La cultura politecnica

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

La cultura politecnica

Frédéric Ieva

L’istruzione tecnica prima dell’Unità

Avviando nel 1839 la prima serie de «Il Politecnico», Carlo Cattaneo si propose di perseguire due intenti: il rinnovamento culturale dell’Italia e il suo sviluppo civile ed economico. Egli intendeva tenere informati i lettori del suo periodico attraverso un costante lavoro di analisi critica di tutte le novità provenienti dal campo letterario e da quello tecnico, essendo fermamente convinto del profondo legame esistente tra il progresso scientifico e la crescita civile. Animato da una sorta di umanesimo scientifico, riteneva, come ha sostenuto Carlo Giacomo Lacaita (1984), che la tecnica avesse un significato «profondamente umano e […] un valore culturale elevato, capace com’è di abituare gli uomini a un comportamento intelligente» (p. 14).

Considerando tutta l’opera di Cattaneo, non si può fare a meno di osservare, con Lacaita, che la scienza, la tecnica e l’industria «furono costantemente oggetto della sua attenzione» (p. 11); in particolare, egli tenne in grande considerazione le scienze naturali, la chimica (ritenuta la scienza dell’avvenire), le arti meccaniche, le tecniche di produzione; mostrò sempre, inoltre, una pronta comprensione dei problemi che a mano a mano la grande industria si trovava a risolvere.

La fisica tecnica, per es., fu una materia a cui concesse uno spazio significativo all’interno della sua rivista (si vedano, tra l’altro, le diverse memorie sul vapore pubblicate nel 1839 dal chimico Giovanni Antonio de Kramer, 1806-1853). Su un piano più generale, scorrendo gli indici dei fascicoli della rivista si può osservare che nella prima serie Cattaneo si avvalse del contributo di 80 collaboratori italiani e stranieri. La maggior parte di loro erano ingegneri, a riprova del fatto che questa nuova figura intellettuale incarnava alla perfezione gli ideali tecnico-scientifici de «Il Politecnico».

La questione della formazione, della scuola e della sua necessaria riforma furono altri motivi centrali nella riflessione di Cattaneo. Il sistema educativo allora in vigore era caratterizzato, secondo lui, da un principio discriminatorio che generava divisioni e incomunicabilità tra i gruppi sociali. Occorreva quindi pensare a un sistema scolastico aperto a tutti i cittadini, che fosse contraddistinto da una visione laica e che perseguisse lo scopo di diffondere nozioni pratiche e utili, volte a migliorare le condizioni della vita quotidiana degli uomini.

Di conseguenza, la scuola andava riformata concedendo uno spazio maggiore agli studi scientifici. Nel 1844, in occasione dell’apertura della Scuola di chimica industriale – promossa dal banchiere italo-austriaco Enrico (Heinrich) Mylius (1769-1854) –, Cattaneo definì la chimica la materia più innovatrice del secolo; inoltre elogiò il direttore della nuova scuola, de Kramer, affermando che questi

abbandonò la ben presa via delle scoperte chimiche e della riputazione scientifica, per farsi insegnatore elementare d’una scienza che tanta luce arreca alle menti, e tanto vantaggio ai publici interessi (Nuova scuola di chimica industriale in Milano, «Il Politecnico», 1844, 39, poi in Scritti politici, 1° vol., 1964, p. 207).

Secondo Cattaneo, il sapere tecnico era fondamentale anche per una gestione più efficace delle attività agricole e industriali. In una relazione commissionatagli dall’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti, Sull’ulteriore sviluppo del pubblico insegnamento in Lombardia (1848), propose una riforma radicale del sistema scolastico, rilevando come l’interesse verso la conduzione diretta dei poderi stesse venendo progressivamente meno a causa della scarsa conoscenza delle nuove tecniche agricole da parte della classe fondiaria. Le condizioni del comparto industriale non gli apparivano migliori:

I proprietari delle molte ferriere, destituiti fra noi di ogni speciale istruzione, non possono condurre coi lumi della Geologia, della Meccanica, dell’Idraulica le esplorazioni, gli scavi, gli scoli; né trattare i minerali con processi chimici e fisici che non conoscono e non possono intendere (Sull’ulteriore sviluppo…, cit., poi in Tutte le opere di Carlo Cattaneo, 4° vol., 1967, p. 9).

Il nuovo sistema scolastico avrebbe dovuto assumersi il compito fondamentale di formare tecnici dalle altissime competenze che avessero familiarità con le nuove conoscenze diffuse nei Paesi economicamente più avanzati. Cattaneo si fece promotore di una preparazione più mirata e adeguata alle diverse figure di tecnici, ritenendo superato il modello dell’ingegnere civile-architetto tuttofare. Le nuove realtà industriali necessitavano di ingegneri meccanici che avessero studiato fisica, matematica, geometria descrittiva, meccanica applicata, e che avessero anche nozioni di disegno delle macchine e di chimica applicata alle arti.

La società milanese prequarantottesca era animata da una grande vivacità intellettuale, che si traduceva in forti istanze riformistiche verso il sistema educativo, e dall’esigenza, molto sentita anch’essa, di dare maggior risalto alla cultura tecnica. La Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, che aveva come presidente Mylius e come segretario relatore (dal 1845) Cattaneo, venne fondata nel 1838, con l’obiettivo di

far conoscere al maggior numero possibile di persone i fondamenti e i progressi della fisica, della chimica, e della meccanica e le risorse, in continuo sviluppo, delle tecniche (Ambrosoli 1993, p. 138).

Da parte sua, il già citato Istituto lombardo, di cui Cattaneo era membro dal 1843, rappresentò uno spazio di incontro e di discussione riservato ai dotti. Oltre a queste due istituzioni milanesi e allo stesso «Politecnico», sorsero diversi periodici che affrontavano tematiche scientifiche e tecniche: gli «Annali universali di statistica, economia pubblica, storia e viaggi» (1824-71), sulle cui colonne scrisse l’economista piemontese Carlo Ilarione Petitti di Roreto (1790-1850); gli «Annali universali di tecnologia, di agricoltura, di economia rurale e domestica, di arti e di mestieri» (1826-59); «L’ape delle cognizioni utili» (1833-47); «Lo spettatore industriale» (1844-46); il «Giornale dell’ingegnere civile-architetto e agronomo», poi «Giornale dell’ingegnere-architetto civile e meccanico» (1853-68), l’unica rivista preunitaria che si occupava espressamente della figura dell’ingegnere.

Nel 1849 Antonio Maria Bordoni (1789-1860) – docente di matematica all’Università di Pavia dal 1817 e capofila della locale scuola matematica, che annoverò tra i propri allievi Luigi Cremona (1830-1903), Francesco Brioschi (1824-1897), primo direttore a Milano della scuola che prenderà in seguito il nome di Politecnico, e Felice Casorati (1835-1890), un allievo di Brioschi – elaborò una Proposta per un nuovo piano per lo studio matematico, in cui si faceva promotore di un corso quadriennale di ingegneria civile, articolato in due bienni: uno di studi matematici e l’altro di ingegneria teorica, a cui si dovevano affiancare delle esercitazioni pratiche. Anche la Commissione per il riordinamento degli studi nel Lombardo-Veneto, presieduta da Giovanni Battista Bolza (1801-1869) – funzionario del governo austriaco che per un certo periodo fu l’insegnante di italiano dell’imperatore Francesco Giuseppe – e istituita nel 1851 con l’incarico di delineare un progetto di riforma degli studi superiori, mise in evidenza la necessità di preparare meglio gli ingegneri attraverso la fondazione di scuole speciali. Nessuna di queste istanze riformistiche fu recepita dal governo austriaco, a eccezione dell’avvio, nel 1856 presso l’ateneo pavese, di alcuni corsi sperimentali di meccanica industriale e di tecnologia.

