La diplomazia

L'Unificazione (2011)

La diplomazia

Fabio Grassi Orsini
Gerardo Nicolosi

«Torneremo da capo e faremo meglio»: è con queste parole che il moderato Massimo d’Azeglio, presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 7 maggio del 1849, sintetizzava l’urgenza di un processo riformatore che avrebbe dovuto essere la dimostrazione concreta della volontà di re e governo di mantenersi su un terreno costituzionale e liberale, in modo tale da disarmare democratici rivoluzionari, da una parte, e destra reazionaria, dall’altra. Si trattava di imprimere un nuovo corso alla politica del Regno di Sardegna, rimuovere i retaggi di ancien régime, dare un nuovo ordine alle istituzioni, rinnovare gli uomini: «io cerco di ripristinare la disciplina ovunque – scriveva d’Azeglio a un amico pochi giorni dopo aver l’assunto l’incarico di capo del governo, nel clima di sbandamento seguito alla sconfitta di Novara del marzo 1849 – e non pretendo né di prepararmi il terreno per degli incarichi a venire, né di avere il consenso dei mazziniani, io vado diritto per la mia strada, senza altra preoccupazione che il bene pubblico e il mio dovere» (d’Azeglio 1867, p. 65).

Per una diplomazia al passo coi tempi: le riforme d’Azeglio

A questo cambio di passo del governo del proclama di Moncalieri e delle leggi Siccardi va ascritta anche una riforma della Segreteria di stato per gli Affari esteri che può essere considerata il momento genetico di una diplomazia nazionale. Assunto l’interim degli Esteri, d’Azeglio procedette infatti a una vera e propria epurazione del vecchio personale e a una riorganizzazione dell’amministrazione, la cui ultima struttura risaliva agli anni di Clemente Solaro della Margarita, ministro degli Esteri dal 1835 al 1847. In questa sua opera di riforma fu coadiuvato prima da Luigi Federico Menabrea, un moderato di origini savoiarde, destinato a una fortunata carriera politica e diplomatica, e poi da Marco Alessandro Jocteau, un funzionario di carriera che, dopo la pace di Milano del 1849 tra Austria e Regno di Sardegna, era stato nominato consigliere del re: due personaggi poco amati dagli ambienti più liberali, giudicati quasi simboli di una possibile reazione savoiarda. Menabrea fu costretto a dimettersi per essersi espresso in Parlamento contro le leggi Siccardi, ma Jocteau, nonostante i duri attacchi di giornali come «L’Opinione» o «La Gazzetta del Popolo», fu difeso da d’Azeglio, evidentemente per controbilanciare in direzione di casa Savoia gli interventi più progressivi della riforma.

Per comprendere appieno l’importanza degli interventi azegliani è necessario mettere in evidenza come al tempo gli Affari esteri fossero un terreno quasi di esclusivo appannaggio del re e ciò non solo nel piccolo Regno di Sardegna. Non dimentichiamo che l’art. 5 dello Statuto albertino letteralmente faceva del re il titolare del potere esecutivo: capo supremo dello Stato, il sovrano comandava le forze di terra e di mare, dichiarava la guerra, faceva «i trattati di pace, d’alleanza, di commercio e altri», affidandogli quindi una posizione di preminenza nei rapporti internazionali. La stessa natura del processo decisionale della politica estera favoriva quanto mai un’interpretazione restrittiva della lettera statutaria, se si tiene conto di un quadro complessivo in cui tradizionalmente l’attività diplomatica si sviluppava attraverso persone di fiducia del re. Giova ricordare che questo rapporto fiduciario caratterizza tutto il periodo della cosiddetta «diplomazia classica», che si fa partire dal Congresso di Vienna: un rapporto quanto mai saldo che andrà parzialmente incrinandosi con il progressivo affermarsi dei governi rappresentativi.

Il regolamento per l’ammissione degli aspiranti alla carriera della Segreteria di Stato per gli Affari esteri, approvato dal governo d’Azeglio con decreto reale il 23 ottobre 1849, toccava invece uno dei gangli del sistema dinastico-fiduciario, e cioè quello del reclutamento, rispetto al quale l’essere un soggetto di nobili natali o comunque vicino a corte era requisito primo per l’accesso nei ruoli. Il nuovo sistema per esami introdotto da d’Azeglio e Menabrea, che si avvalsero del consiglio di Cristoforo Negri, segretario capo di divisione del ministero a partire dal 1848, costituiva un fattore di forte innovazione. Che il provvedimento fosse mirato alla creazione di una nuova classe di diplomatici capace di affrontare le sfide dei tempi nuovi è attestato dalla volontà di d’Azeglio di istituire anche una Scuola superiore di preparazione alla carriera diplomatica, per la quale si avvalse della collaborazione di Pasquale Stanislao Mancini, esule napoletano in Piemonte, insigne giurista liberale dell’università di Torino, destinata negli anni successivi a giocare un ruolo di vivaio delle nuove élites politico-amministrative. Il progetto di Mancini non trovò una realizzazione, ma quanto si può leggere in esso a proposito del governo piemontese e di casa Savoia come dei «soli a cui potrà concedere il cielo un avvenire d’influenza e di tutela sui destini dell’intera penisola, per indirizzarla al sospirato fine della sua liberazione dalla servitù straniera» (Moscati 1947a, p. 29) attesta la presenza, al 1849, di una classe dirigente dai propositi liberali e unitari già ampiamente definiti.

