La critica del diritto giurisprudenziale e le riforme legislative

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

La critica del diritto giurisprudenziale e le riforme legislative

Maria Gigliola di Renzo Villata

La prima metà del Settecento tra conservazione e cambiamento

Critica del diritto giurisprudenziale e riforme legislative sono due aspetti della fenomenologia del ‘giuridico’ che, destinati per lungo tempo a svilupparsi quasi in parallelo senza registrare intensi momenti di avvicinamento e incontro, rivelano invece una loro stretta contiguità nel Settecento. Un secolo per tanti versi ricco di trasformazioni, che influiranno sulle future vicende europee e anche extraeuropee, mostra ai nostri occhi una valenza quasi ‘magica’ nel mondo del diritto. Se nella prima metà del secolo l’intreccio non si rivela in opera di frequente, nella seconda l’accelerarsi dei cambiamenti (e delle riforme) consente di verificare di continuo questo connubio, pure se permangono forti resistenze a radicali innovazioni. Ciò che comunemente è denominato Illuminismo giuridico, con chiaro riferimento a un’età dei lumi, che segna in molti campi un evidente progresso, compreso quello del diritto, è preceduto da un periodo di marca essenzialmente conservatrice, in cui un sistema che si avvia lentamente alla consunzione continua a reggere i rapporti sub specie iuris, mentre più segnali rivelano la sua crisi e il disagio cresce. Se ne percepisce da più parti la fatiscenza, si cercano e si invocano rimedi. La giustizia, di sicuro frenata nella sua azione da tare, per così dire, strutturali, funziona assai male, per colpa delle leggi, della scienza giuridica che le interpreta, di coloro che sono chiamati a patrocinare le cause e a giudicare: la litigiosità è elevata, dall’esito incerto e assai lontano nel tempo. È la rappresentazione che emerge, con toni di inusitata vivacità e provocazione per il tempo, dal saggio Dei difetti della giurisprudenza scritto da Ludovico Antonio Muratori nel 1742 e dedicato al cardinale Lambertini, divenuto papa Benedetto XIV, chiamato a soccorrere la «Giurisprudenza [...] umiliata» e affetta da «malori e difetti», «magagne interne ed esterne», che condannano la giustizia «a […] sterminate e deplorabili lunghezze».

Si snoda una radiografia, spietata e corrosiva ma, in ultima analisi, moderata, del sistema giuridico allora vigente, visto sotto la lente d’ingrandimento del funzionamento della giustizia, gravato da difetti intrinseci, congeniti e senza rimedio, ed estrinseci, di cui Muratori considera possibile l’eliminazione. Tra i primi la scarsa chiarezza delle leggi, non capaci di esprimere inequivocabilmente la mente del legislatore, per lo più redatte in latino, prolisse, bisognose di interpretazione, a sua volta fonte di ulteriori incertezze e confusione; l’impossibilità di disciplinare l’infinità varietà dei casi umani; la difficoltà di interpretare la volontà e intenzione degli uomini in maniera univoca, ricavandola dai fatti compiuti e dalle loro parole, all’origine di infinite controversie, suscitate talora da ignoranti notai e pilotate da avvocati senza scrupolo; infine «le teste, cioè […] gl’intendimenti de’ giudici», vittime, quali esseri umani, di debolezze, di capricci e varietà. L’esito finale del giudizio, la sentenza, è «un lotto, un biribisso, un azzardo».

I difetti estrinseci, giudicati emendabili, concernono piuttosto l’attività degli operatori giuridici, soprattutto della scienza applicatasi nei secoli ai testi giustinianei, che ha causato innumerevoli contraddittorie interpretazioni dotate di autorevolezza legislativa («E chiamo Leggi le loro opinioni»), da Muratori disprezzate soprattutto se espresse in generi letterari quali le allegazioni o i consilia, mentre di maggiore stima sembrano godere i trattatisti e la decisionistica.

Ma proprio l’operato dei giudici, dei quali traccia un modello ideale, timorato di Dio, ricco di doti morali e intellettuali di eccellenza, è mal valutato laddove il giudicare si eserciti nel segno dell’abuso dell’arbitrio, indicato quale cifra del sistema giudiziario del tempo.

Tra i rimedi, tutti poco risolutori, si pone allora un

esattissimo e chiaro estratto e compendio metodico di tutte le leggi di Giustiniano, convenevoli all’uso de’ nostri tempi, risecando le superflue, le riprovate, e le contrarie (p. 67).

Vi sono in nuce alcune delle idee guida che saranno rilanciate a mo’ di manifesto dall’Illuminismo giuridico tra i dogmi dei philosophes: le leggi devono essere poche e comprensibili a tutti, dunque in lingua volgare. Quanto alle opinioni accumulatesi nei secoli, assemblate anche diligentemente dai meritori raccoglitori di communes opiniones, il giudizio che se ne ricava è sfumato: pur considerandole Muratori un ingombro ormai insopportabile per il funzionamento del sistema, non riesce a trovare a esse un valido ‘succedaneo’.