La legge Casati

Il 13 novembre 1859 fu emanato nel Regno di Sardegna (e in seguito esteso all’intero Regno d’Italia) il decreto legislativo nr. 3725, noto come legge Casati, che riformava il sistema scolastico; esso non fu espressione delle parti più avanzate e moderne della società, ma rappresentò il risultato di un compromesso tra queste e i gruppi borghesi e aristocratici decisi a preservare alcuni principi del modello culturale precedente. Frutto di questa volontà, per es., fu la netta separazione tra la cultura classica e la cultura tecnica, con la quale si metteva in rilievo la superiorità della prima sulla seconda. L’insegnamento tecnico e professionale poteva essere impartito attraverso corsi ‘speciali’, «nel senso di particolari, limitati e perciò di grado inferiore e meno degno» (Lacaita 1973, p. 54). Inoltre passò il principio secondo il quale lo Stato non aveva l’obbligo di mantenere in vita le scuole tecniche, mentre per i licei era obbligatorio che ne esistesse almeno uno per ogni provincia; questo disinteresse per l’istruzione tecnica, d’altra parte, era dovuto anche all’arretratezza delle strutture produttive italiane.

Nonostante questi elementi negativi e queste resistenze, la legge Casati conteneva comunque alcuni aspetti positivi e alcune – seppur timide – aperture alle richieste dei progressisti. Per es., l’art. 49 recepiva in qualche misura la richiesta, proveniente da più parti, di rafforzare l’insegnamento tecnico-scientifico. L’art. 53 stabiliva che in ogni facoltà di Scienze fisiche e matematiche sarebbe stata creata una Scuola di applicazione per gli ingegneri, in cui si sarebbero studiate per tre anni materie come meccanica applicata alle macchine, idraulica, costruzioni civili, geodesia pratica, chimica docimastica. Infine, gli artt. 310 e 311 stabilivano che, per permettere agli ingegneri di approfondire ulteriormente i loro studi, a Milano e a Torino sarebbero sorte due specifiche scuole di applicazione, rispettivamente il Regio Istituto tecnico superiore e la Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri.

Ma si trattava di segnali di progresso piuttosto tenui, per cui molti intellettuali e imprenditori italiani ritennero che si trattasse di una legge imperfetta, in quanto, per es., non recepiva la richiesta di rendere più omogenee la teoria e la pratica. La formazione che si dava agli ingegneri non solo era lacunosa, ma aveva luogo in sedi e in fasi diverse: infatti, come già accennato, a un triennio di studi nelle facoltà di Scienze fisiche e matematiche seguiva un biennio nella Scuola di applicazione di Torino o in quella di Milano.

Diverse furono le voci critiche che si levarono per segnalare i punti della legge da migliorare. Cattaneo pubblicò un suo articolo non firmato, La nuova legge del pubblico insegnamento («Il Politecnico», 1860, 43, pp. 115-23), in cui contestava la divisione tra cultura umanistica e cultura tecnica, esortando con fermezza a rivalutare l’insegnamento scientifico:

Le grandi idee della chimica e della meccanica devono accomunarsi anche alle classi che non vivono di fatica né di traffico, perché son esse che coi capitali, colle amministrazioni, colle magistrature e coll’opinione reggono le industrie (La nuova legge…, cit., poi in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, 2° vol., 1948, p. 375).

Due anni dopo Cattaneo tornò a occuparsi dell’istruzione pubblica con l’articolo Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia. Lettera al senatore Matteucci («Il Politecnico», 1862, 67, pp. 61-75, poi in Scritti letterari…, cit., 2° vol., pp. 381-400), in cui proponeva un nuovo ordinamento, volto a preparare «il tecnico efficiente sul piano operativo, capace di controllare i singoli momenti che presiedevano alle trasformazioni strutturali del contesto economico» (Selvafolta, in Il Politecnico di Milano, 1981, p. 87). Per ottenere questo risultato Cattaneo chiedeva quanto segue:

Sì, è la suddivisione delle facultà, è la loro specificazione ch’io vi dimando per gli ingegneri italiani; voi potete farvene l’istitutore. Voi darete all’Italia ingegneri architetti, ingegneri idraulici, ingegneri agronomi, ingegneri censuarii, ingegneri delle miniere, ingegneri militari, navali, geografi, ferroviari, e uomini nati con genio meccanico, ma fondati anche nel calcolo e nella fisica e intenti per la loro carriera ad appropriare a questa antica industria italica tutte le nuove applicazioni delle forze (Sul riordinamento…, cit., poi in Scritti letterari…, cit., 1° vol., 1948, p. 385).

A livello nazionale, Torino e Milano erano le città in cui era maggiormente presente la cultura tecnica. Come ha sottolineato Lacaita, solo nel 1867 ci fu una presa di coscienza degli interessi industriali. In quell’anno, infatti, Alessandro Rossi (1819-1898), imprenditore tessile di Schio, e Giuseppe Colombo (1836-1921), docente di geometria descrittiva all’ateneo pavese, si dichiararono, in due diverse occasioni, fautori dell’industrializzazione e, in tale prospettiva, di un potenziamento delle materie tecnico-scientifiche all’interno del sistema scolastico italiano.

Rossi, la cui azienda (dal 1873 Lanificio Rossi, dal 1954 Lanerossi) nel 1867 impiegava circa 1000 operai e contava 9500 fusi e 340 telai, nel suo Appello agli industriali italiani («La nazione», 8 giugno 1867) sottolineò la necessità di sviluppare l’istruzione tecnica e professionale, un argomento che divenne il fulcro «della sua lunga e tenace battaglia in favore dell’industria italiana» (Lacaita 1973, p. 65).

Colombo – allievo di Brioschi e di Giovanni Codazza (1816-1877), e considerato da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) l’unico vero esponente moderno della destra –, preso atto del fatto che vari Paesi europei erano dotati di sistemi di educazione tecnica superiori a quello italiano, sostenne che l’unica via di uscita dalla condizione di arretratezza in cui si trovava l’Italia consisteva nella

creazione di un vasto e organico sistema di istruzione scientifico-tecnica e di tirocinio professionale capace di porre la nascente attività industriale su un solido fondamento scientifico e tecnologico (Lacaita 1973, p. 67).

Nel frattempo si erano registrati i primi effetti della legge Casati. Nel 1860 fu emanato l’atto costitutivo della Scuola di ingegneria di Palermo, che però iniziò i suoi corsi solo nel 1866; a Napoli una scuola simile fu avviata nel 1863. Nel 1870 furono fondate a Genova la Scuola superiore navale e a Milano la Scuola superiore di agricoltura; un istituto analogo fu inaugurato a Portici nel 1872. Sempre nel 1872, fu creata a Palermo una scuola post-laurea di indirizzo minerario, la Scuola superiore delle zolfare. L’anno successivo venne istituita a Roma la Scuola di applicazione per gli ingegneri, che fu affidata a Cremona, mentre nel 1876 venne ampliata la Scuola mineraria di Padova. La Scuola di applicazione per ingegneri e architetti di Bologna fu istituita nel 1875 ed entrò in funzione nel 1877.

