati esternamente, come nel caso di impacchi (tenuti fermi da bendaggi e fasciature), colliri, linimenti (oli), unguenti o cataplasmi, in particolare di impiastri vescicanti. Gli animali affetti da rogna erano spalmati di pece. Alle terapie va poi aggiunta la ferratura degli zoccoli, cui si ricorreva allo scopo di prevenire le ferite. Gli animali erano spesso sottoposti a bagni d'acqua e di vapore e a suffumigi, e talvolta si faceva ricorso anche a formule magiche e ad amuleti.

Soprattutto nelle terapie (ma anche nell'igiene) i testi arabi evidenziano un notevole progresso rispetto a quelli greci (anche se talvolta vi si accenna al fatto che il veterinario non deve necessariamente essere pulito quanto il medico). Una vera innovazione è rappresentata dalla semplificazione della composizione dei farmaci e dall'introduzione di nuove sostanze (zucchero, particolari sciroppi ed essenze, cataplasmi e unguenti a base di asaro e di basilico). Nei trattati, inoltre, si consiglia al medico stesso di scegliere i farmaci e spesso si indicano le varie terapie possibili.

I medicamenti somministrati agli animali, che in parte possono essere annoverati tra i rimedi simpatetici, derivavano dal regno animale, vegetale o minerale. Tra le sostanze di origine animale vi erano il burro, il latte, il miele, le uova, i pesci, la carne (soprattutto quella bovina), il fiele di toro, ma anche il sangue, l'urina e le corna, nonché la cantaride; quelle di origine minerale comprendevano pietre, rame, oro, argento, borace e terre medicinali. Particolarmente numerose ‒ oltre cinquecento ‒ erano le sostanze di origine vegetale impiegate per scopi terapeutici. Se mancano le radici e i cereali, in compenso compaiono quasi tutti i frutti, molte foglie ed erbe, la farina, il vino, la melassa, numerosi tipi di gomma e lo zucchero; dalle piante erano ricavati altresì molti oli ed essenze. Del resto, la preponderanza dei rimedi vegetali su quelli di origine animale e minerale non è caratteristica della medicina orientale e si registra anche in quella europea.

Tra gli interventi e le operazioni chirurgiche sui cavalli, i più frequenti erano il salasso e la cauterizzazione. Nella prassi veterinaria araba queste due terapie rappresentavano una sorta di rimedio universale. Il salasso, raccomandato per esempio per la clorosi, era praticato anche preventivamente, in un determinato periodo, quando l'animale era in buone condizioni di salute. In questo caso, si incidevano varie parti del corpo e si toglieva soltanto una determinata quantità di sangue. Per quanto riguarda la cauterizzazione, Ibn al-Munḏir ne descrive oltre trenta tipi, con le loro possibili applicazioni. Essa poteva essere utilizzata, per esempio, per asportare tumori oppure come emostatico, per arrestare un'emorragia. L'uso del fonticolo, assai diffuso in passato nella medicina per consentire lo scolo degli umori, non era molto frequente tra gli Arabi. Per ricucire le ferite si usava il filo e, talvolta, anche una specie di sutura ottenuta con le mandibole delle formiche, cui si facevano mordere i bordi della ferita e che erano poi decapitate. Tra le altre operazioni chirurgiche praticate in veterinaria, vi erano il salasso con le sanguisughe, l'asportazione dei tumori e l'incisione degli ascessi. Operazioni particolari erano praticate per il muso, gli occhi, il naso, la cavità orale, la colonna vertebrale e gli arti, gli organi genitali e la zona anale. Come già nella medicina greca, si usava asportare le ghiandole linfatiche dalla faringe e, per l'ascite, si praticava la paracentesi. Altri interventi chirurgici descritti nei trattati di veterinaria araba che non si ritrovano negli scritti degli autori dell'Antichità sono le estrazioni dentali, la limatura dei denti irregolari e lo smembramento del puledro nel grembo della madre nei parti difficoltosi. Nei testi si descrive altresì la mozzatura della coda (che era accorciata attraverso un'incisione dei muscoli in modo che restasse sollevata), effettuata per curarne le distorsioni. Un'altra delle operazioni praticate era l'asportazione tramite raschiamento del panno dell'occhio o panno corneale, un tessuto vascolare neoformato che copre la cornea e che era curato anche nell'uomo.

