La diagnostica per immagini

Universo del Corpo (1998)

La diagnostica per immagini

Roberto Passariello
Paolo Ricci
Franco Orsi
Carlo Catalano
Andrea Laghi
Giorgio Albertini Petroni
Marco Di Girolamo
Mario Bezzi
Claudio Panzetti
Elsa Iannicelli
Francesco Maria Drudi
Marco Clementi
Monica Luzietti
Paolo Pavone
Andrea Scipioni
Andrea Laghi
Michele Rossi
Giuseppe Pizzi
Vittorio Pedicini

Introduzione

La diagnostica per immagini, o imaging, termine moderno utilizzato per indicare tutte le modalità di formazione delle immagini biomediche utilizzate a scopo diagnostico e, in alcuni casi, terapeutico, comprende la radiologia, sia convenzionale sia digitale, la tomografia computerizzata, l'ecografia, la risonanza magnetica, le procedure di tipo terapeutico-radiologico guidate dalle stesse modalità che vanno sotto il nome di radiologia interventistica, nonché, pur nella sua peculiarità, la medicina nucleare (per la quale v. IV, cap. 6: Medicina nucleare). Le varie tecniche di diagnostica per immagini utilizzano l'energia fornita da una sorgente e misurano, in linea di principio, l'interazione fra questa energia e l'organo di cui si vuole ottenere un'immagine, definito organo bersaglio. Quando l'energia prodotta dalla sorgente, propagandosi nello spazio (fenomeno della radiazione), incontra l'organo bersaglio, una parte viene riflessa all'indietro, una parte viene rifratta, cioè si propaga attraverso (ed eventualmente oltre) il bersaglio modificando in generale le sue caratteristiche, e una parte viene in qualche modo assorbita dall'organo bersaglio stesso. Lo studio quantitativo delle caratteristiche dei suddetti fenomeni fisici (riflessione, rifrazione e assorbimento), che variano al variare dei mezzi (e quindi dei tessuti) e del tipo di energia (e quindi della tecnica di diagnosi), permette, dopo opportune rivelazioni e trasduzioni, la formazione dell'immagine su un idoneo supporto. Si è detto in precedenza che ogni tecnica fa uso di una diversa forma di energia e che, per tutte, si fa riferimento al fenomeno della radiazione: più specificamente, esso consiste nella emissione e propagazione di energia secondo raggi che costituiscono il percorso di corpuscoli (radiazione corpuscolare o particellare) o la direzione di propagazione di onde elastiche o elettromagnetiche (radiazione ondulatoria). Ogni particolare tecnica di diagnosi è fondata sui principi generali appena enunciati. Tuttavia, l'andamento qualitativo e quantitativo dei fenomeni fisici che intervengono nelle singole tecniche è fortemente caratterizzato, oltre che dal tipo di energia impiegata, dalla tipologia del tessuto che si sta analizzando. Conseguentemente, l'immagine prodotta dallo strumento presenta caratteristiche e valori dei parametri che fanno riscontro sia alle peculiarità della tecnica diagnostica sia alla realtà anatomica e fisiologica oggetto della diagnosi. Le tecniche di imaging sono fortemente caratterizzabili sulla base della risoluzione dei dettagli e del contrasto con il quale rivelano differenti tipologie di tessuti. La risoluzione, genericamente ma con riferimento a un determinato sistema fisico, è il parametro (detto anche potere risolutivo o risolutore o risolvente o separatore) che precisa la capacità del sistema di rilevare il più fine dettaglio possibile ai fini per i quali esso è stato costruito. Il termine contrasto, inizialmente introdotto nell'ottica per indicare la differenza della sensazione visiva tra zone più brillanti e zone meno brillanti di una superficie luminosa o illuminata (contrasto di luminanza), fu esteso in seguito a indicare l'escursione dei valori di una qualche grandezza legata all'intensità dell'immagine, rapportata al valor medio. La prima tecnica di diagnostica per immagini a essere scoperta e utilizzata è stata la radiologia, la cui nascita è legata alla scoperta, dovuta a W.C. Röntgen (1895), della proprietà dei raggi X ‒ che furono così chiamati perché all'inizio ne erano sconosciute l'origine e, in parte, la natura ‒ di attraversare il corpo umano e di impressionare l'emulsione di una pellicola fotografica. L'evidenza radiologica delle strutture del corpo umano e di eventuali loro condizioni patologiche si basa sull'esistenza di differenze di contrasto tra tessuti diversi, cioè sul fatto che i vari tessuti hanno caratteristiche di trasparenze diverse al passaggio dei raggi X. Per es., la bassissima opacità radiologica del parenchima polmonare, contenente aria, fa risaltare per contrasto la maggiore opacità del cuore e dei vasi mediastinici, e quella ancora maggiore delle coste e delle vertebre, che sono ricche di calcio; in base a questo stesso principio, sulla bassa opacità del polmone risalta, per contrasto, un tumore, che è più opaco del parenchima polmonare normale. Molto spesso, tuttavia, il contrasto 'naturale' degli organi del corpo umano e delle loro possibili lesioni non è sufficiente per consentirne l'evidenziazione. Per tale motivo, fin dall'inizio della radiologia e nel corso degli anni successivi, è stata sviluppata una serie di mezzi di contrasto artificiali, cioè di sostanze relativamente opache ai raggi X, opportunamente immesse negli organi corporei, che permettono di incrementare la visibilità radiologica naturale dei vari organi. Nei più di cento anni trascorsi dalla nascita della radiologia, i progressi tecnologici e metodologici sono stati notevolissimi. Ricordiamo, tra i primi, i miglioramenti apportati alle pellicole radiografiche e agli schermi di rinforzo, che consentono oggi di produrre immagini radiologiche di eccezionale dettaglio con dosi di radiazioni notevolmente ridotte, e il grande progresso delle apparecchiature che sono alla base della radioscopia televisiva e della radiocinematografia, cioè gli intensificatori di immagine. Uno dei progressi tecnologici maggiori si è avuto, inoltre, con l'applicazione dell'informatica alla radiologia, grazie alla quale è possibile sia ottenere immagini radiologiche su una superficie sensibile che riproduce l'immagine stessa su uno schermo televisivo, anziché su una pellicola convenzionale, sia disporre di sistemi di trattamento automatico di pellicole e immagini. Da un punto di vista metodologico si devono ricordare, negli anni Trenta, le prime aortografie e arteriografie cerebrali, a opera di E. Moniz e M. Dos Santos, e, negli anni Sessanta, la messa a punto, da parte di S.I. Seldinger, della tecnica di cateterismo percutaneo, che ha aperto le porte alla diffusione delle indagini angiografiche a tutti i distretti vascolari del corpo umano, comprese le arterie coronarie, e, successivamente, a numerosissime procedure di radiologia interventistica o terapeutica. Questa si è oggi sviluppata in campo sia vascolare (dilatazioni di stenosi vasali o ricanalizzazione di occlusioni, embolizzazioni, infusioni selettive di farmaci, obliterazione di vasi patologici ecc.) sia extravascolare (drenaggio percutaneo di ascessi, cisti e pseudocisti, drenaggio delle vie biliari dilatate nell'ittero, eventuale posizionamento di protesi, dilatazione di stenosi digestive ecc.). Sempre a proposito di evoluzione della radiologia, un cenno particolare merita la stratigrafia o tomografia, che, nata negli anni Trenta, grazie anche all'apporto del radiologo italiano A. Vallebona, costituisce ancora oggi un indispensabile ausilio diagnostico. Contrariamente alla radiografia, che rappresenta su un piano tutte le strutture anatomiche che si trovano nel volume del corpo in studio, la tomografia, grazie a una opportuna pendolazione del tubo radiogeno e della cassetta che contiene la pellicola radiografica, consente di rappresentare solo uno strato preselezionato del volume corporeo in esame. Va ricordato che tutte le successive tecniche di imaging, quali, per es., l'ecografia o ecotomografia, la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica, sono tecniche stratigrafiche il cui sviluppo si è giovato delle cognizioni acquisite con la stratigrafia convenzionale. A partire dagli anni Settanta, si è assistito a uno straordinario progresso della diagnostica per immagini, dapprima con l'avvento della ecografia e della tomografia computerizzata, poi con quello della risonanza magnetica. L'ecografia sfrutta il principio della riflessione delle onde ultrasonore, che è alla base dell'ecoscandaglio. I primi apparecchi, seppure ingombranti e poco maneggevoli, consentivano tuttavia di differenziare facilmente formazioni prive di echi, perché a contenuto liquido, quali le cisti, da formazioni ricche di echi, perché solide, come i tumori. Il progresso tecnologico ha poi messo a disposizione apparecchi sempre più perfezionati, capaci di fornire immagini ricche di dettaglio. Alla informazione ecografica è stata associata quella velocimetrica e flussimetrica vascolare (eco-color-doppler), così da ottenere informazioni di determinante interesse diagnostico di tipo non solo morfologico, ma anche funzionale, riguardante il flusso vascolare e la perfusione di organi o lesioni. Per la diffusione delle apparecchiature e la notevole potenzialità diagnostica, l'ecografia, sotto forma sia di ecotomografia convenzionale sia di eco-color-doppler, trova largo impiego in numerosi settori della medicina, quali la cardiologia, l'ostetricia e la ginecologia, l'urologia, la gastroenterologia, la pediatria, le affezioni muscolo-tendinee. La tomografia computerizzata (TC), detta anche tomografia assiale computerizzata (TAC), si fonda sulla ricostruzione, operata dal calcolatore, delle densità degli strati del corpo umano che viene attraversato da un fascio collimato di raggi X (con riferimento a radiazioni, l'operazione di collimazione consiste nel confinare queste ultime in un fascio parallelo, di sezione costante, oppure in un angolo solido di ben definita ampiezza; il vantaggio derivante dall'impiego di un fascio collimato migliora, in generale, la capacità di risoluzione dello strumento). Nel suo percorso, l'energia di tale fascio, nota in partenza, diminuisce in proporzione alla densità dei diversi tessuti, e l'attenuazione viene misurata da rivelatori situati dal lato opposto del tubo radiogeno, rispetto al paziente; il calcolatore, poi, converte i valori di attenuazione in una scala di grigi che fornisce l'immagine visibile. Anche in questo settore il progresso tecnologico è stato notevolissimo, e dai primi apparecchi che eseguivano una rotazione intorno al paziente in diversi minuti si è passati a quelli attuali, che hanno un tempo di rotazione dell'ordine delle frazioni di secondo. La tomografia computerizzata è stato il primo esame non invasivo con cui si sono potute eseguire indagini all'interno della scatola cranica; dopo le prime esperienze e indicazioni d'impiego, la metodica si è ampiamente diffusa, e per la sua elevatissima risoluzione e il notevole contrasto costituisce oggi l'indagine principe in numerose condizioni patologiche, non soltanto del cranio e del torace, nelle quali l'ecografia non dà indicazioni, a causa degli artefatti provocati rispettivamente dall'aria nei polmoni e dall'osso nel cranio, ma anche dell'addome e degli arti. Ultima nata delle tecniche di diagnostica per immagini è la risonanza magnetica (RM). L'indagine si fonda su un fenomeno fisico complesso, chiamato appunto 'risonanza del protone dell'idrogeno', che si verifica quando questo sia sottoposto all'azione di un intenso campo magnetico e, nel contempo, a esso venga ceduta energia tramite l'irradiazione con un'onda di radiofrequenza. L'energia ceduta viene riemessa dal protone e opportunamente localizzata da una particolare antenna; poiché il corpo umano è, come noto, composto in gran parte da acqua, il segnale di tutti i protoni risonanti determina una magnetizzazione macroscopica, che ha caratteristiche diverse a seconda della modalità di emissione degli impulsi di radiofrequenza. L'indagine ha una risoluzione di dettaglio per lo più inferiore a quella della tomografia computerizzata, ma ha un contrasto notevolmente superiore; essa permette inoltre una visione del corpo in tutti i piani dello spazio, e non solo in quello trasversale, come nel caso della tomografia computerizzata. Un vantaggio non indifferente della ecografia e della risonanza magnetica, rispetto alla radiologia e alla tomografia computerizzata, che fanno uso di raggi X, è che le prime non usano radiazioni ionizzanti e sono pertanto del tutto prive di effetti biologici; non comportando quindi alcun rischio per il paziente, possono essere utilizzate anche in pazienti molto giovani e in gravidanza. In conclusione si può affermare che la diagnostica per immagini rappresenta oggi un settore insostituibile della moderna diagnostica medica. A dimostrazione di ciò, è significativo ricordare che attualmente circa un decimo dei pazienti che consultano un medico ricevono una prescrizione per almeno un esame di diagnostica per immagini.

Storia della diagnostica per immagini

Le origini della diagnostica per immagini sono riconducibili a una data di nascita ben precisa, il 22 dicembre 1895, quando W.C. Röntgen eseguì la prima radiografia, per dimostrare che tra le proprietà fisiche delle nuove radiazioni da lui chiamate 'X' vi era anche quella di attraversare i corpi solidi, consentendo in tal modo di vedere l'interno del corpo umano senza bisogno di sezionarlo. La scoperta dei raggi X fu solo la prima delle molte tappe dell'evoluzione tecnologica della diagnostica per immagini. A essa sono seguite, per ricordarne solo alcune, quelle della tomografia computerizzata, resa possibile dall'applicazione dell'informatica alle tecniche di elaborazione delle immagini, dell'ecografia e della risonanza magnetica (v. tab. 4.14). Le varie tecniche di imaging hanno peculiarità e prestazioni distinte fra loro. Bisogna per altro ricordare che ciascuna di esse presenta dei limiti di 'potenzialità informativa', per cui, almeno al momento, si può escludere che una metodica sia in grado di soppiantare tutte le altre. Questa constatazione ha di fatto determinato il passaggio dall'approccio 'monofasico' della radiologia tradizionale all'attuale approccio 'polifasico', che prevede l'apporto integrato delle varie metodiche e ha portato alla realizzazione dei dipartimenti di diagnostica per immagini, dotati di sistemi digitalizzati per la gestione della mole sempre crescente di informazioni disponibili.

