LA COMUNICAZIONE DEL DESIGN

XXI Secolo (2010)

La comunicazione del design

Carlo Martino

L’era del digitale e del multimediale

Nei primi anni del nuovo secolo, la comunicazione che gravita intorno al sistema del design ha subito sostanziali modificazioni che l’hanno vista trasformarsi in un apparato complesso e sofisticato, inscindibile dall’idea stessa di design. In questa sede, più che tracciarne la storia, interessa delinearne la recente fenome-nologia, evidenziandone caratteristiche, dinamiche, linguaggi e possibili evoluzioni, in relazione ai contesti in cui si è sviluppata e agli ambiti che ha coinvolto.

L’espressione comunicazione del design significa letteralmente far conoscere il progetto. Posta in questo senso, però, la presente riflessione sembrerebbe dover affrontare solo un obiettivo alto e comunque parziale, ossia quello della ‘divulgazione’ e ‘promozione’ culturale del progetto, rischiando di tralasciare altre sue finalità ugualmente rilevanti (come quella, preminente, di promozione commerciale e di pubblicità) e di allontanare da una sua più ampia e generale comprensione. La comunicazione del design sembrerebbe, infatti, più vicina a quelle forme di comunicazione che il semiologo Ugo Volli fa rientrare nel cosiddetto circuito seduttivo, in altre parole, in quelle manifestazioni «in cui convivono una forte esposizione dell’emittente», in questo caso il design, «e una pesante pressione sul ricevente» (2007, pp. 27-28), ossia il pubblico destinatario.

In questo contesto la comunicazione è in realtà un insieme di attività strettamente connesse al design che rappresenta di fatto sia un veicolo di divulgazione e di conoscenza sia un efficace e potentissimo strumento di promozione; al tempo stesso costituisce anche uno degli ambiti in cui il design si muove e di cui si alimenta, un vero e proprio mediascape, citando il termine introdotto nel 1990 dall’antropologo Arjun Appadurai per indicare uno dei paesaggi creati dalla «rete della comunicazione globale» (Carmagnola 2006).

È chiaro quindi che i fenomeni che hanno caratterizzato la comunicazione del design nei primi anni del 21° sec. non possono non essere letti in stretta connessione con quelle che sono state le evoluzioni e le dinamiche nell’ambito più generale della comunicazione e alla luce delle modificazioni geopolitiche e sociali e delle conseguenti trasformazioni del mercato che hanno segnato questo periodo; ma soprattutto non possono non essere correlati con gli altrettanto numerosi sviluppi del design.

I principali fenomeni di seguito descritti dimostrano che il design, in questo momento storico, si trova in un rapporto più che mai simbiotico con la comunicazione; un rapporto che vede convivere, in una dinamica appunto biunivoca, le principali tematiche del contemporaneo. Per cui accade che la comunicazione traduca coerentemente e trasferisca ai diversi tipi di pubblico i concetti sui quali il design sta lavorando, amplificandone gli effetti; e il design, a sua volta, tragga dai linguaggi, dalle icone e dalle modalità del fare comunicazione alcuni spunti creativi, assorbendoli pienamente e declinandoli nelle differenti articolazioni del progetto. Accade persino che il design venga consapevolmente generato per essere consumato dai processi di comunicazione, come teorizza da anni il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi, e come dimostra, per es., la diffusione degli showpieces, i pezzi unici o in edizione limitata, molto scenografici, dalla chiara destinazione comunicativa effimera.

È noto come la comunicazione giochi da sempre un ruolo fondamentale nella riuscita commerciale dei prodotti, e come l’uso dei media sia sempre stato diversificato in base ai target e alle categorie merceologiche. Per cui in passato, per es., la pubblicità delle automobili ha privilegiato una comunicazione di massa attraverso gli spot televisivi e la pubblicità a stampa su riviste popolari e di grande distribuzione, mentre la comunicazione di prodotti più elitari è stata veicolata attraverso mezzi di comunicazione specializzati a distribuzione mirata.

L’irrompere della digitalizzazione della comunicazione, dal web agli ambienti virtuali (MySpace, Second life ecc.), e dei sistemi di comunicazione individuali e flessibili, spesso economicamente più accessibili, ha stravolto questi schemi, portando di frequente la comunicazione del design a utilizzare indistintamente i cosiddetti sistemi di comunicazione verticali, orizzontali e a rete. Non solo, ma ha immesso nel processo anche attori del design prima nell’ombra e la stessa idea dell’esistenza di un backstage del design, ossia di un complesso sistema correlato.

I designer, per es., prima conosciuti solo attraverso una griffe, o per gli occasionali articoli di divulgazione, o ancora per le monografie celebrative spesso pubblicate solo dopo la loro scomparsa, hanno intrapreso una comunicazione autonoma del proprio prodotto, della propria progettualità. Per cui in questi anni si è assistito a una proliferazione di loro siti web, oltre che di pubblicazioni e di mostre autoprodotte. I designer si sono trasformati in un certo senso in media del design. Gli stessi imprenditori si sono fatti conoscere, cercando di umanizzare la comunicazione del proprio brand, e non mancano casi in cui è stata la stessa azienda, con le sue persone e il suo know-how, a esporsi in maniera diretta.