Su questo versante ricorre con insistenza alle virtù taumaturgiche del principe, in grado di attuare «qualche saggio ed utile rimedio» per «soccorrere la malmenata giustizia», mentre giudica non sufficiente farmaco per curare la malattia la legge da poco emanata (1729) da Vittorio Amedeo II, che imponeva a giudici e avvocati il divieto delle citazioni della dottrina, prescrivendo loro di fondare le argomentazioni solamente sulle stesse Costituzioni piemontesi, sugli statuti locali, nonché sulle decisioni dei magistrati sabaudi e infine sulla Legge comune. Il rimedio infine suggerito, anzi reclamato da Muratori, consiste in «un picciolo codice nuovo di Leggi», compilato da una commissione di uomini dotti e saggi, a ciò preposta dal lungimirante principe «amatore del suo popolo», che provveda a risolvere in via autoritativa le questioni più controverse «che più facilmente son portate a i tribunali, ed importa al Pubblico, che sieno decise».

L’operetta, pur intrisa di spirito di moderazione, suscita quasi immediate reazioni: da La giurisprudenza senza difetti (1743) dell’avvocato criminale veneto Giovanni Antonio Querini, esaltazione del diritto romano, divinità offesa da Muratori, ma per Querini «sole sempre risplendente», maneggiato da «mani imbrattate» appartenenti ad avvocati e cattivi professori, causa essi del cattivo funzionamento del sistema, alle Osservazioni dello stesso anno di Giuseppe Pasquale Cirillo, panegirico del diritto romano, accreditato di completezza sistematica proprio da Cirillo, che è personaggio coinvolto in primo piano a Napoli nel progetto avviato di riforma legislativa. Non è da meno Francesco Rapolla, autore intorno al 1726 del De jurisconsulto, non ‘negativo’ verso gli orientamenti neoculti, pur talvolta censurati, anch’egli partecipe ai lavori legislativi napoletani: la sua Difesa della Giurisprudenza, espressione di una sorta di pigrizia mentale, che lo distrae dalla ricerca proficua di soluzioni, convinto com’è dell’ineluttabilità dei mali del sistema e delle scarse attitudini di molti interpreti. Sulla scia della polemica muratoriana, Giuseppe Aurelio Di Gennaro affronta nel 1744 tali profili nelle Viziose maniere del difender le cause nel foro. L’autore, anch’egli membro della commissione incaricata di controllare il lavoro del Cirillo, prende lo spunto da un certo incancrenirsi della professione forense per proporre con stile gradevole e vivace, insieme a una opportuna «savia e regolata educazione», rinnovata nei metodi, una sorta di rigenerazione morale del giurista, attuata estirpando vizi e coltivando virtù, per incidere sugli aspetti devianti della professione originati dalla prassi. La certezza del diritto si staglia all’orizzonte del nostro autore come un bene veramente irrinunciabile, da conseguire puntando, piuttosto che sui legislatori, sulle qualità degli uomini di legge, chiamati ad applicarla e capaci di far emergere quei principi di ragione e di giustizia congeniti alla natura umana. Sono suggerimenti non rivoluzionari, ma cautamente riformisti e rispettosi di una tradizione ragionevole. La consapevolezza che una migliore funzionalità del sistema si potesse raggiungere anche attraverso una buona educazione giuridica andava crescendo, anche se in ritardo a confronto con alcuni traguardi già raggiunti in Europa.

Non si può allora non ricordare, esponente di spicco di quell’ambiente, Antonio Genovesi (1713-1769), amico di Muratori e attento suo lettore ma di lui più aperto all’innovazione, profeta dell’Illuminismo napoletano, annotatore di una fortunata edizione italiana del montesquieuiano De l’esprit des loix, stimato come economista da Pietro Verri, ‘predicatore’ dell’unità e dell’uniformità nel campo politico, legislativo e giurisdizionale nel nome dell’ordine, fortemente critico nei confronti del ceto forense e del suo ‘questionare’. Autore della Diceosina, o sia della Filosofia del giusto e dell’onesto (1766), crede nell’uguaglianza naturale degli uomini e nell’esistenza di un diritto naturale immutabile e universale, nel solco di un patrimonio ideale condiviso dall’Illuminismo, ma, quanto all’adesione ad alcune delle dottrine più diffuse, come quella sull’interpretazione e sui poteri del giudice, si rivela più moderato e accorda ai giudici, purché «bastantemente savi ed onesti», un potere d’interpretazione.

Francesco Mario Pagano, poco dopo, nel Politicum universae Romanorum nomothesiae examen (1768), critica anch’egli il sistema vigente poggiante sulle fondamenta giustinianee, affetto da incertezza, confusione e contraddittorietà, e propone una codificazione di provenienza statuale come efficace rimedio: saranno riflessioni poi riprese e ampliate nelle successive Considerazioni sul processo criminale (1787) e nei Della ragion criminale libri due (1795), ove prende corpo l’idea di un codice, fondato sul diritto di natura e sintesi dei principi razionali e universali sul diritto e processo penale, in antitesi al carattere controverso e, per così dire, fluviale e complesso della contemporanea giurisprudenza criminale.

Punti in comune sono facilmente rintracciabili con le opinioni espresse da Giuseppe Maria Galanti tanto nelle Considerazioni sulla nostra legislazione (1781) quanto nel successivo Testamento forense (2 voll., 1806), nonché nella Descrizione geografica e politica delle Sicilie (4 voll., 1786-1790), radiografia a tratti impietosa della «corruttela del Foro […] le versuzie e le ribalderie scrivanesche»: accanto a un antiromanesimo, pur non così ‘viscerale’ come in altri autori coevi, si ritrova la critica del sistema di diritto comune del tempo, decaduto, afflitto dai difetti noti, governato da un ceto forense assai potente, ritratto in termini quasi catastrofici, in tutta la sua arroganza e strapotere, nelle Relazioni al Re, e la proposta di una codificazione, divisa in due parti, nel solco dell’esempio del Codice e del Digesto, la prima dedicata alle leggi politiche ed economiche, mutevoli, la seconda destinata a raccogliere le norme eterne e immutabili. Un antiromanesimo ancora più severo e sdegnoso, in una delle punte più estreme, sarà anche la cifra delle Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori (1791) di Melchiorre Delfico, che si farà propugnatore di un codice espressione della ragione e delle leggi della natura. Ma siamo ormai in un’epoca più apertamente innovatrice, ricca di proposte riformiste.