L'evoluzione della radiologia

Nonostante l'eccezionalità della loro scoperta, all'inizio i raggi X hanno consentito solo limitate possibilità di esplorazione del corpo umano, non certo paragonabili a quelle attuali. Infatti, se si escludono le strutture dotate di elevata o bassa capacità di assorbimento dei raggi X, come l'osso da un lato e l'aria e il grasso dall'altro, le restanti parti del corpo, che hanno una densità intermedia, vicina a quella dell'acqua, sfuggono all'esame radiologico diretto, perché vengono inglobate nell'uniforme 'grigiore' di fondo che omogeneizza, nel radiogramma, gli organi parenchimali. Se l'apporto della radiologia alla diagnostica si fosse limitato all'impiego diretto dei raggi X, senza il ricorso a particolari accorgimenti, il suo contributo sarebbe stato quindi assai modesto, in quanto limitato all'esplorazione del torace e dell'apparato scheletrico. Sono stati i successivi miglioramenti tecnologici ad ampliare e perfezionare le potenzialità diagnostiche della radiologia, fino a portarle ai notevoli livelli attuali. Il miglioramento informativo dell'immagine radiologica è stato ottenuto grazie agli interventi operati sulle parti che costituiscono il sistema radiologico: la sorgente radiante, o tubo radiogeno, il bersaglio biologico, o parte corporea da esaminare, e il rivelatore, detto anche detettore sensibile o sistema di registrazione. La sorgente radiante Il cuore motore di tutto il sistema radiologico è la sorgente radiante. Questa è stata subito oggetto di grande attenzione, nel tentativo di risolvere i problemi connessi alla protezione dei pazienti e degli operatori dall'alta tensione e dagli effetti biologici indesiderati delle radiazioni ionizzanti, nonché al fine di ridurre il tempo di esposizione necessario per ottenere i radiogrammi, che agli inizi era di circa un'ora. Le prime sorgenti di raggi X erano tubi a scarica, cioè dispositivi usati per ottenere la scarica elettrica nei gas rarefatti; si trattava di sorgenti deboli e fortemente instabili. In particolare lo strumento con il quale Röntgen eseguì la sua prima radiografia fu il tubo di Crookes; l'emissione della radiazione X proveniva dalle pareti stesse del vetro colpite dall'emissione elettronica. Il tubo di Crookes venne presto sostituito da altri tubi catodici e dalle ampolle a gas residuo, finché negli anni Venti fu proposto il rivoluzionario tubo di Coolidge ad anodo di tungsteno, in grado di resistere alle alte temperature generate dall'impatto su di esso degli elettroni emessi da una spiralina portata all'incandescenza. Negli anni Quaranta il tubo di Coolidge è stato perfezionato con l'inserimento dell'anodo rotante, in grado di far fronte alle temperature sempre più elevate sviluppate dalle nuove tecnologie. Specie nella sua variante ceramica, il tubo di Coolidge resiste ancora oggi ai nuovi modelli proposti dalla più recente ricerca. Il bersaglio biologico Dopo i primi successi ottenuti nella diagnosi delle patologie dello scheletro e del torace e nella localizzazione di eventuali proiettili in feriti di guerra, i pionieri della radiologia si resero conto ben presto dei limiti del metodo e tentarono quindi di allargare il campo di esplorazione dei raggi X intervenendo sul bersaglio biologico, cercando di amplificare le differenze di assorbimento, e quindi di contrasto, nei vari organi e apparati. Lo sviluppo della contrastografia, cioè dell'indagine radiologica attuata con l'ausilio di mezzi di contrasto, è stato caratterizzato dall'elaborazione e dall'utilizzazione di mezzi di contrasto sempre più sofisticati, come pure di tecniche per il loro impiego ottimale, in modo da superare quella 'barriera del grigio' propria dell'immagine radiologica diretta. I mezzi di contrasto hanno offerto la possibilità di riconoscere e di studiare, dal punto di vista anatomofunzionale e morfologico, gli spazi cavi del corpo umano attraverso la loro visione indiretta, in quanto dall'aspetto del 'calco' si risale a quello della struttura anatomica in esame che lo contiene. Soltanto in questi ultimi tempi, questa visione indiretta dell'anatomia interna dei visceri cavi è stata in parte sostituita dall'endoscopia, peraltro limitatamente a quei distretti, come stomaco e colon, che sono direttamente accessibili attraverso le vie naturali. Il primo mezzo di contrasto a essere adottato nella pratica clinica per lo studio dell'apparato digerente, che sfuggiva pressoché completamente all'indagine radiologica al naturale, fu il bismuto, proposto da G. Holzknecht e H. Rieder agli inizi del secolo. Questo mezzo però venne presto sostituito dal solfato di bario in sospensione acquosa, meglio tollerato dal malato, di più facile preparazione e più valido nel fornire le immagini radiologiche (fig. 4.79). L'introduzione, negli anni Venti, dei mezzi di contrasto iodati idrosolubili, legati a molecole che vengono assunte selettivamente da determinati organi, ha consentito poi di visualizzare direttamente non solo il cuore, le arterie, le vene e i vasi linfatici, ma anche, indirettamente, attraverso la loro eliminazione funzionale, le vie urinarie e biliari, contribuendo efficacemente alla diagnosi delle patologie dei relativi distretti. La contrastografia, che ha consentito di migliorare la visibilità radiologica praticamente di tutti gli organi e apparati, dall'apparato digerente agli spazi cavi del corpo umano, e perfino al sistema nervoso, ha raggiunto un ulteriore sviluppo a cavallo degli anni Sessanta-Settanta, con l'angiografia selettiva e superselettiva di vari distretti vascolari e dei tumori (fig. 4.80). In coincidenza con questo importante affinamento informativo, ha avuto inizio il tumultuoso sviluppo delle nuove tecniche di diagnostica per immagini, la cui logica ha sovvertito quella perseguita fino al 1970 dalla radiologia tradizionale. Il sistema di registrazione dell'immagine Il progresso tecnologico nel campo del sistema di registrazione dell'immagine ebbe inizio, subito dopo la scoperta dei raggi X, con la ionografia di A. Righi. Un'evoluzione di questa tecnica è rappresentata dalla xeroradiografia, il cui prototipo fu messo in commercio dalla Rank Xerox negli anni Quaranta. La xeroradiografia utilizza, al posto della pellicola fotografica della radiografia normale, un rivelatore xerografico, e precisamente una lastra di selenio, preventivamente caricata ed esposta ai raggi X; l'immagine elettrostatica latente che si produce su di essa per effetto dei fotoni X incidenti viene successivamente rivelata mediante spruzzamento di una polvere, trasferita, sempre elettronicamente, su un foglio di carta plastificata. Questa tecnica ha, su quella fotografica, il vantaggio di una migliore resa dei tessuti relativamente trasparenti rispetto alle parti relativamente opache. A causa delle difficoltà connesse al reperimento e al funzionamento della delicata apparecchiatura, la xeroradiografia si è resa disponibile in Italia soltanto a partire dagli anni Settanta, offrendo, per il suo elevato potere di definizione, ottimi risultati nello studio della mammella, dello scheletro (fig. 4.81) e delle parti molli perischeletriche. La xeroradiografia, comunque, ha faticato ad affermarsi nella pratica clinica corrente, dato il rapido sviluppo della radiologia digitale, da cui è stata presto soppiantata. È stato infatti con i progressi tecnologici conseguiti nel campo dell'elettronica e con la conseguente realizzazione dell'amplificatore di brillanza e della catena televisiva che ha avuto inizio il superamento della classica accoppiata 'schermo di rinforzo-pellicola', che aveva dominato la diagnostica radiologica nei suoi primi settanta anni di vita. Tutta la successiva evoluzione tecnologica è da identificarsi con la trasformazione digitale, cioè numerica, del fascio fotonico emergente dal corpo umano. Sui medesimi presupposti si basa la tomografia computerizzata (TC), proposta nel 1971 da G.N. Hounsfield, cui si deve la prima apparecchiatura digitale utilizzata in clinica e che per la sua invenzione fu insignito nel 1979 del premio Nobel per la medicina o la fisiologia, insieme ad A. Cormack, che con il suo lavoro teorico e sperimentale aveva posto le basi per l'invenzione di Hounsfield. Successivamente, nel 1974, fu realizzata la prima apparecchiatura in grado di ricostruire immagini del torace e dell'addome. La TC ha consentito il riconoscimento e la collocazione spaziale di tutte quelle strutture corporee che, non essendo dotate di sufficiente contrasto naturale, non sono visibili nelle radiografie senza mezzo di contrasto artificiale. Nella radiologia tradizionale, infatti, la 'barriera del grigio' non esprime l'assenza di assorbimento differenziale tra le diverse strutture, ma dipende dall'incapacità del detettore, rappresentato dall'accoppiata schermo-pellicola, di rilevare minime differenze di densità. La grande innovazione apportata dalla tecnica digitale è consistita proprio nell'avere superato, anche per merito del calcolatore, questo limite intrinseco della radiologia tradizionale, rendendo gli esami più validi e pratici dal punto di vista diagnostico, e meno invasivi e meglio tollerati dai pazienti. Lo svantaggio iniziale di una sensibile perdita del potere di risoluzione, che la TC presentava rispetto alla radiologia tradizionale, è stato rapidamente superato grazie a nuovi accorgimenti tecnici. Con gli apparecchi di nuova generazione si ottengono oggi immagini così ben definite da consentire il riconoscimento anche delle più piccole strutture polmonari, quali, per es., gli spazi peribronchiali (il cosiddetto interstizio polmonare), che prima sfuggivano all'osservazione anche nel radiogramma standard del torace (fig. 4.84). Attualmente, con le nuove apparecchiature a rotazione continua e ad andamento elicoidale (spiral-TC), è possibile realizzare anche la TC volumetrica e l'angio-TC, le quali danno immagini spaziali di qualità migliore di quelle fornite dall'angiografia per via arteriosa e dalla risonanza magnetica. Sfruttando il principio della digitalizzazione dei dati rivelati e della successiva elaborazione dei dati numerici, si è poi ricorsi alla TC nell'intento di visualizzare le arterie attraverso l'iniezione del mezzo di contrasto nelle vene (fig. 4.85). Sono nati così gli apparecchi per angiografia digitale, concettualmente di assai semplice realizzazione e che richiedono unicamente una sofisticatissima tecnologia elettronica alle spalle. Anche se l'obiettivo di vedere le arterie di organi profondi iniettando il mezzo di contrasto in una vena periferica non è sempre raggiungibile nella pratica, per cui bisogna scegliere la via arteriosa, assai più invasiva, per l'iniezione del mezzo di contrasto, l'angiografia digitale ha comunque rappresentato un notevole progresso nella diagnostica per immagini, anche perché consente di ridurre la quantità del mezzo di contrasto, aumentando la tollerabilità dell'esame. Il vantaggio di qualsiasi immagine per diagnostica medica, radiologica e non, ottenuta mediante digitalizzazione dell'informazione risiede nell'uniformazione del suo contenuto informativo, rappresentato da un certo insieme di numeri. Ciò rende possibile l'immagazzinamento di tutte le immagini elaborate con metodiche digitali in un unico sistema di memorizzazione. In questo contesto si vanno sviluppando sistemi computerizzati di memorizzazione su supporto ottico o magnetico, i cosiddetti PACS (Picture archiving communication systems), che consentono di eliminare buona parte del lavoro manuale necessario alla gestione archivistica, di ridurre drasticamente gli spazi richiesti per i classici sistemi di archivio, di trasferire a distanza le immagini, di abbattere i tempi necessari per disporre di immagini archiviate in precedenza. Va infine ricordato che la ricostruzione tridimensionale (3D) dell'immagine, sempre più pressantemente richiesta in chirurgia per la ricostruzione spaziale volumetrica, può essere realizzata dal calcolatore, mediante particolari elaborazioni, utilizzando le acquisizioni planari se queste sono in formato digitale.

L'evoluzione della ecografia e della risonanza magnetica

A partire dal secondo dopoguerra, nuove tecniche di diagnostica per immagini si sono affiancate a quelle che sfruttano i raggi X. La clinica e la ricerca medica si sono potute così avvalere di tre metodiche di base, la medicina nucleare, l'ecografia e la risonanza magnetica e di tutte le applicazioni derivate dal loro sviluppo, molte delle quali sono tuttora in evoluzione. Della nascita e dell'evoluzione storica della più antica delle tre, la medicina nucleare, che si basa sull'utilizzo di isotopi radioattivi, si tratterà nel capitolo a essa dedicato (v. IV, cap. 6: Medicina nucleare). L'ecografia, che sfrutta gli echi generati dall'incontro tra gli ultrasuoni e le strutture del corpo, è nata negli anni Settanta e ha trovato crescente applicazione nella moderna diagnostica. Infine, la risonanza magnetica, che si basa sulle proprietà magnetiche della materia per ottenere immagini per alcuni aspetti di qualità superiore a quelle ottenute con qualsiasi altra tecnica, ha avuto applicazione clinica solo a partire dagli anni Ottanta.

Ecografia

Con l'introduzione, negli anni Settanta, dell'elettronica e delle tecniche digitali, anche l'ecografia, fino ad allora metodica in fase di sperimentazione, ha affinato le proprie apparecchiature ed è entrata a far parte delle tecniche di uso corrente, affermandosi subito per la sua praticità e per il suo valore diagnostico. Come è noto, gli ultrasuoni, nell'attraversare i corpi, vengono in parte assorbiti e in parte riflessi, dando origine a echi che, opportunamente rilevati ed elaborati, portano alla formazione di immagini. Con il miglioramento tecnologico e l'accresciuta esperienza degli operatori si sono venuti delineando quadri semeiologici estremamente precisi; tenuto conto anche della innocuità biologica dell'energia impiegata, il livello di prestazioni ottenibile rende assai spesso l'ecografia indagine di prima scelta, o per lo meno complementare, dell'imaging diagnostico. Il rapido sviluppo tecnologico ha portato alla realizzazione e all'applicazione clinica su vasta scala del metodo doppler, che da esame inizialmente funzionale, il cui risultato visibile era un semplice tracciato, sta divenendo anche indagine di imaging, grazie all'accoppiamento con l'apparecchio ecografico e alla tecnica chiamata eco-color-doppler (fig. 4.87). La fortuna della velocimetria doppler deve essere attribuita ad alcuni vantaggi che l'esame comporta: la completa innocuità, e quindi la ripetibilità senza rischio e fastidio alcuno per il paziente; il vasto campo di impiego nell'esplorazione dei sistemi arterioso e venoso; il costo non eccessivo dello strumento. L'impiego dei mezzi di contrasto in ecografia e nel color-doppler ha aperto nuove e interessanti prospettive, non ipotizzabili soltanto pochi anni or sono. Esso consente infatti di ampliare ulteriormente le potenzialità diagnostiche, migliorando il riconoscimento degli organi e dei vasi sanguigni, sia normali sia, soprattutto, patologici.

Risonanza magnetica

Il fenomeno fisico alla base della tecnica denominata risonanza magnetica (RM) fu scoperto indipendentemente da E.M. Purcell e da F. Bloch, che nel 1946 pubblicarono i primi dati sull'argomento e che nel 1952 per la loro scoperta furono insigniti del premio Nobel per la fisica. Nei decenni successivi, il metodo fu largamente impiegato nei laboratori di biochimica, ma la possibilità di separare i segnali di RM provenienti da differenti regioni spaziali, e quindi utilizzarli come base per la formazione delle immagini, fu realizzata soltanto nel 1973 a opera di P.C. Lauterbur. La pubblicazione delle prime immagini sperimentali risale agli anni Settanta, mentre è solo a partire dal 1980 che hanno avuto inizio le applicazioni cliniche, e con esse la diffusione commerciale degli apparecchi. Si tratta di una rivoluzionaria tecnologia che, senza impiego di radiazioni ionizzanti, è in grado di produrre immagini di sorprendente corrispondenza con la realtà anatomica, e che non sono più espressione, come per i raggi X, dell'assorbimento cui l'energia va incontro nell'attraversare la materia, ma dipendono invece da altri parametri di significato morfofunzionale assai diverso e notevolmente complesso, ancora oggi non completamente esplorati. L'impiego clinico della RM, che era inizialmente limitato al sistema nervoso, si è presto esteso all'intero corpo, sfruttando nella sua rapida evoluzione tecnologica l'esperienza pratica acquisita in precedenza con la TC, soprattutto per quanto riguarda l'acquisizione e la ricostruzione dell'immagine. Tali fasi sono divenute ormai tanto veloci da consentire anche la realizzazione dell'angiografia in RM. Il settore che fornisce le maggiori e più precise informazioni è comunque rappresentato dal sistema nervoso, ove la RM contende alla TC la posizione di preminenza tra le indagini neuroradiologiche non invasive. A prescindere dal vantaggio fin troppo enfatizzato di non utilizzare radiazioni ionizzanti, essa presenta anche quello di possedere una maggiore sensibilità, che le consente di evidenziare strutture normali e alterazioni del parenchima dell'encefalo e del midollo che sfuggono alla TC e a qualsiasi altra indagine in vivo. Esami più aggressivi come la pneumoencefalografia (metodo radiologico di visualizzazione degli spazi subaracnoidei e dei ventricoli cerebrali che prevede l'introduzione di aria, mediante puntura lombare o sottoccipitale, quale mezzo di contrasto radiologico) e la mielografia (esame radiologico del midollo spinale che prevede l'introduzione di un mezzo di contrasto radiologico nello spazio epidurale) sono stati ormai completamente abbandonati ed eliminati dai protocolli diagnostici, dal momento che le immagini che si ottengono con la RM sono paragonabili solo ai migliori preparati di anatomia macroscopica (fig. 4.88). Il successivo impiego dei mezzi di contrasto paramagnetici ha ulteriormente migliorato ed esteso il campo di impiego della RM, che, malgrado le difficoltà di accesso, la scarsa distribuzione di apparecchiature sul territorio nazionale e l'elevato costo, sta diffondendosi sempre più e appare destinata a soppiantare la TC nell'approccio al malato, non solo in neurologia. Ampie prospettive si sono infatti già aperte nell'ambito dello studio del cuore, dell'addome e dei vasi, anche senza l'uso di mezzi di contrasto. Antonio Toti Principi fisici della diagnostica per immagini Ai fini di una schematizzazione, le tecniche di immagine si possono suddividere in funzione della sorgente di informazione. Le sorgenti impiegate per ottenere immagini, con l'indicazione di alcune loro caratteristiche fondamentali e dei relativi campi di applicazione, sono riassunte nella tab. 4.15. Immagine radiologica convenzionale La formazione dell'immagine radiologica convenzionale è il risultato della modulazione da parte di un oggetto di un fascio di raggi X. Il risultato della modulazione, detto immagine latente, viene visualizzato o registrato da un opportuno sistema, che può essere costituito da un film radiografico, da un'associazione film-schermo di rinforzo o da un intensificatore di immagini (fig. 4.89 A, B). La lunghezza d'onda dei raggi X utilizzati in medicina è compresa tra 10-1 e 5 · 10-3 nm, corrispondenti a energie dei fotoni emessi comprese tra 10 e 200 keV. Parte dell'energia del fascio di raggi X che interagisce con l'oggetto (la regione corporea del paziente da esaminare) viene assorbita o diffusa dall'oggetto stesso e parte viene trasmessa; questo complesso processo di interazione origina la modulazione del fascio di raggi X: l'energia del fascio emergente trasporta cioè informazioni relative alla costituzione dell'oggetto, essendo funzione dell'interazione dei raggi X con la materia da cui esso è costituito. La misura del contenuto di informazione è correlata direttamente alla risoluzione del fascio emergente, cioè alla funzione di trasferimento della modulazione (MTF, Modulation transfer function); è invece inversamente correlata al rumore, cioè, in generale, all'insieme dei segnali indesiderati, originatisi all'interno o all'esterno del sistema, e da esso rivelati, che non convogliano le informazioni che il sistema è destinato a visualizzare. La MTF viene tuttora utilizzata per esprimere la risoluzione di alcuni metodi di formazione di immagini ed è impiegata in modo estensivo nella radiologia diagnostica. Il concetto di analisi di frequenza che è alla base dell'analisi della MTF viene utilizzato anche per esprimere il rumore del sistema. L'accuratezza diagnostica è influenzata in modo molto complesso da molti parametri, come la qualità fisica dell'immagine, l'abilità dell'osservatore, il rumore caratteristico del sistema di registrazione. La relazione semplificata, ipotetica, tra accuratezza diagnostica e qualità fisica dell'immagine è evidenziata nella fig. 4.89 C. I film radiologici e le associazioni film-schermo vengono identificati mediante una curva caratteristica, che esprime l'andamento della densità ottica in funzione della dose di raggi X assorbita dal sistema di registrazione o dell'esposizione relativa (fig. 4.90 A, B). La degradazione dell'immagine radiografica di un oggetto puntiforme è rappresentata, in termini di densità ottica, dalla funzione puntuale di dispersione (PSF, Point spread function; fig. 4.91 A). Spesso viene utilizzata la funzione di dispersione di linea (LSF, Line spread function; fig. 4.91 B). Dalla LSF o dalla PSF è possibile ricavare la MTF del sistema di registrazione. Dal punto di vista radiografico la MTF descrive il trasferimento di contrasto dell'immagine primaria del sistema di rivelazione (film radiografico, film-schermo di rinforzo, sistema di amplificazione elettronica dell'immagine). Nella fig. 4.92 sono rappresentate la PSF e la MTF relativa (la MTF è ottenuta dalla trasformata di Fourier della PSF).

Tomografia computerizzata per trasmissione (TCT)

Il principio fondamentale della tomografia computerizzata per trasmissione è illustrato nella fig. 4.93. Un tubo radiogeno che emette un fascio sottile di raggi X viene accoppiato meccanicamente a un rivelatore (camera di ionizzazione, cristallo scintillatore accoppiato a un fotomoltiplicatore o a un fotodiodo); la coppia emettitore-rivelatore esplora con movimento di traslazione l'oggetto, e il rivelatore, misurando la radiazione trasmessa dall'oggetto, fornisce un profilo di trasmissione dei raggi X; il sistema ruota poi di un angolo di 1-2 gradi, ripetendo il movimento di traslazione. I profili di trasmissione ottenuti vengono immagazzinati, dopo conversione analogico-digitale, in un calcolatore elettronico. La fig. 4.94 evidenzia una sezione trasversale dell'oggetto sovrapposta a una matrice rettangolare. Ogni elemento di matrice (pixel) contiene un numero proporzionale al coefficiente di attenuazione lineare dell'elemento di oggetto a cui corrisponde. Indicando con μ (x · y) il valore medio del coefficiente di attenuazione lineare del tessuto nel pixel (x · y), per l'intensità del fascio trasmesso si ha (essendo I₀ quella del fascio incidente): [1] It = I₀ exp[-∏μ (x · y)Δ l(x · y)], dove Δ l(x · y) è lo spessore attraversato dal fascio di raggi X nel pixel (x · y) e la sommatoria è estesa lungo la retta SD da A a B (nel caso della fig. 4.94 sono compresi 6 pixel nel tratto AB); dalla [1] si ha: [2] ln(I₀/It) = [∏μ (x · y) Δ l(x · y)]. Gli elementi Δ l(x · y) dipendono dalla geometria del sistema e sono facilmente determinabili. Il raggio SD può essere descritto in coordinate polari, ρ e θ. Nel primo sistema di scansione di Hounsfield ρ era incrementato 160 volte per ogni valore dell'angolo θ, e θ era incrementato di un grado da 0° a 180°; si avevano quindi 28.800 misure e, in definitiva, 28.800 equazioni del tipo della [2]. I valori dei coefficienti di attenuazione lineare vengono calcolati con metodi matematici di convoluzione associata a retroproiezione; si utilizzano filtri di frequenza che possono incrementare i risultati finali, cioè l'immagine, nel senso della risoluzione spaziale o del contrasto. Il procedimento di ricostruzione fornisce una mappa dei coefficienti di attenuazione lineare di ogni pixel (matrice ricostruita). Si utilizza per puri scopi di normalizzazione la matrice dei numeri CT, detti anche numeri di Hounsfield, i cui valori normalizzati CTN sono dati dalla relazione: μ - μ H₂O [3] CTN = ∞∞∞∞∞ · 1000, μ H₂O dove μ è il coefficiente di attenuazione lineare medio di ogni pixel e μ H₂O è quello dell'acqua pura. L'immagine viene formata per conversione digitale-analogica dei valori dei numeri CT relativi a ogni pixel in scala di grigi o a colori. Normalmente si utilizzano matrici di visualizzazione di 512∃512 pixel. Il sistema di visualizzazione prevede la regolazione del livello della finestra di osservazione: il livello seleziona il numero CT di metà scala e la finestra delimita l'intervallo di numeri CT visualizzabili. Aumentando la finestra, si aumenta la latitudine di esposizione, ma si diminuisce il contrasto, a parità di numero di livelli di grigi visualizzabili (fig. 4.95). Le attuali attrezzature di tomografia computerizzata permettono di ottenere immagini di sezioni corporee dello spessore di 1 mm in tempi dell'ordine del secondo per la ripresa dell'immagine e di alcuni secondi per la ricostruzione e presentazione della stessa, consentendo inoltre immagini in movimento (per studi vascolari generali e cardiologici). La qualità fisica dell'immagine viene valutata dai seguenti parametri: a) scala di contrasto (CS), definita dalla relazione: μ - μ H₂O [4] CS = ∞∞∞∞∞∞, CT - CT H₂O dove μ è il coefficiente di attenuazione lineare del materiale, μ H₂O è quello dell'acqua, CT è il numero di Hounsfield del materiale, CT H₂O è quello dell'acqua; b) rumore (Sn), espresso in termini della deviazione standard della fluttuazione del numero CT: 100 CT · S [5] Sn = ∞∞∞∞∞∞, μ H₂O dove S è la deviazione standard del numero CT del pixel preso in considerazione, stimato su un'area di ampiezza determinata sull'immagine (per convenzione pari a 100 pixel); c) indice di dose (CTDI) per la tomografia computerizzata, dato dalla relazione: 1 [6] CTDI = ∞∞ , nT essendo Z la posizione lungo la perpendicolare al piano di scansione, D(Z) la dose di radiazione assorbita nella posizione Z, T lo spessore dello strato tomografico, n il numero di strati per scansione. Quest'ultimo permette di correlare la qualità fisica dell'immagine alla dose di radiazione, parametro critico nella tecnica CT.