D’altro canto, la maggiore disponibilità di mezzi ha generato un fenomeno di ‘meticciato’ e di contaminazione tra gli stessi media e i relativi linguaggi, per cui è possibile parlare di infotainment nel caso in cui l’informazione sia assimilata alla pubblicità, o di edutainment nel caso in cui la comunicazione scientifica o educativa risulti ibridata nell’intrattenimento, o di vera e propria arte e cultura nell’entertainment.

L’accesso facilitato alla comunicazione e l’acquisita coscienza della possibilità di manipolare l’informazione hanno liberato un incredibile spazio per la creatività nel design e nella sua comunicazione, a cui però non sempre è corrisposto un analogo spazio di ricezione. I millennials, la ‘generazione di Internet’, capace di gestire e manipolare realmente la multimedialità, è ancora socialmente poco significativa, e con scarso potere d’acquisto. Per cui tutta la potenzialità insita nei new media risulta fondamentalmente ancora poco utilizzata. La proliferazione dei media ha posto inoltre un problema di regia e di coordinamento degli stessi, e per questa ragione il mondo del design ha scoperto, e in alcuni casi rivalutato, la figura dell’art director (AD). Proprio l’inizio di secolo ha visto, infatti, il diffondersi di AD per lo più con una formazione da designer: dall’italiano Piero Lissoni, regista dei noti marchi Boffi, Tecno, Lema, Living divani e Porro, a Giulio Cappellini, AD di tutto il gruppo Charme (Cappellini, Poltrona Frau, Alias, Cassina, Thonet), all’inglese Tom Dixon, chiamato nel 2004 dalla scandinava Artek a svolgere questo ruolo, a Frédéric Beuvry, AD del gruppo Seb che comprende marchi quali Moulinex, Krups, Calor e Rowenta. Tutti professionisti che rappresentano lo spirito unitario dell’azienda e sono capaci di interpretarne l’essenza, dal momento che hanno una visione precisa del brand.

Non tutti i settori merceologici che coinvolgono il sistema del design hanno però utilizzato pienamente i media e le strategie di comunicazione disponibili. Proprio il settore dell’arredamento, che per molti è associabile quasi esclusivamente al design, è quello che forse ha accusato il maggiore ritardo nella comunicazione. Al contrario, invece, settori merceologici di prodotti di consumo, dall’elettronica ai veicoli, hanno delineato in maniera chiara scopi, identità e strategie di comunicazione.

La comunicazione

L’attuale scenario relativo alla teoria e alla critica della comunicazione è quanto mai contraddittorio. Da un lato, c’è chi sostiene che l’epoca della comunicazione ha già toccato il suo punto culminante, associandola a una malattia che manifesta oggi compiutamente i suoi effetti deleteri e rovinosi in tutti gli ambiti sociali (Perniola 2004); dall’altro, c’è chi si rivolge alla comunicazione con entusiasmo ritenendola una nuova prospettiva esistenziale e dichiarando, per es., che la scienza, oggi più che in altri tempi, ha ‘bisogno’ di comunicare (Castelfranchi, Pitrelli 2007). C’è chi constata il valore ormai acquisito dalla comunicazione, testimoniato dalla pervasività e dalla diffusione della parola stessa nei linguaggi odierni (Volli 2007); e chi (ancora Perniola 2004) accusa la comunicazione di uno storico inganno, che ha avuto la capacità di trasformare l’inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza.

La contraddizione è insita nell’idea stessa di comunicazione, un’idea profondamente ambigua, che oscilla «fra lo scambio d’informazione e l’azione ‘simbolica’ sull’altro, fra il dialogo e la manipolazione […] fra un dominio assoluto del comunicatore e una libertà altrettanto assoluta del presunto destinatario» (Volli 2007, p. 16). Questa molteplice e contraddittoria natura della comunicazione è innegabile, così com’è innegabile che comunicare oggi significa essere e che «solo chi è in grado di ‘trasmettere il suo messaggio’, di ‘far sentire la sua voce’ sul mercato delle idee e delle persone, sembra esistere davvero» (p. 17).

Se da un lato quindi la comunicazione si rivela imprescindibile fattore esistenziale, dall’altro Mario Perniola intravede nella riscoperta di un ‘sentimento estetico’ delle cose, che non sia troppo lontano dai reali bisogni e dalle aspettative degli individui, una via d’uscita. In virtù di tali constatazioni il design, sia perché carico di qualità estetiche sia perché spesso vicino ai reali bisogni della gente, potrebbe svolgere un ruolo di riequilibrio sociale e culturale.

Il mercato

La situazione odierna relativa al mercato e alle teorie di marketing è sostanzialmente riducibile ad alcune grandi questioni che hanno avuto sensibili ricadute sul design, e di conseguenza sulla sua comunicazione.