Se torniamo indietro ai tempi di Rapolla e Cirillo, troviamo in Toscana analoga moderazione. Pompeo Neri, nel suo Discorso primo risalente al 1747, conferma l’importanza del diritto romano, ancora asse centrale nella formazione del giurista e diritto sussidiario nella pratica forense secondo modalità di applicazione che, pur registrando la prevalenza dello ius proprium (e la volontà all’origine del progetto di edificazione del diritto patrio toscano), lo assoggettano a regole probatorie più rigorose. Il diritto patrio, diviso nelle due parti del diritto pubblico e del privato, da certificare nella sua infinita complessità e nell’attuale validità, comprensiva della prassi giurisprudenziale, riassume gli orizzonti prefissi al progetto di ‘codificazione’ e alle idee del giurista toscano. Sensibile sì al diritto romano, espressione di ragione, al quale attribuisce di certo un ruolo non secondario e comunque di ‘guida’ nel riordino sistematico, impostato secondo la ripartizione gaiano-giustinianea, rivela comunque uguale sensibilità per la tradizione patria, secondo un atteggiamento pragmatico che unisce le posizioni culte, da lui recepite alla scuola di Averani e ormai sempre più condivise in Italia, e l’analisi della realtà forense: una combinazione dunque tra spinta riformista, senza dubbio in lui presente e realizzata poi con successo nel catasto teresiano, al centro dei suoi successivi impegni in Lombardia quale presidente della Giunta per il censimento, e legame con la società locale della quale, esponente di rilievo del gruppo dirigente, riflette la varietà delle esigenze legate al passato e delle aspirazioni a un progresso ordinatorio.

A contrappunto delle parole di Neri potrebbero servire concetti, pur in parte diversi ma di segno analogo, espressi da Gabriele Verri, l’immarcescibile senatore milanese padre di Pietro e Alessandro, nel suo De ortu et progressu juris mediolanensis prodromus pubblicato nel 1747 a mo’ di premessa all’undicesima edizione inalterata delle Constitutiones dominii mediolanensis. In Gabriele, la volontà conservatrice di un regime, difeso proprio perché antico, e l'istintiva esigenza di revisione di un sistema giuridico che ai suoi stessi occhi mostrava numerose pecche, si fondono in una visione del problema legislativo non priva di spunti originali. Il diritto comune, pur disordinato e oscuro, assolve nel sistema una funzione al momento insostituibile perché, grazie ai principi di equità naturale che lo ispirano, alle affinità con il diritto di natura e alla capacità di soddisfare le esigenze di una società civile aperta agli scambi con altri popoli, riesce a colmare le lacune di un assetto carente soprattutto in tre settori, quello processuale, il testamentario e il contrattuale. Il riferimento al consensus e alla voluntas populorum, espressione di ragioni intrinseche di eccellenza e di utilità, rivela una straordinaria consonanza di accenti con alcune annotazioni di Neri dello stesso anno.

I frammenti di pensiero qui appena ricordati attestano la prevalenza di una tendenza a conservare, ma pure un anelito di moderato cambiamento, segno di un disagio crescente e diffuso. Sarà solo nella seconda metà del secolo che un pensiero più maturo prenderà corpo, mentre le iniziative legislative si faranno più insistenti in forza di una più determinata politica del diritto che, elaborata da sovrani europei dai larghi orizzonti mentali, circondati da funzionari preparati e aggiornati, condurrà a una riorganizzazione graduale dell’ordinamento giuridico attraverso un processo codificatorio infine concluso secondo tempi diversi. Su questo versante in Italia i frutti non saranno copiosi eppure qualcosa si farà.

La seconda metà del Settecento: verso il progresso

Negli anni Sessanta l’accelerazione verso un futuro di progresso nel mondo del diritto è di tutta evidenza. Una schiera di intellettuali di pensiero, di cui Cesare Beccaria, che pubblica nel 1764 Dei delitti e delle pene, appare campione veramente emblematico, si mette all’opera con grande impegno e svilupperà un movimento di pensiero che, inserito nel più vasto quadro dell’Illuminismo europeo e da esso di certo influenzato ma non privo di caratteri di originalità, metterà a fuoco un nucleo di dottrine ‘eretiche’ rispetto al passato ma a poco a poco accettate e condivise da un crescente numero di sostenitori. L’ambiente che nutre il marchese lombardo di un afflato culturale, impregnato di modernità e dagli orizzonti non circoscritti al territorio italiano, è quello che genera, in contemporanea, le pagine del «Caffè», di marca prettamente illuministica, dei fratelli Verri e dei loro amici. Pietro, figlio dei lumi, ma non sempre, nella concretezza del vivere quotidiano, aderente agli ideali accarezzati (le vicende successorie legate al patrimonio paterno lo attestano in maniera eloquente: Renzo Villata 1999; P. Verri, Carteggio (1782-1792), 7° vol., 2012), componendo nel 1763 l’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese, pone le basi per la futura teoria, espressa limpidamente nel saggio successivo Sulla interpretazione delle leggi (1765). Nell'Orazione panegirica il bersaglio privilegiato sono il Senato milanese, «un corpo così augusto che sia più augusto della Legge medesima», autorizzato a travalicarla indiscriminatamente, che non dà mai ragione delle proprie sentenze, e «iudicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi» (p. 173). Accanto e intrecciato all’atteggiamento antigiurisprudenziale emerge così in positivo, l’ideale di un codice semplice come quello del progetto di codice civile, il Code Frédéric, commissionato da Federico II di Prussia