Assieme alla rivisitazione del sistema di reclutamento, ora ispirato a criteri di meritocrazia, il governo provvide a istituire una commissione per la revisione dei regolamenti delle tre carriere ministeriali – diplomatica, interna d’amministrazione e consolare – e per la classificazione degli impiegati, che ebbe anche il compito, appunto, di collocare a riposo quei funzionari considerati retrivi. I lavori della commissione sfociarono nel regio decreto 12 luglio 1850 che organizzava l’amministrazione in quattro divisioni, non molto diversamente da quanto era stato deciso sin dal 1816. Ma era la prima volta che l’ordinamento del ministero veniva stabilito per decreto, il che, come ha scritto Luigi Vittorio Ferraris, rientrava «nel quadro della fervida opera riformatrice del decennio di preparazione» e aveva una sua ragion d’essere nel carattere liberale dello Stato (Ferraris 1955, p. 8).

La diplomazia cavouriana: dal regolamento Salmour alla creazione della Direzione delle province italiane

L’azione riformatrice di d’Azeglio è destinata a non arrestarsi, anzi a ritrovare nuovo slancio con l’arrivo nelle sfere ministeriali del conte di Cavour, che nel campo specifico dell’amministrazione degli affari esteri deve essere messo in relazione con la personale interpretazione che lo statista piemontese dette del sistema costituzionale e con la visione che egli ebbe dei rapporti internazionali per la soluzione della questione nazionale. Sotto questo aspetto, Cavour è perfetto interprete di una linea moderata che aveva avuto nel Cesare Balbo delle Speranze d’Italia (1844) uno dei primi sostenitori: linea basata sulla convinzione che la soluzione della questione italiana fosse intimamente legata all’evoluzione del quadro internazionale e che posizionava gli affari esteri al centro dell’azione di governo. Come ha scritto con efficaci parole Adolfo Omodeo, dopo il 1848, per Cavour il problema era «dare splendore di opere e saldezza di fondamenta» al regime costituzionale, «esplicare tutta la ricchezza di cui era capace il liberalismo» e appunto «inserire questo ravvivato regno di Sardegna nella diplomazia europea, di cui il Cavour scorgeva mirabilmente il gioco e gli ingranaggi» (Omodeo 1965, p. 381).

Rispetto al passaggio da una diplomazia al servizio personale del monarca, così come si può dire che si configurasse nei sistemi di regime assoluto, a una diplomazia che diventa invece strumento di politica governativa tipica dei sistemi rappresentativi di tipo moderno, gli anni di Cavour al potere hanno un’importanza decisiva. Su questa ancora timida trasformazione incide la parlamentarizzazione del sistema che si registra a partire dai primi anni Cinquanta.

In questo senso, il 1855 segna un momento di svolta. Sostituitosi al ministro degli Esteri Giuseppe Dabormida, dimissionario dal 10 gennaio 1855, Cavour dopo aver apposto la sua firma all’atto di accessione all’alleanza franco-inglese in vista della guerra di Crimea, volle che il trattato fosse sottoposto a un dibattito parlamentare, che infatti si aprì alla Camera il 26 gennaio. Ciò costituirà un caso isolato in tutta la storia dell’Italia liberale, dato che per i trattati di alleanza il Parlamento fu praticamente sempre eluso, sino agli accordi Prinetti-Barrère del 1902 e al Patto di Londra del 1914, di cui le Camere vennero a conoscenza soltanto quando il primo conflitto mondiale stava per concludersi. Anche il re voleva quella alleanza, ma indipendentemente da questo si trattava di un atto di grande significato politico, voluto dal presidente del Consiglio per dare maggior forza parlamentare alla sua azione di governo e soprattutto per rimarcare il carattere liberale dell’intervento, come d’altronde lo stesso Cavour sottolineò in chiusura del suo discorso alla Camera del 6 febbraio, in risposta all’incalzante opposizione della Destra di Ottavio Thaon di Revel e Solaro della Margarita e della Sinistra di Angelo Brofferio.

Su questa erosione della prerogativa regia negli affari internazionali ebbe certo anche un peso la forte personalità del leader e il suo relazionarsi con il sovrano, con il quale i rapporti non furono sempre lineari. Un primo momento di scontro si registrò a seguito del dibattito sulla soppressione degli ordini religiosi, che si aprì alla Camera nello stesso periodo, il 9 gennaio 1855, quando si arrivò a una contrapposizione frontale tra Cavour e Vittorio Emanuele II. Indotto a dare ascolto ai clericali, che si opponevano ai provvedimenti sui beni ecclesiastici, il re era intenzionato a sottrarre il potere al presidente del Consiglio, tentativo che non riuscì per la difficoltà di trovare una maggioranza parlamentare alternativa. La vittoria di Cavour in quella che venne chiamata la «crisi Calabiana», dal nome del senatore e arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, ebbe le conseguenze più rilevanti proprio sul piano costituzionale, perché il re era stato battuto da una maggioranza parlamentare su una questione di indirizzo politico ed era stato costretto da questa stessa maggioranza a richiamare un ministro che era stato da lui licenziato.

Riconfermato alla guida del governo, per fare in modo che la politica estera del Regno di Sardegna non perdesse di vista gli obiettivi del movimento nazionale italiano, Cavour riassumerà l’interim degli Esteri, dopo aver partecipato in prima persona al congresso di Parigi (febbraio-aprile 1856), mantenendo la carica dal 5 maggio 1856 al 19 luglio 1859, anni in cui dette prosecuzione al processo di riforme avviato da d’Azeglio. Già una legge organica del 23 marzo 1853 aveva fatto dell’amministrazione centrale il cuore dell’organismo statuale, la cui razionalizzazione avrebbe dovuto permettere un miglior adempimento dei compiti unitari. Con questa legge furono istituite due figure chiave come quella del segretario generale, che in realtà era una rivisitazione della carica del «primo ufficiale» sardo, con il compito di garantire la continuità amministrativa indipendentemente, almeno sulla carta, dell’avvicendarsi dei governi, e del segretario particolare del ministro, o di gabinetto, che invece dipendeva dalla scelta del ministro e che per l’Interno e gli Esteri poteva riguardare anche una persona esterna all’amministrazione.