Una è certamente legata al rapporto tra globalizzazione e localizzazione, e cioè all’esigenza sempre più avvertita da imprese designer di rivolgersi con i loro prodotti e le loro attività sia alla globalità del mercato, sia ad ambiti più contenuti: questione questa già nota alla fine del 20° sec., e che ha continuato ad animare il primo decennio del 21°.

La vera novità è invece rappresentata dalla constatazione del valore economico e strategico dell’insieme dei mercati minori, i cosiddetti mercati di nicchia. In una sorta di lettura sovrastrutturale il giornalista statunitense Chris Anderson ha analizzato questo fenomeno, ben sintetizzato sulla sua rivista «Wired» nell’articolo The long tail (2004, 10; articolo poi sviluppato in un omonimo libro del 2006). L’autore, osservando diagrammi di consumo di vari prodotti, soprattutto dell’industria dei media e dell’intrattenimento, dalla musica digitale (jukebox digitali, iTune) ai libri (Amazon), ha rilevato il permanere costante di un certo livello di consumi, minimo ma comunque presente. Tale curva del diagramma, che prende appunto il nome di distribuzione a coda lunga, fa comprendere che i mercati di nicchia hanno in ogni modo un valore di consumo costante e significativo, e non si approssimano mai allo zero. Anderson ha evidenziato che in un’economia dell’abbondanza come quella che caratterizza questo inizio di secolo, la domanda di prodotti è sempre viva. Questa situazione impone questioni essenziali relative alla progettazione dei prodotti stessi. In primo luogo, la scelta di pensarli per grandi mercati o per l’insieme di mercati di nicchia e, relativamente alla loro comunicazione, se si debbano adottare metalinguaggi o se si debba tendere a una ‘polisemia’.

In realtà, nell’ambito della comunicazione del design non si è compresa appieno la mutata dinamica dei mercati, ed è anzi possibile affermare che ancora una volta ci si è dimostrati miopi di fronte ai suoi rivolgimenti, tranne forse che per le poche sperimentazioni di gruppi giovanili dal respiro internazionale.

Come si comprenderà meglio in seguito, l’altra importante questione che ha connotato questi ultimi anni è stata la scoperta del valore strategico dell’aspetto emozionale ed esperienziale del mercato. Il ‘marketing esperienziale’ è ciò che consente a ogni brand di offrire ai consumatori non semplici prodotti o servizi, ma esperienze concrete e multisensoriali riconducibili a tali prodotti o servizi, capaci di coinvolgere contemporaneamente i sensi, l’emotività e il pensiero razionale. Esperienze che si rivelano piacevoli al punto tale da influenzare favorevolmente la percezione della marca o indurre all’acquisto.

A questo fronte sensoriale del marketing si è invece affiancato un approccio al mercato di tipo tattico. È il caso in particolare del ‘marketing virale’, una vera e propria evoluzione del passaparola, un tipo di commercializzazione non convenzionale che sfrutta la capacità comunicativa di pochi soggetti interessati a un fenomeno per trasmettere il messaggio a un numero esponenziale di utenti finali. Il fenomeno parte dall’originalità di un’idea: qualcosa che, a causa della sua natura o del suo contenuto, riesce a espandersi molto velocemente in una data popolazione; come un virus, l’idea, rivelatasi interessante per un utente, viene passata da questo ad altri contatti, da quelli ad altri ancora e così via. Veicolo privilegiato del messaggio è la comunità della rete, in grado di comunicare in maniera chiara, veloce e gratuita, anche se si tratta ormai di una tecnica promozionale diffusasi anche per prodotti non strettamente connessi a Internet.

Il design

Vanni Pasca (2008) ha delineato una serie di processi della nostra epoca che rivelano un radicale modificarsi del ruolo e dell’importanza del design. Tra i più importanti si pone la forte ‘estensione geografica’ del design, fino a qualche anno fa esclusivo appannaggio di pochi Paesi occidentali industrializzati. Oggi numerosi Paesi in via di sviluppo, dal Brasile alla Cina, ne hanno compreso il valore strategico ed economico avviando programmi di formazione, promuovendo attività di ricerca e sviluppo e dedicando particolare attenzione alla sua comunicazione.

Questo fenomeno ha avuto numerose conseguenze che hanno influenzato anche l’aspetto della comunicazione, in primo luogo imponendo un’internazionalizzazione delle sue forme in modo tale da poter raggiungere varie tipologie di pubblico, di estensione e complessità molto più vaste che in passato.

Pubblici dislocati in luoghi molto lontani, con culture visive e valori del tutto differenti. Di fronte a questa esigenza, le strategie sono state disparate: dall’elaborazione di messaggi con linguaggio globale, rivolti a un pubblico indifferenziato, a quella con linguaggi specifici, per target di nicchia. Si è inoltre assistito al successo di prodotti evocativi di atmosfere e localismi particolari, a conferma della capacità comunicativa del prodotto stesso.