abolendo la Giurisprudenza Giustinianea, e sostituendo al Nuovo, al Vecchio, all’inforziato tre minuscoli tometti tedeschi ai quali ha osato dare il nome di Codice, ridicolo codice in vero, che potrebbe portarsi comodamente al passeggio (p. 168).

Ma è in Sulla interpretazione delle leggi, «una sorta di summa sincretistica delle ideologie antigiurisprudenziali in ordine al problema dei rapporti tra giudice e legge» (Cavanna 2005), che le idee dell’Illuminismo giuridico, diffuse nella vulgata dei grandi profeti francesi dei lumi, ricevono un assetto più ragionato: al centro è la tematica della separazione dei poteri e, dunque, soprattutto dei compiti e della figura del legislatore-sovrano, distinti da quelli del giudice, dove si possono rilevare l’ascendente esercitato dall’Esprit des loix e gli accenti democratici di Jean-Jacques Rousseau, l’accoglimento della concezione volontaristica della legge quale abbozzata nella costruzione rousseauiana, e un’insistenza sulle attribuzioni del giudice, circoscritte al solo far eseguire la legge. Ne consegue il divieto di interpretazione, intesa come potere ‘creativo’ dei giudici, secondo un orientamento che riceve un’accoglienza quasi entusiasta tra gli illuministi.

Ma è soprattutto Alessandro che, accanto a un antiromanesimo per così dire di maniera, nutrito di giudizi sferzanti su Giustiniano e Triboniano, si fa portatore di un’ideologia codificatoria non completamente eversiva del sistema in vigore ma a esso legata da qualche elemento di continuità. In Di Giustiniano e delle sue leggi si succedono i soliti ‘luoghi comuni’ di stampo umanistico, sull’opera legislativa giustinianea «ammasso di leggi, monumento di una grand’opera mal eseguita», «confuso ammasso di assurdità e contraddizioni», espressione di una «sì estesa libidine di giurisprudenza».

Nel posteriore Ragionamento sulle leggi civili una riflessione pacata, che prende avvio dalla constatazione che «molti si lagnano della incertezza del diritto», si sviluppa poi in una sequela di giudizi analoghi a quelli espressi in Di Giustiniano e delle sue leggi sulle leggi romane, compreso l’elogio delle istituzioni, ove «vi si spiegano in massima, e vi si danno in istile legislativo i principi onde decidere le questioni», non senza che traspaia un attestato di stima anche per alcune opere più recenti ‘romanistiche’, richiamate per il loro disegno di riassetto secondo l’ordine ‘naturale’, come Les lois civiles di Jean Domat, pubblicato anonimo (1689-1894). Nel corposo saggio si intesse un più ricco affresco ricostruttivo delle grandi scuole e orientamenti scientifico-pratici succedutisi non lesinando critiche all’«ambiguità e licenza di legislatura» e alla stessa ‘opinione comune’, rimedio solo «apparente» alla cronica incertezza del sistema.

Né si può omettere di ricordare quanto Beccaria scrive fin dall’avvio di Dei delitti e delle pene, in stretta attinenza a una critica del sistema vigente nel ‘penale’, fondato, piuttosto che sulla legge, sulle «opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi». La condanna riecheggia espressioni, immagini e autori (dileggiati), familiari all’ambiente legato all’Accademia dei pugni, secondo una condivisione ideologica di cui si sono già agevolmente rilevati qua e là i tratti comuni. Viste le premesse, ne derivano alcune conseguenze che qui si accenneranno appena per completezza del quadro: così la legalità del diritto penale (§ III), i ‘limitati’ compiti riservati al giudice, chiamato a «esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi» e a fare solo un sillogismo perfetto, del quale «la premessa maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena». Sullo sfondo aleggiano le teorie montesquieuiane del giudice bouche de la loi, che ammettono un’interpretazione letterale della legge mentre escludono un’indagine sul suo spirito:

Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni […] Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione (§ IV).

Rimedio per i difetti del sistema appare dunque «un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera», chiare, che «non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta». A proposito della chiarezza, opposta all’oscurità «che strascina seco necessariamente l’interpretazione», Beccaria, in linea con un’esigenza diffusa e già qui menzionata, spezza una lancia a favore di una redazione nella lingua dei destinatari, a essi tutti comprensibile, non solo a pochi:

Se l’interpretazione delle leggi è un male, egli è evidente esserne un altro l’oscurità […] e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo (§ V).