Immagini con ultrasuoni

Se brevi impulsi di ultrasuoni vengono inviati entro i tessuti corporei, gli echi di ritorno possono essere utilizzati per produrre immagini di sezioni corporee. L'intervallo di frequenze utilizzato per gli ultrasuoni in medicina è compreso tra 1 e 10 MHz, con frequenza degli impulsi dell'ordine di 1000 al secondo e velocità nei tessuti corporei di circa 1500 m/s; l'impedenza acustica specifica (cioè il prodotto della massa volumica per la velocità di propagazione) dei tessuti è dell'ordine di 1,5 · 106 kg/(m2 · s) (tab. 4.16). Nelle attrezzature per formazione di immagini, la sonda è il trasduttore che produce impulsi ultrasonori, quando è attivato da impulsi di tensione elettrica, e poi riceve gli impulsi ultrasonori riflessi riconvertendoli in tensione elettrica. Per ottenere una buona trasmissione degli ultrasuoni è necessario utilizzare un mezzo di accoppiamento tra la sonda e il corpo umano, in quanto esso elimina lo strato d'aria dove non può aversi trasmissione del fascio ultrasonoro. Uno strato smorzatore (damping), allargando la banda di risposta del trasduttore, permette di accorciare la durata del treno di impulsi a 2 o 3 cicli, in modo da ottenere una migliore risoluzione assiale (lungo la direzione della propagazione del suono). La risoluzione laterale (in direzione perpendicolare alla direzione di propagazione) dipende dal diametro del fascio ultrasonoro. La formazione di immagini in movimento richiede la ripresa di un numero molto elevato di immagini per unità di tempo ed è necessario attivare e disattivare il fascio ultrasonoro con frequenza elevata. La fig. 4.96 rappresenta il diagramma a blocchi di un'attrezzatura per ultrasuoni. Gli impulsi elettrici ad alta frequenza applicati al trasduttore piezoelettrico producono gli impulsi ultrasonori che attraversano i tessuti; gli echi riflessi e la porzione diffusa vengono ricevuti dal trasduttore, convertiti in tensione e inviati al rivelatore. Il ricevitore è in grado di selezionare gli echi in funzione della loro provenienza, cioè in funzione dei tempi di arrivo al ricevitore. La compensazione dell'attenuazione (TGC, Time gain compensation) si basa infatti sui tempi di arrivo degli echi di ritorno ed è calibrata su di essi. La conversione analogico-digitale viene utilizzata per immagazzinare le informazioni (echi di ritorno) sotto forma di matrice; normalmente si usano matrici quadrate di 512∃512 elementi con 'profondità' di 8 bit, in modo da poter suddividere l'intensità del segnale in una scala di 256 valori. La successiva conversione digitale-analogica permette di rappresentare, con 256 livelli di grigio o di colore, la mappa dell'interazione del fascio ultrasonoro con la parte di oggetto esaminata. Il mezzo biologico è costituito da un insieme molto numeroso di piccole particelle; ogni particella contiene centinaia di milioni di molecole, cosicché il mezzo può essere considerato continuo. L'onda ultrasonora attraversa il mezzo come risultato della trasmissione della perturbazione indotta mutuamente da particelle vicine. La velocità di propagazione del fascio ultrasonoro dipende dall'elasticità del materiale attraversato e dalla frequenza degli ultrasuoni (tab. 4.16). La deviazione dell'onda ultrasonora all'interfaccia tra due mezzi (rifrazione) dipende dal rapporto tra la velocità di propagazione nei due mezzi. In generale, nei diversi parenchimi le velocità di propagazione degli ultrasuoni sono molto simili e quindi la rifrazione può essere trascurata. Il rapporto tra le impedenze acustiche dei due mezzi sull'interfaccia determina la suddivisione di energia tra porzione riflessa e porzione trasmessa (tab. 4.16). Per i parenchimi i valori sono molto simili; per es. l'energia trasportata dall'onda riflessa all'indietro dal parenchima epatico, con incidenza normale all'interfaccia fegato-rene, è circa il 6% dell'energia dell'onda incidente, mentre è circa il 50% per l'interfaccia tessuto molle-polmone e circa il 30% per l'interfaccia tessuto molle-osso. La situazione diviene estrema all'interfaccia tessuto molle-aria, dove circa il 99,9% dell'energia incidente viene riflessa.

Risonanza magnetica nucleare

La risonanza magnetica nucleare è un metodo di analisi di complessi molecolari, basato sull'esame dei loro spettri di assorbimento delle radioonde, applicato, in campo biomedico, a cellule o frammenti di tessuto od organi in perfusione. In generale tale metodica diagnostica è basata sulla proprietà di alcune specie nucleari di possedere un momento angolare intrinseco, a cui è associato un momento magnetico, cosicché sottoponendo tali nuclei a un campo magnetico e inviando su essi onde elettromagnetiche nella banda delle radioonde si ha un massimo di assorbimento dell'energia di tali onde in corrispondenza a particolari valori della frequenza, caratteristici di ogni specie nucleare. Rilevando l'assorbimento su tutto un campo di frequenze radio si ha uno spettro di risonanza magnetica nucleare utilizzabile in studi di strutturistica molecolare. La ricostruzione per strati dell'oggetto indagato segue, in linea di principio, le metodiche utilizzate per la ricostruzione tomografica delle indagini radiologiche. Bruno Bagni

Mezzi di contrasto

I mezzi di contrasto radiologici sono tutte quelle sostanze che, introdotte nell'organismo per vie e con modalità opportune, modificano il numero atomico medio e la densità elettronica di determinate strutture corporee, e quindi la loro capacità di assorbimento di raggi X. Naturalmente, il requisito fondamentale che una sostanza deve possedere per potere essere utilizzata come mezzo di contrasto è che essa sia assolutamente non tossica e che determini pochi e rari effetti collaterali e secondari. Con riferimento alla loro capacità di modificare in un senso o nell'altro l'intrinseca capacità di assorbimento energetico delle strutture corporee con le quali interagiscono, i mezzi di contrasto vengono definiti negativi o trasparenti, se diminuiscono il numero atomico medio (inducendo un minore assorbimento fotonico), e positivi o opachi, se aumentano il numero atomico medio (inducendo un maggior assorbimento fotonico). Esistono alcune metodiche radiologiche, dette 'a doppio contrasto' e fondamentali per lo studio dell'apparato gastrointestinale, in cui i due tipi di mezzi di contrasto vengono utilizzati contemporaneamente.

Mezzi di contrasto negativi

I mezzi di contrasto negativi sono sostanze allo stato gassoso, con molecole molto rarefatte, e quindi a densità molto bassa, composte da elementi a basso numero atomico. In pratica, si tratta di CO₂, N₂O, O₂ e, spesso, di aria filtrata. È fondamentale che il gas utilizzato non sia emboligeno e irritante, e che sia rapidamente riassorbibile. Un esempio di contrastografia che si avvale di un mezzo di contrasto negativo è la radiografia del torace effettuata in inspirazione profonda. Nel parenchima polmonare si inserisce una notevole quantità di aria, che rende il polmone più trasparente ai raggi X rispetto alla radiografia dello stesso organo eseguita in espirazione. Il mezzo di contrasto negativo che viene utilizzato nello studio dell'intestino tenue è la metilcellulosa, mentre in tomografia computerizzata è semplicemente l'acqua.

Mezzi di contrasto positivi

I mezzi di contrasto positivi sono sostanze che danno luogo a un assorbimento delle radiazioni superiore a quello degli organi e tessuti nei quali vengono introdotti. I composti utilizzati hanno struttura molecolare complessa, soprattutto se confrontata con quella dei mezzi di contrasto negativi. L'esigenza di sicurezza, unitamente a una più idonea rispondenza alle sempre più sofisticate tecniche di diagnostica, fanno di essi l'oggetto di costante ricerca farmacologica. Un buon mezzo di contrasto positivo deve essere caratterizzato, in generale, da elevata radioopacità, buona tollerabilità, assenza di attività farmacologica, rapida e totale eliminazione. A queste caratteristiche generali se ne affiancano altre, dettate, in particolare, dall'esame specifico cui il mezzo di contrasto è finalizzato e dalla via di somministrazione richiesta per l'esecuzione dell'esame stesso. Così, per es., il mezzo di contrasto per lo studio endovenoso e endoarterioso dovrà possedere una buona solubilità nel sangue e nei liquidi organici; quello deputato alla diagnostica dell'apparato urinario dovrà concentrarsi in grande quantità nel rene e nelle vie urinarie; invece il mezzo di contrasto incaricato di evidenziare le vie biliari dovrà essere secreto con la bile. I mezzi di contrasto positivi possono essere suddivisi in sostanze per lo studio dell'apparato digerente e in sostanze per uso uro-angiografico (fig. 4.97). Nello studio dell'apparato digerente, l'unico mezzo di contrasto utilizzato è il solfato di bario (BaSO₄), nel quale il bario costituisce il 57% del peso della molecola ed è il vero induttore del maggiore assorbimento di raggi X. Il BaSO₄, praticamente insolubile in acqua, può essere portato in sospensione fino a raggiungere le concentrazioni necessarie per l'uso radiologico. Attualmente vengono forniti dall'industria preparati in polvere o in sospensione già stabilizzata, nei quali sono presenti opportuni additivi in grado di adattarne le proprietà fisico-chimiche alle esigenze radiologiche. Il solfato di bario non è assorbito dalle mucose digestive: in condizioni normali, pertanto, transita liberamente fino alla completa espulsione con le feci, qualora sia somministrato per bocca, e viene evacuato con facilità, se introdotto per via anale. Questo mezzo di contrasto è molto irritante per il peritoneo, per cui non deve essere utilizzato se si sospetta l'esistenza di perforazione o di occlusione intestinale. In tali casi, è possibile ricorrere all'impiego di mezzi di contrasto iodati. Nell'uso uro-angiografico vengono utilizzati mezzi di contrasto iodati, che possiedono elevata capacità di assorbimento dei raggi X e sono capaci di formare legami stabili con opportune sostanze organiche. È possibile ottenere soluzioni contenenti iodio in concentrazione adeguata alle esigenze radiologiche (240-400 g/l) e praticamente prive di tossicità. Dal punto di vista chimico, i mezzi di contrasto uro-angiografici iodati tradizionali sono costituiti da un anello benzenico, cui sono legati in maniera stabile tre atomi di iodio (mezzi di contrasto triiodati). L'anello benzenico ha anche un gruppo funzionale acido, cui è possibile legare un sale. In tal modo, e legando opportuni gruppi chimici all'anello benzenico, si può migliorare la solubilità e la tollerabilità, e influenzare la via di escrezione della molecola. È infatti possibile ottenere l'eliminazione della molecola per via sia renale sia epatobiliare. I suddetti mezzi di contrasto possono essere utilizzati per via venosa, per via arteriosa, per via orale e per clisma, qualora non possano essere somministrati mezzi di contrasto al solfato di bario. Dopo l'introduzione della tomografia computerizzata, è stata evidenziata la proprietà che essi hanno di diffondere rapidamente, in seguito a iniezione endovenosa, negli spazi interstiziali, inducendo variazioni di opacità negli organi parenchimatosi, come il fegato o il rene (fig. 4.98). I mezzi di contrasto iodati idrosolubili uro-angiografici, usati per via venosa o arteriosa, possono provocare conseguenze farmacologiche non desiderate, ma inevitabili a dosaggio normale (cosiddetti effetti collaterali), e, in maniera occasionale, conseguenze indirette non strettamente legate a meccanismi farmacologici (cosiddetti effetti secondari). Sono state descritte reazioni da intolleranza, per effettiva diminuzione della soglia di tossicità; da idiosincrasia, per alterazioni biochimiche nel metabolismo e nell'escrezione del mezzo di contrasto; da allergia, per l'instaurarsi di meccanismi immunologici. Non esiste alcuna possibilità di prevedere l'insorgenza di effetti secondari da tali sostanze, così come non esiste alcuna prevenzione farmacologica; non vi sono, peraltro, controindicazioni assolute al loro uso.

Mezzi di contrasto per risonanza magnetica

Alcuni farmaci hanno la proprietà di alterare i parametri intrinseci tessutali, modificando l'intensità del segnale dell'immagine di risonanza magnetica (RM). La richiesta di mezzi di contrasto è dettata dalla necessità di incrementare il rapporto contrasto/rumore dell'immagine, di permettere l'identificazione di piccole lesioni, di semplificare l'esame RM e di ridurne la durata. Per raggiungere tali finalità, le caratteristiche generali di un mezzo di contrasto per RM clinicamente utile sono un'attività magnetica che alteri l'intensità di segnale, una distribuzione selettiva nei tessuti (normali o patologici) e una bassa tossicità o elevato margine di sicurezza alla dose efficace. Da un punto di vista fisico, la condizione più importante per la realizzazione di un mezzo di contrasto biologicamente attivo è la presenza di elettroni spaiati che generino un momento magnetico permanente, quando posti in un campo magnetico. Partendo da questo presupposto, grande interesse è stato rivolto alla classe dei lantanidi, ai metalli di transizione e ai radicali liberi. La molecola che ha trovato maggiore applicazione è il Gd-DTPA (acido dietilentriaminopentacetico), che è l'unica sostanza finora approvata per l'uso clinico routinario. Il Gd-DTPA ha una distribuzione aspecifica nei tessuti e nei soggetti normali non arriva all'encefalo in quanto non attraversa la barriera ematoencefalica. Esso può essere pertanto utilizzato con successo per rivelare i danni di questa barriera, risultando particolarmente utile nello studio del sistema nervoso centrale (fig. 4.99). Altri mezzi di contrasto sono stati studiati e alcuni di essi sono già in fase di sperimentazione clinica; ci si deve quindi attendere una rapida commercializzazione di altri composti, alcuni dei quali dotati di organo-specificità, vale a dire della caratteristica di avere affinità elettiva per alcuni organi. Proprio quest'ultimo tipo di mezzo di contrasto per RM potrà rappresentare un decisivo passo avanti nella diagnostica per immagini, soprattutto degli organi addominali.

Mezzi di contrasto ecografici

I mezzi di contrasto ecografici rappresentano un'importante e recentissima novità metodologica in diagnostica per immagini. L'ecografia sta assumendo un ruolo sempre più determinante nell'ambito delle moderne metodiche di imaging, tanto da diventare uno strumento diagnostico di prima scelta in molteplici campi specialistici. Le sue potenzialità sono state ulteriormente ampliate dallo sviluppo delle metodiche doppler, in particolar modo color-doppler e power-doppler, che forniscono importanti informazioni sul circolo vascolare. Negli ultimi anni l'attenzione dei ricercatori si è focalizzata sullo studio di sostanze capaci di potenziare l'ecogenicità del circolo ematico, di amplificare cioè l'intensità del segnale ecografico di provenienza vascolare, soprattutto in quei distretti in cui la validità diagnostica dell'indagine doppler risulta generalmente inadeguata (circolo intracranico, arterie renali, lesioni focali, perfusione miocardica). Queste sostanze, che prendono il nome di agenti ecoamplificatori, ovvero di mezzi di contrasto ecografici, sono comunemente costituite da microbolle, di dimensioni così piccole da rendere nullo il rischio di microembolia, che intensificano la retrodiffusione del segnale ecografico. è infatti risaputa l'efficacia in ecografia delle microbolle, in quanto particelle ecogene. Il gas contenuto nelle microbolle è in genere aria, in altri casi gas perfluorato. Le microbolle hanno limitata stabilità endovascolare e tendono rapidamente a dissolversi. è però possibile stabilizzare il gas racchiudendolo in un involucro, che può essere sottile e flessibile, per es. lipidico, o più rigido, così da formare una vera e propria particella. I polimeri biodegradabili e l'albumina parzialmente denaturata rappresentano un esempio di particelle stabilizzate. I principali agenti ecoamplificatori in produzione o in sperimentazione sono riportati nella tab. 4.17. I primi agenti ecoamplificatori disponibili non erano in grado di superare il circolo polmonare e, pertanto, trovavano indicazione esclusivamente in campo cardiologico nello studio del cuore destro (alla ricerca di eventuali difetti settali o nella valutazione di masse intratriali). Invece i mezzi di contrasto più recenti sono dotati di elevata stabilità e sono in grado di superare il filtro polmonare, consentendo valutazioni anche del cuore sinistro e del circolo periferico. Le informazioni diagnostiche sono comunemente legate alla presenza delle microbolle nel torrente ematico (blood pool enhancer), poiché queste, al contrario di quanto avviene per i mezzi di contrasto in uso in radiodiagnostica o in risonanza magnetica, non si diffondono nei fluidi organici. Alcuni agenti ecoamplificatori hanno un comportamento acustico particolare che va oltre l'effetto di retrodiffusione normalmente sfruttato. Aumentando la trasmissione di energia ultrasonora è possibile determinare la rottura della microparticella, ottenendo l'emissione di un segnale di grande ampiezza, che intensifica il segnale color-doppler. Si parla di 'emissione acustica stimolata' (SAE, Stimulated acoustic emission). Le bolle gassose di questi preparati possono avere una stabilità tale da permetterne fagocitosi endocellulare: questo meccanismo di azione può consentire la differenziazione 'in negativo' di lesioni tumorali. Se il preparato viene per es. assorbito per fagocitosi nelle cellule del sistema reticoloendoteliale (RES), si otterrà segnale di colore intenso nel parenchima normale, mentre le neoplasie, che hanno un numero di cellule del RES molto più basso, non presenteranno segnale. Un altro potenziale obiettivo è l'associazione di diagnosi e terapia: poiché le particelle possono essere distrutte dagli ultrasuoni utilizzati a fini diagnostici è possibile immettervi, oltre al gas, anche prodotti terapeutici, che potrebbere essere liberati in tempi e sedi prestabilite. Inoltre sembra persino possibile contribuire all'innovativo concetto della terapia genica incapsulando il DNA: il materiale genetico potrebbe essere veicolato al tessuto bersaglio senza distruzione enzimatica a opera dei componenti ematici, e quindi liberato. Si ampliano così ulteriormente gli orizzonti dell'ecografia, da metodica non invasiva a metodica miniinvasiva, da metodica puramente diagnostica a metodica con possibili scopi terapeutici.