Altro rilevante processo, segnalato dallo stesso Pasca, è certamente quello dell’estensione numerica della comunità del design, e cioè l’esponenziale allargamento delle persone coinvolte in quest’ambito. Ampie le ricadute di questo processo nel campo della comunicazione con un forte sviluppo di tutti quegli strumenti che creano comunità, quali riviste specializzate, eventi, mostre, reti.

Terzo e ultimo processo rilevato da Pasca è quello ‘dell’estensione tipologica’ del design in quanto non esiste prodotto che non venga oggi investito dai processi di estetizzazione da esso attivati. È forse questo il fenomeno che più di tutti ha sconvolto le dinamiche comunicative, poiché ha creato l’opportunità di compiere continue e infinite ibridazioni tra modalità di fare comunicazione tipiche di alcuni settori merceologici e mezzi attraverso cui farla.

L’estensione di cui parla Pasca, però, riguarda anche il rapporto tra la materialità del prodotto e la sua comunicazione visiva, in questo periodo molto più forte che in altri.

Gli attori del design hanno sempre più presente il ruolo strategico della comunicazione, a iniziare dal progetto dell’image dell’azienda e del prodotto. Carlo Branzaglia (2003) distingue bene, infatti, l’identity dall’image, chiarendo che l’image è l’apparato comunicativo destinato all’esterno, quello che deve essere percepito dal pubblico, mentre l’identity ha un ruolo di comunicazione interna. L’estensione tipologica a cui fa riferimento Pasca ha inoltre travalicato i confini stessi del design, andandosi a integrare con altre manifestazioni artistiche.

Temi e linguaggi della comunicazione del design

Dall’emotional design all’iperseduttività

Donald A. Norman, noto studioso statunitense di scienze cognitive, nel 2004 ha pubblicato un saggio di grande successo dal titolo Emotional design, che costituisce l’esito di una lunga ricerca sulla relazione tra l’uomo e gli oggetti. L’autore, dopo anni di ricerca scientifica sull’uso e l’utilità degli artefatti, dichiara di aver cambiato idea rispetto a un tempo e di essere giunto alla convinzione che l’emozione è una componente necessaria della vita, dal momento che influenza il nostro modo di sentire, di comportarci e di pensare, e in ciò riconosce alla sfera emotiva una centralità nella relazione con gli oggetti.

Delicate marriage of design with emotion è lo slogan presente nella home page del noto designer nederlandese Tord Boontje, autore di apprezzatissimi decori di carattere geometrico-naturalistico; mentre l’inglese Kevin J. Roberts, visionario CEO (Chief Executive Officer) dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi, ha coniato nel 2000 il termine lovemarks, nell’ambito di un più vasto ambito di attraction economy, per definire brands, eventi ed esperienze di cui le persone ‘si innamorano’ (Roberts 2006) e con i quali decidono di instaurare rapporti fedeli di consumo. Tali lovemarks sono marchi che creano un legame emotivo con il cliente e rappresentano, di fatto, casi di successo da cui prendere esempio.

In questo inizio secolo vi è quindi pieno accordo sul fatto che l’emozionalità guidi più che mai le relazioni tra gli uomini, ma anche tra gli uomini e gli artefatti, rivelandosi un determinante fattore di successo. L’emozionalità è dunque riscontrabile in gran parte del design contemporaneo e rivive pienamente nei processi di comunicazione in cui viene abilmente trasferita, rappresentandone uno dei temi portanti. Un’emozionalità già palesata nei prodotti di fine secolo – come quelli dal carattere ludico e affettivo che la Alessi ha proposto negli anni Novanta del 20° sec. – e da quel momento rivelatasi un filone aureo del design.

Un’emozionalità manipolata e abilmente suscitata dalla comunicazione pubblicitaria, che ha visto un assoluto primato della dimensione visiva e spesso anche sonora. La prima, essenzialmente fotografica, non disdegna l’accostamento a figure suggestive, testimonial o presenze simboliche, prevalentemente femminili o infantili, e gioca sapientemente con gli effetti di illuminazione, dalla piena luce, quasi abbagliante, fino all’estremo caravaggesco di buio e luce d’accento. Una tecnica che emoziona anche grazie all’originalità dei tagli fotografici, con punti di vista inusitati (come quelli rasoterra sperimentati in molte recenti immagini pubblicitarie) e che, in alcuni casi, gioca sul binomio emozione-sensualità, in altri su quello emozione-sorpresa, e in altri ancora su quello emozione-ironia.

Approcci in cui affiora la componente ludica della comunicazione che connota un filone molto diffuso del design, nel quale regna ancora la dimensione visiva. Più che la luce, in questo caso sono il colore e le dimensioni a farla da padroni. Forti contrasti si alternano a colori accesi oppure a tinte pastello, mentre il fuori scala, il gigantismo diventano elementi privilegiati per richiamare la memoria infantile del gioco e dell’affettività. Memoria stimolata anche da una dilagante grafica di tipo fumettistico che diventa, in alcuni casi emblematici, illustrazione.