Sin dalle origini, al ministero degli Esteri andò però instaurandosi la prassi per cui al segretario particolare vennero affidate mansioni strettamente amministrative, mentre il segretario generale, proprio per la sua posizione di più alto funzionario subordinato al ministro e in continuo rapporto con il corpo diplomatico, ebbe funzioni sia amministrative che strettamente politiche. Così, mentre la carica di segretario particolare del rinnovato ministero degli Esteri fu ricoperta dall’avvocato Giovanni Battista Barbavara di Gravellona, al quale si deve poi la nuova legge consolare approvata il 15 agosto 1858, non è un caso se quella di segretario generale venne rivestita dal conte Ruggiero Gabaleone di Salmour, nominato il 5 maggio 1856, lo stesso giorno in cui alla direzione degli Esteri Luigi Cibrario veniva sostituito da Cavour. Salmour era infatti un fedelissimo del conte, che lo aveva già voluto con sé al dicastero delle Finanze, ed era a lui legato da amicizia sin dagli anni giovanili dell’Accademia militare di Torino, dalla quale erano usciti ambedue come ufficiali del corpo del genio militare. I due erano vicini per sentimenti politici e per interessi culturali. E Salmour – deputato cavouriano al Parlamento subalpino, agrario impegnato nel miglioramento delle proprie tenute, studioso del credito fondiario e autore di alcuni saggi che costituirono materia per iniziative legislative sul tema – ebbe sempre ampio spazio nella direzione degli affari esteri, nei momenti in cui Cavour era maggiormente preso dalla sua carica alle Finanze. A dimostrazione del suo ruolo politico, sta il fatto che Salmour fu inviato straordinario presso la corte del re di Napoli, alla vigilia della guerra con l’Austria, quando tentò inutilmente di guadagnarlo alla causa italiana.

È a Salmour che si deve il Regolamento del servizio interno del ministero degli Affari esteri approvato da Cavour il 22 dicembre del 1856. Senza entrare nel merito dei 202 articoli di cui esso si compone, anche in questo caso non si può non sottolineare il significato politico di disposizioni volte a rendere quel dicastero un agile strumento di una politica estera adeguata ai tempi. È da questo momento, per esempio, che viene prescritto per i capi degli uffici l’uso di presentare relazioni annuali sull’attività esplicata, così come i segretari di legazione e gli addetti ai consolati sono tenuti a presentare relazioni di carattere politico o storico-statistico sui paesi di residenza. Attraverso tali disposizioni si razionalizzava una sfera di attività prima in gran parte demandata a una dimensione personale, responsabilizzando quindi tutto l’apparato attraverso una specializzazione del lavoro. È lecito presumere che in questi anni tra gli appartenenti al corpo preposto alla cura degli affari esteri vada formandosi una coscienza della particolarità delle proprie funzioni e, quindi, uno spirito di corpo che spinge in direzione di una maggiore autonomia e che ha indubbiamente delle conseguenze anche riguardo a una progressiva, lenta, emancipazione dalla dimensione regia.

Altro aspetto da mettere in evidenza è la tendenza di Cavour ad affidarsi a elementi della borghesia, limitando il tradizionale potere dell’aristocrazia, ciò che favorirà una trasformazione delle élites politico-amministrative. Su 76 funzionari del ministero degli Affari esteri entrati in carriera in quegli anni, 31 sono nobili, mentre 45 sono borghesi: un imborghesimento che riguardava soprattutto la carriera consolare e la carriera interna, mentre quella diplomatica rimaneva ancora appannaggio dei ceti aristocratici, anche se della nobiltà di servizio. Ma quello che più conta segnalare è che tale imborghesimento rientrava in una precisa strategia, quella di fare dei funzionari degli Esteri lo strumento di una rivoluzione diplomatica, privilegiando nei criteri di reclutamento le doti personali e professionali, i meriti patriottici e l’adesione ai principi liberali. Questa propensione borghese di Cavour aveva delle motivazioni fortemente politiche, che sono un’ulteriore conferma dei suoi propositi unitari: in mancanza di una nobiltà nazionale e quindi in presenza di diverse aristocrazie, ciascuna legata al proprio principe, era infatti la borghesia – o l’aristocrazia di servizio perché più dotata di un senso dello Stato – che dava maggiori garanzie di fedeltà alla causa nazionale.

Per citare alcuni casi esemplari, basta ricordare personaggi come Costantino Nigra, perfetta espressione della borghesia di provincia, figlio di un chirurgo dell’alto Canavese, giovane protagonista di alcuni passaggi-chiave del processo unitario. Nigra entrò in carriera in seguito a concorso nel 1851, quindi con il nuovo sistema voluto da d’Azeglio, che, a giudicare dai titoli dei temi assegnati, serviva anche a testare i candidati da un punto di vista politico. Il tema svolto da Nigra nella prova di economia politica, che non a caso aveva per soggetto L’influenza della proprietà sull’ordine sociale, è davvero significativo. A scanso di ogni equivoco, il giovane concorrente iniziava il suo componimento citando addirittura la nota formula di Proudhon «la proprieté c’est le vol», ma per subito precisare che essa non era espressione delle sue «convinzioni in fatto di teorie economiche e sociali», ma anzi, che era sua intenzione combatterla, convinto che l’ordine sociale non potesse sussistere «senza la proprietà» (Moscati 1947b, p. 3). Insomma, una dichiarazione di fedeltà ai princìpi classici del liberalismo che non poteva essere più netta, a dimostrazione sia dell’appartenenza a quella classe borghese ancora atterrita dagli eccessi del 1848 europeo, sia del grado di politicizzazione di questi futuri diplomatici. È con queste referenze che Nigra arrivò al ministero, dove d’Azeglio lo scelse come segretario particolare e alla fine del suo mandato non esitò a segnalare le doti dell’applicato volontario a Cavour, che lo volle con sé nel novembre del 1855, quando si recò al seguito del re a Parigi e a Londra, e poi nel 1856 al Congresso di Parigi.