Negli anni Settanta, tra le forze imprenditoriali erano ormai radicate la cultura e la pratica tecniche, anche perché a partire dal 1869 vi era stata da parte dei governi una maggiore attenzione verso l’istruzione tecnica, che fu notevolmente potenziata attraverso l’aumento degli istituti tecnico-professionali. In quello stesso 1869, per es., Quintino Sella fondò a Biella la Scuola professionale per arti meccaniche, chimiche, tessili e manifatturiere. Alcuni anni dopo, nel 1877, Rossi istituì a Vicenza una scuola teorico-pratica in cui venivano formati i direttori di stabilimenti attivi nel campo dell’industria meccanica.

Dal 1871 al 1877 fu stampata la rivista «L’industriale. Periodico dedicato allo sviluppo e al perfezionamento delle industrie nazionali», diretta da Colombo. Altro periodico molto diffuso fu «L’ingegneria civile e le arti industriali», diretto dall’ingegnere Giovanni Sacheri (1843-1925). Oltre alle riviste, iniziarono ad apparire anche libri per gli addetti al settore, come la fortunata opera di Colombo Manuale dell’ingegnere civile e industriale (1877), edita per i tipi della Hoepli, che entro il 1896 fu stampata in 30.000 copie.

Una politica più attenta all’istruzione tecnica e la nascita e lo sviluppo di un’editoria specializzata fecero sì che verso la fine dell’Ottocento gli iscritti nelle scuole tecniche arrivassero a 50.000; nel periodo 1885-95, inoltre, il numero degli ingegneri industriali superò quello degli ingegneri civili. La crescita del numero degli studenti venne confermata agli inizi del Novecento, quando l’istruzione tecnico-scientifica compì un vero e proprio balzo in avanti «in ogni settore e grado» (Lacaita 1973, p. 79). Del resto Nitti, nella sua opera Principi di scienza delle finanze (1903), dedicò proprio ai temi dell’istruzione il quinto capitolo del primo libro, intitolandolo Le spese per la istruzione e le spese per l’educazione; vi sottolineò il fatto che

la spesa per l’insegnamento tecnico è fra le più produttive: è anche tra le più necessarie […]. L’insegnamento tecnico può essere solo promosso in larga misura dallo Stato, che deve seguire i bisogni della produzione e che solo può sacrificare per lo sviluppo generale fondi rilevanti (p. 234).

Alle origini del Politecnico di Torino

Come si è visto, una delle disposizioni della legge Casati prevedeva che a Milano e a Torino dovessero nascere degli istituti di formazione per gli ingegneri. Per questo motivo, in quello stesso 1859 vi furono fondati, come già detto, rispettivamente l’Istituto tecnico superiore e la Scuola di applicazione per gli ingegneri. Queste due fondazioni furono il risultato «dell’interazione tra due giovani emergenti sulla scena nazionale, il piemontese Quintino Sella e il lombardo Francesco Brioschi» (Ferraresi, in Storia di Torino, 7° vol., 2001, p. 802).

Le due scuole erano concepite con finalità diverse: mentre quella torinese doveva formare gli ingegneri che avrebbero lavorato per lo Stato, quella milanese era rivolta soprattutto agli ingegneri destinati a trovare un’occupazione nel settore dell’economia privata.

La Scuola di applicazione di Torino nacque grazie alla fattiva collaborazione di tre personaggi: Carlo Ignazio Giulio (1803-1859), uno dei promotori della Scuola di meccanica e chimica applicata alle arti, i cui corsi erano stati avviati nel 1846 presso l’Accademia delle scienze; Ascanio Sobrero (1812-1888), dal 1848 docente di chimica docimastica presso l’Università, che riuscì per primo a sintetizzare la nitroglicerina; e infine Sella (1827-1884). Fu proprio grazie a quest’ultimo che la sede della Scuola fu spostata dall’Accademia al castello del Valentino, che si affacciava sul Po. Nel 1869 il primo direttore della Scuola, Prospero Richelmy (1813-1883), fece costruire una torre idraulica, abbandonando il settecentesco Stabilimento delle sperienze idrauliche della Parella (presso Torino), divenuto celebre con gli esperimenti del professore di idraulica Giorgio Bidone (1781-1839).

La torre idraulica di Richelmy consentiva di avere un salto di 20 m, il che rendeva possibile la collocazione al suo interno di motori idraulici. L’edificio sarebbe stato a sua volta abbandonato nel 1958, dopo lo spostamento del Politecnico in corso Duca degli Abruzzi.

Tra gli allievi di Bidone occorre segnalare il vogherese Ercole Ricotti (1816-1883), che si laureò in ingegneria idraulica nel 1836 e poi fece le sue esercitazioni allo Stabilimento della Parella; molto legato a un altro illustre vogherese, il matematico e astronomo Giovanni Plana (1761-1864), Ricotti iniziò la sua carriera nel Genio militare, e in seguito si volse agli studi storici; all’Università di Torino fu (1847) il primo docente di storia moderna, e tenne (1857-59) anche tre corsi di geografia e statistica, in cui alcune lezioni erano dedicate all’astronomia.

Il più illustre allievo di Bidone fu senza dubbio Sella che, dopo essersi laureato nel 1847 in ingegneria idraulica, fu inviato dal governo piemontese a Parigi per seguire il corso triennale di perfezionamento dell’École des mines. Rientrato a Torino, nel 1852 ottenne nel nuovo Istituto tecnico la cattedra di geometria applicata alle arti e nel 1853 venne nominato all’università professore sostituto di matematica. Tuttavia in quegli anni, e in particolare dal 1853 al 1858, studiò soprattutto la cristallografia geometrica e chimica e la mineralogia (nel 1856 divenne direttore del Museo mineralogico), tanto che viene considerato uno dei fondatori della cristallografia matematica. Negli anni in cui fu ministro delle Finanze (1862, 1864-65, 1869-73), pur essendo sempre molto attento alle spese non tagliò mai né quelle per la scuola (e, più in generale, per la cultura) né quelle per le infrastrutture, in quanto era dell’opinione che altrimenti, in un Paese privo di una forte cultura scientifica, non si sarebbe avuto uno sviluppo adeguato delle risorse.

Nel 1862, il direttore della delegazione italiana dell’Esposizione internazionale di Londra, Giuseppe Devincenzi (1814-1903), ritornò in Italia con la convinzione che fosse necessario fondare un museo industriale anche nel nostro Paese. Traendo l’ispirazione da istituti europei simili, quali il South Kensington museum di Londra e il Conservatoire des arts et métiers di Parigi, volle creare un istituto in cui lo scambio e il confronto tecnologico fosse continuo, con la finalità di arrivare a produrre in maniera autonoma innovazione anche in Italia. Nello stesso 1862, con il sostegno del ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, nacque il Museo industriale che, tuttavia, attraversò un momento iniziale alquanto difficile a causa dell’ostilità manifestata da Brioschi e, soprattutto, da Richelmy.