Radiologia convenzionale

La radiologia diagnostica convenzionale si basa sulle interazioni che si verificano tra le diverse strutture del corpo umano e il fascio di raggi X che le attraversa. I raggi X sono radiazioni elettromagnetiche di tipo ionizzante, la cui lunghezza d'onda è compresa nell'intervallo 10-10-2 nm e i cui fotoni (cioè il quanto dell'energia elettromagnetica) hanno quindi energie comprese fra 10-1 e 102 keV. Tra le proprietà più importanti dei raggi X, oltre a quelle comuni a tutte le radiazioni elettromagnetiche, come la propagazione libera rettilinea, hanno particolare rilevanza per l'impiego in diagnostica medica quella di impressionare lastre fotografiche, quella di produrre fluorescenza e fosforescenza in certi materiali e quella di attraversare, subendo limitate attenuazioni, tessuti biologici anche di notevole spessore. In particolare, nella radiologia medica, il fascio di raggi X, prodotto da un tubo radiogeno, che attraversa un corpo subisce attenuazioni che sono diverse in ogni punto in relazione alla densità dei tessuti, cioè, in altri termini, alla struttura chimica del tessuto stesso e al numero atomico medio degli elementi che lo compongono. Pertanto, il fascio di raggi X che, dopo avere attraversato un paziente, raggiunge la pellicola radiografica ha una intensità diversa nei vari punti del 'piano immagine' considerato. Questa diversa distribuzione delle radiazioni incidenti costituisce la cosiddetta immagine radiante, che è l'informazione portata dalle radiazioni emergenti dal soggetto. In generale, la radiazione elettromagnetica interagisce con la materia attraverso una serie di meccanismi, più o meno efficacemente a seconda della frequenza della radiazione e delle caratteristiche del materiale. Tali meccanismi sono: l'effetto fotoelettrico, l'effetto Compton, la diffusione classica, la produzione di coppie e la fotodisintegrazione. A bassa energia e a numeri atomici elevati, predominano gli effetti fotoelettrici nei quali tutta l'energia del fotone viene assorbita da un elettrone del materiale e trasformata in energia cinetica e in lavoro di estrazione dell'elettrone stesso. Il fotone incidente scompare e da un orbitale interno dell'atomo bersaglio viene rilasciato un fotoelettrone che, a causa dello scarso potere penetrante delle particelle cariche, viene assorbito quasi immediatamente dal mezzo circostante. L'atomo bersaglio subisce così una ionizzazione. Quando l'energia dei raggi elettromagnetici è grande rispetto all'energia di legame degli elettroni del materiale, in seguito all'interazione tra il fotone incidente e un elettrone di un orbitale esterno dell'atomo bersaglio, si verifica il fenomeno della diffusione Compton (o incoerente) che provoca l'emissione di radiazione di frequenza diversa da quella incidente. In questa interazione si verifica l'espulsione dell'elettrone, con conseguente ionizzazione dell'atomo bersaglio, mentre il fotone a più basso contenuto energetico, e quindi con una lunghezza d'onda più elevata, procede in una direzione diversa rispetto a quella iniziale. All'effetto Compton, peraltro, è da attribuire quasi tutta la radiazione diffusa prodotta in radiodiagnostica, che provoca una velatura diffusa sulle pellicole impressionate, riducendo il contrasto e l'accuratezza diagnostica. Un altro fenomeno che possono subire i raggi elettromagnetici è quello della diffusione classica (o coerente), dovuta alle oscillazioni indotte dal campo elettrico della radiazione elettromagnetica sugli elettroni del materiale che, successivamente, irradiano, in tutte le direzioni, con la stessa frequenza (diffusione elastica) della radiazione incidente. Un fotone di energia superiore a un certo valore di soglia (1,04 GeV) può dar luogo a produzione di una coppia di elettroni (positivo e negativo), conservandosi nella reazione sia l'energia, sia il momento totale, sia la carica. Nella fotodisintegrazione, infine, un fotone urtando un atomo pesante, ne può scindere il nucleo in due o più frazioni, con conservazione dei numeri quantici totali. Il fascio di raggi X, dunque, attraversando la materia può subire un'attenuazione dovuta alla risultante dei fenomeni sopra descritti. In realtà, la diffusione classica da una parte, e la produzione di coppie e la fotodisintegrazione dall'altra sono fenomeni che non si verificano nella radiologia diagnostica, in quanto avvengono con valori energetici delle radiazioni ionizzanti che sono rispettivamente troppo bassi o troppo alti rispetto a quelli che vengono normalmente utilizzati nella diagnostica medica. I raggi X con energia dell'ordine di decine di keV, come quelli utilizzati nella radiologia diagnostica, nella loro interazione con i tessuti del corpo provocano generalmente l'effetto fotoelettrico e l'effetto Compton.

Apparecchi radiologici

Un impianto di diagnostica radiologica è generalmente costituito da uno o più accessori radiologici, ciascuno servito da uno o due tubi radiogeni, collegati, tramite una coppia di cavi ad alta tensione, a un generatore di alimentazione; esso viene controllato da un tavolo di comando, dal quale l'operatore sceglie anche il tubo radiogeno che desidera utilizzare e imposta i parametri tecnici dell'esame (fig. 4.101). Altri elementi indispensabili per l'esecuzione delle radiografie sono le pellicole radiografiche, gli schermi di rinforzo e i sistemi antidiffusione. Esiste poi una serie di accessori radiologici che permettono di eseguire esami con il paziente in posizione verticale (ortoscopi, teleradiografi), altri con il paziente in posizione orizzontale (trocoscopi, stratigrafi, planigrafi), altri ancora con il paziente nelle due posizioni grazie a un piano ribaltabile (ortoclini e tavoli universali); speciali accessori, infine, rendono possibili esami particolari (mammografi, ortopantomografi, apparecchi portatili ecc.).

Tubo radiogeno

Il tubo radiogeno, o tubo di Coolidge, è l'apparecchio da cui vengono emessi i raggi X (fig. 4.102). Esso è costituito da un'ampolla di vetro posta sotto vuoto spinto, in cui sono incorporati due elettrodi, l'anodo e il catodo, tra i quali viene creata, al momento dell'emissione delle radiazioni, un'alta differenza di potenziale. Il catodo è costituito da un filamento metallico, da cui, per effetto termoelettrico, vengono emessi nel vuoto elettroni liberi; l'anodo è invece l'elettrodo positivo, contro cui urtano gli elettroni liberi. Da questo impatto, in virtù del frenamento subito dagli elettroni (Bremsstrahlung), si generano i raggi X. Bisogna tenere presente che solo l'1% dell'energia del fascio elettronico nel tubo di Coolidge si trasforma in raggi X, mentre il rimanente 99% si trasforma in calore; per tale motivo, l'anodo è costituito da piastre di metallo caratterizzate da temperature di fusione molto elevate, come il tungsteno o il molibdeno. Nel tubo radiogeno per dissipare il calore prodotto a livello dell'anodo sono utilizzati due diversi sistemi: l'anodo fisso e quello rotante. Nell'anodo fisso, che è costituito da un blocco di rame massiccio connesso con una placchetta di tungsteno nel punto in cui si verifica il bombardamento degli elettroni, l'eliminazione del calore avviene per conduzione. L'anodo rotante, tecnologicamente più avanzato, è costituito da un piattello di tungsteno forgiato e montato, tramite un sottile stelo di molibdeno, sulla estremità di un cilindro di rame che svolge la stessa funzione del rotore di un motore elettrico. L'artificio che viene utilizzato in questo tipo di anodo consiste nel fare ruotare il piattello di tungsteno durante il bombardamento del fascio elettronico, in modo che il metallo, riscaldato istante per istante dall'impatto degli elettroni, lasci il posto ad altre parti del metallo più fredde. Il campo elettrostatico necessario per produrre raggi X si ottiene polarizzando negativamente il catodo e positivamente l'anodo con differenze di potenziale adeguate: tra 40 e 150 keV per i normali tubi di diagnostica radiologica, e tra 28 e 30 keV per i mammografi. Tali valori di differenza di potenziale vengono prodotti da generatori di alta tensione costituiti da un trasformatore e da un sistema di raddrizzamento e controllo. Pellicole radiografiche, schermi di rinforzo e sistemi antidiffusione Le immagini della radiologia convenzionale vengono in genere fissate sulle pellicole radiografiche, che fanno parte della famiglia dei prodotti fotosensibili utilizzati per la registrazione delle immagini in bianco e nero. La pellicola radiografica è costituita da un supporto di poliestere su cui viene distesa, su una o su entrambe le superfici, l'emulsione fotografica. L'emulsione è formata da gelatina animale in cui si trovano in sospensione numerosissimi cristalli di alogenuro di argento (cloruro, ioduro, bromuro). Sulla pellicola radiografica viene anche applicato un sottilissimo strato protettivo trasparente, sovrastante l'emulsione. Quando viene impressionato da una radiazione elettromagnetica, l'alogenuro di argento si decompone liberando argento metallico e in tal modo si forma la cosiddetta 'immagine latente'; con il procedimento dello sviluppo, i cristalli di alogenuro di argento vengono ridotti: questo conferisce loro un intenso colore nero e l'immagine latente viene trasformata in una immagine visibile. I cristalli di alogenuro di argento possono assorbire radiazioni elettromagnetiche aventi una lunghezza d'onda che va dalla luce visibile sino ai raggi X e γ. Essi sono però molto più sensibili alla luce visibile e in particolare a certi picchi dello spettro luminoso; per questo motivo le pellicole radiografiche vengono sempre impiegate in associazione ai cosiddetti schermi di rinforzo. Gli schermi di rinforzo sono costituiti da sostanze fluorescenti che, grazie al fenomeno della luminescenza, convertono parte dell'energia dei raggi X incidenti in luce di emissione di lunghezza d'onda maggiore, nei confronti della quale l'emulsione della pellicola radiografica è più sensibile. In sostanza, l'immagine prodotta sulla pellicola radiografica deve essere trasformata in una fotografia della fluorescenza prodotta dallo schermo esposto alle radiazioni, in quanto il contributo della radiazione X diretta all'annerimento della pellicola è trascurabile (fig. 4.103). Le sostanze che vengono utilizzate in maniera preponderante nella costituzione degli schermi di rinforzo sono i composti delle terre rare, che nei primi anni Settanta hanno sostituito il tungstato di calcio, impiegato sin dall'inizio in radiologia. Gli schermi di rinforzo vengono posizionati all'interno di una cassetta radiografica, che ha la funzione di assicurare sia la tenuta di luce sia un contatto uniforme tra le superfici contrapposte degli schermi di rinforzo e i due strati emulsionati della pellicola. Quando i raggi X attraversano un oggetto si generano, per effetto dei già descritti fenomeni di interazione tra i fotoni X e gli atomi costituenti l'oggetto stesso (effetto Compton), delle radiazioni diffuse, o secondarie, che esercitano la loro azione in modo non uniforme sullo schermo di rinforzo, dando un aspetto grigiastro alla pellicola e riducendo il potere di definizione del sistema. Per diminuire l'effetto delle radiazioni diffuse sulla pellicola radiografica si ricorre, oltre che ad alcuni artifici di natura tecnica, quali l'uso di radiazioni con bassi livelli di tensione o la riduzione del campo irradiato con coni limitatori, all'uso delle griglie antidiffusione. Le griglie antidiffusione sono costituite da lamelle di piombo distanziate da materiale radiotrasparente; se la griglia è opportunamente orientata tra l'oggetto e la pellicola, le radiazioni diffuse vengono intercettate dalle lamelle di piombo, mentre le radiazioni primarie passano attraverso gli interspazi radiotrasparenti della griglia.

Fluoroscopia e radioscopia

Il fenomeno della fluorescenza è stato utilizzato in radiologia anche nella fluoroscopia e nella radioscopia, per ottenere, in tempo reale e su un particolare schermo, immagini che possono essere valutate in modo diretto dall'osservatore. Lo schermo fluoroscopico è costituito da cristalli di sali inorganici che, quando vengono eccitati dai raggi X, emettono una luce giallo-verde per la quale l'occhio umano ha la massima sensibilità. La fluoroscopia utilizza livelli di luminosità estremamente bassi, che costringono l'operatore a una visione scotoscopica in ambiente opportunamente oscurato, previo adattamento al buio. Per tale motivo, la risoluzione dell'immagine è limitata dalla acuità visiva dell'occhio e non dalla risoluzione spaziale dello schermo fluorescente; oltretutto, nonostante venga utilizzato un vetro schermato, l'osservatore viene sottoposto a una esposizione diretta ai raggi X di discreta entità. Per questi motivi, attualmente la fluoroscopia tende a essere abbandonata, o addirittura vietata, e sostituita dalla radioscopia con intensificatore di brillanza. Gli intensificatori di brillanza, o intensificatori elettronici di luminosità, sono costituiti da un fotocatodo che ha il potere di convertire l'immagine luminosa di entrata in una immagine elettronica. In sostanza, su questa superficie fotosensibile si creano, per effetto della radiazione luminosa incidente, delle cariche elettriche o fotoelettroni. I fotoelettroni migrano, sotto l'azione di un campo elettrico che li accelera e li focalizza, dallo strato fotosensibile a uno schermo luminescente posto sulla linea di uscita, generando una immagine radioscopica più piccola rispetto a quella primaria, ma di intensità luminosa da 1000 a 3000 volte più elevata. Questa immagine luminosa può infine essere trasferita dal fotocatodo del tubo dell'intensificatore a una telecamera, a una cinepresa o a una spot camera, attraverso sistemi ottici costituiti da coppie di obiettivi e da eventuali prismi o specchi. L'intensificatore di brillanza consente di somministrare al paziente una dose di radiazioni più bassa rispetto alla fluoroscopia e al tempo stesso permette al radiologo di avere una situazione operativa migliore: infatti, le immagini radioscopiche risultano più luminose e contrastate ed è possibile osservarle senza la necessità di un adattamento al buio; inoltre, da un punto di vista protezionistico, l'esposizione per l'operatore diviene sostanzialmente nulla (fig. 4.104).

Tomografia convenzionale

L'immagine radiografica convenzionale deriva dalla sovrapposizione di ombre appartenenti a piani diversi e pertanto risulta spesso difficile identificare e isolare dettagli di un determinato piano o livello. Per superare queste difficoltà si ricorre a una tecnica, definita tomografia, che consente di radiografare i dettagli che si trovano su un determinato piano del paziente, cancellando per sfumatura quelli che giacciono nei piani sopra e sottostanti. Questa tecnica, che porta il nome del radiologo A. Vallebona, che la introdusse negli anni Trenta, si fonda essenzialmente sul movimento correlato e sincrono del tubo, del soggetto da esaminare e della pellicola, secondo determinate direzioni, durante l'emissione dei raggi X. Il movimento utilizzato è di tipo pendolare, e durante il suo svolgimento la distanza fuoco-pellicola rimane costante. Il tomografo è l'apparecchiatura stratigrafica che sfrutta il movimento del tubo e della pellicola, consentendo di mantenere il paziente immobile. Possibilità diagnostiche della radiologia convenzionale La radiologia convenzionale, come si è già detto, si fonda sulla diversa attenuazione che i raggi X subiscono nel passaggio attraverso il corpo umano. Il potere di discriminazione della radiologia convenzionale è quindi, in termini di contrasto intrinseco, tanto più grande quanto maggiore è la differenza nei coefficienti di assorbimento tra i diversi tessuti attraversati dai raggi X.

Contrastografia naturale e artificiale

Nella radiologia diagnostica medica, una situazione di contrasto normale può verificarsi tra organi o strutture anatomiche adiacenti, così come nel contesto di un determinato organo o struttura. La cosiddetta contrastografia naturale sfrutta le normali differenze di assorbimento dei raggi X da parte dei tessuti organici, in rapporto al loro diverso spessore e alla loro diversa composizione chimica. Le possibilità diagnostiche della contrastografia naturale sono buone nello studio del torace e dell'osso, dove, in presenza di elementi a basso e ad alto coefficiente di assorbimento, come sono rispettivamente l'ossigeno e l'azoto da una parte e il calcio dall'altra, è possibile ottenere quel contrasto naturale valido per l'esame del parenchima polmonare e per la caratterizzazione dell'architettura ossea. Il contrasto radiologico nella valutazione del parenchima polmonare è determinato dalla netta differenza esistente tra i coefficienti di attenuazione delle strutture vascolobronchiali e dell'aria contenuta nelle vie aeree. L'elevata radioopacità delle ossa rispetto agli altri tessuti corporei è legata al loro grande contenuto di sali di calcio, mentre il contrasto radiologico all'interno del singolo segmento osseo è determinato dalla disposizione delle lamelle ossee in sistemi trabecolari (spongiosa) e in sistemi lamellari (compatta). Il contrasto radiologico è invece generalmente scarso per quanto riguarda la valutazione e la differenziazione delle strutture parenchimali. In effetti, i tessuti dell'organismo e gli organi parenchimali, pur essendo altamente differenziati da un punto di vista funzionale, hanno sovente spessore, densità e coefficienti di assorbimento non dissimili. Tale fenomeno è in relazione al fatto che la composizione chimica della maggior parte dei tessuti risulta pressoché analoga: gli elementi che costituiscono i tessuti biologici sono infatti, principalmente, il carbonio, l'idrogeno, l'ossigeno e l'azoto, che hanno numeri atomici molto simili e presentano quindi coefficienti di attenuazione delle radiazioni pressoché analoghi. Per la valutazione di molti organi o apparati si è pertanto costretti, in radiodiagnostica, a ricorrere alla contrastografia artificiale, che utilizza sostanze atte a modificare l'assorbimento dei raggi X da parte di organi o apparati di composizione o spessore simili rispetto a quelli circostanti. Queste sostanze sono chiamate mezzi di contrasto (v. sopra). Nonostante il miglioramento apportato dall'utilizzo dei mezzi di contrasto, comunque, per molti organi o apparati, quali gli organi parenchimali splancnici e l'encefalo, la valutazione per mezzo della radiologia convenzionale risulta insufficiente, a causa dello scarso contrasto radiologico esistente. In questi casi, nella moderna diagnostica per immagini è possibile indirizzare il protocollo verso altre tecniche, quali l'ecotomografia, la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica.

Proiezioni radiologiche

L'esame radiologico si basa su un serie di proiezioni fissate per convenzione, che in genere, nella radiologia dell'apparato osteoarticolare e in quella del torace, sono le due proiezioni ortogonali al segmento scheletrico o corporeo da esaminare. Negli esami dinamici del tubo digerente e nell'urografia si rende necessaria la valutazione in tempo reale mediante radioscopia: questa consente di esaminare i movimenti peristaltici degli organi cavi e di stabilire il decubito e la proiezione ideali per la valutazione di un particolare anatomico che può essere successivamente fissato sulla pellicola radiografica.