Con atteggiamento similare Giacomo Ugo Botton di Castellamonte (ma i nomi che si potrebbero fare sono molti di più) rinnova la polemica antitribonianea, che in lui è anche attacco alla storia romana, nel solco di una tendenza e in comunanza di accenti presenti già tre decenni prima nel Muratori di Dei difetti della giurisprudenza, e riecheggiati poi negli scritti di Beccaria e dei fratelli Verri, nonché di altri illuministi sparsi per l’Italia:

Se paragoniamo il progetto d’Adriano di raccogliere degli editti pretori con quello di Giustiniano saremo forzati d’approvare il primo, e disapprovare il secondo. […] Uno sterminato ammasso di leggi, di cui non havvene alcuna al coperto degli argomenti in contrario (Saggio sopra la politica e legislazione romana, 1772, pp. 63-64).

O ancora si può ricordare, a dimostrazione di un comune linguaggio diffuso tra gli uomini di cultura ‘evoluti’, Giuseppe Antonio Pilati, che reca come cifra del suo pensiero una vivacissima vena censoria verso la società del tempo, i suoi costumi e istituzioni, nonché le leggi riprendendo il leitmotiv antigiustinianeo in chiave montesquieuiana.

Nella Napoli dei lumi, Filangieri compone sempre nel 1772 le Riflessioni politiche sull’ultima legge del Sovrano che riguarda la riforma dell’amministrazione della giustizia, commento favorevole ai dispacci emanati da Ferdinando II di Borbone, volti a imporre ai giudici del Regno di motivare le sentenze fondandole sulle «leggi espresse del regno e comuni» piuttosto che «sulle nude autorità dei dottori, che hanno purtroppo, con le loro opinioni, o alterato o reso incerto e arbitrario il diritto», e a introdurre l’interpretazione autentica, vale a dire l’obbligo dei magistrati di rivolgersi, in presenza di una lacuna legislativa, al sovrano per riceverne «il sovrano oracolo». Una sinergia tra il ministro filosofo, attento a suggerire valide cure ai mali del sistema, e il sovrano docile produce provvedimenti in linea con il credo della dottrina dell’assolutismo illuminato, che affida alla legge proveniente dal sovrano il compito di scuotere le istituzioni in vista del progresso. Tra il 1780 e il 1785 sarà poi progressivamente pubblicata la sua Scienza della legislazione, dedicata, nei primi due tomi, alle «regole generali della scienza legislativa» e alle «leggi politiche ed economiche», nel terzo, del 1783, al processo civile e penale, nel quarto, articolato in tre volumi, a un possibile regime per educazione, costumi e istruzione pubblica. L’opera, che doveva essere integrata da un quinto volume dalle venature fortemente giurisdizionaliste, rimarrà incompiuta per la morte prematura del suo autore e, ciò nonostante, godrà di un successo in Italia e all’estero, attestato dalle numerose edizioni italiane e dalle traduzioni che si susseguiranno in Germania, Spagna e Francia.

Tra progetti e riforme legislative: dall’uno all’altro capo d’Italia

Una ricostruzione del Settecento giuridico italiano non può, ad avviso di chi scrive, fermarsi solo a quanto di concreto fu fatto sul piano del miglioramento del sistema legislativo: è necessario inserire i risultati, non dunque riforma isolata, in un più vasto quadro di riforme che coinvolgono le strutture statali in un generale riassetto, e ancora tenere in conto quanto fu solo tentato. In effetti molto fu tentato e poco realizzato, ma non per questo le iniziative sono da valutare in termini negativi.

In una sintetica prospettiva delle iniziative riformiste nel campo del diritto, ispirate da una volontà di cambiamento a largo respiro, non limitata a singoli interventi, un posto di primario rilievo spetta all’azione dei principi sabaudi. Le ricerche di Mario Viora, risalenti agli anni Trenta del secolo scorso, hanno consentito una più larga comprensione dell’importanza e incisività degli interventi legislativi, non solo legati a una modifica dell’assetto normativo ma inseriti in un più complessivo rivolgimento dello Stato. La linea di tendenza che emerge nel territorio italiano (ma anche altrove) è infatti la necessità di un radicale mutamento che coinvolga le strutture amministrative, giudiziarie e legislative dell’organizzazione statale.

È perciò significativo, quanto al primo aspetto, che in Piemonte le Costituzioni sabaude, primo grande esito nell’area italiana di una volontà-esigenza di cambiamento espressa da un sovrano, nascano da un disegno di riforma dello Stato, ingrandito dopo il trattato di Utrecht (1713), con l’acquisto del Regno di Sicilia. Vi è bisogno di un riassetto che ne tocchi tutti i punti nevralgici, compreso il diritto. L’idea di fondo del progetto legislativo muta nel tempo e passa da quella di una semplice raccolta delle leggi passate e attuali del Regno, con l’indicazione della data di emanazione e del principe legislatore, a una sistemazione più razionale, unitaria, che prende vita nel 1722 su ispirazione di Andrea Tomaso Platzaert, funzionario della segreteria di Guerra. È espressione del disegno rinnovatore di Vittorio Amedeo II: solo il sovrano, al vertice del sistema, deve ‘parlare’ ed è dotato di poteri per farlo. Si otteneva per questa via una semplificazione, a fronte della massa ingente di leggi, succedutesi nel corso dei secoli, ma occorreva ‘osare’ di più: quel diritto giurisprudenziale, del quale in queste pagine si sono rilevate le ‘magagne’, era ormai giunto a un punto tale da minare la stabilità del diritto. Ed ecco prendere forma un’altra iniziativa fin dal 1717, che può portare a esiti positivi sulla strada intrapresa: si richiedono pareri a reputati giuristi italiani e stranieri (sono olandesi Philipp Vitrarius, Gerard Noodt e Antonius Schulting) per avere lumi sulla direzione migliore da prendere, interrogandoli anche sull’opportunità di circoscrivere «il numero degli autori legali da citarsi dagli avvocati».