La dimensione visiva non è solo legata alla pubblicità, è anche ben presente in altre manifestazioni del processo di comunicazione, in cui è possibile lavorare sull’esperienza emozionale dello spettatore. Nella comunicazione dell’emotional design si è privilegiato, infatti, il contatto più diretto con il prodotto o con la marca, mediato però da un contesto ad alto contenuto di suggestione, tendente a una vera e propria esperienza comunicativa, abilmente concertata.

L’approccio emozionale ha provocato anche un effetto opposto, una sorta di saturazione visiva, come quella che Volli (2003) denuncia, accusando la pubblicità e i media in generale di ‘iperseduttività’, di un eccesso di plagio che svilisce l’intelligenza dello spettatore, appiattendolo su un livello infantile, per giocare su un terreno in cui è vulnerabile e, quindi, facilmente irretibile. Volli afferma infatti che l’iperseduzione è comunicazione soprattutto conativa e manipolativa che finisce per non parlare più di merci o di storie o di notizie, ma parla essenzialmente ai lettori di loro stessi, adulandoli allo scopo di indurli all’acquisto.

La comunicazione emozionale del design sembra dimostrare quanto già affermato da Perniola (2004) a proposito dell’aspetto ‘performativo’ della comunicazione: la cultura della performance è orientata verso il mantenimento dell’eccitazione più che verso il raggiungimento del piacere. Allo stesso modo, la comunicazione emozionale del design sembra forzata e fine a sé stessa in quanto vi emerge solo lo sforzo di ‘mantenere’ alta e di ‘prolungare’ l’emozionalità.

New luxury design

Il design del nuovo lusso e la sua comunicazione lavorano in continuità con l’emotional design, condividendone alcuni principi guida, ma diversificandosi nella scelta dei canali e dei media utilizzati, oltre che chiaramente nel target destinatario.

In questo contesto, in cui è riemerso recentemente il tema dei pezzi unici o delle piccole serie, resta dominante il concetto di ‘esclusività’. Come ricorda Pasca (2008), il fenomeno non è nuovo, e ha vissuto momenti analoghi anche nel corso degli anni Ottanta del 20° sec., con casi come quelli di Alchimia, Memphis e Anthologie Quartett di Borek Sipek.

La ricetta di questi ultimi anni però è diversa, poiché sono entrati in scena attori che solitamente animano il mondo dell’antiquariato, dalle case d’asta Christie’s e Sotheby’s, fino alle gallerie d’arte Estab-lished & sons a Londra o Larry Gagosian a New York, a Los Angeles, nella stessa Londra e a Roma. Circuiti che hanno di fatto creato, proprio basandosi sul concetto comunicativo di ‘esclusività’, la domanda di mercato di pezzi unici.

Il new luxury design vive un rapporto privilegiato, oltre che con l’arte, anche con il mondo della moda di cui sposa spesso tecniche e approcci comunicativi che si caratterizzano, per es., per la ricorrente presenza di modelle o addirittura di testimonials eccellenti. Non è un caso che noti marchi della moda si siano interessati al design, integrandolo nelle loro attività. Tra i coinvolgimenti più frequenti vi è quello con l’arredamento, per cui recentemente si è assistito, per es., al rilancio di Armani casa, o di Fendi casa, o alla presentazione di linee di mobili firmate da Roberto Cavalli.

Nell’ambito delle sinergie comunicative tra design e moda primeggia la fotografia. Il taglio fotografico usato dai professionisti della moda, fatto di soluzioni spesso barocche in cui primeggia la figura umana, è stato abilmente trasferito nell’ambito del design del lusso. La comunicazione del lusso è certamente selettiva, indiretta, discreta e spesso camuffata nell’informazione. Non è raro imbattersi in riviste di costume dove vengono intervistati personaggi noti i quali, in maniera discreta, esibiscono il proprio corredo di oggetti, o descrivono i propri gusti e le proprie scelte. Un modo raffinato per perseguire quella che Volli (2007, p. 30) definisce una ‘comunicazione delegata’, in cui l’emittente – nel caso del design del lusso, la marca – comunica per interposta persona. L’esclusività che connota il mondo del lusso favorisce inoltre modalità di comunicazione uniche e originali, dalla sponsorizzazione di eventi ad associazioni con altri marchi posizionati sulla stessa fascia di mercato.

In questi primi anni del 21° sec., il design del lusso ha attirato l’attenzione del mondo della finanza, portando alla creazione di veri e propri ‘poli del lusso’, ossia alla definizione di strategie di selezione e di aggregazione di marchi che risultano posizionati nella fascia più alta del mercato. Tutto ciò al fine di sviluppare sinergie soprattutto nell’ambito della comunicazione e del riposizionamento finanziario.