Radiologia digitale

La radiologia digitale è la tecnica che traduce un'immagine radiologica convenzionale in forma digitale, i cui dati sono cioè espressi in forma numerica. In generale, le immagini possono essere suddivise in analogiche e digitali. Nella radiologia, le immagini analogiche sono caratterizzate dal fatto che il rivelatore del segnale proveniente dal paziente è anche il supporto sul quale l'immagine si forma direttamente e che ne consente la visualizzazione. Un tipico esempio è l'immagine radiografica su pellicola; in questo caso, i raggi X emergenti dal paziente vanno a impressionare le diverse zone della pellicola in misura maggiore o minore a seconda dell'attenuazione che hanno subito attraversando i vari organi in esame. L'immagine radiografica, così, rappresenta in modo continuo la grandezza fisica che convoglia l'informazione diagnostica. L'immagine digitale è, invece, il risultato di un processo di campionamento e quantizzazione: il segnale in uscita dal paziente viene misurato per ciascun punto di un insieme finito e predeterminato di punti (campionamento spaziale), in modo da associare a ogni punto il valore numerico risultante dal processo di quantizzazione. Quest'ultima consiste nel suddividere il campo di variabilità del segnale in un numero finito di intervalli in ciascuno dei quali il segnale viene sostituito da un particolare valore numerico, rappresentativo di quell'intervallo. Nel caso di immagini bidimensionali, in linea di principio, il processo di digitalizzazione consiste nel suddividere l'immagine in una griglia di quadratini, chiamati pixel (dall'ingl. picture elements). Con questa procedura si genera una matrice, le cui dimensioni corrispondono al numero di quadratini generati sull'immagine e a ogni pixel corrisponde un valore numerico; se si assegna a ciascun numero un corrispondente livello di grigio, secondo una scala predeterminata, si può successivamente ricostruire l'immagine analogica convenzionale (fig. 4.105). I principali fattori che influenzano la qualità di una immagine digitale sono quindi le dimensioni della matrice e i livelli di grigio disponibili. La matrice è correlata con la risoluzione spaziale (capacità di discriminare come distinte due strutture vicine), nel senso che quest'ultima dipenderà essenzialmente dalla dimensione del pixel. L'immagine digitale ideale, considerato il potere di risoluzione dell'occhio umano, che è di circa 0,1 mm alla distanza della visione distinta, deve quindi possedere pixel di dimensioni non superiori a tale valore. Perciò, per una pellicola di formato 35∃35 cm sarà necessaria una matrice 4096∃4096 pixel. Si noti che questo valore deriva anche dall'opportunità di utilizzare matrici con dimensioni pari a potenze intere di 2, per facilitare successive elaborazioni elettroniche. Per quanto riguarda i livelli di grigio, essi possono essere, a seconda del numero di bit disponibili per la codifica binaria dei livelli, 256 (8 bit), 1024 (10 bit) o 4096 (12 bit). Tanto più alto è il numero di bit disponibili, tanto migliore sarà la risoluzione di contrasto dell'immagine, cioè la capacità di differenziare due diversi livelli di grigio. Per ottenere, con una immagine digitale, gli stessi livelli di grigio di una immagine analogica sono necessari almeno 2048 livelli, pari a 11 bit per pixel (fig. 4.106). Attualmente, la tecnologia propone due diversi approcci alla digitalizzazione di un'immagine: uno indiretto, mediante telecamera o laser scanner, e uno diretto, mediante intensificatore di brillanza oppure fosfori fotostimolabili a memoria. La digitalizzazione indiretta prevede la consueta assunzione di immagini su pellicola radiografica; la pellicola, una volta sviluppata, viene digitalizzata mediante telecamera digitale o laser scanner (fig. 4.107). La telecamera digitale inquadra una superficie illuminata dal retro (diafanoscopio) sulla quale viene poggiata la radiografia da convertire in immagine digitale. L'immagine viene rilevata da piccoli detettori elettronici (CCD, Charge coupled device) in grado di catturare l'informazione di un singolo pixel. Un sistema di questo tipo, a costi relativamente bassi e con minimo ingombro, presenta però delle limitazioni in termini di risoluzione spaziale e di livelli di grigio. Il sistema a lettura laser (laser scanner) si avvale della tecnologia della luce laser per effettuare una scansione di un radiogramma acquisito e sviluppato con i metodi tradizionali. Tale apparecchiatura ad alta risoluzione presenta tuttavia lunghi tempi di digitalizzazione, limitate possibilità di elaborazione dell'immagine e un costo elevato. I metodi di digitalizzazione diretta sono costituiti invece da sistemi di fluoroscopia digitale e da sistemi a fosfori a memoria. Un apparecchio per fluoroscopia digitale utilizza il segnale emesso da un tradizionale intensificatore di brillanza, digitalizzando i dati ottenuti attraverso una catena televisiva ad alta risoluzione. In pratica, la telecamera è accoppiata all'intensificatore di brillanza, e converte in segnale elettronico la luce che quest'ultimo produce quando è stimolato da un raggio X. Tale segnale elettronico analogico è successivamente digitalizzato da un apposito apparecchio (convertitore analogico/digitale) e inviato all'unità centrale del processore, dove avviene l'elaborazione dell'immagine; in seguito l'immagine viene visualizzata sul monitor. Per le sue caratteristiche, cioè per la capacità di visualizzare l'immagine in tempo reale, un impianto di questo tipo viene utilizzato per esami dinamici (flebografia, studio del tratto gastrointestinale, mielografia, broncografia, urografia ecc.; fig. 4.108). Un sistema di radiologia digitale a fosfori a memoria utilizza un tubo radiogeno di tipo convenzionale per la produzione dei raggi X, ma il supporto di rilevazione delle radiazioni non è composto dall'accoppiamento pellicola-schermi di rinforzo, come in un sistema radiologico tradizionale, bensì da una piastra a fosfori. I fosfori a memoria sono particolari sostanze, simili a quelle utilizzate negli schermi di rinforzo, che presentano però una caratteristica fondamentale; essi, infatti, se colpiti da radiazioni X, in parte emettono luce, in parte immagazzinano energia, ossia memorizzano energia punto a punto (fig. 4.109). In un secondo momento, questi pannelli vengono esposti alla luce laser per la lettura. La luce laser determina una stimolazione dei fosfori e l'emissione immediata dell'energia memorizzata sotto forma di luce. Quest'ultima viene rilevata e convertita in segnale elettrico mediante un fotomoltiplicatore. In questo modo, attraverso l'utilizzo di un pennello di lettura a raggio laser è possibile leggere punto a punto l'immagine memorizzata e convertirla in immagine digitale. Successivamente, tale immagine può essere stampata per mezzo di particolari stampanti laser, oppure, dopo essere stata nuovamente convertita in immagine analogica, visualizzata su un monitor ad alta risoluzione. I vantaggi derivanti dall'utilizzo della tecnologia digitale sono molteplici. Innanzitutto, va sottolineata la riduzione fino al 50% della dose di radiazioni somministrata al paziente; inoltre, si ottiene un risparmio sul costo delle pellicole. Da un punto di vista diagnostico, tali sistemi, oltre a garantire al radiologo una risoluzione spaziale discreta, quasi pari a quella delle pellicole tradizionali, offrono anche la possibilità di elaborare l'immagine tramite computer al fine di ottenere ulteriori informazioni non accessibili attraverso l'analisi del solo radiogramma standard (fig. 4.110). Infine, la disponibilità di immagini in formato digitale consente l'archiviazione su supporto informatico e l'utilizzazione in teleconsulti a distanza con centri specializzati. Con lo sviluppo, previsto per i prossimi anni, di nuovi sistemi di detettori ad alta efficienza e a basso costo e grazie al progressivo incremento della potenza di calcolo degli elaboratori elettronici, la radiologia digitale è destinata a sostituire in misura sempre maggiore la tradizionale pellicola radiografica.

Angiografia

L'angiografia è un'indagine radiologica che consiste nell'opacizzare i vasi arteriosi e venosi attraverso l'introduzione nel lume vasale di mezzi di contrasto radioopachi. È un'indagine applicabile a quasi tutte le parti del corpo umano: cuore, arterie coronarie (coronarografia), polmoni, cervello, vari organi addominali, estremità. Se vengono opacizzati i vasi arteriosi si parla di arteriografia, se i vasi venosi di flebografia. L'introduzione di mezzi di contrasto viene effettuata mediante l'uso di cateteri di piccolo calibro con adatta curvatura terminale, al fine di eseguire un'arteriografia selettiva di diramazioni arteriose di secondo e terzo ordine, fino ad arrivare a diramazioni di sesto e settimo ordine per l'arteriografia superselettiva (fig. 4.111). L'introduzione del catetere nel vaso sanguigno viene eseguita con accesso percutaneo mediante la cosiddetta tecnica di Seldinger, nella quale si utilizza un ago con mandrino, che viene inserito per via percutanea in un vaso arterioso o venoso superficiale di grosso calibro (comunemente l'arteria o la vena femorale). Sfilato il mandrino, l'ago viene lentamente retratto e quando si trova nel lume vasale si introduce nel suo canale una guida metallica che funge da supporto per l'inserimento del catetere. Questo viene infine posizionato, sotto controllo radioscopico, nel vaso da opacizzare (fig. 4.112). Gli impianti angiografici, al di là delle caratteristiche specifiche dell'organo che si deve esaminare o dell'area di interesse, devono avere delle caratteristiche comuni, le più importanti delle quali sono: la possibilità di fornire immagini a elevato contrasto radiografico; la possibilità di eseguire serie radiografiche con cadenze adeguate; la possibilità di sincronizzare le immagini con segnali fisiologici (ECG); la possibilità di realizzare tecniche di ingrandimento; una buona stabilità dei parametri radiografici; la sicurezza contro rischi di shock e microshock elettrici; la possibilità di eseguire esami con incidenze variabili del fascio radiante; la possibilità di esaminare il paziente senza muoverlo; una disposizione ergonomica dell'insieme, tale da consentire un facile accesso al paziente da parte dell'operatore e del suo staff; la possibilità di eseguire interventi di emergenza; facilità di interfaccia con elaboratori di immagini digitali. Pertanto, un impianto angiografico deve essere costituito da un tavolo per cateterismi, un supporto con arco a 'C' per il tubo radiogeno, un intensificatore di immagine e altri accessori. Il tavolo per cateterismi deve avere un piano per l'appoggio del paziente estremamente radiotrasparente, rigido e capace di ampie traslazioni in senso longitudinale; per l'angiografia degli arti inferiori può essere richiesto un dispositivo di traslazione automatica 'a passi'. Inoltre, per consentire un comodo approccio dell'operatore al paziente, il tavolo per cateterismi deve disporre di una regolazione dell'altezza del piano mediante un comando motorizzato. L'arco a C deve consentire una rotazione isocentrica del suo insieme nelle tre coordinate dello spazio (fig. 4.113). Questa caratteristica è estremamente importante specie per gli impianti cardioangiografici, in quanto il cuore, in rapporto all'asse longitudinale, presenta una leggera inclinazione nelle posizioni sia frontali sia laterali; per eseguire riprese dell'anatomia tridimensionale del cuore, senza sovrapposizione di arterie e vene, è pertanto necessario variare in modo isocentrico l'incidenza degli angoli di ripresa.

Angiografia tradizionale

Nell'angiografia tradizionale, le immagini sono ottenute per esposizione diretta della pellicola al fascio radiante che attraversa il paziente; l'immagine è quindi analogica. Per l'acquisizione delle immagini ci si avvale di alcuni accessori radiologici, rappresentati da un arterioflebografo e dai seriografi rapidi. L'arterioflebografo permette di visualizzare il sistema arterioso e venoso degli arti inferiori. Per questo tipo di esame si eseguono in genere un massimo di sei radiografie successive, in ragione di una al secondo o con una cadenza più lenta, in base ai dati di fisiopatologia clinica relativi al paziente, dedotti da indagini precedenti. Il formato dei radiogrammi deve essere adeguato: pertanto, vengono impiegate cassette radiografiche di grande formato, di solito 30∃120 o 35∃105. Nella sua versione tradizionale, l'arterioflebografo è costituito da una incastellatura meccanica supportante un tamburo esagonale (azionato da un motore che gli permette di ruotare di 60° in 60° per mezzo di un comando esterno), entro il quale vengono infilate, al momento del caricamento, sei cassette radiografiche con schermi di rinforzo di unico formato e rapidità variabile (gradual), per compensare le diversità di spessore esistente tra caviglia, coscia e bacino. Questo accessorio dispone di un proprio piano di appoggio per il paziente, in modo da poter essere usato come unità a sé stante, senza altri tavoli aggiuntivi. L'arterioflebografo è dotato di un dispositivo di controllo che consente di scegliere tra il funzionamento a esercizio libero, in cui ciascuna radiografia viene ripresa singolarmente dall'operatore, scegliendo per così dire una cadenza manuale, e il funzionamento automatico secondo un programma a intervalli prestabiliti. Eventualmente, il comando può essere asservito a un iniettore automatico, per mezzo del quale è possibile sincronizzare l'inizio della sequenza delle riprese radiografiche con l'inizio dell'iniezione del mezzo di contrasto. I seriografi rapidi sono necessari quando si debbano studiare distretti vascolari di più piccole dimensioni e ad alto flusso vascolare (cuore, vasi addominali e toracici ecc.), in quanto consentono l'esposizione successiva di numerosi radiogrammi, fino a 6-8 al secondo. In questi accessori, le pellicole singole (in genere di formato 35∃35 o 24∃30) vengono introdotte separatamente in un apposito magazzino ricevitore, che di solito può contenerne fino a 30. Le singole pellicole vengono trasportate in rapida successione, tramite una serie di rulli e di organi meccanici molto precisi quanto delicati, tra due schermi di rinforzo, i quali provvedono ad aderire alla pellicola un istante prima di dare il consenso alla radiografia e trattengono la pellicola stessa per un tempo determinato, programmabile in rapporto alla cadenza dell'esame desiderato, mediante un apposito pannello di comando. Trascorso il tempo stabilito (tempo utile per eseguire la radiografia), la coppia di schermi si riapre e la pellicola viene trasportata a un magazzino ricevitore, mentre una nuova pellicola viene introdotta tra la coppia di schermi di rinforzo. Utilizzando speciali tavoli con il piano di appoggio per il paziente semovente lungo l'asse longitudinale, è possibile eseguire anche angiografie agli arti inferiori: facendo spostare tale piano al di sopra dell'angiografo si eseguono tre o quattro traslazioni programmabili, in modo da seguire radiograficamente il flusso del mezzo di contrasto lungo il sistema venoso o arterioso degli arti inferiori stessi.

Angiografia digitale

La tecnica angiografica si è evoluta sulla scorta delle innovazioni apportate dalla radiologia digitale (v. sopra): dalla applicazione delle tecniche digitali è nata l'angiografia digitale o DSA (Digital subtraction angiography), che ha migliorato la qualità delle immagini e ne ha consentito l'elaborazione informatica. Nella angiografia digitale, o DSA, le immagini acquisite con fluoroscopia vengono convertite punto per punto in dati digitali, che possono così essere elaborati dal computer. Il sistema DSA è costituito da una componente radiologica per il rilevamento delle immagini e da catene televisive che permettono di convertire le immagini ottiche in segnale elettronico, il quale può essere così digitalizzato e manipolato informaticamente (fig. 4.115). La componente radiologica è rappresentata dagli stessi elementi che si ritrovano nell'angiografia tradizionale (generatore, tubo radiogeno, intensificatore di brillanza), ma che tuttavia hanno caratteristiche diverse, per le differenti esigenze in questo tipo di metodica. Nella DSA, il generatore deve permettere carichi elevati, costanti ed erogati in tempi brevi: sono infatti necessari alti flussi fotonici, con valori costanti in uscita dal generatore. Tale condizione è necessaria per ottenere una serie di immagini sovrapponibili per densità e omogeneità, sulle quali applicare adeguatamente i processi di sottrazione di cui si dirà in seguito. Il tubo radiogeno impiegato in DSA deve avere una notevole capacità termica, in relazione alla necessità di eseguire esposizioni ripetute con elevata cadenza e di lavorare con macchie focali ridotte. La capacità di dispersione termica dell'anodo deve essere quindi notevole. I sistemi di DSA sono inoltre dotati di un controllo automatico dell'esposizione, che permette una rapida determinazione dei fattori di esposizione, con significativo guadagno in termini di tempo e di esposizione ai raggi. Gli intensificatori di brillanza presentano peculiarità specifiche, che li differenziano dai sistemi utilizzati in fluoroscopia. Queste peculiarità nascono dalla necessità di una resa ottimale, dovendo essi sopportare, senza significativo degrado, esposizioni di 1-2 mrad (1 rad = 10-2 gray) per immagine. Gli alti livelli di radiazioni determinano alti livelli di luminosità, che possono creare problemi alla telecamera; si rendono quindi necessari appropriati sistemi di filtro o diaframmi, che permettono di ottenere idonei livelli di luminosità. Da un punto di vista strutturale, l'intensificatore di brillanza deve essere montato su di un supporto ad arco isocentrico assieme al tubo radiogeno, per permettere la realizzazione di tutte le proiezioni oblique e laterali senza dover spostare il paziente. La catena televisiva è costituita da una telecamera, un monitor e un cavo coassiale di interconnessione. Nel tubo di ripresa, l'immagine luminosa dell'intensificatore di brillanza viene esplorata linea per linea da un pennello elettronico, trasdotta in tensione e trasferita tramite un cavo coassiale a un tubo catodico che trasforma di nuovo il segnale in punti luminosi. La risoluzione del sistema deve molto all'efficienza della telecamera; la videocamera deve infatti avere un elevato rapporto segnale/rumore (S/R) al fine di evitare la degradazione del segnale emesso dall'intensificatore di brillanza. Questo rapporto dovrebbe essere dell'ordine di 1000, nettamente superiore a quello che si ottiene in fluoroscopia (S/R=300). Nel sistema digitale, attraverso il processore di immagini, i dati delle immagini possono essere elaborati dal computer, in modo da migliorare l'immagine stessa. Tra i vari procedimenti, quelli di preliminare importanza sono la sottrazione di immagine e la modifica dei contrasti. La sottrazione di immagine era già utilizzata nei sistemi convenzionali, in cui veniva eseguita con tecniche fotografiche. Consiste nell'acquisizione di immagini prima dell'arrivo del mezzo di contrasto (maschera) e nella loro utilizzazione per la sottrazione digitale di quelle acquisite dopo l'iniezione del mezzo di contrasto. In tal modo, la risoluzione di contrasto migliora e la perdita di informazione relativa alla sovrapposizione delle strutture vascolari con strutture ad alta densità (per es. le strutture ossee) viene eliminata (fig. 4.116). La modifica dei contrasti permette di ottenere una buona risoluzione anche da immagini con debole intensità, quali si ottengono dai sistemi di DSA, dove le quantità e le concentrazioni del mezzo di contrasto sono nettamente inferiori a quelle utilizzate nei sistemi convenzionali (fig. 4.117). Ulteriori manipolazioni del computer permettono di ottenere informazioni aggiuntive attraverso misurazioni, come per es. il calcolo del diametro di una stenosi, o ricostruzioni tridimensionali.

Tomografia computerizzata

La tomografia computerizzata (TC o CT, dall'inglese Computed tomography, o TAC, Tomografia assiale computerizzata) è una tecnica radiologica, con la quale si ottengono immagini di sezioni del corpo umano. La tecnica si fonda sulla ricostruzione, operata da un calcolatore, della densità dei diversi tessuti del corpo umano, attraversati da un fascio di radiazioni X. Tale fascio, di energia nota, subisce un'attenuazione in misura quasi direttamente proporzionale alla densità dei diversi tessuti; questo valore viene misurato da appositi rilevatori, situati dalla parte opposta della sorgente di raggi X rispetto al paziente.