Sempre nel 1862, l’allora ministro della Pubblica Istruzione, il fisico Carlo Matteucci (1811-1868), promulgò (il 14 settembre) il primo regolamento universitario del Regno d’Italia, che impose un significativo restringimento dell’autonomia delle singole università, provocando una forte ondata di malcontento. Le sedi di Torino, Pavia, Bologna, Pisa, Napoli e Palermo furono riconosciute università di primo grado, il che concedeva loro notevoli privilegi rispetto agli altri atenei. Secondo Roberto Maiocchi (1980, pp. 867-68), Matteucci riorganizzò efficacemente solo la Scuola Normale Superiore di Pisa, mentre non riuscì a razionalizzare il complesso sistema universitario italiano. Spostando la riflessione su un piano più generale, Silvano Montaldo (in Storia di Torino, 7° vol., 2001, p. 728) ha osservato che il regolamento Matteucci generò «un deciso impulso dell’attività scientifica».

Il provvedimento emanato da Matteucci ebbe notevoli conseguenze sulla facoltà di Medicina dell’ateneo torinese. Il ministro, favorevole, come si è visto, più alla centralizzazione che all’autonomia, affidò la rinascita della scienza in Italia all’intervento dello Stato, che avrebbe regolato le università concentrando risorse umane e finanziarie su alcuni centri specializzati. In questo modo la facoltà medica torinese conobbe un periodo di sviluppo, che le consentì sia di ampliare la propria offerta (istituendo nuove cattedre) sia di diventare un centro di attività scientifica di rilevanza nazionale.

Con l’arrivo di Michele Lessona (1823-1894), l’Università di Torino nel suo complesso visse un momento di grande dinamismo. Amico e collega del medico e zoologo milanese Filippo De Filippi (1814-1867) – il quale l’11 gennaio 1864 aveva tenuto a Torino la celebre conferenza L’uomo e le scimmie, che aveva introdotto «le discussioni del darwinismo» (Montaldo, in Storia di Torino, 7° vol., 2001, p. 728) –, Lessona nel 1867 fu il successore proprio di De Filippi alla cattedra di zoologia e alla direzione del Museo di zoologia dell’Università, fondato nel 1739. Autore di un’opera di grande successo, Volere è potere (1869), divenne celebre anche per aver tradotto – per conto dell’Unione tipografica-editrice di Luigi Pomba (1795-1876) – tre libri di Charles R. Darwin, Journal of researches (1839; trad., con il tit. Viaggio di un naturalista intorno al mondo, 1871), The descent of man (1871; trad. dello stesso anno) e The formation of vegetable mould through the action of worms (1881; trad. 1882). Nel 1883, infine, pubblicò Carlo Darwin, un saggio che fu considerato «una tra le più rilevanti testimonianze della diffusione dell’evoluzionismo in Italia» (Govoni, Verucci 2005, pp. 712-13).

Nel 1867 fu emanato un nuovo ordinamento della Scuola di applicazione, nel quale venne accolto il principio di impartire la formazione specialistica con il concorso del Museo industriale, anche se i diplomi continuavano a essere conferiti dalla Scuola. Nel contesto del sistema politecnico torinese, quindi, il Museo contribuì alla formazione degli ingegneri civili e industriali. La preparazione data agli ingegneri era molto rigorosa, ed era sostenuta da un’efficace e ampia rete di laboratori per le esercitazioni pratiche, anche perché nel 1877 venne approvato lo statuto del Consorzio universitario, ente che aveva appunto il compito di potenziare l’indirizzo sperimentale dell’istruzione superiore. Grazie al Consorzio, per es., furono assegnati a Cesare Lombroso (1835-1909), docente di medicina legale a Torino dal 1875, i locali per il Laboratorio di medicina legale e di psichiatria sperimentale.

Questo contesto favorevole alla ricerca scientifica contribuì a rendere, dopo il 1885 circa, la sede di Torino la più frequentata delle sette scuole di ingegneria attive in Italia. In base all’ordinamento del 1879, a Torino le categorie professionali previste erano due (ingegnere civile e ingegnere industriale), mentre gli insegnamenti erano 25, di cui 2 all’Università, 12 alla Scuola di applicazione e 11 al Museo industriale. La durata dei corsi fu fissata a tre anni; gli ingegneri civili e gli architetti avevano l’obbligo di seguire 18 insegnamenti, gli ingegneri industriali 20. Dal 1886 al 1900, esclusi gli anni 1890 e 1891, si laurearono più di 100 studenti all’anno, con due picchi nel 1882 e nel 1888 (rispettivamente 133 e 132 laureati). A partire dal 1900, a Torino si iniziarono a laureare più ingegneri industriali (74) che ingegneri civili (52), un andamento che si sarebbe mantenuto costante almeno sino al 1906 (cfr. Schede e tabelle statistiche, in La formazione dell’ingegnere nella Torino di Alberto Castigliano, 1984, p. 91).

Nel 1893 venne fondato il Laboratorio di economia politica, che dipendeva sia dalla facoltà di Legge sia dal Museo; nelle sue aule Luigi Einaudi fu nel 1898, dopo aver ottenuto la libera docenza in economia politica, assistente al corso di economia e legislazione industriale. Soltanto ai primi del Novecento si iniziò a pensare alla riunione in un unico istituto della Scuola di applicazione e del Museo industriale. L’anno decisivo fu il 1903, quando la maggioranza dei professori delle due scuole sottoscrisse un memoriale a favore della fusione. Alla fine del medesimo anno, venne creata una Commissione reale, presieduta dal chimico Stanislao Cannizzaro (1826-1910), il quale assegnò al matematico Vito Volterra il compito di studiare l’ordinamento delle scuole politecniche europee più prestigiose. Il progetto di legge fu presentato il 26 giugno 1905 e approvato l’8 luglio. Il Politecnico di Torino, che dipendeva dal ministero della Pubblica Istruzione, fu «un frutto maturo di cinquant’anni di storia» (Ferraresi, in Storia di Torino, 7° vol., 2001, p. 835).

La fondazione del Politecnico di Milano

Nell’ottobre del 1859 Gabrio Casati, allora ministro della Pubblica Istruzione, incaricò Sella di valutare l’ordinamento dell’Istituto tecnico superiore di Milano. Una volta emanata la legge Casati (novembre del 1859), in ottemperanza all’art. 310 venne istituita una commissione, presieduta da Sella (che nel dicembre di quello stesso anno venne eletto membro ordinario del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione) e di cui facevano parte altri sei membri: Richelmy; l’ingegnere Severino Grattoni (1815-1876), che era entrato nel Genio civile nel 1844; Guido Susani (1824-1892) e il conte Lorenzo Taverna (1799-1869), che nella Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri erano rispettivamente ingegnere della sezione di meccanica e presidente; Francesco Ambrosoli (1797-1868), un professore di lettere classiche che aveva già fatto parte della Commissione Bolza del 1851; Alessandro Cagnoni, ingegnere e assessore della giunta comunale di Milano.