E borghesi erano anche Cristoforo Negri, che si occupò di affari commerciali; Domenico Carutti di Cantogno, dal 1859 segretario generale del ministero; l’avvocato Alessandro Capuccio, che in quegli anni fu chiamato a reggere la seconda divisione delle Legazioni; Romano Carlo Susinno che fu poi segretario di Alfonso La Marmora nel 1859; Francesco Astengo, già addetto al ministero delle Finanze e richiesto da Cavour agli Esteri come addetto al gabinetto particolare del ministro; Francesco De Veillet, addetto al gabinetto nel 1855 e poi passato all’Interno nel 1860; Isacco Artom, che, assente Nigra in missione all’estero, sarà il braccio destro di Cavour negli anni tra il 1858 e il 1861.

Se ancora non bastasse, va ricordato che alla carica di segretario generale dopo Salmour, a partire dal 26 aprile 1859, Cavour volle Marco Minghetti, la cui opera fu di breve durata, ma molto fattiva: a lui fu affidata anche la Direzione generale per gli affari d’Italia, che per un breve ma intenso periodo fu preposta al lavoro di collegamento con i governi provvisori nei Ducati, in Toscana e in Romagna, per dirigerne il movimento politico. Un’esperienza che cessò con la caduta del ministero seguita all’armistizio di Villafranca dell’11 luglio 1859, con il quale si conveniva che la Lombardia, escluse Mantova e Peschiera, sarebbe stata ceduta alla Francia, che l’avrebbe poi «retrocessa» al Regno di Sardegna; il Veneto sarebbe rimasto all’Austria, la quale aderiva a una confederazione italiana affidata alla presidenza onoraria del pontefice, e che nel Granducato di Toscana, Legazioni, Ducati di Modena e di Parma i principi sarebbero stati ricollocati al loro posto. Sembra che nella stessa occasione, Napoleone III e Francesco Giuseppe fecero delle pressioni su Vittorio Emanuele II per un allontanamento di Cavour dal potere, un vecchio obiettivo della diplomazia austriaca. Il conte, fermamente contrario a un armistizio che interrompeva la vittoriosa campagna militare contro l’Austria, piuttosto che subire questo allontanamento lo precedette con le sue dimissioni.

Fu Nigra, testimone del concitato incontro di Monzambano, a leggere su ordine del re le controproposte austriache a Cavour, che non riuscì a frenare la sua ira al cospetto del sovrano, giudicando ignominioso il trattato, accusando il tradimento di Napoleone III rispetto agli accordi di Plombières e all’art. 2 della convenzione segreta franco-sarda del gennaio 1859, in cui si ribadiva il comune impegno a espellere gli Asburgo dall’Italia. Anche in questo caso, le dimissioni di Cavour avevano un alto significato politico, perché, come ha scritto Rosario Romeo, servivano a salvaguardare «il carattere nazionale della politica dei moderati, impedendo che agli occhi dei patrioti italiani essa finisse per essere interamente riassorbita nelle ambizioni dinastiche della casa di Savoia» (Romeo 1984a, p. 434).

È all’ombra di questa divergenza fra la politica estera personale del monarca e quella del presidente del Consiglio che va formandosi il primo nucleo della diplomazia nazionale. Sono anni in cui il riconoscimento del sovrano come dominus assoluto della politica estera corrisponde a un paradigma che va accettato con qualche riserva. Difficile, infatti, ridurre il ruolo della diplomazia nel processo di conseguimento dell’Unità, rispetto al quale essa sembra agire in funzione più del protagonismo ministeriale che del tradizionale legame dinastico. Questo ovviamente non significa affermare che si realizzi in questi anni una totale emancipazione della politica estera dalla sfera monarchica, né che la figura del re perda irrimediabilmente il suo appeal, tanto più che, come vedremo, ben presto si tornerà a una interpretazione tradizionale dell’art. 5 dello Statuto. Dopo la scomparsa di Cavour, sarà in fondo attorno al «re galantuomo» che si coagulerà il sentimento nazionale, ma di certo, la maggiore visibilità che il governo acquista in questi anni ha delle conseguenze profonde anche sul piano politico.

Il pregiudizio della democrazia italiana

Seppur percorsa da differenze di vedute, fu la soluzione regio-cavouriana a risultare vincente, permettendo tra l’aprile del 1859 e il marzo del 1861 l’annessione degli antichi Stati e la costituzione del Regno d’Italia, ancora privo di Roma e Venezia. La prevalenza di tale strategia fu fattore di valorizzazione di tutta la sfera degli affari esteri: se ci è consentita una leggera forzatura dei termini, la diplomatizzazione della rivoluzione aveva rivoluzionato la diplomazia, rendendola più autonoma e cosciente dei propri mezzi, in una parola più moderna, perché interprete dei princìpi liberali e degli ideali nazionali.