La castrazione dei cavalli è in generale disapprovata nel mondo islamico, in quanto non è lecito distruggere la possibilità di procreare. Tuttavia, le dichiarazioni del Profeta Muḥammad a riguardo, riportate per esempio dal famoso giurista e tradizionista Aḥmad ibn ḥanbal (164-241/780-855), sono per lo più interpretate nel senso di un divieto circoscritto alla castrazione effettuata senza motivi e che si rivelerebbe inutile. La castrazione del cavallo era lecita se effettuata per ragioni terapeutiche, per esempio quando l'animale soffriva di crampi e capogiri provocati da un'infiammazione cerebrale o da una nefropatia, o per ragioni di utilità, poiché si riteneva che il castrato fosse più adatto in battaglia rispetto allo stallone. Nella veterinaria araba la castrazione era effettuata in quattro modi: con il fuoco (cauterizzazione); mediante asportazione chirurgica; con lo schiacciamento dei testicoli; oppure con il metodo, ritenuto molto doloroso, consistente nel distaccare i testicoli recidendo i frenuli. Per gli interventi chirurgici erano utilizzati diversi strumenti: il rasoio e il coltello chirurgici (quest'ultimo per incidere gli ascessi); forcipi, pinze, raschietti, uncini, lime, forbici, grappette; clisteri e, non da ultimo, lancette per il salasso e ferri arroventati per la cauterizzazione. A ciò si aggiungevano gli attrezzi utili per tenere aperta la bocca dell'animale, i cilindri di legno per schiacciare i testicoli nella castrazione e 'strumenti' animali come le formiche e le sanguisughe.

Nei trattati di falconeria le malattie dei rapaci sono descritte in genere considerando una determinata specie (di solito l'astore e, nel trattato di falconeria dell'anonimo egiziano del X sec., anche lo sparviero), applicando poi intuitivamente queste nozioni anche ad altre specie. Le malattie del rapace da caccia sono elencate enumerando, dalla testa agli artigli, le membra e gli organi colpiti dell'animale. Vi sono descritte le malattie degli occhi (lacrimazione), il raffreddore, la costipazione, il carcinoma, la presenza di muco nello stomaco, la gotta, le infestazioni di pidocchi e di vermi (parassitosi), le ulcere, i brividi e la febbre, la caduta e la malformazione del piumaggio, le ferite (in particolare delle zampe) e i disturbi gastrici, nonché l'aumento o il calo ponderale eccessivi. I trattati che ci sono giunti nella loro interezza terminano in genere elencando i segni che preannunciano la morte dell'animale.

Talvolta, in questi trattati, è operata una distinzione tra malattie apparentemente prive di causa ('casuali') e malattie dovute a un incidente (per es., la bolsaggine). Una malattia importante, riconducibile a un'affezione polmonare imputabile a infreddature o a disturbi digestivi, era la cosiddetta 'malattia del gesso', così chiamata per l'aspetto assunto dagli escrementi (si tratta peraltro di una malattia difficile da diagnosticare, poiché l'indurimento degli escrementi può avere varie cause). Nella diagnosi - oltre alla palpazione - assumeva grande rilievo l'esame delle feci e dei rigurgiti. Nel periodo della muta, infine, si raccomandava una particolare assistenza. Anche le malattie degli uccelli, come quelle del cavallo, erano assimilate, talora, a quelle umane, sebbene, in generale, curare gli uccelli fosse considerato più difficile che curare gli esseri umani. Occasionalmente tali malattie erano paragonate a quelle degli ungulati.

I trattamenti terapeutici degli uccelli sono di solito descritti con grande precisione e l'anonimo egiziano del X sec. cita anche numerosi casi tratti dall'esperienza personale. Le terapie spesso dovevano essere ripetute e, come nel caso dei cavalli, in genere erano indicati diversi farmaci per curare una stessa malattia (contro i vermi, per es., sono proposte numerose ricette). I farmaci consistevano, generalmente, in sostanze di origine animale o vegetale. Tra quelle animali erano usate le uova, il fegato di pecora, il burro (contro la debolezza), il latte d'asina (per le infiammazioni della gola), il miele, la carne di gallina, di pecora e di colombo. Carne, pane e formaggio costituivano, in particolare, la base per la somministrazione di altre sostanze. Per rafforzare l'animale e migliorarne le prestazioni, si ricorreva spesso a un'alimentazione a base di carne (di pecora, gallina, quaglia, topo, cane). Talvolta, per curare le ferite agli occhi e il glaucoma, al volatile era somministrato anche del sangue. Tra le sostanze vegetali si impiegavano l'aglio, varie bacche, semi, erbe, spezie - come il pepe e il cumino (contro la borsite) -, nonché lo zucchero e la legna di vite ridotta in cenere. Oli e pomate erano utilizzati per curare il becco, mentre le polveri si somministravano per inalazione. Si adoperavano anche combinazioni di medicinali (per es., contro l'asma e le affezioni delle vie respiratorie si usavano sostanze essiccate in olio di giaggiolo). Per alcune malattie si rendeva necessario tenere l'animale a digiuno. Come per i cavalli, le fratture e le lussazioni dei volatili andavano fasciate, e i trattati arabi descrivono in dettaglio in quale modo applicare le bende e con quali sostanze spalmarle per farle aderire alla parte.