La Commissione Sella concluse i propri lavori il 14 ottobre 1860, e la relazione fu opera di Susani. Se i rapporti con il comune di Milano si rivelarono ottimi, più contrastati furono quelli con la Società d’incoraggiamento, che vedeva nel nascente Istituto tecnico un pericoloso concorrente. La Commissione, infatti, in un primo momento cercò di inglobare nell’Istituto la Società, che oppose però un netto rifiuto. Alla fine prevalse la linea di Taverna, che prevedeva «indipendenza reciproca, istituzionale ed effettiva, non alienabilità delle proprietà delle scuole d’incoraggiamento e aiuto e collaborazione reciproche» (Castellano 1981, p. 140).

A tre anni esatti dalla legge Casati, il 13 novembre 1862, il ministro Matteucci portò alla firma del re Vittorio Emanuele II il decreto di istituzione dell’Istituto tecnico superiore di Milano. Gli ordinamenti della nuova scuola vennero perfezionati con alcuni decreti del 1862 e del 1863: in quello del 5 marzo 1863 fu stabilito che essa avrebbe conferito il diploma sia di ingegnere civile sia di ingegnere meccanico; l’art. 10 del decreto del 13 novembre 1862 prevedeva che essa entrasse in funzione nel gennaio del 1863, ma in realtà fu inaugurata il 29 novembre di quell’anno. L’Istituto ebbe come prima sede (1863-66) il Palazzo del Senato; poi venne trasferito nei locali del Palazzo della Canonica, dove sarebbe rimasto sino al 1927. Dal 1923 al 1937 si chiamò Scuola di ingegneria e, dal 1937, Politecnico.

Nel 1863, quando venne fondato l’Istituto, in Europa esistevano numerose scuole politecniche. La Francia disponeva ormai da tempo di scuole prestigiose, in quanto l’École des ponts et chaussées era stata fondata nel 1747, l’École des mines nel 1783 e l’École polytechnique nel 1787. La Germania si era dotata di numerose scuole politecniche, ma la più quotata era quella di Karlsruhe, istituita nel 1825, in cui erano previsti tre anni preparatori di studi matematici e una scuola di specializzazione la cui durata variava dai due anni e mezzo ai quattro anni, con la possibilità di scelta per i futuri ingegneri tra cinque diversi settori di specializzazione. Di minore qualità erano i due Politecnici di Monaco (1827) e di Stoccarda (1829), mentre il Politecnico di Berlino sarebbe stato fondato solo nel 1879. Uno dei migliori Politecnici esistenti era quello di Zurigo, creato nel 1855, che attraeva studenti da tutto il mondo; infatti il suo ordinamento venne preso da Brioschi come modello per l’Istituto tecnico superiore.

Nel 1865 l’Istituto ampliò la propria offerta didattica inaugurando i primi corsi della Scuola di applicazione per gli architetti civili; essi vennero affidati a Camillo Boito (1836-1914), che avrebbe insegnato in tale istituzione per quarantatré anni consecutivi (storia dell’architettura, 1865-67; stili classici e del Medioevo, 1867-77; architettura, 1877-1908). Il primo direttore dell’Istituto fu Brioschi, che si era formato a Pavia, dove aveva avuto come insegnanti due collaboratori de «Il Politecnico», il fisico Luigi Magrini (1802-1868) e il naturalista Giuseppe Balsamo Crivelli (1800-1874), il quale ebbe tra i suoi allievi anche Lombroso. Laureatosi nel 1845, Brioschi scrisse nel 1854 il libro La teorica dei determinanti e le sue principali applicazioni, che fu immediatamente tradotto in francese e in inglese e gli diede un prestigio internazionale; il suo più grande contributo alla matematica fu la soluzione dell’equazione generale di sesto grado. Altro suo merito fu quello di essere stato tra i fondatori nel 1858 degli «Annali di matematica pura ed applicata», periodico che diresse per trent’anni (dal 1867 al 1897), contribuendo a farlo diventare uno dei più quotati a livello internazionale in tale settore.

Durante la sua direzione dell’Istituto tecnico superiore, che durò fino al 1897, Brioschi rese questa scuola

libera da ogni dipendenza dalle università, e impegnata a far fronte ai sempre nuovi bisogni creati dal progresso tecnico-scientifico e dallo sviluppo industriale del paese (Lacaita, in Il Politecnico di Milano, 1981, p. 13).

Nel 1863 chiamò a Milano un ottico di grande valore, Ignazio Porro (1801-1875); questi nel medesimo anno – insieme all’industriale tessile Carlo Dell’Acqua (1848-1918), all’ingegnere e matematico Luigi Longoni e al fotografo Alessandro Duroni (1807-1870) – fondò la società Tecnomasio italiano, specializzata nella produzione di strumenti per la geodesia, l’ottica e l’acustica. Nel 1865 Porro, sempre con l’aiuto di Brioschi, diede vita alla scuola-laboratorio Filotecnica. Nel 1873 un altro ingegnere laureatosi all’Istituto tecnico superiore, Angelo Salmoiraghi (1848-1939), rilevò la Filotecnica da Porro, e durante la sua direzione diversificò l’offerta, producendo strumenti topografici, geodetici e astronomici. Nel 1870 era entrato nella Tecnomasio l’ingegnere Bartolomeo Cabella (1847-1907), che nel 1871 ne assunse la direzione; la conservò sino al 1903, quando l’azienda venne acquisita dalla svizzera Brown Boveri (assumendo la denominazione di Tecnomasio italiano Brown Boveri). Sotto la direzione di Cabella, la Tecnomasio differenziò notevolmente la propria produzione, acquisendo fama internazionale.

Brioschi coronò una delle sue ambizioni nel 1875, quando ottenne che l’Istituto milanese divenisse la prima «scuola italiana di ingegneria pienamente autonoma, sull’esempio dei grandi politecnici europei» (Lacaita, in Il Politecnico di Milano, 1981, p. 14); avrebbe conservato tale primato sino al 1906, quando sarebbe nato il Politecnico di Torino. La morte improvvisa di Sella (1884) portò Brioschi alla carica di presidente dell’Accademia dei Lincei, che ricoprì sino alla morte (1897).

Negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando si registrò in Italia un impetuoso sviluppo industriale (con un tasso di crescita media annua del 4,6%), aumentarono anche gli iscritti nelle discipline tecnico-scientifiche. Nel 1889, quando si volle tracciare un bilancio dei primi venticinque anni di attività dell’Istituto milanese, emerse che il 45% circa degli ingegneri laureati aveva trovato impiego nel privato, in differenti rami produttivi, il 28% era entrato al servizio dello Stato e il rimanente 27% esercitava la libera professione nelle diverse specializzazioni dell’ingegneria.

Nel 1893, gli ingegneri Cesare Saldini (1848-1922) e Giuseppe Ponzio, rientrati a Milano dopo un viaggio in Inghilterra, fondarono il Laboratorio di meccanica applicata, il primo in Italia. Entrato in funzione nel 1895, ricalcò l’esperienza dei laboratori americani ed europei, pur senza raggiungere le dimensioni di quelli di Zurigo e Berlino. Nel 1895 nacque il Laboratorio per le ricerche sulla carta, che aveva il compito di promuovere gli studi e gli esperimenti sia sulle tecniche sia sulle materie prime utilizzate in questo comparto industriale.