Apparecchi TC

Un sistema TC è costituito da numerose componenti tra loro collegate (fig. 4.118): un tubo radiogeno che produce raggi X monocromatici ad alta intensità; una serie di rivelatori di raggi X (detettori); un calcolatore capace di elevate prestazioni e dotato di una sufficiente memoria; un sistema di visualizzazione delle immagini. Nelle moderne apparecchiature TC, il tubo a raggi X si muove lungo una traiettoria circolare, puntato verso il centro di rotazione, con il paziente disposto lungo l'asse di rotazione. I rilevatori di raggi X ruotano sullo stesso piano di rotazione, simultaneamente al tubo radiogeno ma opposti a esso, oppure possono essere disposti in posizioni fisse lungo una corona situata all'esterno del tubo radiogeno (fig. 4.119). Il tubo radiogeno è simile a quelli utilizzati nelle comuni indagini radiografiche, ma è caratterizzato da un fuoco di piccole dimensioni (macchia focale di 0,5-1 mm), ha un'emissione di raggi non continua ma pulsata, e presenta una elevata capacità di dissipare il calore, e quindi di sopportare alti carichi di lavoro. I detettori oggi impiegati sono costituiti da un cristallo scintillatore allo stato solido (ioduro di sodio), oppure possono basare il loro funzionamento sulla ionizzazione di gas (gas xenon). Gli scintillatori allo stato solido emettono un impulso luminoso nello spettro visibile ogni qualvolta sono colpiti da un fotone X e questo impulso luminoso è convertito da un fotomoltiplicatore in segnale elettrico, che successivamente viene amplificato. I detettori a gas sono invece camere di ionizzazione ai cui elettrodi è applicata una elevata differenza di potenziale; le molecole del gas, colpite dal fotone X, producono ioni positivi e negativi, che vengono attratti dall'anodo o dal catodo, dando luogo a un impulso elettrico. Ambedue i sistemi misurano l'energia del fascio di raggi X che fuoriesce dal corpo del paziente, e quindi consentono di calcolare l'attenuazione subita dal fascio lungo il suo percorso attraverso i tessuti corporei. In entrambi i casi, l'intensità del segnale elettrico è proporzionale all'intensità del fascio di raggi X che ha colpito il detettore. Formazione dell'immagine La trasformazione della misurazione dell'attenuazione del fascio di raggi X nella rappresentazione visiva, in sezione, del corpo umano si attua in varie fasi. Il primo passaggio consiste nell'ottenere il valore di attenuazione di ciascun punto all'interno del corpo, cioè nel calcolare con precisione di quanto è diminuita l'energia della radiazione X in ogni punto del suo percorso. Per poter effettuare questo calcolo, il tubo a raggi X ruota intorno al paziente, e numerose misurazioni dell'attenuazione vengono effettuate da punti di vista diversi. Per comprendere meglio come lo strumento ricostruisca l'informazione relativa a singoli strati, si immagini di avere un oggetto formato da quattro blocchi disposti a quadrato su un piano verticale e di far passare un fascio di raggi X attraverso l'oggetto sia verticalmente sia orizzontalmente, misurando la radiazione in uscita: si avranno così quattro misure per altrettante diverse combinazioni dei valori di attenuazione dei corrispettivi blocchi poiché la misura globale ottenuta per l'attenuazione di ciascuna riga o colonna di blocchi sarà uguale alla somma delle attenuazioni di ciascun blocco (fig. 4.120). Un calcolatore collegato con i detettori è in grado di risolvere rapidamente il sistema di equazioni relativo e di assegnare a ciascuno dei blocchi il suo valore di attenuazione. Per ottenere una immagine TC, il numero di traiettorie compiute dai raggi X è elevato (circa 760 misurazioni negli apparecchi più moderni) e la sezione del corpo umano in esame è divisa in un numero di piccoli blocchi enormemente maggiore dei quattro blocchi riportati nel nostro esempio (da 262.144 a 1.048.576 blocchi). L'immagine TC è di tipo digitale, ma, dato che la sezione corporea in esame ha un suo spessore, ai pixel corrispondono volumi unitari del corpo, che prendono il nome di voxel. In altre parole, il corpo è suddiviso dal calcolatore in tante piccole unità tridimensionali, i voxel, le quali successivamente sono rappresentate sull'immagine in tante piccole unità bidimensionali, cioè in pixel. Una volta compiuto il procedimento di acquisizione e di ricostruzione dei dati, il calcolatore ha ottenuto il valore di attenuazione, che è un valore numerico, di ciascun voxel. Riportare questo valore numerico sullo schermo non avrebbe grande valore diagnostico e clinico, in quanto al radiologo è necessario visualizzare gli organi per poter giungere a una diagnosi. A questo scopo, a ogni voxel viene assegnato un valore di attenuazione, che viene normalizzato in maniera tale da raggruppare l'intera gamma dei valori tra gli estremi di -1000 (per l'aria) e +1000 (per l'osso; fig. 4.121). Le unità di questa tecnica sono state definite unità Hounsfield (UH) e i numeri vengono detti 'numeri TC'. Quale passo successivo, a ogni singolo pixel si assegna una tonalità di grigio proporzionale all'attenuazione del voxel corrispondente, ottenendo in tal modo una visualizzazione della sezione del corpo umano su uno schermo televisivo. Tutta la scala di unità Hounsfield potrebbe essere così rappresentata con 2001 diverse tonalità di grigio. Nella pratica, però, ciò non è possibile, in quanto l'occhio umano è in grado di differenziare solo 16-20 diverse gradazioni di grigio e in una scala con 2001 toni di grigio l'immagine relativa a una sezione potrebbe presentare una dinamica assai ristretta e risultare quindi piatta, cioè priva di contrasto e inutile da un punto di vista clinico. Al contrario, si cerca di sfruttare al massimo uno dei vantaggi della TC rispetto alla radiologia convenzionale, e cioè quello di avere un'elevata risoluzione di contrasto e di rilevare pertanto anche piccole differenze nella densità dei diversi pixel. A tale scopo è necessario 'aprire una finestra' attraverso cui osservare parzialmente le strutture presenti. In pratica, ciò significa agire sui comandi della consolle e definire il valore di unità Hounsfield al quale si vuole corrisponda sul monitor il grigio medio (centro di finestra), e l'intervallo dei valori, al disopra e al disotto di quello centrale, ai quali corrisponderanno le gradazioni di grigio disponibili (ampiezza di finestra). Tutte le strutture aventi un valore di densità maggiore del limite superiore della finestra risulteranno bianche; tutte le strutture aventi un valore di densità minore del limite inferiore della finestra risulteranno nere; le strutture aventi valori densitometrici compresi nei limiti della finestra saranno rappresentate con tonalità crescenti, dal grigio molto chiaro al grigio molto scuro (fig. 4.122). Quanto più stretta è la finestra, tanto maggiore è il contrasto dell'immagine, e viceversa. In questo modo, l'immagine può essere elaborata per ottenere il massimo delle informazioni diagnostiche (fig. 4.123). La manipolazione dell'immagine è possibile, poiché, come si è già detto, l'immagine TC è una immagine digitale. Inoltre, possono essere effettuate, in modo automatico, misure quantitative del valore di attenuazione dei diversi organi o tessuti, selezionando una regione di interesse mediante la consolle di comando. È anche possibile misurare le dimensioni di strutture normali o patologiche visibili sulle immagini. Esecuzione dell'esame Durante l'esame, il paziente è usualmente sdraiato su un tavolo, il cui movimento è comandato da una consolle centrale di controllo; mediante l'avanzamento del tavolo, la regione corporea da esaminare viene posta all'interno dell'apparecchio TC vero e proprio, che è munito di una ampia apertura. Come già detto, il tubo a raggi X, collocato all'interno dell'apparecchio, ruota intorno al paziente (fig. 4.124.). L'immagine, nei moderni apparecchi, viene acquisita in tempi di 2-7 secondi; durante l'acquisizione, al paziente viene chiesto di rimanere immobile e, per esami del torace e dell'addome, di non respirare. Questa collaborazione è necessaria, altrimenti le immagini risultano di cattiva qualità: i movimenti del paziente, infatti, determinano sfasamenti nel calcolo dell'attenuazione dei raggi X, che sull'immagine ricostruita appaiono come strisce o zone ombrate.

Mezzi di contrasto

Come già detto, la TC è caratterizzata da una elevata risoluzione di contrasto; tuttavia, i diversi organi e tessuti, pur avendo valori densitometrici differenti, presentano anche ampie aree di sovrapposizione, per cui, per es., può risultare difficile distinguere il fegato dalle strutture vascolari in esso contenute. Per ovviare a questo problema, si ricorre alla iniezione di un mezzo di contrasto. Le sostanze utilizzate sono a base di iodio, simili a quelle usate per urografie e angiografie e vengono iniettate solitamente per via venosa, determinando un netto aumento del valore di attenuazione, sia del sangue (fase vascolare) sia dei diversi organi irrorati da esso (fase parenchimale). L'iniezione di mezzo di contrasto serve perciò a visualizzare meglio le arterie e le vene, e a distinguere, all'interno di organi quali il fegato, il rene o l'encefalo, zone con diverso apporto ematico, che potrebbero rappresentare lesioni patologiche (fig. 4.125). TC spirale o elicoidale Durante un esame TC con apparecchi convenzionali, anche se di ultima generazione, l'incostante ampiezza delle inspirazioni e i movimenti involontari da parte del paziente possono impedire la perfetta contiguità dei piani di scansione e la conseguente identificazione di lesioni molto piccole. Questi stessi inconvenienti si ripercuotono anche sulla qualità dell'immagine nelle ricostruzioni multiplanari e tridimensionali. La necessità di fasi di apnea durante l'acquisizione, inoltre, prolunga i tempi d'esame, e lo studio con mezzo di contrasto per via endovenosa di un organo voluminoso può avvenire al di fuori della fase di non-equilibrio, nella quale è possibile distingure le strutture vascolari dal parenchima. Nell'intento di superare tutti questi limiti della TC convenzionale, nel 1989 fu ideata la tecnica TC spirale, intesa a eseguire nel più breve tempo possibile la scansione continua di un intero volume anatomico. Questa viene ottenuta mediante l'acquisizione continua dei dati di molteplici rotazioni del sistema tubo radiogeno-detettore intorno a un paziente, in movimento continuo longitudinale attraverso il foro del gantry (supporto del sistema tubo radiogeno-detettore; 4.126). In sintesi la TC spirale si basa sull'associazione di due diversi movimenti: del tavolo sul quale è posto il paziente, che si sposta a una velocità costante, e del tubo radiogeno che, ruotando continuamente, opera una prolungata esposizione lungo un angolo di 360°. Per il fuoco della sorgente radiogena, ne risulta un movimento a spirale cilindrica o di tipo elicoidale, donde le due diverse denominazioni della tecnica, da considerarsi sinonimi. Le sostanziali differenze tra un tomografo convenzionale e uno elicoidale stanno proprio nella concezione del gantry: questo è costituito da un set di anelli di scorrimento, tra loro paralleli, e di componenti elettriche fisse, che ruotano senza connessioni ad altre strutture o al suolo. Agli anelli sono deputate le funzioni di erogazione dell'alto voltaggio per il tubo radiogeno e il generatore, di trasmissione dei dati digitali dai rivelatori e, infine, di erogazione del basso voltaggio per i sistemi operativi e di controllo. Le attuali forme commerciali di tomografi elicoidali differiscono tra loro sostanzialmente per il modo in cui viene erogato l'alto voltaggio, che in alcuni modelli viene prodotto a terra per poi passare, attraverso l'anello, al tubo radiogeno, mentre in altri modelli (sistemi ibridi) solo una parte dell'alto voltaggio viene così generata e il resto viene fornito da un generatore posto nella parte rotante del gantry. Vi sono infine sistemi ad anelli di scorrimento a basso voltaggio, in cui una corrente a 540 volt passa attraverso l'anello, mentre l'alto voltaggio per l'alimentazione del tubo viene generato da trasformatori nella porzione rotante del gantry. I tomografi elicoidali necessitano di un sistema di rilevazione molto efficiente, poiché all'elevato tempo di esposizione è associata la necessità di ridurre al minimo il carico di lavoro del tubo radiogeno. I sistemi di rilevazione nella TC spirale sono di due tipi: quelli con cristalli inorganici e quelli con gas xenon; malgrado i primi abbiano un'efficienza superiore all'80%, vengono spesso preferiti i rilevatori a gas, che, pur avendo un'efficienza più bassa (circa 55%), hanno un minore bagliore residuo e una 'memoria più breve'. L'esame TC volumetrico può essere condotto con una sola TC spirale, oppure con una combinazione di diversi segmenti successivi di spirali, che possono o meno diversificarsi nei parametri. Successivamente vengono ricostruite sezioni transassiali presentabili individualmente o in cine-mode (cioè in forma 'animata'). Attraverso processi di post-elaborazione (cosiddetto post-processing) si ottengono immagini multiplanari (MIP, Maximum intensity projection) o tridimensionali (SSD, Surface shaded display), particolarmente significative negli esami con mezzo di contrasto. Nel 1991 è stata associata alla TC spirale la tecnica angio-TC, che consiste fondamentalmente nell'acquisizione volumetrica continua a mezzo di TC spirale effettuata in sincronismo con l'iniezione endovenosa periferica di un bolo di mezzo di contrasto. Le immagini MIP presentano un'immagine di densità tessutale, che permette di differenziare mezzi di contrasto, trombi e calcificazioni sulle pareti del vaso. Le immagini SSD presentano una buona visione tridimensionale dei vasi e possono essere preferibili per la rappresentazione iconografica di situazioni anatomiche complesse (per es., nei distretti addominale e toracico). TC ultrarapida con sistemi a fascio di elettroni Il principio di base della TC ultrarapida, denominata 'tomografia a fascio di elettroni' (EBT, Electron beam tomography), si fonda sull'uso della deflessione magnetica di un fascio di elettroni, in luogo del classico tubo radiogeno ad anodo rotante. Il fascio di raggi a ventaglio che genera i profili di assorbimento consta di un sistema di emissione ad anodo fisso a semianello e di un sistema detettore, esso pure in semianello, fisso e in contrapposizione. Ne risulta la possibilità di ridurre drasticamente i tempi di scansione e di alta emissione radiante, in modo continuo e senza limitazioni di durata. La tomografia a fascio di elettroni fu introdotta nell'esercizio clinico nel 1983 (tomografo IMATRON) e dedicata al distretto cardiologico. I progressi tecnologici hanno consentito la successiva estensione del suo utilizzo a tutte le indagini TC del torace e dell'addome. Caratteristica della TC ultrarapida è ovviamente la possibilità di eseguire scansioni volumetriche in tempi brevissimi, con sensibile riduzione del bolo di mezzo di contrasto, alti valori di emissione e senza alcun problema di raffredamento all'anodo a semianello.

Radiologia odontostomatologica

Lo studio radiologico standard della regione maxillofacciale e odontostomatologica incontra numerose difficoltà, rappresentate dalle curve dei mascellari, dall'inclinazione e dallo spessore variabile delle strutture ossee, nonché dalla sovrapposizione del neurocranio e del rachide cervicale. Tale complessità anatomica ha portato allo sviluppo di alcune tecniche peculiari della radiologia odontostomatologica, che hanno uno spazio a sé nell'imaging diagnostico. A seconda della regione dentaria da esaminare e del quesito clinico, si eseguono radiografie panoramiche (ortopantomografia), per la visualizzazione completa di entrambe le arcate, o radiografie di dettaglio (tecnica endorale, zonografia), per lo studio mirato dei singoli siti dentari. Un ulteriore approfondimento diagnostico si può ottenere per mezzo della tomografia computerizzata, corredata da programmi di ricostruzione longitudinali (dentalscan) e tridimensionali. L'ortopantomografia, sfruttando il principio della tomografia, limita l'indagine al solo strato di interesse, cioè al campo focale, cancellando tutto quanto si trova al di fuori di questo. Il campo focale può avere spessore variabile e rappresenta più o meno fedelmente il profilo delle arcate dentarie. La radiografia panoramica offre con una sola immagine non solo la visualizzazione di entrambe le arcate dentarie, ma anche la visione di molte strutture del massiccio facciale (fig. 4.134). Questa tecnica costituisce il primo esame di screening per la valutazione della patologia dentaria, delle arcate dentarie e dei seni mascellari, e trova un'indicazione elettiva per lo studio dell'età dentaria e dei rapporti ortodontici delle due arcate. In molti casi, essa facilita la diagnosi di fratture, denti ritenuti, lesioni ossee, carie e alterazioni dell'articolazione temporomandibolare. L'esame radiologico con pellicola endorale trova una precisa collocazione diagnostica per lo studio di singoli elementi dentari, in quanto offre, rispetto all'indagine ortopanoramica, una più elevata definizione dell'immagine, consentendo altresì una migliore valutazione delle radici dentarie, delle regioni apicali e dell'osso alveolare (fig. 4.135). Tale indagine viene generalmente impiegata per la ricerca di lesioni periapicali e per il controllo di terapie endodontiche. L'esecuzione di esami endorali con tecnica a elaborazione digitale (radiovideografia) viene oggi utilizzata in alternativa alla metodica endorale tradizionale. La tomografia computerizzata, grazie alla sua elevata risoluzione spaziale, e all'impiego di algoritmi di ricostruzione per l'osso, consente una perfetta visualizzazione dell'anatomia dentaria. Lo studio delle due arcate può essere eseguito mediante immagini trasverse a spessore sottile (1 mm) e ricostruzioni longitudinali, a spessore variabile e orientamento perpendicolare o parallelo alle arcate dentarie (figg. 4.136 e 4.137). Tali immagini offrono precise informazioni circa lo stato dell'osso, sia dal punto di vista qualitativo (valori di densità ossea) sia da quello quantitativo (altezza e spessore osseo). Tale metodica è oggi sempre più utilizzata in implantologia, cioè nelle tecniche chirurgiche che risolvono condizioni di assenza parziale o totale di denti. Sergio De Bac

Mineralometria ossea

Fino a non molto tempo fa, la sola possibilità di valutare la quantità della massa ossea ‒ che, come è noto, con l'aumentare dell'età va incontro a una sensibile riduzione soprattutto nelle donne, con il rischio di forme patologiche, quali l'osteoporosi ‒ era offerta dalle indagini radiografiche (radiogramma standard, radiogrammometria, fotodensitometria). Tuttavia, la radiologia convenzionale presenta una bassa sensibilità ed è in grado di individuare la diminuzione della massa ossea solo quando essa ha raggiunto valori elevati (circa 30-50%), per cui un intervento terapeutico può risultare tardivo. Le apparecchiature attualmente disponibili, invece, che misurano la massa ossea mediante tecniche di mineralometria a raggi fotonici e tomografiche, sono in grado di svolgere indagini più precoci e approfondite. Altre metodiche, quali quelle di misurazione dell'attenuazione o della velocità degli ultrasuoni attraverso l'osso, sono ancora in fase sperimentale.

Mineralometria a raggi fotonici

La mineralometria a raggi fotonici è una tecnica radiologica basata sull'uso di sorgenti radioattive. Il segmento osseo da esaminare viene interposto tra la sorgente radioattiva e un rilevatore di radioattività. I fotoni emessi dalla sorgente sono assorbiti dall'osso in maniera differente a seconda della sua densità, quindi del suo contenuto minerale. Quanto più alto è il numero dei fotoni assorbito, tanto più basso è il numero di fotoni che vengono contati dal rilevatore e viceversa. La mineralometria a singolo raggio fotonico (SPA, Single photon absorptiometry) si basa sull'impiego di una sorgente monocromatica che emette radiazioni gamma (125I o 241Am), cioè radiazioni elettromagnetiche costituite da fotoni di grande energia (decine di keV o più). Il segmento osseo esaminato è generalmente quello che costituisce la parte dell'avambraccio più vicina alla mano. Nella mineralometria a doppio raggio fotonico viene utilizzata una sorgente che emette fotoni dotati di energia differente: la DPA (Dual photon absorptiometry) utilizza gadolino radioattivo (153Gd), mentre la DPX (o DEXA, Dual energy X-ray absorptiometry) utilizza un tubo catodico che emette raggi X di due differenti livelli energetici. Il densitometro a raggi X è più veloce del sistema a doppio raggio fotonico e possiede una migliore riproducibilità, assicurando una maggiore precisione. La DPA e la DEXA permettono di effettuare misurazioni anche a livello dei corpi vertebrali e del femore, cioè laddove compaiono le prime manifestazioni dell'osteoporosi (fig. 4.138 e 4.139). Sugli stessi principi della DPA e della DEXA si basa la densitometria sul corpo intero con la quale si esegue un'esplorazione del contenuto minerale di tutte le ossa, ottenendo dati sul contenuto minerale totale e sulla densità ossea totale (fig. 4.140).