La chirurgia, nel complesso, non fa parte della terapeutica dei rapaci da caccia quanto dell'ippiatria. Per alcune malattie, tuttavia, era utilizzato il salasso (per es., contro le vertigini - nel qual caso i trattati indicano in quale punto esatto del corpo vada praticata l'incisione -, contro l'afflosciamento delle ali o la perdita delle piume); mentre molto raramente si effettuavano cauterizzazioni (per es., contro la difterite) alle quali si preferivano suffumigi e vapori che si facevano inalare all'animale; in caso di raffreddamento, la cura consisteva, invece, nel far sudare il volatile. Gli strumenti chirurgici usati per i volatili, pertanto, sono piuttosto pochi rispetto a quelli impiegati nell'ippiatria. I più utilizzati sono il coltello per il salasso, che poteva essere identico allo scalpello con cui è asportato il panno oculare; bastoncini metallici per pulire le orecchie ed eliminare i parassiti dagli occhi, e il clistere. Nei rapaci da caccia, le ferite erano suturate dopo essere state riempite di grasso di bue.

Rispetto all'ampio spazio che la letteratura veterinaria araba dedica al cavallo e ai rapaci da caccia, gli accenni che i testi riservano agli altri animali domestici e utili sono piuttosto fugaci e generici e, tranne rare eccezioni, sono inclusi nei trattati di ippologia. In tale panorama, tuttavia, un posto particolare è riservato al cammello, al quale non sono dedicati trattati di tipo zoologico o veterinario, ma è concesso uno spazio maggiore rispetto agli altri animali domestici e utili e, sia nei trattati di ippologia sia in quelli di agricoltura, sono descritte alcune delle malattie da cui può essere affetto e le relative terapie. Sono indicati in tal modo i disturbi dell'apparato digerente, la stranguria, la tosse, il rossore del piede, la cancrena del piede, il soprosso al ginocchio, l'edema del pastorale, lussazioni e lesioni (per es., quelle causate dalla bardatura), la nictalopia, gli ascessi e la sudamina, vertigini e insolazioni, e infine la scabbia. A ciò si aggiungono le malattie dell'apparato genitale, le paresi, le parassitosi, i morsi e le punture di animali, e voglie patologiche (per es., l'abitudine di mangiare legno). Anche per il cammello si praticavano la cauterizzazione (per i bubboni della peste) e il salasso. La scabbia era curata spalmando sulla pelle catrame, resina e peli di cammello disseccati; in certi casi erano applicati bendaggi (per es., un sospensorio per le mammelle), occhi e zoccoli erano protetti con pezzi di cuoio e i canini dell'animale erano segati. L'utero delle femmine era esplorato manualmente e nei testi sono indicati alcuni metodi (inattendibili alla luce della scienza moderna) per determinare il sesso del feto.

Sulle malattie dell'asino e del mulo i trattati arabi offrono indicazioni assai scarse e sommarie. In generale, si ritiene che questi animali abbiano gli stessi disturbi, malattie e deficienze dei cavalli. Lo stesso discorso vale per gli elefanti, che sono trattati soltanto di rado, nonché per i buoi, le pecore e le capre. Tuttavia, sono frequenti i richiami ad Aristotele e alla letteratura zoologica greca. Per quanto riguarda il bue, Ibn al-῾Awwām menziona il panico causato dalle punture di insetto, e raccomanda amuleti per proteggere gli animali dalla peste, mentre per le pecore prescrive di separare gli esemplari sani da quelli malati. Lo stesso Ibn al-῾Awwām menziona alcune malattie delle colombe e delle galline, e Ibn Qutayba, nel suo Kitāb ῾Uyūn al-aḫbār (Libro delle fonti delle notizie), elenca quattro malattie dei colombi.

Infine, qualche accenno alle malattie del cane ‒ anche la rabbia era una malattia nota agli Arabi ‒ è contenuto nel libro sulla falconeria Kitāb al-Manṣūrī del XIII sec., che raccomanda l'uso dell'aceto per favorire la cicatrizzazione delle ferite ed eliminarne i vermi.

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- 1977: Viré, François, Essai de détermination des oiseaux-de-vol mentionnés dans les principaux manuscrits arabes médiévaux sur la fauconnerie, "Arabica", 24, 1977, pp. 138-149.

van Vloten 1918: Vloten, Gerlof van, Ein arabischer Naturphilosoph im 9. Jahrhundert [el-Dschâhiz], Stuttgart, Heppeler, 1918.

Wiedemann 1916-17: Wiedemann, Eilhard, Über die Kriechtiere nach al Qazwînî nebst einigen Bemerkungen über die zoologischen Kenntnisse der Araber, "Sitzungsberichte der Physikalisch-Medizinischen Sozietät zu Erlangen", 48-49, 1916-1917, pp. 228-285.

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