Il successore di Brioschi alla direzione dell’Istituto tecnico superiore fu (dal 1897 al 1921) uno dei suoi allievi, Colombo, il quale si mostrò sempre attento ad ampliare l’offerta degli insegnamenti dell’Istituto; infatti, nel 1867 aveva istituito i corsi di chimica tecnologica e nel 1897, appena nominato direttore, inaugurò un corso di elettrotecnica.

L’epoca dei grandi trafori e delle ferrovie

Come ha notato Lacaita (1993), «gli studi e la pratica dell’ingegnere ricevettero negli anni dal 1860 al 1880 diversi innegabili benefici dall’unificazione politica industriale del paese e dalle iniziative del nuovo Stato» (pp. 230-31).

Se l’Esposizione nazionale di Firenze (1861) fu una testimonianza dell’arretratezza industriale dell’Italia, quella di Milano del 1881 attestò la crescita e l’ascesa del sistema industriale. In quei due decenni venne compiuto da parte dello Stato uno sforzo notevole per dotare il Paese di una rete ferroviaria più vasta: dai 2404 km del 1860 si passò ai 9290 del 1880 e ai 16.429 del 1900, anno in cui quello ferroviario diventò il comparto più importante dell’industria nazionale e della pubblica amministrazione. Dal canto suo, la rete stradale passò nel periodo 1860-80 da 22.500 km a 35.500.

Questi anni furono caratterizzati anche dalla costruzione dei grandi trafori alpini. I lavori per la galleria del Fréjus durarono dal 1861 al 1870, e il traforo fu inaugurato nel settembre del 1871. I tre ingegneri che diressero lo scavo – Germano (Germain) Sommeiller (1815-1871), Sebastiano Grandis (1817-1892) e Severino Grattoni – misero a punto una perforatrice pneumatica che permise di procedere più speditamente, e i cui primi modelli erano stati esaminati nel 1857 da una commissione presieduta da Luigi Des Ambrois de Nevâche (1807-1874) e di cui faceva parte anche Sella. Quello del Fréjus fu il primo tunnel sotto le Alpi, e con i suoi 13,6 km detenne il primato della galleria ferroviaria più lunga al mondo sino al gennaio del 1882 (quando fu ultimata quella del Gottardo, di 15 km). Il primo treno lo percorse in 40 minuti, a fronte delle 12 ore necessarie per percorrere lo stesso tratto sulla strada carrozzabile.

L’apertura del Fréjus determinò anche la chiusura della linea ferroviaria del Moncenisio (Chemin de fer du Mont Cenis), denominata anche Ferrovia Fell perché realizzata dall’ingegnere inglese John Barraclough Fell (1815-1902); lunga 77 km, metteva in collegamento Susa in Piemonte e Saint-Michel-de-Maurienne in Savoia. Gestita da una compagnia inglese, fu attiva dal 1868 al 1871 ed era utilizzata dalle poste britanniche per spedire la corrispondenza verso l’India, allora possesso coloniale britannico. L’inaugurazione della galleria del Gottardo avvenne circa dieci anni dopo l’avvio delle operazioni di scavo (settembre 1872) e le morti sul lavoro furono più numerose che nel Fréjus, a causa sia dell’uso della nitroglicerina sia della diffusione tra gli operai di una malattia (l’anchilostoma) che aggrediva l’intestino, che provocò 179 morti.

Nel 1895, infine, si decise di costruire la galleria del Sempione (trattato di Berna tra Italia e Svizzera, novembre 1895). I lavori iniziarono nel 1898 e si conclusero nel 1906; il tunnel, di quasi 20 km, rimase il più lungo al mondo sino al 1979, quando in Giappone si inaugurò la galleria Dai-Shimizu, di 22,3 km.

L’incremento della rete ferroviaria e stradale si tradusse anche in una crescita delle imprese impegnate nella realizzazione delle diverse infrastrutture necessarie (ponti, viadotti, gallerie, attrezzature portuali). Un caso significativo, per es., fu quello dell’ingegnere Domenico Borini (1861-1919), il quale, alla guida dell’azienda omonima, tra il 1885 e il 1890 realizzò in Italia sedici ponti per conto della Società nazionale delle officine di Savigliano (sorta a Torino nel 1880), oltre a diverse opere assegnategli da altri committenti (cfr. Marchis 2013, pp. 60-62).

Altro caso di riuscita industriale, forse ancora più esemplare, fu quello di Giovanni Battista Pirelli (1848-1932), il quale, laureatosi nel 1870 con Colombo all’Istituto tecnico superiore, partì per un viaggio all’estero con l’intenzione di perfezionare le sue conoscenze sull’industria serica; ma in una lettera del 16 marzo 1871 il suo maestro lo esortò a studiare la produzione del caucciù. Il consiglio fu estremamente proficuo per Pirelli, che tornato in Italia fondò nel 1872 la G.B. Pirelli & C., la prima azienda italiana nel settore della gomma elastica, destinata a diventare un pilastro del sistema industriale nazionale.

Tra gli altri allievi di Colombo figura anche Palamede Guzzi – padre di Carlo Guzzi (1889-1964), fondatore nel 1921 dell’azienda Moto Guzzi –, che, dopo essersi laureato nel 1866, all’Istituto tecnico superiore insegnò tra il 1866 e il 1872 diverse materie, tra cui cinematica e teoria dei meccanismi, e nel 1872 fondò, con Valentino Ravizza, l’Officina elettrotermica ing. Guzzi, Ravizza & C., specializzata nella fabbricazione di dinamo, motori elettrici e trasformatori.

Altro celebre allievo di Colombo fu Enrico Forlanini (1838-1940), proveniente da un’illustre famiglia in quanto era figlio di Francesco, primario dell’ospedale milanese Fatebenefratelli, e fratello del celebre pneumologo Carlo (1848-1930), il primo nel 1882 a utilizzare la tecnica dello pneumotorace artificiale per curare la tubercolosi polmonare. Il giovane ingegnere Forlanini, che si era formato all’Accademia militare e alla Scuola di applicazione di artiglieria e genio di Torino, nell’agosto 1877 riuscì a far sollevare a un’altezza di 13 m un elicottero con motore a vapore, ed è considerato uno dei fondatori dell’aviazione italiana.

Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, si registrò negli Stati Uniti e in Europa l’avvento di una nuova fonte di energia, l’elettricità, che proprio in quegli anni conobbe anche le sue prime applicazioni industriali. Nel settore della chimica, invece, l’Italia denunciava una certa arretratezza, come testimonia il frequente ricorso ai tecnici stranieri. Con l’intento di porre un argine al ritardo italiano in questo campo, furono fondate la Società chimica di Milano (1895) e l’Associazione chimica industriale di Torino (1899); in quest’ultima città, tale settore di ricerca fu rinnovato anche grazie all’operato del palermitano Michele Fileti (1851-1914), docente di chimica generale all’università dal 1881.