A opporsi al programma regio-cavouriano, come è noto, era stato Giuseppe Mazzini, il quale ne aveva criticato l’alleanza con Napoleone III e la posposizione dell’iniziativa popolare rispetto a quella governativa. Tale critica investiva in pieno la diplomazia e i suoi metodi, nei confronti dei quali il giudizio di Mazzini era stato sempre molto negativo. Già in uno scritto del 1835, il patriota genovese pronunciava una ferma condanna della diplomazia, da non confondere con il diritto delle genti, «antico quanto il mondo» ed espressione «dei rapporti necessarii che esistono fra una popolazione ed un’altra». Rispetto al diritto delle genti, la diplomazia era vista come «l’ipocrisia dinanzi alla virtù»: a partire dal XVII secolo, secondo Mazzini la sua opera era stata di «corruzione, di avvilimento, immorale e dissolvente», essa aveva «disfatto nazioni e tolto nome e vita a intere genti». Inganni, tradimenti, raggiri, «baci di Giuda» capaci di consegnare un popolo «al suo carnefice»; «l’astuzia e il segreto», queste le armi della diplomazia, alle quali secondo Mazzini bisognava contrapporre «la franchezza e la pubblicità» (Mazzini 2005, pp. 484-494), secondo un’idea di trasparenza nelle relazioni internazionali che anticipa di molti anni princìpi che troveranno la loro consacrazione nel periodo tra le due guerre mondiali.

Il discredito nei confronti dell’azione diplomatica caratterizza pensiero e azione mazziniani anche negli anni successivi: nel periodo dell’esilio londinese questa idea aveva potuto consolidarsi a contatto con gli esuli europei, solidali nella condanna della diplomazia come «braccio dei regimi tirannici» e intenzionati a sovvertire l’intero sistema messo in piedi con il Congresso di Vienna. Alla vigilia del 1848, nei Pensieri sulla democrazia in Europa, Mazzini contrapponeva il concetto di «nazionalità» dei popoli a quello concepito dai despoti, per i quali la «nazione» non era rappresentata da altro se non «dalla loro famiglia, dalla loro razza, dalla loro dinastia» e il cui unico «scopo era l’ingrandimento proprio a spese altrui, l’invasione nel campo dei diritti degli altri» (Mazzini 1997, p. 131). Insomma, per Mazzini si trattò sempre «dell’internazionale dei popoli contro l’internazionale dei re» (Salvatorelli 1963, p. 158). Ancora nel 1858, rivolgendosi a Cavour, il patriota genovese lo accusava di aver ricercato alleanze non con «i giusti», ma con «i forti», per un «utile materiale immediato»: «Noi crediamo nell’iniziativa del popolo d’Italia: voi la temete e vi studiate di allontanarla – scriveva – Voi sperate l’accrescimento sognato dalla diplomazia, dal favore dei governi europei [...] Voi piegate il ginocchio davanti alla forza, ai poteri di fatto, ai trattati del 1815, al dispotismo [...]» (Mazzini 2005, pp. 812-813), a dimostrazione della distanza, che era anche ideologica, tra le due strategie per la soluzione della questione nazionale.

Questo pregiudizio nei riguardi della diplomazia permeava tutta la tradizione della democrazia italiana, ed era destinato a diffondersi, considerando che il mazzinianesimo costituiva il battesimo della politica per molti giovani italiani. Nel campo della sinistra democratica, Mancini, già citato, si era ispirato a Mazzini per la formulazione in senso altruistico del principio di nazionalità, secondo il quale unità e indipendenza di tutte le nazioni sarebbero dovute diventare cardine dei rapporti internazionali. Mancini aveva criticato «le inefficienze del sistema di equilibrio» che aveva dominato le relazioni internazionali nel passato: Carlo V, Luigi XIV, Napoleone, venivano giudicati come «giganti di ambizione, di potenza e di fortuna», per i quali «il diritto di nessuna nazionalità fu sacro». Si trattava di un tentativo di conciliazione tra due posizioni estreme: da una parte quella degli «utopisti umanitari» e i loro concetti di fraternità di tutti gli uomini, di comunanza e di solidarietà universali a prescindere da qualsiasi distinzione di nazione, per i quali non dovevano esistere guerre, alleanze, trattati di qualsiasi natura; dall’altra, quella dei «diplomatici della forza», che giudicavano «dabbenaggine la lealtà e la religione de’ giuramenti, necessità di stato le comode tenebre del mistero, abilità l’intrigo, tatto politico la menzogna» (Mancini 1944, p. 79). Il diritto internazionale fondato da Mancini sul principio di nazionalità divenne, però, la dottrina giuridico-politica del nostro Risorgimento nazionale – come affermò Francesco Ruffini – incidendo in senso innovatore sull’azione diplomatica. Lo stesso Mancini, in una lezione del 1872, constatava ormai tra i diplomatici l’esistenza di «giovani di valore e di ingegno», che sostenendo con onore la causa nazionale, avevano avuto il merito di «aver fatto penetrare e accettare nel vocabolario ufficiale nomi ed istituzioni per l’innanzi ignote al linguaggio della vecchia diplomazia del diritto divino» (ivi, p. 152).