Dal restyling alla citazione

Il Novecento, connotato da grandi movimenti di avanguardia e da una profonda rottura con il passato, si è concluso, come afferma Virginio Briatore (2000), con un ‘bagno di nostalgia’. Un bisogno di conforto dalla storia e dal passato ben visibile nel proliferare di esempi espliciti di restyling, come nel caso di automobili e ciclomotori – nuova Mini (2001), nuova Vespa (2006) e nuova 500 (2007) – o nell’ampio diffondersi di apparati decorativi e stilemi storici applicati su prodotti di diversa natura merceologica.

Non è un caso che Tomás Maldonado, uno dei maggiori teorici del design, si sia soffermato (2005) a riflettere sulla relazione tra memoria e conoscenza nell’era digitale, analizzando l’impatto sulla nostra memoria delle innovazioni nel campo delle comunicazioni. Una delle principali preoccupazioni di Maldonado, condivisa anche da Gillo Dorfles (2008), è la riduzione o addirittura la mancanza dei tempi di elaborazione del pensiero, riduzione certamente connessa alla velocità con cui è ormai elaborata, alimentata e sostituita l’informazione. In tal modo viene meno la possibilità della sedimentazione e della memorizzazione dell’informazione stessa.

Si apre dunque un interrogativo inquietante, legato agli intervalli di memoria, alle immagini/informazioni, nonché al tema dei revival. Se l’intervallo di memoria si accorcia, si accorceranno anche i periodi dei ricorsi storici. Se in questo decennio si sono diffusi ampiamente, anche nel design, revival degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, riferiti a periodi lontani solo quaranta o cinquant’anni, quanto breve sarà invece in futuro l’intervallo di tempo cui la nostra memoria potrà fare riferimento?

La memoria su cui in questo inizio di 21° sec. ha lavorato il design (e la sua comunicazione) è in realtà una memoria strumentale, una sorta di via d’uscita dal rigore e dall’essenzialità del minimalismo degli anni Novanta del 20° sec., che ha aperto nuovi spazi progettuali e di conseguenza nuovi mercati. Una memoria fatta di citazioni e di rielaborazioni, anche colte, di tecniche della tradizione, di temi decorativi e stilistici del passato. Rielaborazioni che hanno trovato terreni fertili in Paesi in cui il decoro classico ha una sua tradizione secolare, come per es., la Francia e i Paesi Bassi. Non è un caso, infatti, che i designer che più hanno perseguito il recupero critico e colto della tradizione e del decoro come, per es., Marcel Wanders, Hella Jongerius e il citato Boontje, siano nederlandesi, e Philippe Starck e il giovane Dominique Mathieu siano francesi.

La tradizione e la memoria cui il design e la sua comunicazione si sono ispirati non sono solo quelle classiche del barocco o del neoclassico, ma anche più recenti. Sono stati saccheggiati, per es., apparati segnici come quelli neoliberty utilizzati negli anni Cinquanta del Novecento da Franco Albini e Gio Ponti. Un chiaro trasferimento iconico e morfologico dal passato è quello attuato attraverso il restyling di molti artefatti, tra cui spiccano per popolarità le autovetture. Dagli anni Sessanta del 20° sec. ne sono state riprese alcune dal forte valore evocativo (si vedano i successi di Jeep e Hummer), per lo più indirizzandole verso nuovi target, più facoltosi e forse più nostalgici. Per cui la nuova 500, più grande e confortevole del modello originale, non è più una piccola autovettura economica e popolare, bensì un prodotto sofisticato e relativamente costoso. Altrettanto è accaduto per la nuova Mini, che ripropone le forme del modello originale inglese con alcune modifiche in funzione di una collocazione alta nel mercato, quella dei giovani benestanti o delle donne in carriera.

Questo bisogno di memoria ha trovato nella comunicazione un alleato strategico per collocarsi sui mercati. Di fronte, infatti, a prodotti molto connotati, quali appunto gli esempi citati, la comunicazione ha usato linguaggi di supporto e di enfatizzazione, non certo di sovrapposizione: il suo veicolo principale resta comunque il prodotto, con il suo forte valore iconico.

Dal sense and simplicity al super normal

La promessa di brand che accompagna dal 2004 il logo Philips, una delle più grandi aziende di elettronica del mondo, è sense and simplicity. Una promessa divenuta da allora non solo emblema della comunicazione della Royal Philips electronic, ma manifesto della radicale trasformazione che l’azienda ha operato a partire da quella data. Nel comunicato stampa che accompagnava il lancio, si constata infatti che la promessa della rivoluzione digitale di rendere le nostre vite più semplici e facili e di migliorarle attraverso la tecnologia, non è stata totalmente mantenuta. Per molti aspetti, infatti, la tecnologia ha reso la nostra vita più complicata, per cui la Philips si impegna verso consumatori e clienti per mantenere la sua promessa di sense and simplicity proponendo prodotti costruiti sui loro desideri, tecnologicamente avanzati e facili da utilizzare (http://www.philips.com/about/company/brand/brandpromise/index.page, 25 genn. 2010).