Questa, in sintesi, la storia delle Costituzioni di S.M. il Re di Sardegna dal 1713 al 1723: la redazione di quell’anno, divisa in cinque libri (il primo dedicato alla religione, il secondo alle magistrature, il terzo alla procedura civile, il quarto al diritto penale processuale e sostanziale, modificato in profondo nel Settecento rispetto al regime dei secoli precedenti, il quinto con disposizioni di diritto privato in materia di successioni, primogeniture e fedecommesso, tutela, alienazioni di beni di minori e di donne, donazioni, dote ed exclusio propter dotem, enfiteusi). Tale redazione è destinata a essere presto accresciuta e ‘perfezionata’ nello stesso impianto generale, simboleggiato anche dalla norma di chiusura posta nell’edizione del 1729, integrata da un libro VI su demanio e feudi:

Volendo noi che per la decisione delle Cause si osservino unicamente in primo luogo le nostre Costituzioni; in secondo luogo gli Statuti Locali, purché sieno approvati da Noi o da’ Nostri Reali Predecessori, e si ritrovino in osservanza; terzo le decisioni de’ Nostri Magistrati; ed in ultimo luogo il Testo della Legge comune, proibiamo agli Avvocati di citare nelle loro Allegazioni veruno de’ Dottori nelle materie legali, ed a’ Giudici, tanto Supremi, che Inferiori di deferire all’opinione di essi, sotto pena, tanto contro detti Giudici, che Avvocati, della sospensione da’ loro Uffizi, sin a che ne abbiano riportata la Grazia (lib. III, tit. XXII, 9).

Era la constatazione dell’eterogeneità del sistema di fonti nel Regno, alla quale si ‘rimediava’ indicandone un ordine successivo di applicazione che vedeva «il testo della legge comune», cioè il diritto romano, senza il corredo allora in uso delle interpretazioni sviluppatesi in seguito, in chiara funzione ‘antigiurisprudenziale’: l’orientamento si fa più che manifesto nel divieto, incombente su giudici e avvocati, vale a dire sugli operatori giuridici impegnati in ruoli primari nella gestione della giustizia, di far ricorso alle auctoritates dottrinali, patrimonio inesauribile cui attingere per rafforzare ex auctoritate doctorum il ragionamento svolto negli atti. L’edizione precedente, del 1723, conteneva una norma, meno drastica, che, se appariva ugualmente pervasa da una vena antigiurisprudenziale, ‘salvava’ tuttavia la dottrina come fonte di rinvio, sempre che questa si fosse attenuta a certi criteri e ‘contenuta’ entro determinati limiti prestabiliti dal legislatore (lib. III, tit. XXIX, 2). Un passo decisivo verso il ‘primato’ della legge del sovrano, anteposta alle altre fonti concorrenti, sarà compiuto con la terza edizione del 1770, che introdurrà l’interpretazione autentica.

Per rinvenire nell’area italiana un’altra impresa legislativa ad ampio respiro, quali furono senza dubbio le Leggi e Costituzioni sabaude, occorre aspettare quasi mezzo secolo: sarà Francesco III duca di Modena che, al termine di un denso iter di riforma, destinato a mutare l’organizzazione amministrativa e giudiziaria del piccolo Stato (nel 1761 si istituiva il Supremo Consiglio di Giustizia), promulgherà nel 1771 un Codice di Leggi e Costituzioni (sono le Costituzioni cosiddette modenesi), realizzando un progetto di semplificazione dell’ordine giuridico degno, per i tempi, di un apprezzamento positivo. Posto come finalità ai lavori l’‘assorbimento’ del diritto statutario nel diritto regio, l’ordinamento estense assumeva una configurazione dualistica, fondata sul diritto che si promulgava e, in caso di sua lacuna, sul diritto comune.

Altrove si sviluppano progetti dagli esiti indubbiamente meno positivi. Gli anni Quaranta sono caratterizzati in Toscana e a Napoli da maldestri conati di mutamento.

In Toscana il compito di intervenire per rimediare al caos legislativo è affidato a Neri. Preposto da Francesco di Lorena duca di Toscana alla redazione di un nuovo codice di leggi municipali, assegna al suo incarico limiti angusti, ben evidenti nel suo già qui ricordato Discorso primo sul Codice, fondato su una ‘eccessiva’ fiducia nel diritto romano, quasi potenziato rispetto al passato anziché eroso, come al momento poteva apparire giustificabile: postulando un’interpretazione restrittiva dello ius proprium, in modo tale che il diritto comune venisse leso il meno possibile, si riprendono, anzi non si abbandonano le teorie dell’interpretazione predilette dai giuristi medievali, di cui si percepisce ben distinta l’eco.