L’elettrotecnica italiana: Galileo Ferraris e Giuseppe Colombo

Se nei primi due decenni dopo l’unificazione prevalsero i settori dell’ingegneria civile e della meccanica applicata, nei successivi due decenni predominò quello dell’elettrotecnica.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento, il fisico pisano Antonio Pacinotti (1841-1912) aveva messo a punto un generatore magnetico-elettrico che conteneva un’apparecchiatura destinata a divenire celebre con il nome di anello di Pacinotti; essa era formata, come ha spiegato Maiocchi (in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1° vol., 1992, p. 156), da un «anello di materiale magnetico avvolto da un circuito induttore chiuso. Questo dispositivo era stato la soluzione, scientifica e tecnica, che permetteva la costruzione di un apparecchio capace di fornire corrente continua» senza dover ricorrere a un commutatore esterno. Pacinotti non brevettò la sua scoperta, tuttavia pubblicò un saggio sull’argomento (Descrizione di una macchinetta elettro-magnetica, «Il nuovo cimento», fasc. del giugno 1864, pubblicato nel maggio 1865, pp. 27-35). Nel 1869 il tecnico belga Zénobe Théophile Gramme (1826-1901) realizzò il primo prototipo di generatore elettrico (denominato dinamo Gramme), di cui l’anello di Pacinotti costituiva la parte essenziale. Di conseguenza, tra i due nacque una disputa sulla paternità di tale scoperta, ma alla fine, numerosi anni dopo, la comunità scientifica riconobbe il merito e la priorità della scoperta al fisico italiano.

Gli studi italiani sull’elettricità erano di buon livello, e nel 1876 la Tecnomasio, grazie alle ricerche sugli usi industriali dell’energia elettrica condotti dal suo direttore Cabella, compì il primo esperimento di illuminazione pubblica in Italia: il duomo di Milano venne illuminato con un potente faro elettrico.

Gli anni Ottanta furono un decennio ricco di innovazioni nel campo elettrico. Nel 1881 si svolse a Parigi l’Esposizione internazionale, dedicata all’elettricità. L’Italia risultò quinta come numero di espositori (81), dietro a Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna, ma davanti agli Stati Uniti (72 espositori).

All’esposizione parigina fu presentato per la prima volta un modello di lampada a incandescenza con filamento di carbone (il filamento al tungsteno sarebbe stato introdotto nel 1903), messo a punto dallo statunitense Thomas A. Edison (1847-1931). Questi, inoltre, successivamente avrebbe progettato un sistema di distribuzione dell’elettricità con cavi sotterranei, anche se per tutto l’Ottocento sarebbe prevalsa la distribuzione per via aerea. Il sistema di illuminazione Edison attirò l’interesse sia di Colombo sia del fisico piemontese Galileo Ferraris.

Ferraris (1847-1897), laureatosi in ingegneria civile nel 1869, verso la fine degli anni Settanta si era interessato ai problemi applicativi dell’elettricità, pubblicando Sulla intensità delle correnti elettriche e delle extracorrenti nel telefono («La natura», 1879, 3, pp. 217-25, 299-304, 406-11 e 445-52) – il primo prototipo di telefono era stato messo a punto nel 1871 da Antonio Meucci (1808-1889) e la prima linea telefonica italiana sarebbe stata attivata a Roma nel 1881 – e tenendo alcune conferenze sull’illuminazione elettrica – alle quali partecipò il tecnico Alessandro Cruto (1847-1908), che realizzò un modello di lampadina a incandescenza nel marzo 1880, alcuni mesi dopo quello messo a punto da Edison; Cruto utilizzò un filamento di carbonio, che dava alle sue lampadine un rendimento maggiore di quelle di Edison.

Ferraris inizialmente si mostrò scettico verso la lampadina di Edison, ma a Parigi mutò la sua opinione, come si desume dalla relazione da lui presentata a Domenico Berti, ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio: Sulle applicazioni industriali della corrente elettrica alla mostra internazionale di elettricità tenuta a Parigi nel 1881.

Negli anni Ottanta, Ferraris intensificò le sue ricerche nel campo dell’elettrotecnica, in cui si susseguivano le innovazioni, come il generatore secondario (o trasformatore elettrico) di Lucien Gaulard e John Gibbs, presentato per la prima volta all’Esposizione internazionale dell’elettricità tenutasi a Torino nel 1884. Il trasformatore distribuiva «l’energia elettrica ad una rete relativamente vasta, impiegante corrente a bassa intensità, ma ad elevata differenza di potenziale» (Segreto, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1° vol., t. 1, 1992, p. 261). I miglioramenti apportati al trasformatore tra il 1882 e il 1885 permisero di riprendere in considerazione la corrente alternata e di fare uso di altre fonti primarie, come l’energia idraulica.

Nello stesso periodo Ferraris, in una serie di memorie presentate all’Accademia delle scienze di Torino, di cui era diventato socio nel 1880, «fornì esplicitamente per la prima volta la definizione del fattore di potenza» (Lerda 1996, p. 727). Successivamente si interessò al problema di come trasformare l’elettricità in forza motrice; in base alle riflessioni che ne seguirono, inventò, tra l’agosto e il settembre del 1885, il motore a campo magnetico rotante, scoperta che lo rese «celebre in tutto il mondo» (p. 727). Tuttavia, non depositò il brevetto della sua invenzione, e pubblicò i dati solo nel 1888. Un ingegnere serbo naturalizzato statunitense, Nikola Tesla (1856-1943), cercò di attribuirsi il merito della scoperta, la cui paternità tuttavia fu pienamente riconosciuta a Ferraris nel 1891, in occasione dell’Esposizione internazionale di elettrotecnica di Francoforte.

Nel 1886, all’Istituto tecnico superiore di Milano furono istituiti due insegnamenti, l’uno di macchine dinamo-elettriche e l’altro di misure elettriche. Nello stesso anno Ferraris fondò a Torino la Scuola di elettrotecnica. Nel 1887, l’industriale farmaceutico Carlo Erba (1811-1888) donò 400.000 lire per aprire una scuola di elettrotecnica annessa all’Istituto tecnico superiore, e l’anno dopo a Torino venne creato un Laboratorio di elettrotecnica, affidato a Ferraris. Un corso di elettrotecnica venne avviato anche a Roma nell’anno accademico 1885-86, ma fu reso permanente solo nel 1891. Nel 1899 si aprì un corso di elettrochimica a Torino.

Anche Colombo fu attratto dal sistema di illuminazione di Edison, al punto da decidere di aprire una centrale elettrica nel centro di Milano. L’impianto di via Santa Radegonda, vicino al duomo, fu messo in funzione il 28 giugno 1883, e con le sue nove dinamo era in grado di dare corrente a 4500 lampadine a incandescenza. Questa centrale elettrica fu la seconda al mondo a utilizzare il sistema Edison; la prima fu quella di Pearl Street a New York, realizzata nel 1882 dallo stesso Edison e attiva fino al 1894. Nel 1884 fu fondata la società elettrica Edison che, per un decennio, avrebbe dominato il mercato dell’elettricità in Italia.

La prima applicazione del trasformatore venne realizzata nel 1885 a Tivoli, che fu la prima città di provincia a essere illuminata. L’iniziativa era stata presa dalla Società per le forze idrauliche di Tivoli, che nel 1892 fornì l’energia elettrica alla Società anglo-romana per l’illuminazione di Roma; si trattò del primo trasporto a distanza dell’energia elettrica a fini industriali in Italia.