Le fa eco John Maeda (2006), noto teorico dell’informatica nonché grafico e artista visivo del MIT (Massachusetts Institute of Technology), il quale dichiara che perseguire la semplicità nell’era digitale è diventata la sua missione. L’artista prosegue affermando che le persone non si limitano a comprare, ma amano, e questo amore premia soprattutto i progetti che rendono loro la vita più semplice. Semplificazione non significa però impoverimento o riduzione della funzionalità. Può rappresentare anche uno strumento strategico chiave, un vantaggio competitivo ed economico, come sostiene ancora Maeda, adducendo tra gli esempi l’iPod, un dispositivo che ha meno funzioni, ma costa più di altri. Per dimostrare questa tesi, Maeda nel 2004 ha fondato il MIT Simplicity consortium, presso il Media lab, cui hanno aderito una decina di partner aziendali tra i quali Lego, Toshiba e Time, con il preciso scopo di definire il valore economico della semplicità.

Nel 2006, altri due grandi personaggi del design internazionale, Jasper Morrison e Naoto Fukasawa, hanno curato presso la Axis gallery di Tokyo la mostra Super normal. Sensations of the ordinary, replicata nel 2007 alla Triennale di Milano. Nel testo introduttivo (2007), Morrison sostiene che nel progetto di design contemporaneo l’understatement, una ricercata mancanza di visibilità, è diventato un requisito fondamentale, una necessità.

A conferma di un orientamento del design verso l’eccesso, Morrison e Fukasawa sostengono che un certo design contemporaneo, incoraggiato dalle riviste patinate, fa a gara per realizzare oggetti il più evidenti possibile, e che a questo design ‘vistoso’ bisogna contrapporre una rivalutazione delle cose semplici e ordinarie: gli oggetti supernormali. Non è un caso che entrambi i designer siano stati coinvolti, in anonimato, in una delle realtà imprenditoriali più interessanti e originali degli ultimi decenni, che dell’ordinarietà e della semplicità ha fatto una bandiera, la catena giapponese di negozi Muji.

Sono questi solo alcuni significativi indicatori di un diffuso bisogno di semplificazione e di ordinarietà avvertito da imprese, designer e consumatori, in reazione alla complessità e all’eccesso che connota la contemporaneità. Un fenomeno emerso già nel design degli anni Novanta del 20° sec. e che Pasca aveva riconosciuto come ‘nuova semplicità’, ma che con l’inizio del nuovo secolo si è cristallizzato, uscendo dalla pura semplificazione linguistica e funzionale di minimalista memoria, per diventare qualcosa di più profondo, un bisogno vitale, un’esperienza ricercata, una domanda diversa, non solo funzionale o estetica, ma soprattutto concettuale.

Il tema simplicity and ordinariness è diventato infatti esso stesso elemento di linguaggio, a cominciare da quella unità minima rappresentata dal brand name. Dal già citato iPod, nome bisillabo che non ha nessun collegamento di senso con la funzione del prodotto, ad altri nomi di successo come Aygo per la nuova city car Toyota, la tendenza alla semplificazione ha imposto nomi corti, dal suono facile e orecchiabile o, in alcuni casi, la semplice denominazione della tipologia dell’oggetto, come nel caso della Bicycle di Muji. «Semplicità significa sottrarre l’ovvio e aggiungere il significativo», afferma ancora Maeda (2006; trad. it. 2006, p. 121), ed è quanto sembra aver fatto il design di prodotto che ha fatto proprio questo tema. La spontaneità del gesto nell’uso è spesso il requisito di un prodotto semplice. La comunicazione di un funzionamento non complicato è spesso accompagnata da una forma semplice, concetto espresso nella loro produzione progettuale dai due curatori di Super normal e nel suo saggio da Maeda.

In ambito pubblicitario, come nel citato caso di Muji, questii concetti hanno trovato varie soluzioni espressive, a partire dall’associazione con il tema della rarefazione (meno cose = più semplice), fino alla scelta radicale di una monocromia dominante. In ambito web il tema della semplicità è molto sentito poiché il suo must funzionale, la ‘navigabilità’, trova nella semplificazione una chiave di grande successo.

Il principio simplicity and ordinariness è anche il filo rosso che guida la comunicazione del design per la sostenibilità, nell’ambito della quale la semplicità evoca i concetti di ecologico e di naturale. Per cui il ricorso a colori naturali, dai beige evocativi delle canape e del cartone, fino al bianco sporco delle carte riciclate, si sposa con altrettanto naturali tinte acide, dai verdi ai marroni ai gialli. Nella comunicazione del design ecologico è spesso l’oggetto nella sua consistenza a costituire il principale veicolo di comunicazione; segue il packaging che, in quanto considerato il maggior imputato nell’ambito dell’inquinamento dei rifiuti, è diventato centrale in un contesto di progettazione sostenibile. I sistemi di comunicazione tradizionali, pagine pubblicitarie o spot, sono trascurabili rispetto a prassi più dirette, che vivono sulle modalità prima definite virali, da passaparola, a canali diretti quali eventi e fiere. Un aspetto trascurato dalla comunicazione del design sostenibile è quello dell’emozionalità che, come si è sottolineato in precedenza, costituisce un grande motore di comunicazione.