A Napoli, se fin dal primo Settecento si sviluppa un’iniziativa a opera dell’editore Antonio Bulifon che condusse alla formazione di una giunta, incaricata di raccogliere e riordinare la legislazione regia, una più determinata azione riformatrice si concretizza nel primo decennio del governo di Carlo di Borbone, anch’essa peraltro destinata a esiti in prospettiva non soddisfacenti per gli ostacoli e le difficoltà frapposti lungo il suo tormentato percorso. La commissione, costituita dal sovrano per la redazione di un Codice del Regno con la partecipazione di giuristi di ottimo livello, quali Di Gennaro, Rapolla e, per poco tempo, Donato Antonio d’Asti, incontrava ben presto resistenze, ma proseguiva ciò nonostante i lavori fino agli anni Settanta. Il progetto, in 12 libri, in parte in latino e dal sesto con una versione in italiano, sarà poi pubblicato postumo da Elia Serrao, allievo di Cirillo, nel 1789 con il nome di Codex legum neapolitanarum. Vari elementi congiurano in negativo a dimostrare una certa arretratezza nell’elaborazione: scoordinamento e ripetizione di norme, poca attenzione alla sezione privatistica e ruolo ‘forte’ del diritto romano (lo ius civile romanum) per colmare le lacune presenti nelle leggi raccolte contestualmente e nelle consuetudini, in qualità di diritto sussidiario, sullo stesso piano delle «leggi de’ Franchi e de’ Longobardi», «a patto che fossero queste approvate dalle nostre leggi e dall’uso», reminiscenza del passato medievale.

Gli stessi provvedimenti tanucciani, ‘rei’ di compromettere, in qualche modo, e di scalfire il potere dei giudici del Regno, solleveranno proteste, espresse in maniera veemente attraverso scritti polemici, come quello del magistrato Carlo Melchionna (Dissertazione istorica, politica, legale sulle novelle leggi del re n.s. per le sentenze ragionate […], 1775) .

In Toscana, dopo i tentativi dei decenni precedenti, si raggiunge infine, sul versante delle grandi riforme legislative, un risultato nella Leopoldina, assecondata dalle mire riformatrici, perseguite, sin dall’avvento al trono, dal giovane granduca Pietro Leopoldo. Un ambiente intellettuale, non tendenzialmente favorevole alle riforme radicali in materia civilistica, era invece molto più sensibile a ciò che riguardava il ‘penale’ e, dunque, all’influsso delle idee beccariane che affascinavano lo stesso granduca, mosso dall’intento, dichiarato, di «riformare intieramente» la vetusta legislazione criminale toscana «troppo severa», frutto di massime romane e «dell’anarchia dei bassi tempi, e specialmente non adattata al dolce e mansueto carattere della nazione». Egli stesso predispone nei primi del 1785 una bozza di partenza esito dell’incontro tra teoria e prassi, tra letture sulla dottrina aggiornata di quei tempi e dati raccolti sulla realtà fattuale toscana. Il complessivo lavoro, frutto di ‘aggiustamenti’ successivi a più mani, è poi affidato a Giuliano Tosi per una messa a punto compiuta del testo che, modificato in parte, per gli apporti di un altro gruppo selezionato di funzionari, diverrà la Riforma della legislazione criminale toscana, pubblicata il 30 novembre 1786, vale a dire il Codice leopoldino, o, con denominazione più comune, la Leopoldina. Composta da 119 articoli, troppo pochi per dare ‘completezza’ al codice, dedicati nei primi 50 (I-L) al processo penale, dal LI al CIX al diritto penale sostanziale, secondo una concezione bilineare e bifunzionale del testo (Cavanna), che sarà compiutamente realizzata solo nel Codice penale universale austriaco del 1803, integrata infine dagli articoli CX-CXIX su aspetti pure importanti, quali il potere del giudice in mancanza di prova piena del delitto o in caso di lacuna della legge, la conclusione del processo e la prescrizione, il risarcimento dei danni (alle vittime), con accenti di indubbia modernità (l’abolizione della pena di morte), non si presenta tuttavia, nell’aspetto formale, ispirata ai principi di legal drafting che si andavano allora affermando: non semplice nella formulazione precettistica, si trascina dietro il fardello delle riflessioni filosofiche e di politica criminale, delle battaglie ideologiche e politiche maturate nel corso della sua genesi più lontana e della sua elaborazione. Data la tendenziale incompletezza e la persistente validità di parte del vecchio regime (art. CXVIII), al giudice sono concessi ampi margini di discrezionalità, sebbene al suo arbitrio siano imposti limiti: per es., in caso di condanna a una pena arbitraria, è caricato dell’obbligo di «spiegarne la ragione, ed affinché vi apparisca per chiunque vi abbia interesse, ad esprimerla succintamente nella stessa sentenza» (art. CXVI), in accordo con un orientamento diffuso, variamente recepito, dagli accenti antigiurisprudenziali, sulla necessità sentita della motivazione.