Nel 1890 entrò in funzione a Venezia l’impianto di illuminazione del Teatro Malibran e nel 1893 quello del Teatro La Fenice. Tra il 1887 e il 1889 nacquero in Italia 12 società elettriche, e negli ultimi due decenni del secolo vennero aperte diverse centrali: a Palermo nel 1887; a Genova, con tre impianti realizzati tra il 1890 e il 1892; a Torino nel 1892, con lo stabilimento al Regio Parco alimentato idraulicamente. Alla fine del secolo si diffuse la tipologia della centrale elettrica ad alimentazione idraulica, come nei casi degli impianti di Padernò d’Adda (1897), a 37 km da Milano, e di Vizzola sul Ticino (1900). In seguito, tra il 1894 e il 1907, si passò da 18 a 175 società anonime attive nel settore.

Nel 1896 si decise di fondare l’Associazione elettrotecnica italiana (AEI), che fu effettivamente istituita nel 1897 a Milano. La presidenza venne affidata a Ferraris e, dopo la sua morte, a Colombo. Si crearono rapidamente diverse sedi in Italia: a Milano (153 soci), Torino (80), Napoli (80), Genova (più di 50), Roma (40) e Palermo (40). Dopo la morte di Ferraris non ci furono altri studiosi italiani del suo livello. Tra gli elettrotecnici della generazione successiva, oltre al già citato Cabella, occorre ricordare Emanuele Jona (1860-1919), laureatosi nel 1885 con Ferraris. Ingegnere elettrico brillantissimo, divenne presto direttore della Pirelli-cavi, un settore aperto dalla Pirelli nel 1878. Le sue ricerche furono volte a risolvere i problemi legati all’isolamento elettrico dei cavi, in cui Jona diede importanti contributi anche grazie alla proficua collaborazione del matematico padovano Tullio Levi-Civita (1873-1941).

Vito Volterra e la matematica italiana

Volendo fare un’analisi estremamente sintetica della situazione delle materie scientifiche insegnate nelle università italiane, si può osservare che la fisica e la chimica vivevano una situazione critica, mentre le scienze naturali – quali la botanica, la zoologia, la mineralogia e la geologia – erano ben rappresentate. La dominatrice assoluta, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, continuava a essere la matematica, il cui numero di cattedre mostrò una tendenza costante a crescere. La matematica, dunque, fu l’unica disciplina a non conoscere flessioni e a mantenere una tradizione di studi di alto livello. I padri fondatori della scuola matematica italiana furono Brioschi, Casorati ed Enrico Betti (1823-1892), direttore della Normale dal 1864 sino alla morte, che ebbe tra i suoi allievi Vito Volterra.

Giuseppe Peano, Corrado Segre e Volterra furono i protagonisti dell’«età aurea della matematica torinese», secondo un’efficace espressione di Silvano Montaldo (in Storia di Torino, 7° vol., 2001, p. 780). Peano (1858-1932), laureatosi nel 1880, divenne docente di calcolo infinitesimale nel 1890; gli scritti Applicazioni geometriche del calcolo infinitesimale (1887) e Lezioni di analisi infinitesimale (1893) gli diedero un’immediata rilevanza internazionale. Segre (1863-1924), titolare della cattedra di geometria superiore dal 1888, nel 1901 divenne socio dell’Accademia dei Lincei. Volterra (1860-1940), come scrisse il matematico Guido Castelnuovo (1865-1952), docente a Roma di geometria analitica e proiettiva dal 1891 al 1935, fu «uno dei maggiori matematici che l’Italia abbia mai avuto» (cit. da Simili, in Scienziati, patrioti, presidenti, 2012, p. 184).

Volterra, iscrittosi alla facoltà di Scienze di Pisa, frequentò le lezioni di Riccardo Felici (1819-1902), docente di fisica dal 1849 al 1893 – nel 1849 aveva preso parte alla battaglia di Curtatone insieme al matematico e astronomo Ottaviano Fabrizio Mossotti (1791-1863), al fisico Carlo Matteucci, al geologo Leopoldo Pilla (1805-1848) e al matematico e ingegnere Gaetano Giorgini (1795-1864) – e di Ulisse Dini (1845-1918), professore di matematica dal 1866, considerato il «vero iniziatore della scuola italiana di analisi» (Guerraggio, Paoloni 2008, p. 20). Volterra si laureò nel 1882 in idrodinamica con Betti, lo stesso maestro di Dini. L’anno dopo, a soli 23 anni, venne nominato docente di meccanica razionale a Pisa.

Nel 1893 fu chiamato a Torino, dove rimase sino al 1900. Al momento del suo arrivo, a Torino i docenti più celebri erano Enrico d’Ovidio (1843-1933), docente di algebra e geometria dal 1872, il suo allievo Segre e Peano. Fondamentale fu il contributo di Volterra agli studi sulla teoria delle equazioni integrali, elaborata nel 1896-97. Nello stesso periodo egli prese parte alla fondazione della Società italiana di fisica (1897). Nel febbraio del 1900 morì Eugenio Beltrami (1836-1900), che era stato allievo di Brioschi ed era diventato docente di fisica matematica a Roma. Volterra, che non si trovava bene a Torino, decise di concorrere per quella cattedra, ma fu osteggiato da Dini, uno dei suoi maestri pisani, anch’egli desideroso di trasferirsi a Roma. Volterra riuscì a farsi eleggere grazie al sostegno di Pietro Blaserna (1836-1918), docente di fisica sperimentale dal 1872, di Cannizzaro e di Castelnuovo, allievo di Segre.

Nel 1906 Volterra presentò il progetto per istituire una Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS), al quale aderì con entusiasmo Federigo Enriques (1871-1946), illustre esponente della scuola italiana della geometria algebrica, che si era laureato in matematica a Pisa nel 1891 e nel 1894 si era trasferito a Bologna per insegnare geometria descrittiva e proiettiva. Il primo presidente della SIPS fu Volterra (sino al 1909) e il primo segretario fu Alfonso Sella, figlio di Quintino.

Anche Volterra, come prima di lui Quintino Sella e Brioschi, venne eletto presidente dell’Accademia dei Lincei. Sotto la sua presidenza (1923-26) fu eletto socio Benedetto Croce (1866-1952). I due in seguito si trovarono accomunati nel 1931 da una medesima scelta: il rifiuto di giurare fedeltà, come docenti universitari, al regime fascista.

Opere

Opere di Galileo Ferraris, pubblicate per cura della Associazione elettrotecnica italiana, 3 voll., Milano 1902-1904.

C. Cattaneo, Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, raccolti e ordinati da A. Bertani, 2 voll., Firenze 1948.

V. Volterra, Opere matematiche: memorie e note, pubblicate a cura dell’Accademia nazionale dei Lincei col concorso del Consiglio nazionale delle ricerche, 3 voll., Roma 1954-1957.

C. Cattaneo, Scritti politici, a cura di M. Boneschi, 4 voll., Firenze 1964-1965.

G. Colombo, Industria e politica nella storia d’Italia: scritti scelti, 1861-1916, a cura di C.G. Lacaita, Milano-Roma-Bari 1985.

F. Brioschi, Scritti e discorsi, a cura di C.G. Lacaita, 3° vol. di Francesco Brioschi e il suo tempo (1824-1897), a cura di C.G. Lacaita, A. Silvestri, Milano 2003.

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