Tomografia quantitativa computerizzata

Le tecniche mineralometriche a raggi fotonici, a raggio sia singolo sia doppio, misurano l'insieme dell'osso compatto e trabecolare. Invece la tomografia quantitativa computerizzata (QCT, Quantitative computerized tomography) è in grado di misurare esclusivamente l'osso trabecolare, consentendo una più accurata identificazione delle malattie del tessuto osseo. Infatti, essendo l'osso trabecolare (presente a livello dei corpi vertebrali, delle epifisi delle ossa lunghe e della spongiosa delle ossa piatte) metabolicamente più attivo di quello corticale, in alcuni casi è più importante, dal punto di vista clinico, misurare il contenuto minerale osseo a tale livello, per es. nella colonna vertebrale. A questo fine viene utilizzato un apparecchio TC fornito di 'fantocci di calibrazione' e di un programma dedicato per il calcolo del contenuto minerale dell'osso (BMC, Bone mineral content). La misurazione viene effettuata a livello delle vertebre lombari, ma può essere eseguita anche a livello dell'anca o del calcagno. La tecnica sfrutta la capacità della TC di misurare la densità dei tessuti attraversati da un fascio collimato di raggi X; il valore ottenuto a livello del tessuto osseo trabecolare vertebrale viene confrontato con quello di soluzioni di sali minerali a densità nota (carbonato di calcio). Rispetto alle altre metodiche, la QTC riesce a valutare anche variazioni molto piccole dei valori di densità ossea, mentre in termini di accuratezza (cioè di capacità di misurare la reale quantità di calcio presente) presenta margini di errore superiori. Con questa metodica, inoltre, viene somministrata al paziente una dose non trascurabile di radiazioni (100-300 mrem, essendo 1 rem = 0,01 sievert), e questo limita le possibilità di misurazioni ripetute nel tempo.

Ecografia

L'ecografia è una tecnica di imaging che utilizza gli ultrasuoni per evidenziare e visualizzare gli organi interni del corpo umano. La formazione dell'immagine è infatti basata sulla differente capacità di riflessione dell'onda ultrasonora da parte della superficie di separazione tra le varie strutture (interfaccia). L'innocuità dell'ecografia, determinata dall'utilizzo di una forma di energia diversa dalle radiazioni ionizzanti, ha reso estremamente diffuso il suo impiego diagnostico.

Interazione tra tessuti e ultrasuoni

Le onde ultrasonore, o ultrasuoni, sono, in generale, vibrazioni elastiche della materia con frequenze superiori a quella del limite di udibilità, convenzionalmente fissato a 20 kHz; quelle utilizzate in ecografia sono generate per effetto piezoelettrico da ceramiche o cristalli quali il quarzo, il titanato di bario ecc. Tali materiali sono infatti dotati della proprietà di deformarsi quando venga loro applicata una tensione elettrica, e, viceversa, di generare una tensione elettrica proporzionale alla compressione cui vengono sottoposti. Usando questi materiali, è possibile ottenere trasduttori che, eccitati da una tensione alternata, generano un'onda ultrasonora di intensità direttamente proporzionale alla tensione cui viene sottoposto il trasduttore stesso e inversamente proporzionale allo spessore della ceramica. Gli ultrasuoni si propagano con velocità e assorbimento legati, secondo leggi note, alle peculiari caratteristiche del mezzo. In particolare, la velocità di propagazione degli ultrasuoni, per quanto attiene al presente contesto, è proporzionale alla radice quadrata del rapporto tra la specifica costante elastica di interesse (che esprime il rapporto tra lo sforzo applicato al materiale e la corrispondente deformazione elastica) e la sua densità. Sarà perciò maggiore, per es., per l'osso che per il grasso. Anche l'assorbimento degli ultrasuoni è correlato al tipo di tessuto e aumenta con l'aumentare della frequenza ultrasonora. Come conseguenza dell'assorbimento, e anche a causa del fenomeno della divergenza, il fascio ultrasonoro subisce, durante il suo percorso, un'attenuazione, che aumenta all'aumentare del percorso e della frequenza Un'onda ultrasonora che incontra l'interfaccia che separa due mezzi di diversa densità, e quindi di diversa impedenza acustica, viene in parte riflessa e in parte rifratta (fig. 4.141). La riflessione, cui si deve l'eco di ritorno al trasduttore, è tanto maggiore quanto più marcata è la differenza di impedenza acustica tra i due mezzi e dipende dall'angolo di incidenza della radiazione sull'interfaccia. Dal punto di vista operativo, quindi, si deve cercare di tenere il trasduttore perpendicolare all'interfaccia che si vuole osservare (fig. 4.142). Formazione dell'immagine La capacità di risoluzione di un apparecchio a ultrasuoni ne definisce la possibilità di rappresentare fedelmente un determinato oggetto. La risoluzione assiale è la capacità del sistema di riconoscere due bersagli puntiformi situati lungo la direzione di propagazione del fascio. Solo se la lunghezza d'onda del fascio è inferiore alla distanza tra i due bersagli, questi potranno essere riconosciuti come distinti. Pertanto, in generale, la risoluzione assiale migliora diminuendo la lunghezza d'onda. Essendo, come è noto, la lunghezza d'onda inversamente proporzionale alla frequenza, più questa aumenta tanto migliore risulta la risoluzione assiale. La risoluzione laterale è la capacità del sistema di riconoscere due bersagli puntiformi che giacciono perpendicolarmente alla direzione di propagazione dell'onda. Essa dipende dalla forma del fascio stesso (minore è la dimensione del fascio, maggiore è la risoluzione laterale), che è determinata dalla forma e dalle dimensioni del trasduttore, oltre che dalla frequenza dell'eccitazione. Pertanto l'aumento della frequenza e del diametro migliorerà la risoluzione laterale. Per avere una buona risoluzione laterale senza modificare la frequenza del trasduttore o il diametro del cristallo, si può ricorrere alla focalizzazione, che si ottiene per mezzo di lenti acustiche che rendono il fascio più collimato. La risoluzione di contrasto dipende dalla capacità di riconoscere due zone con differente impedenza acustica, anche quando tale differenza è minima. Infatti, l'interfaccia che separa due aree aventi densità molto simile induce una minima riflessione del fascio. La risoluzione di contrasto è tanto maggiore quanto più il sistema è capace di rilevare anche echi riflessi di bassissima intensità. La risoluzione di contrasto dipende, tra l'altro, dal numero di livelli di grigio che il sistema è in grado di presentare, e, quindi, in ultima analisi, dall'accuratezza del sistema di rivelazione. La risoluzione spaziale, cioè la capacità di visualizzare un bersaglio in maniera il più possibile rispondente alla realtà, migliora anche aumentando il numero di linee che compongono l'immagine ecografica. Per fare ciò, è possibile aumentare il numero di cristalli che compongono il trasduttore stesso (trasduttore ad alta densità).

Apparecchi ecografici

Un apparecchio ecografico è essenzialmente costituito da: una sonda che trasmette e riceve il segnale; un sistema elettronico che pilota il trasduttore, genera l'impulso di trasmissione, riceve l'eco di ritorno della sonda e tratta il segnale ricevuto, temporizzando opportunamente l'azione di questi elementi; un sistema di visualizzazione dell'immagine ecografica. A seconda dell'esame da eseguire, per migliorare i risultati diagnostici si possono usare vari tipi di sonde o trasduttori (fig. 4.143 A e B). Il tipo lineare è formato da un'ampia cortina di elementi che, eccitati in successione, danno un'immagine rettangolare; consente un ampio campo di vista in superficie e più zone focali, ma è difficilmente manovrabile a causa della dimensione. Il tipo settoriale meccanico è un singolo cristallo oscillante o ruotante meccanicamente; il suo costo è limitato, ma l'ingranaggio, formato da strutture meccaniche in movimento, va incontro a frequente e più rapida usura. Il tipo settoriale elettronico (phased array) è costituito da una cortina di elementi che, eccitati in modo opportuno, creano un fascio cilindrico; presenta un'elevata maneggevolezza e più punti di focalizzazione, ma comporta una maggiore dispersione di echi e un costo elevato. Il tipo array settoriale è formato da una cortina di trasduttori su una superficie curva; i vantaggi relativi al suo uso sono rappresentati dall'assenza di ingranaggi in movimento, dall'avere più punti focali, dall'elevata maneggevolezza e, infine, dal costo ridotto; l'unico svantaggio è quello di formare un fascio non cilindrico. Il tipo anulare è costituito da più anelli concentrici oscillanti meccanicamente; questo tipo di sonda ha più punti focali e un fascio cilindrico, ma presenta l'inconveniente di avere strutture meccaniche in movimento, soggette a più facile usura. Il tipo convex utilizza una cortina di cristalli posti su una superficie curva, che danno un'immagine a tronco di cono con ampiezza adeguata al campo di vista; l'assenza di strutture meccaniche in movimento, l'avere più punti focali, una buona maneggevolezza e un costo non elevato costituiscono i principali vantaggi di questa sonda, il cui fascio, però, non è cilindrico. La tensione generata dal cristallo eccitato dall'eco di ritorno è proporzionale all'ampiezza dell'eco ed è molto bassa. Tale tensione deve essere amplificata, prima della elaborazione e della presentazione dell'immagine. Variando il tipo di trasduttore si possono ottenere immagini di differente formato, cioè differenti scansioni: con la scansione lineare il formato dell'immagine è rettangolare, il trasduttore usato è lineare, e i cristalli, posti l'uno accanto all'altro, vengono eccitati in successione; nella scansione settoriale il formato dell'immagine è a settore di circonferenza e i trasduttori usati possono essere meccanici a singolo cristallo, array o anulari; la scansione convex fornisce immagini a tronco di cono e i trasduttori usati sono, ovviamente, convex. Gli echi possono essere presentati in vari modi: nel modo A (A-mode, modulazione di ampiezza) ogni eco è rappresentata con un picco, la cui ampiezza corrisponde all'intensità dell'eco stessa; nel modo B (B-mode, modulazione di luminosità) ogni eco è rappresentata da un punto luminoso, la cui tonalità di grigio è proporzionale all'intensità dell'eco stessa; nel modo TM (Time motion) la presentazione dell'eco è in B-mode, ma il punto luminoso si sposta sullo schermo se l'eco corrisponde a una struttura in movimento. A causa del fenomeno dell'attenuazione, gli echi provenienti da strutture profonde saranno meno ampi di quelli provenienti da strutture simili più prossimali. Per questo motivo, è necessario semplificare maggiormente gli echi lontani, rispetto a quelli più vicini; ciò si ottiene per mezzo di un amplificatore, il cui guadagno aumenta in funzione del tempo, e quindi con l'aumentare della profondità di penetrazione.

Eco-doppler ed eco-color-doppler

L'applicazione degli ultrasuoni in medicina ha assunto notevole importanza nella diagnostica vascolare, grazie all'impiego dell'ecografia e della flussimetria doppler. Il flussimetro, contrariamente all'ecografo, è un dispositivo elettronico che fornisce informazioni sulla velocità del sangue nei vasi e il suo funzionamento si basa sull'effetto Doppler. Nelle apparecchiature più recenti le due metodiche, utilizzate nello studio degli organi e della dinamica dei fluidi, trovano applicazione in un unico strumento, chiamato eco-doppler, dotato di possibilità molteplici nel campo della diagnostica morfofunzionale. L'effetto Doppler L'effetto Doppler, dal nome del fisico austriaco che per primo descrisse questo fenomeno, è la variazione della frequenza della radiazione ricevuta da un bersaglio rispetto a quella emessa dalla sorgente, quando questi siano in moto relativo fra loro. In particolare, il fenomeno è basato sul fatto che l'onda sonora riflessa da una struttura in movimento rispetto alla sorgente che l'ha emessa ha una frequenza maggiore o minore rispetto alla frequenza dell'onda incidente, a seconda che il bersaglio si muova in avvicinamento (frequenza più alta) o in allontanamento (frequenza più bassa). L'entità dF del cambiamento della frequenza dipende dalla velocità del bersaglio e il fenomeno viene espresso, nella situazione descritta, con la formula matematica: dF = (2 vf/c) cos θ, dove il prodotto v cos θ rappresenta la velocità relativa verso la sorgente. La differenza tra la frequenza dell'onda incidente e quella dell'onda riflessa (detta doppler shift) risulta quindi uguale al doppio della velocità dell'oggetto esaminato (v), moltiplicata per la frequenza dell'onda incidente (f) e per il coseno dell'angolo compreso tra la direzione di movimento del bersaglio e la direzione del fascio ultrasonoro, diviso per una costante (c) che rappresenta la velocità del suono nel mezzo nel quale avviene la propagazione (nell'acqua essa è pari a 1540 m/s). L'angolo θ entra a far parte della formula in quanto raramente il bersaglio, nel nostro caso il sangue che scorre entro i vasi, si muove con velocità diretta verso il trasduttore. Poiché l'effetto Doppler è una conseguenza solo del movimento lungo questa direzione, quel che si ottiene è la componente della velocità lungo la direzione del fascio ultrasonoro. Da tale formula deriva che, conoscendo dF, è possibile avere informazioni riguardo alla velocità. Va sottolineato che, mentre la frequenza delle onde inviate e riflesse è di tipo ultrasonoro (nell'ordine dei MHz), e quindi non udibile dall'orecchio umano, la loro differenza giace nell'ordine dei kHz, cioè nell'ambito dell'udibile. Durante l'esecuzione dell'esame doppler, quindi, l'operatore ascolta dei suoni, la cui frequenza è in relazione diretta alla velocità dei globuli rossi all'interno del vaso in esame.

Apparecchi doppler

Si distinguono apparecchi doppler a emissione continua del fascio ultrasonoro (apparecchiature doppler) e a emissione pulsata del fascio ultrasonoro (apparecchiature eco-doppler ed eco-color-doppler). Gli apparecchi a emissione continua utilizzano sonde che contengono due cristalli piezoelettrici, uno dei quali funziona continuamente da emittente, l'altro da ricevente delle onde riflesse; questo sistema consente la rilevazione dei flussi vascolari, senza contemporanea visualizzazione del vaso. Si tratta di apparecchiature di elevata sensibilità, in grado di rilevare la presenza di flussi lenti e di piccola entità, ma incapaci di discriminare la profondità da cui provengono i segnali riflessi e di sommare tra loro quelli provenienti da tutti i vasi presenti all'interno del fascio ultrasonoro, anche se localizzati a profondità diverse (fig. 4.144). Sono pertanto prevalentemente utilizzate per esami di screening, in quanto di costo contenuto e di semplice utilizzo. Gli apparecchi a emissione pulsata utilizzano sonde in cui il trasduttore che emette un fascio di ultrasuoni pulsato funziona, alternativamente, da emittente e da ricevente. Ciò consente di ottenere informazioni su presenza, direzione e caratteristiche di flusso solo all'interno di singoli volumi di flusso, detti 'volumi campione', opportunamente scelti sotto guida dell'immagine ecografica. La fondamentale differenza con le apparecchiature di tipo continuo è che quelle effettuano un campionamento distrettuale, senza visualizzare direttamente i vasi esplorati, mentre queste visualizzano il vaso, consentendo un campionamento mirato. Gli apparecchi a emissione pulsata possono essere di due differenti tipi: eco-doppler (detti anche duplex) e color-doppler. Nelle apparecchiature eco-doppler il posizionamento del volume campione avviene sotto guida dell'immagine ecotomografica. Nel corso dell'indagine il trasduttore agisce come una normale sonda per ecografia lungo tutte le linee dell'immagine, a eccezione di una, lungo la quale, a una profondità scelta dall'operatore (sede di campionamento; fig. 4.145), si effettua l'analisi doppler. Pertanto, l'operatore può visualizzare contemporaneamente il vaso di interesse, posizionare all'interno di questo il volume campione in un punto preciso ed effettuare l'analisi doppler, in forma sia di tracciato velocimetrico sia di emissione sonora. Operatori esperti sono in grado di differenziare le varie caratteristiche di flusso anche soltanto dalla valutazione del suono, per quanto, ovviamente, il tracciato velocimetrico (la cosiddetta 'analisi spettrale'; fig. 4.146) renda più agevole l'interpretazione e l'effettuazione di misurazioni oggettive. La direzione del flusso, in avvicinamento o in allontanamento rispetto al trasduttore, viene riportata al di sopra (avvicinamento) o al di sotto (allontanamento) della linea di base. Le apparecchiature color-doppler consentono di rappresentare sotto forma di punti colorati le informazioni di flusso, rilevate momento per momento per effetto Doppler (fig. 4.147). I segnali vengono codificati secondo un codice cromatico e sovrapposti alle immagini vasali dell'esame ecografico. Nel corso dell'esame il trasduttore consente l'effettuazione delle valutazioni doppler in molteplici volumi campione, distribuiti uniformemente e simmetricamente su tutte le linee di vista dell'immagine, contemporaneamente alle normali valutazione ecografiche (fig. 4.148). Il flusso all'interno dei vasi esplorati viene rappresentato con un codice cromatico, in grado di indicare fondamentalmente tre diversi parametri: direzione, frequenza e varianza. Tipicamente, il colore rosso indica flusso in avvicinamento alla sonda; il colore blu, al contrario, flusso che si allontana (fig. 4.149). Le differenze in velocità dei diversi segnali vengono rappresentate in forma di differenti gradazioni di saturazione del colore: colori meno saturi, vale a dire più chiari, indicano velocità più alte; colori più saturi, cioè più scuri, indicano la situazione opposta. Ovviamente, è possibile effettuare un'analisi velocimetrica con campionamento singolo (tipo eco-doppler), utilizzando il segnale a colori per identificare la sede di interesse, ove effettuare il campionamento mirato (fig. 4.150). È importante segnalare che le velocità riportate in forma di pixel colorato all'esame color-doppler sono sempre velocità medie, mentre nell'analisi spettrale sono riportate tutte le frequenze rappresentate nel singolo volume campione. L'ovvio vantaggio del color-doppler è dato dalla possibilità di effettuare valutazioni morfodinamiche in tempo reale su tutto l'ambito vascolare esplorato, identificando con estrema facilità sedi di alterazioni flussimetriche, difficilmente valutabili con un esame eco-doppler, se non con un improbabile campionamento punto per punto (fig. 4.151, 4.152, 4.153). Un'importante innovazione tecnica successiva è rappresenta dal cosiddetto power-doppler, un sistema in grado di rappresentare sullo schermo la presenza di flusso all'interno dei vasi, basandosi sul parametro di ampiezza del segnale, rappresentato dal numero di globuli rossi all'interno del volume campione. I normali esami eco-color-doppler riportano infatti informazioni su due dei tre più importanti parametri di flusso, cioè velocità e direzione, mentre l'ampiezza del segnale è pressoché misconosciuta. Con il sistema power-doppler, i vasi contenenti numerosi globuli rossi vengono visualizzati con colori di tonalità brillante, mentre vasi con pochi globuli rossi sono rappresentati con colori più scuri. Questo sistema consente di identificare con estrema sensibilità la presenza di flusso, anche in vasi piccoli e con flusso particolarmente lento, senza però fornire informazioni su direzione e velocità. Da un punto di vista strettamente pratico le applicazioni della nuova metodica non sono ancora correttamente definite: la maggior parte degli studi esistenti riguarda la valutazione anatomotopografica della vascolarizzazione renale (fig. 4.154).