Questa nuova classe di diplomatici cui si riferisce Mancini era quella cresciuta alla scuola di Cavour, in cui la rivendicazione del diritto delle nazioni era andata di pari passo con una lettura realista dell’equilibrio internazionale. Per Cavour e i suoi eredi non è concepibile una politica estera al di fuori delle logiche di potenza e dei rapporti di forza, sebbene per essi rimanesse sacro il concetto per cui la forza dovesse essere sempre assoggettata al diritto, secondo un’idea guida della cultura liberale moderata. Nei ranghi della Sinistra si continuò invece a eludere un’interpretazione realista delle relazioni tra Stati. Cesare Correnti, un ex mazziniano lombardo che nel Parlamento subalpino era entrato con la Sinistra e poi se ne era staccato votando con il centro cavouriano a favore della spedizione in Crimea, nel 1857 scriveva a Mazzini: «Il Piemonte vuol fare, ha fatto, farà. Certo a suo modo: a modo di una monarchia temperata, d’un governo parlamentare, d’una diplomazia che ha tradizioni e costumi suoi propri, d’un paese legale. Che questi modi a voi non piacciano, comprendo. Ma che vogliate, o sperate, o chiedete che questi modi si mutino, non so capacitarmene. E senza il Piemonte non c’è concordia italiana» (cit. in Levi 1915, p. xlvi). Ma la democrazia italiana continuò a lungo a disconoscere la funzione nazionale della diplomazia, assimilandola tout court a un residuato di ancien régime. A essa venivano imputate tutte le incompiutezze, gli intralci, gli errori del processo di unità nazionale, come la cessione di Nizza e della Savoia, la città natale di Garibaldi e la patria della monarchia.

In parte, il discredito dipese anche dal fatto che, perdurando lo stato di guerra sino alla presa di Roma, i motivi insurrezionali e dell’azione diretta continuarono ad essere all’ordine del giorno. In una lettera a Marcora del 2 maggio 1860, Felice Cavallotti affermava che l’unificazione non avrebbe dovuto essere tutta opera del governo costituzionale, «anzi, se la nazione si pensasse di rimanersi quieta e di lasciar far tutto a ‘babbo Cavour’, credo anch’io che non faremmo nulla, poiché Cavour vuole andare all’unità, ma rispettando la diplomazia, nostra eterna nemica» (Cavallotti 1979, p. 52). Più o meno dello stesso parere era Agostino Depretis, che nel corso di un dibattito parlamentare dell’ottobre 1860, a proposito dell’impresa di Garibaldi in Sicilia affermava di non poter credere che il «Governo abbia detto seriamente doversi chiudere l’era delle rivoluzioni», ritenendo le forze rivoluzionarie come necessarie alla causa nazionale e auspicando che la parola «rivoluzione» fosse ancora «scritta per la diplomazia, la quale qualche volta vuole le parole impossibili» (Depretis 1890, 3° vol., p. 51). Depretis aveva fatto parte di quella Sinistra che aveva votato contro la spedizione in Crimea del 1855, anche se poi riconobbe come «luminoso» il concetto cavouriano di associare il Piemonte a tutti gli avvenimenti importanti d’Europa, che apriva la possibilità di difendere la causa italiana. Il retaggio mazziniano è visibile in Depretis anche nel momento della sua ascesa a presidente del Consiglio nel 1876. Nel discorso di insediamento del governo pronunciato il 28 marzo alla Camera, aveva sostenuto la necessità per l’Italia di ricercare la «simpatia dei popoli civili» quale conferma di quella sicurezza già ottenuta «dal consenso e dall’interesse dei governi»: una distinzione tra politica estera dei popoli e politica estera dei governi tutta appartenente alla tradizione democratica. Ed è molto indicativo che tale passaggio fosse espunto dal suo discorso al Senato, evidentemente per non urtare la suscettibilità di un’aula tradizionalmente più conservatrice e soprattutto più vicina alla corte.

Ma alla sua prima prova di governo la Sinistra storica disattenderà le premesse di democratizzazione della politica estera, dimostrandosi più realista del re sia per ciò che riguardava le modalità decisionali, rispetto alle quali si preferì non uscire dagli arcana imperii, sia per l’estrazione sociale del personale diplomatico cui decise di affidarsi, come avremo modo di vedere.

Il ritorno del protagonismo regio e l’eredità cavouriana

Tra coloro che misero alle loro spalle la militanza mazziniana, accettando senza riserve la strategia del conte di Cavour vi fu anche Emilio Visconti Venosta, che nel campo degli affari esteri divenne degno interprete di quella linea. Per intendere pienamente la sua azione è bene ricordare che, con la scomparsa del conte, a livello sistemico si registra un sensibile rallentamento del processo di parlamentarizzazione. Il periodo 1861-70, infatti, è caratterizzato da un rinnovato protagonismo regio, che si manifesta con incarichi di governo a uomini tutti vicinissimi a corte: Urbano Rattazzi (marzo 1862), La Marmora (settembre 1864-giugno 1866), Menabrea (ottobre 1867-dicembre 1869). Certo non bisogna trascurare il grande ascendente esercitato da Vittorio Emanuele II sulla classe politica della Destra storica, che identifica il Risorgimento con l’azione della monarchia sabauda, ma è vero che nel campo degli Esteri c’è un ritorno dell’influsso delle relazioni amicali e dinastiche, così come si palesa la tendenza a far valere più che nel recente passato le tradizionali prerogative regie, anche attraverso la nomina alla guida della diplomazia di personaggi poco influenti, tali da facilitare la politica personale del monarca, come nel caso del conte Giuseppe Pasolini, ministro degli Esteri dal dicembre 1862 al marzo 1863, e del conte Pompeo di Campello, nella stessa carica dall’aprile all’ottobre del 1867.