Dal cultural jamming al guerrilla marketing

Colori vivaci, accostamenti cromatici arditi, libera manipolazione dei caratteri tipografici, revisione dei rapporti proporzionali, uso strumentale della scala, dinamismo dell’immagine, predilezione per l’illustrazione, sfrenato impiego degli effetti grafici figli di Photoshop, uso del linguaggio contratto: questi sono solo alcuni degli ingredienti della comunicazione visuale giovanile del design, in cui domina una ricercata e costante infrazione delle regole.

Un rilevante fenomeno legato al mondo giovanile ha infine investito la comunicazione del design di questi anni e ha avuto notevole risonanza per il suo contenuto innovativo, per lo spiccato carattere sovversivo e per la connaturata capacità pervasiva e ‘virale’. Si tratta di un fenomeno che si è sviluppato in stretta connessione con la street culture, ossia con quelle manifestazioni culturali metropolitane che vedono nella strada «il territorio in cui si consuma l’innovazione» e il «vero reparto di ricerca e sviluppo del capitalismo post-fordista», come ha affermato l’artista Andrea Natella, uno dei teorici del guerrilla marketing, in un’intervista del 2007 (C. D’Alonso, Focolai di comunicazione virale, http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=349; 25 genn. 2010). In questo fenomeno si fonde e si specchia anche la generazione dei millennials, e che a sua volta ha elaborato alcuni originali approcci al design e alla sua comunicazione, sviluppando idee e soluzioni che sono state guardate con grande attenzione dal mondo delle imprese.

Già negli anni Novanta del 20° sec. il sistema del design e i suoi canali di comunicazione avevano mo-strato una certa attenzione al fenomeno delle culture giovanili, dedicandogli spazi nei diversi eventi, come nel caso del SaloneSatellite di Milano, avviato nel 1997, o del Designerblock di Londra, sulle riviste, come, per es., è accaduto con la comparsa di specifiche rubriche su «Interni» e su «DIID. Disegno industriale-Industrial design». L’idea vincente è stata quella di creare a margine di questi eventi commerciali o delle riviste, vetrine speciali per i giovani creativi, in modo da metterli in connessione con le imprese, connessione che è spesso risultata fruttuosa, come ha dimostrato la mostra Avverati. Progetti dal SaloneSatellite alla produzione, organizzata nel 2007 da Beppe Finessi in occasione del decimo anniversario dell’evento.

In tale contesto, i media hanno iniziato a ricoprire un ruolo da talent scout che ha avuto diversi effetti: da un lato quello di lanciare realmente il giovane designer di turno attraverso la ‘presenza pubblica’ sulle pagine del giornale o del web; dall’altro quello di allargare il proprio target, in modo tale che i giovani, di fatto, costituiscano un nuovo pubblico.

L’esplosione dello young design ha origine da quell’esponenziale allargamento della comunità del design di cui parla Pasca, e dal parallelo ampliamento del sistema formativo di tipo universitario in questo ambito, coinciso con l’apertura di numerose scuole di design in Italia e nel mondo. I giovani hanno mostrato la capacità di elaborare specifici linguaggi che hanno profondamente influenzato la comunicazione di determinate comunità, connotando intere aree geografiche.

Sociologi e antropologi utilizzano il termine tribù per definire gruppi sociali caratterizzati dalla condivisione di comportamenti e di oggetti. Tale termine è riferibile spesso ai giovani che amano riconoscersi in gruppi accomunati da passioni sportive o musicali. Come quelle storiche anche le tribù giovanili hanno elaborato propri simboli e codici condivisi, fornendo ai designer e ai comunicatori del design un insieme di segni. I giovani hanno inoltre saputo sviluppare nuove modalità di divulgazione dell’informazione accompagnate da inedite tecniche e da rivoluzionarie tecnologie di supporto come, per es., è accaduto con il web 2.0. Tali fenomeni hanno avuto profondi riflessi anche sul modo di concepire e affrontare il mercato, giungendo perfino all’elaborazione di nuove teorie, come quelle del cultural jamming, del guerrilla marketing e del viral marketing.

La comunicazione del design legata alle culture giovanili, anche se apprezzabile per freschezza e per contenuto innovativo o per capacità pervasiva, è sembrata spesso richiamarsi a quel ‘dispotismo comunicativo’ cui fa riferimento Perniola (2004) come effetto dell’abbattimento di ogni razionalità a favore dell’immediatezza e della creazione dal nulla.

Come accade per i progetti, questo tipo di comunicazione è risultata banale per aver cercato la ‘sovversione’ fine a sé stessa, con il semplicistico obiettivo di abbattere gli equilibri già dati, senza una vera rielaborazione culturale. Ai giovani creativi del nuovo secolo va comunque riconosciuta una cosciente irriverenza nei confronti del passato e del consolidato, che, però, se da un lato libera spazi alla creatività, dall’altro non consente lo sviluppo di un processo evolutivo della cultura del design.

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