Risonanza magnetica

La risonanza magnetica (RM) è una tecnica diagnostica che consente l'acquisizione di immagini di sezioni del corpo umano attraverso l'analisi del segnale elettromagnetico prodotto da nuclei atomici indotti ad assumere situazioni energetiche di equilibrio in un campo magnetico statico e successivamente eccitati da onde di radiofrequenza. Principi fisici Il principio su cui si basa la risonanza magnetica è che se un fascio di radiazioni elettromagnetiche di grande lunghezza d'onda attraversa un materiale in presenza di un campo magnetico le modalità di assorbimento delle radiazioni danno informazioni sulla struttura della materia attraversata. In particolare, il fenomeno della risonanza magnetica si fonda sulle proprietà magnetiche dei nuclei dell'idrogeno (cioè i protoni), l'elemento più rappresentativo del corpo umano, che è formato in percentuale rilevante da acqua, H₂O. I protoni sono particelle cariche positivamente, che si comportano come se fossero in costante movimento rotatorio attorno al proprio asse; il momento angolare intrinseco che è necessario attribuire alla particella, indipendentemente dal suo moto nello spazio, per interpretarne il comportamento sperimentale viene definito spin. Il momento angolare risultante da quelli di spin e orbitali conferisce all'atomo, al nucleo o allo ione la proprietà di un dipolo magnetico (fig. 4.155). Quando si pone un paziente in un apparecchio RM (fig. 4.156 e 4.157), i protoni, assimilabili a dipoli magnetici, si allineano nella direzione del campo magnetico esterno, orientandosi secondo un verso parallelo o antiparallelo. Lo stato a più bassa energia (direzione parallela) viene preferito (fig. 4.158). I protoni, inoltre, non sono statici, ma hanno un movimento (detto di precessione) attorno alle linee di campo magnetico, che è paragonabile a quello di una trottola (fig. 4.159). La velocità di precessione misurata come frequenza di precessione è direttamente proporzionale all'intensità del campo magnetico. I protoni allineati nel verso parallelo, più favorevole perché a più bassa energia, eccedono di poco quelli allineati in senso antiparallelo. Questo eccesso di protoni in un verso determina lo stabilirsi di una magnetizzazione longitudinale, cioè orientata lungo l'asse maggiore del campo magnetico esterno (fig. 4.160). Essendo però impossibile la rilevazione di tale segnale, è necessario perturbare questo equilibrio, al fine di rendere misurabile dall'esterno l'entità del fenomeno. A questo scopo viene inviato un impulso di radiofrequenza (RF), con frequenza uguale alla velocità di precessione dei protoni. L'effetto di questo impulso sui protoni è duplice: in primo luogo, essi assumono energia, passando dal verso parallelo a quello antiparallelo, con conseguente diminuzione della magnetizzazione longitudinale; inoltre, sincronizzano il loro movimento ('precedono in fase'). In conseguenza di questi fenomeni si annulla la componente longitudinale della magnetizzazione e si stabilisce una magnetizzazione trasversale. Quando l'impulso è interrotto, i protoni cominciano a cedere energia e si rilassano. Questo comporta il ripristino della magnetizzazione longitudinale che avviene in un determinato lasso di tempo. Si definisce quindi come tempo di rilassamento T₁ il tempo necessario per riacquistare una frazione (il 63%) della magnetizzazione longitudinale (fig. 4.161). Contemporaneamente, la magnetizzazione trasversale diminuisce fino a scomparire; l'intervallo di tempo necessario affinché la magnetizzazione decresca del 37% rispetto al valore originale viene definito come tempo di rilassamento T₂ (fig. 4.162). Questi parametri dipendono, in diversa misura, dal microambiente chimico che circonda ogni singolo nucleo e dalle interazioni tra i protoni. Più semplicemente, si può dire che l'impulso di RF ribalta la magnetizzazione di 90° su di un piano trasversale, rendendola quindi misurabile come segnale dall'esterno. Se il tempo che intercorre tra due impulsi successivi è lungo, la magnetizzazione longitudinale sarà ormai recuperata totalmente, e quella trasversale ottenuta al successivo impulso sarà massima. Se invece il secondo impulso è inviato dopo un tempo breve, quando la magnetizzazione longitudinale non è ancora completamente recuperata, la componente trasversale sarà minore. Il tempo che intercorre tra i due impulsi è definito tempo di ripetizione (TR) e può essere variato dall'operatore. Nella sequenza di impulsi definita spin-echo, la più comunemente usata, tra i due impulsi a 90° è inserito un terzo impulso a 180° (fig. 4.163). Infatti, dopo il primo impulso a 90°, con il quale i protoni perdono la fase a causa della disomogeneità del campo magnetico interno ed esterno, e quindi la capacità di fornire un segnale intenso, un secondo impulso a 180° li rifasa, dando vita a un segnale di eco più elevato. Il tempo che intercorre tra l'impulso a 90° e l'eco è definito tempo di eco (TE) e può essere variato dall'operatore. Selezionando TE differenti, i segnali possono essere valutati ('pesati') in base al T₂. Più precisamente, con TE molto brevi gli effetti T₂ non hanno avuto ancora il tempo di evidenziarsi del tutto, mentre con TE più lunghi l'intensità del segnale differisce tra i tessuti e dipenderà molto dai loro T₂, cioè dai loro tempi di rilassamento trasversale.

Formazione delle immagini

Operativamente, le fasi di esecuzione di un esame RM possono essere così riassunte: il paziente viene posizionato in un magnete; viene inviato un impulso di radiofrequenza; l'impulso viene interrotto; il paziente emette un segnale che viene rilevato e usato per la ricostruzione delle immagini. La RM fornisce immagini dei diversi organi e strutture che si basano sulla distribuzione nel loro contesto dei nuclei mobili contenuti nell'acqua e nei lipidi. Il grasso, il midollo osseo e l'osso spongioso danno segnali molto intensi; non dà invece segnale l'osso compatto, così come il sangue in moto laminare. In quest'ultimo, lo spostamento rapido dei nuclei interferisce nel meccanismo di genesi e rilevazione del segnale. Si possono ottenere immagini differenti variando alcuni parametri durante l'esecuzione dell'esame. Per es., variando i parametri del tempo di ripetizione dell'impulso e del tempo di eco, TR e TE, si può esaltare l'intensità del segnale proveniente da un tessuto rispetto a un altro. Se utilizziamo un TR e un TE lunghi, diremo che l'immagine è T₂-pesata: in tali immagini l'acqua appare bianca (iperintensa) rispetto al parenchima; se invece sono entrambi brevi, diremo che l'immagine è T₁-pesata: in questo caso, avendo l'acqua un TR lungo, il segnale del liquido sarà nero (ipointenso); se, infine, utilizziamo un TR lungo e un TE breve, l'immagine che ne risulta è influenzata principalmente dalla densità protonica dei tessuti e viene pertanto definita a densità protonica (fig. 4.164). La scelta dei parametri programmabili si ripercuote in maniera decisiva sui tempi di scansione, sulla qualità dell'immagine e sulla risoluzione spaziale. La RM fornisce rilievi morfologici spesso più risolutivi rispetto a quelli della TC. Le immagini del cervello, per es., superano di gran lunga quelle ottenute con la TC per ricchezza di informazione anatomica; il midollo spinale si può studiare in maniera non invasiva; mentre l'occhio è evidenziato in tutte le sue componenti. A livello cardiaco, la distinzione delle pareti, dei setti, delle valvole atrioventricolari, delle camere cardiache, dei grossi vasi è agevole, consentendo una valutazione più accurata delle malformazioni. Per gli organi addominali si offrono nuove possibilità di studio, specie con l'utilizzo di particolari sequenze. Importanti innovazioni si prospettano inoltre per altri organi e apparati: nella colonna vertebrale, per es., la perfetta rappresentazione dei dischi intersomatici rende possibile una dimostrazione diretta e incruenta delle ernie. Il vantaggio maggiore della RM è però correlato all'utilizzo di radiazioni non ionizzanti, che la rendono una tecnica sicura, al punto da poter essere utilizzata anche in gravidanza. La natura e l'intensità degli eventi fisici in gioco è tuttavia tale da prospettare alcuni eventi potenzialmente pericolosi: effetti magnetomeccanici (torsione delle clip chirurgiche), effetti magnetoelettrici (induzione di correnti elettriche endotessutali), riscaldamento tessutale. Per tali motivi l'esame è assolutamente controindicato in pazienti portatori di elementi metallici non compatibili (clips, spirali, filtri cavali) a livello vascolare.

Radiologia interventistica

Contemporaneamente alla diffusione di nuove apparecchiature, si è andata affermando sempre più una nuova branca dell'imaging, la radiologia interventistica, nella quale al momento diagnostico si associa estemporaneamente un intervento terapeutico, in grado di sostituire atti chirurgici più complessi. Le manovre di radiologia interventistica si sono rivelate fondamentali nel trattamento di alcune condizioni patologiche, in situazioni sia di emergenza sia di elezione. Rispetto alla chirurgia, la radiologia interventistica, oltre a essere generalmente meno invasiva, offre la possibilità di operare in anestesia locale e in ambulatorio, comporta minori rischi e complicanze post-intervento ed è gravata da costi di ospedalizzazione ridotti. Attraverso vie di accesso percutanee, dirette o mediante il passaggio in vasi sanguigni, e con il sicuro monitoraggio di mezzi di imaging, come ecografia, tomografia computerizzata e radioscopia, si introducono nel corpo umano strumenti idonei all'azione terapeutica o diagnostica, giungendo nella sede della patologia per operarvi selettivamente. Si possono così inserire aghi di varie dimensioni per eseguire prelievi bioptici, controllandone la direzione e la posizione; introdurre e fare avanzare cannule attraverso cui posizionare fili guida e su di questi inserire cateteri per gli scopi terapeuticodiagnostici più svariati. La guida ecografica e TC consente la corretta visualizzazione di aghi di varia dimensione, che possono essere impiegati per raggiungere strutture profonde, a scopi sia diagnostici sia terapeutici. Le principali metodiche basate su questa tecnica sono: la biopsia, prelievo di materiale (frustolo di tessuto per valutazione istologica o aspirato cellulare per valutazione citologica) per diagnosi di natura (diagnosi di malignità in caso di lesioni focali a livello di diversi organi parenchimali); l'alcolizzazione, iniezione selettiva di alcol puro a effetto necrotizzante in lesioni maligne epatiche (epatocarcinoma; in alternativa è possibile utilizzare sostanze differenti, per es. soluzione salina sterile a elevata temperatura); la termoablazione a radiofrequenza, introduzione di aghi-elettrodi in grado di trasmettere nel tessuto impulsi di radiofrequenza (RF), che generano calore intenso con effetto necrotizzante; l'ablazione laser, introduzione di sottili fibre ottiche in grado di trasmettere nel tessuto energia luminosa (laser) che genera calore intenso con effetto necrotizzante. Le procedure bioptiche consentono di effettuare precise diagnosi di natura su lesioni in organi superficiali (tiroide, mammella, linfonodi) e profondi (fegato, pancreas, rene, polmone, strutture ossee), già identificate con metodiche di imaging convenzionale. Le procedure ablative, attraverso l'induzione di necrosi tessutale selettiva, limitata cioè all'area di interesse e a una piccola area di parenchima sano circostante, consentono un approccio terapeutico mini-invasivo, che rappresenta senza dubbio una valida alternativa al più tradizionale approccio chirurgico. Queste considerazioni assumono maggior rilievo quando si tratti di lesioni benigne (angiomi epatici a rapida crescita, adenomi tiroidei o paratiroidei, osteomi osteoidi), ma soprattutto in caso di lesioni maligne (carcinoma epatocellulare di piccole dimensioni, metastasi epatiche). Drenaggio di raccolte fluide Per 'raccolta fluida' si intende l'accumulo di materiale liquido, contenente o meno elementi cellulari, che può essere essenzialmente di natura ematica (ematomi), cistica (cisti epatiche e renali, pseudocisti pancreatiche) o purulenta (ascessi nel contesto di organi, quali il fegato o il polmone, o al di fuori di essi, negli spazi peritoneali). Il drenaggio di tali raccolte consiste nell'accedere a esse e nel portare il materiale al di fuori del luogo di accumulo. Fino ad alcuni anni or sono il drenaggio veniva eseguito quasi esclusivamente per via chirurgica. Attualmente, le tecniche di radiologia interventistica consentono di praticare il drenaggio percutaneo, che rispetto alla terapia chirurgica offre il vantaggio di evitare l'anestesia generale e lo stress chirurgico in pazienti generalmente debilitati, nonché l'apertura del peritoneo, eliminando così il rischio di diffondere l'ascesso in altre sedi. Utilizzando come guida visiva l'immagine TC, è possibile identificare la via di accesso più precisa e sicura alla raccolta da drenare e al tempo stesso procedere direttamente alla puntura con ago-cannula. La procedura viene eseguita anche con l'ausilio del fluoroscopio (fig. 4.165).

Embolizzazioni

Per embolizzazione si intende l'immissione di materiali di varia natura nel circolo arterioso, allo scopo di provocare un'occlusione in un particolare settore vascolare. Il rilascio di tali materiali avviene con l'ausilio di cateteri angiografici introdotti per via percutanea a livello dell'arteria femorale o, più raramente, dell'arteria ascellare, secondo la metodica nota come 'tecnica di Seldinger' (fig. 4.166), e fatti avanzare, sotto guida fluoroscopica, nel distretto arterioso voluto. L'effetto occlusivo sulla circolazione arteriosa può rendersi necessario in caso di emorragie gastrointestinali o polmonari, o nell'evenienza di malformazioni arterovenose. Nel momento in cui un esame angiografico di urgenza evidenzia un focolaio di sanguinamento importante, può essere presa in considerazione la possibilità di eseguire una embolizzazione percutanea. Il catetere usato per l'esame viene quindi sospinto nel vaso sospettato di essere responsabile dell'emorragia e in esso vengono iniettati differenti tipi di materiale embolizzante, come coaguli autologhi, frammenti di spugna di fibrina, spirali metalliche, monomeri che polimerizzano a contatto con i liquidi organici. Tale procedura consente o di risolvere definitivamente in prima istanza l'emorragia o di programmare l'intervento chirurgico risolutivo in condizioni di elezione. Anche le malformazioni arterovenose, specie nei distretti cervicale e facciale, possono richiedere un trattamento embolizzante in elezione o allo scopo di facilitare un intervento chirurgico. Possono beneficiare di un trattamento embolizzante anche alcune forme tumorali, in quanto, abolendo selettivamente l'apporto arterioso, si determina una necrosi del tessuto patologico. La radiologia interventistica ha un ruolo molto importante soprattutto nei tumori primitivi epatici (epatocarcinomi), spesso non operabili per le condizioni di alto rischio chirurgico del paziente. Attualmente, infatti, è largamente impiegata la chemioembolizzazione, in cui il materiale embolizzante, rappresentato da olio di semi di papavero, viene emulsionato con un farmaco antitumorale e iniettato selettivamente, tramite catetere, nell'arteria epatica o nel ramo di questa che direttamente afferisce alla lesione tumorale TIPS La difficoltà nel trattamento del sanguinamento da varici gastroesofagee nei pazienti cirrotici ha sollecitato la formulazione e la sperimentazione di protocolli terapeutici sempre nuovi. Valida alternativa al trattamento chirurgico si è rivelata la derivazione porto-sistemica intraepatica percutanea per via transgiugulare, o TIPS (Transjugular intrahepatic porto-systemic shunt; fig. 4.167). La TIPS non deve essere però considerata una procedura terapeutica risolutiva dei problemi clinici connessi alla cirrosi, ma piuttosto una soluzione rapida e a bassa invasività per ottenere una decompressione del sistema portale. Clinicamente, la sua migliore applicazione è quella che riguarda i pazienti in attesa di trapianto, i quali necessitano di risultati immediati, anche se non duraturi nel tempo: in questi pazienti, infatti, tale metodica offre la possibilità, attraverso la riduzione della pressione portale, di affrontare l'intervento con un maggiore 'comfort' chirurgico e con minori rischi di eventuali emorragie, che rappresentano talora una causa di morte.

Drenaggi biliari percutanei transepatici

Nei pazienti con ittero ostruttivo, l'intervento chirurgico di urgenza può essere sostituito dall'applicazione di un catetere di drenaggio biliare percutaneo, che offre una terapia palliativa soprattutto in caso di stenosi da tumore maligno. Dopo una colangiografia percutanea (esame radiologico delle vie biliari eseguito mediante introduzione di una sostanza radioopaca per via percutanea transepatica), le vie biliari vengono punte con ago-cannula, sotto guida fluoroscopica. Successivamente, si introduce una guida metallica, sulla quale si fa scorrere un catetere con numerosi fori laterali, che può funzionare per drenaggio esterno. Nel caso di stenosi, questa può essere valicata e si può introdurre il catetere in maniera tale da operare un drenaggio o posizionare una protesi per stabilire una comunicazione definitiva tra le vie biliari e l'intestino (fig. 4.168-fig. 4.169).

Trombolisi, angioplastica transluminale percutanea e stent vascolari

Patologie come l'aterosclerosi, nelle fasi più avanzate, comportano alterazioni in vari distretti del circolo arterioso, quali stenosi (restringimenti del lume) o trombosi (ostruzioni totali da formazione intraluminale di coaguli ematici), con conseguenze legate al diminuito afflusso vascolare. Fino a qualche anno fa, patologie vascolari di questo genere venivano trattate esclusivamente per via chirurgica, con esecuzione di by-pass o embolectomia. Soprattutto nelle arteriopatie periferiche degli arti inferiori, la radiologia interventistica si sostituisce oggi in molti casi alla chirurgia, con risultati di efficacia comparabile. Nel trattamento delle trombosi acute, per es., molto efficace è risultata la tecnica di trombolisi, mediante la quale si infonde, nella sede colpita, un farmaco capace di dissolvere il trombo. Mentre l'intervento chirurgico rimane il trattamento di scelta nei casi di ischemia grave e di ostruzioni complete di vecchia data, la radiologia interventistica, con la angioplastica transluminale per via percutanea (PTA), si è rivelata una valida alternativa in tutti gli altri casi di stenosi, comportando una bassa mortalità e morbosità e costi relativamente contenuti. A tale scopo viene utilizzato uno specifico catetere angiografico, che al suo estremo distale porta un 'palloncino' gonfiabile, di forma affusolata, disponibile in diverse lunghezze e calibri (fig. 4.170). Il catetere viene sospinto fino al livello della stenosi e poi gonfiato, in modo tale da indurre lo schiacciamento della placca ateromasica responsabile della stenosi, con conseguente ripristino del lume vasale. In caso di insuccesso o complicanza, in alternativa alla PTA si può ricorrere al posizionamento, sempre per via percutanea, di uno stent intravascolare (fig. 4.171). Questo dispositivo è costituito in genere da una maglia di lega metallica a forma cilindrica: una volta posizionato chiuso, a livello del tratto stenotico, esso si espande (o viene espanso con catetere a palloncino) ed esercita una forza radiale sulle pareti del vaso, mantenendolo pervio.

Filtri cavali

La prevenzione dell'embolia polmonare in pazienti a rischio mediante posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore è una procedura che rientra ormai nella comune pratica clinica. Infatti, il posizionamento di un filtro per via percutanea attraverso la vena giugulare destra è attualmente preferito all'intervento chirurgico di legatura della vena cava inferiore. Il filtro, costituito in genere da una struttura metallica, ha lo scopo di bloccare tra le sue maglie gli emboli provenienti dal distretto venoso più distale, che altrimenti giungerebbero nel circolo arterioso polmonare, provocando embolie di entità variabile a seconda delle loro dimensioni (fig. 4.172). Sono stati ideati numerosi filtri, che differiscono tra loro per facilità di posizionamento, potere filtrante e capacità di dislocazione.

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