Scomparso Cavour, è Visconti Venosta colui che si fa carico di continuarne la tradizione diplomatica. Protagonista della politica internazionale della Destra storica, Visconti Venosta segnò alcune tappe decisive della vita del giovane Stato unitario, con attitudine e stile suoi propri che si trasmetteranno poi a intere generazioni di diplomatici. Allontanatosi da Mazzini nel 1853, in disaccordo sull’ennesimo tentativo insurrezionale da organizzarsi a Milano, si era progressivamente accostato alla corrente moderata. Entrò al ministero degli Esteri per la prima volta in veste di segretario generale con il gabinetto Farini-Minghetti e l’anno successivo, nel 1863, ritiratosi il conte Pasolini, fu nominato ministro. Da allora partecipò a circa un cinquantennio di vita internazionale dell’Italia, rivestendo la stessa carica per altre quattro volte e per un breve periodo fu anche inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Costantinopoli, nominato nel marzo 1866.

Quando Bettino Ricasoli aveva assunto il dicastero degli Esteri succedendo a Cavour, il 12 giugno 1861, aveva ereditato in pratica tutti i quadri ministeriali del periodo cavouriano. Tra il 1862 e il 1866, però, il quadro dell’alta burocrazia ministeriale venne gradualmente e interamente cambiato: si può dire che di fatto a questa data l’équipe cavouriana agli Esteri non esisteva più.

Uno dei maggiori problemi che dovette affrontare Visconti Venosta fu dunque quello di un ringiovanimento dei funzionari degli Esteri, ciò che escludeva un reclutamento effettuato per normale concorso, i cui effetti si sarebbero visti soltanto nel lungo periodo. Tra il 1862 e il 1866, ci fu un discreto numero di immissioni se si considera il numero complessivo del personale, soprattutto nella carriera consolare, immissioni che infatti avvennero sia per concorso che per cooptazione. Limitandoci alla carriera interna e a quella diplomatica, tra le immissioni per concorso vanno ricordate quelle di Giacomo Malvano (1862), Carlo Alberto Visconti d’Ornavasso (1864), Alberto Pansa (1865), Ercole Orfini (1865), Tommaso Catalani (1865), Giuseppe Avarna di Gualtieri (1866), Alessandro Guiccioli (1866), per citarne solo alcuni.

Nel caso delle cooptazioni, vi sono nomine di carattere politico o che si spiegano perché interessano personaggi vicini a corte, o ancora che sono prova di apertura nei confronti di altri contesti regionali, nell’ambito di una politica di nazionalizzazione delle burocrazia ministeriale. C’è da dire che, tra il 1864 e il 1866, la maggioranza dei funzionari citati regolarizzeranno la loro posizione al ministero con un esame di idoneità. Tra coloro che erano entrati per concorso, Malvano diventerà segretario generale; Pansa diventerà ambasciatore, così come Avarna di Gualtieri, che lo sarà per lunghi anni a Vienna, allievo di Nigra, che lo volle in quella sede come suo successore, o come Catalani, che non arrivò ad essere ambasciatore, ma ebbe una certa visibilità nella sua posizione a Londra negli anni di Francesco Crispi al governo. Tra i cooptati vanno invece segnalate le carriere di Luigi Avogadro di Collobiano Arborio e di Costantino Ressman.

Le immissioni avvenute in questi primi anni rispondevano quindi a criteri di discrezionalità del ministro, che, oltre alle ragioni di opportunità politica e di attitudine professionale, poteva valutare anche la disponibilità dei mezzi di fortuna di cui i giovani funzionari dovevano disporre nei primi anni del loro servizio all’estero. Questa discrezionalità, inoltre, poteva essere utile per vincere le resistenze al rinnovamento soprattutto dell’alta burocrazia piemontese e a volte anche per impedire che l’immissione dei funzionari provenienti dai vecchi stati annacquasse il carattere liberale della diplomazia e del corpo consolare del nuovo Stato.

I rappresentanti all’estero, soprattutto quelli delle sedi più prestigiose, erano i più anziani, entrati in carriera durante la Restaurazione, come Edoardo De Launay a Berlino, il marchese Vittorio Emanuele Taparelli d’Azeglio a Londra, il marchese Francesco Sauli a Pietroburgo, il conte Alberto Lupi di Montalto a L’Aja e in Belgio, il barone Romualdo Tecco a Madrid. L’appartenenza di questi personaggi alla diplomazia della Restaurazione non deve stupire, perché si trattava di elementi che avevano superato tutti la prova della fedeltà al nuovo regime liberale. Alcune sedi dell’inner circle erano poi occupate da personaggi simbolo della rivoluzione nazionale come nel caso di Nigra a Parigi o di Giacomo Durando a Costantinopoli.

Fu questo il personale diplomatico che si impegnò nel delicato compito di ottenere e difendere il primo riconoscimento del Regno d’Italia, la cui politica estera, basata appunto sul principio di nazionalità, era considerata di carattere rivoluzionario. Basti pensare che, nell’autunno-inverno 1860, le grandi potenze avevano richiamato i loro rappresentanti da Torino: la Francia lo aveva fatto il 13 settembre del 1860, tanto che Nigra alla fine dello stesso mese aveva lasciato Parigi; seguirono la Russia, la Spagna, la Baviera, mentre la Prussia aveva minacciato seriamente di farlo. La sola Gran Bretagna aveva manifestato anche nei momenti più critici le sue buone intenzioni e il riconoscimento arrivò infatti nel marzo del 1861. Oltre ai motivi ideali di vicinanza alle istanze liberali, la sollecitudine inglese si giustificava con la necessità di impedire un’eccessiva influenza francese sulla penisola. Il riconoscimento britannico fu seguito da quello della Confederazione elvetica e poi da quello americano, arrivato il 13 aprile 1861.