Caratteri di modernità sono pure riconoscibili nel Regolamento del processo civile e la Norma interinale, che sono i due prodotti a più ampio spettro dell’energia legislativa di Giuseppe II entrati effettivamente in vigore in una parte del territorio italiano, la Lombardia austriaca. Espressione dell’intento uniformatore del sovrano asburgico, ricalcato sul modello dell’Allgemeine Gerichtsordung del 1781, con poche varianti rispetto all’archetipo motivate dalle esigenze locali, il Regolamento entra in vigore il 1° maggio 1786 dopo l’Editto del febbraio dello stesso anno che rivoluzionava il sistema giudiziario lombardo mediante la creazione di una struttura a tre istanze tra loro coordinate, con conseguente eliminazione del Senato. Mira a ottenere giudizi rapidi ed equi ponendo freno ad arbitri e raggiri forensi, in sostanza ai difetti di un sistema ormai giudicati in maniera sempre più pressante da eliminare o almeno da attenuare. Ispirato a criteri di modernità nella semplificazione normativa, nella formula di abrogazione di «tutte le costituzioni, leggi statutarie od altre consuetudini e pratiche […] in quanto riguardino l’ordine giudiziario civile o si trovino contrarie al disposto del suddetto nuovo regolamento generale», si fondava sull’iniziativa di parte e sul contraddittorio, pure se tali aspetti devono essere valutati con riguardo al ruolo del giudice nel processo: è questa la principale ragione delle sfumature di giudizio presenti tra gli studiosi che si sono occupati del testo, chi sottolineandone la concezione liberale, chi invece il rafforzamento dei poteri dell’autorità giudiziaria, comunque arbitra dell’approvazione della petizione e investita della direzione del processo nell’assunzione dei mezzi di prova, nella fissazione dei termini e persino nell’azione d’ufficio (solo in determinati casi) e non obbligata alla motivazione delle decisioni se non su richiesta della parte che intendeva proporre su di esse impugnazione. A onta delle peculiarità qui ora rilevate, il Regolamento, certo risultato di un progetto di accentramento assolutistico e paternalistico, deve inquadrarsi tra le riforme illuministiche perché concreta realizzazione di precise ‘conquiste’ dell’epoca, di un’‘etica’ del processo, espressa in variegati aspetti (dal piccolo codice deontologico dell’avvocato all’attenzione per la figura del giudice, ‘salariato’, doverosamente caratterizzato da requisiti di competenza tecnica, e dalla sua sottoposizione alla legge, secondo precise linee guida fissate nel § 451), sì che l’indubbio controllo statale del processo civile non preclude tuttavia il perseguimento degli ideali innovativi prefissi. Non privo di difetti, sarà legge in vigore nel Lombardo Veneto, nella ‘redazione’ galiziana del 1796, dal 1° gennaio 1816 fino all’unificazione italiana.

Sulla stessa linea della sistemazione giuseppina in Lombardia si muove il successivo Progetto d'un nuovo codice giudiciario nelle cause civili, già pronto sul finire del 1785, altrimenti noto come Codice giudiziario barbacoviano, destinato al Principato vescovile di Trento, in cui fu promulgato ed entrò in vigore nel 1788 (durò fino all’introduzione del Regolamento giudiziario austriaco nel 1807), opera di Francesco Vigilio Barbacovi, tuttavia diverso per alcuni aspetti pur rilevanti rispetto al modello: alcune ispirazioni ‘moderne’ di chiaro stampo illuminista sono accolte ma tra i poteri del magistrato, compressi nell’obbligo di subordinazione alla legge e di motivazione della sentenza, vi è quello di una possibile libera valutazione delle prove e conseguente attenuazione del sistema delle prove legali.

In Lombardia entra in vigore anche la Norma interinale del processo criminale (1786), più avanzata rispetto alla Constitutio criminalis theresiana ma da essa con evidenza derivata, sorta all’origine con caratteri di precarietà ma destinata invece a durare fino all’entrata in vigore nel Regno Italico del Codice di procedura penale (1807) cosiddetto Romagnosi. Non particolarmente innovativa nei contenuti, lo è nei principi generali affermati. Se si fissano tra i criteri ispiratori il principio di legalità (§ 1), la subordinazione del giudice alla legge, la completezza dell’ordinamento, una tendenziale eliminazione del pluralismo giurisdizionale (un foro speciale era conservato solo per i militari: § 18), le strutture di base del processo sono ancora quelle inquisitorie: nell’accertamento del reato vige il sistema delle prove legali (abolita la tortura, si prevedevano «mezzi sostituiti alla tortura» «per superare l’ostinazione de’ rei»: § 238), che riconosce nel giudice vasti poteri. Il disegno giuseppino di accentramento paternalistico si legge nella trama mentre l’ideale del soggetto unico di diritto è incrinato dalla rilevanza degli status ai fini della cattura.

Fin qui le realizzazioni: all’alba del successivo decennio, dopo le resistenze frapposte da parte lombarda all’introduzione del Codice penale giuseppino (1787), una nuova Commissione, nominata da Leopoldo II, divenuto imperatore alla morte del fratello maggiore, e composta da criminalisti di indubbio prestigio quali Beccaria e, in misura minore, da Paolo Risi, metterà mano a un progetto di codice penale (1791-92) che rimane incompiuto e tuttavia, nella linea accolta per la parte venuta alla luce (le ricerche in proposito e l’edizione si devono ad Adriano Cavanna), rivela l’adesione a un modello innovativo di codice penale, seppure stemperato dall’incrocio delle idee all’interno della Commissione tra progressisti (Beccaria, Risi, Francesco Gallarati Scotti) e tradizionalisti. La formulazione delle norme è ispirata a concisione precettistica; la pena di morte, per fornire un dato di valutazione paradigmatico, è mantenuta ma circoscritta a un elenco ‘parsimonioso’ di determinate gravi ipotesi (per es., cospirazione contro lo Stato, veneficio, omicidio premeditato, parricidio). Il progetto lombardo appare così emblematico di quello che in Italia si poteva realizzare ma realizzato non fu.

Opere

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G. Verri, De ortu et progressu juris mediolanensis prodromus, Mediolani 1747.

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Il Caffè (1764-1766), a cura di G. Francioni, S. Romagnoli, 2 voll., Torino 1998 (in partic. A. Verri, Di Giustiniano e delle sue leggi, 1° vol., pp. 177-88; A. Verri, Ragionamento sulle leggi civili, 2° vol., pp. 571-606; P. Verri, Sulla interpretazione delle leggi, 2° vol., pp. 695-704).

Bibliografia

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