Il riconoscimento della Francia, complicato dalla questione di Roma, arrivò soltanto dopo la morte di Cavour, a fine giugno 1861, e fu condizionato, nel senso che il Regno d’Italia veniva riconosciuto a patto del mantenimento delle guarnigioni a difesa del papa. A seguire, arrivarono i riconoscimenti di Portogallo, Grecia, Argentina, Messico, Paesi scandinavi, Impero ottomano. Quello della Sublime Porta è un caso paradigmatico di come il riconoscimento italiano fosse una questione politicamente delicata per un contesto istituzionale nell’ambito del quale esistevano diverse nazionalità. Nel dicembre 1860, Marcello Cerruti fu incaricato di una missione in Oriente col compito di raccogliere informazioni sulle condizioni di Bosnia, Erzegovina, Montenegro, Bulgaria. La missione poi fu rimandata all’anno successivo, ma sembra che Cavour avesse chiesto di verificare la possibilità di riscattare il Veneto tramite la cessione di alcune province turche dietro compenso pecuniario alla Sublime Porta. Del progetto era venuto a conoscenza Ali Pasha, che riferì il tutto a un imbarazzato Durando. Il nostro residente riuscì però a convincere il sultano della infondatezza dei suoi sospetti e la Sublime Porta, spinta anche dall’esempio francese, riconobbe il Regno d’Italia nel luglio del 1861.

In altri casi vi fu da superare l’opposizione delle correnti cattoliche, come in Belgio o nei Paesi Bassi, paese tra l’altro a maggioranza protestante, dove fu riconosciuto soltanto il nuovo titolo assunto da Vittorio Emanuele II. In Prussia esisteva un’ampia componente contraria al riconoscimento, di cui faceva parte anche un legittimista convinto come Guglielmo I, che riconobbe comunque il Regno d’Italia nell’estate del 1862. Poco prima era arrivata la Russia, inizialmente contraria perché protettrice dei Borboni, ma anch’essa indotta al riconoscimento dalla decisione francese. Dopo i riconoscimenti del Baden e della cattolica Baviera del 1862, l’irriducibilità della Spagna fu superata soltanto nel 1865. Si chiudeva così una vera e propria campagna diplomatica che si era aperta all’indomani del 17 marzo 1861.

Dopo un primo momento di convulsione della nostra politica estera seguito alla morte di Cavour, e dovuto soprattutto all’attivismo personale del re in più direzioni, con Visconti Venosta essa rientrò nei binari della tradizione moderata, che legava la questione italiana al quadro generale della politica europea. La diplomazia di Visconti Venosta fu pertanto impegnata nell’inserimento del neonato Regno d’Italia nella rete delle relazioni tra le potenze, tentando di recuperare dei buoni rapporti con la Francia, di mantenere viva l’amicizia con la Gran Bretagna e cercando un avvicinamento alla Prussia, con il fine di isolare l’Austria, al cui scopo si prestava la crescente rivalità austro-prussiana nell’area germanica, dove dal 1862 la scena fu dominata da Bismarck. Una politica ben compendiata dalla formula «indipendenti sempre, ma isolati mai», pronunciata da Visconti Venosta in occasione del suo primo discorso ministeriale il 26 marzo 1863, che mirava alla predisposizione di un terreno diplomaticamente favorevole al compimento dell’unità nazionale.

La Convenzione di settembre del 1864, con la quale si stabiliva la rimozione delle guarnigioni francesi a difesa di Roma in coincidenza con lo spostamento della capitale del Regno da Torino a Firenze, che suonava come implicita rinunzia all’annessione di Roma, fa parte a pieno titolo di tale strategia. È comprensibile come lo spostamento della capitale da Torino costituisse un vero trauma per la città e per tutta la burocrazia ministeriale, largamente rappresentata dalla componente piemontese, e abbiamo visto come in qualche caso, soprattutto nei vecchi funzionari, ciò costituì addirittura motivo di volontaria cessazione dal servizio. La decisione scatenò infatti dei disordini, costringendo il re a dimissionare il governo Minghetti. Eppure Visconti Venosta considerava quel provvedimento come necessario corollario di un atto di grande importanza perché riconosceva l’«italianità» della questione romana: un atto che tra l’altro avrebbe permesso di esercitare, da una città più vicina come Firenze, una pressione morale nei confronti di Roma, la capitale naturale del Regno d’Italia.

Lo stesso dicasi per l’alleanza con la Prussia dell’8 aprile 1866, preludio della terza guerra di indipendenza, alleanza alla quale non lavorò direttamente Visconti Venosta, al momento non in carica. Rimesso alla guida degli Esteri da Ricasoli, Visconti Venosta si trovò invece a gestire le conseguenze dell’armistizio chiesto dall’Austria, che, nonostante la sconfitta dell’esercito italiano a Custoza (24 giugno 1866), era costretta all’iniziativa di pace dalla fulminante vittoria prussiana a Sadowa dei primi di luglio. Fu proprio l’esito negativo della terza guerra di indipendenza a smorzare i vantaggi dell’alleanza italiana con la Prussia, che certo fece guadagnare al Regno d’Italia il Veneto, ma lasciando irrisolto il problema del Trentino e dei confini orientali fino all’Isonzo. Infatti l’intermediazione nelle trattative di Napoleone III chiesta da Francesco Giuseppe – la Francia riceveva in consegna Venezia con l’onere di retrocederla all’Italia – alla quale la Prussia aveva acconsentito per paura di ritorsioni francesi sui confini renani, permise all’Austria di eludere del tutto le richieste italiane. Visconti Venosta avrebbe voluto opporsi all’intermediazione francese, sino al rifiuto dell’armistizio, e fu Nigra a mettere il ministro degli Esteri italiano di fronte alla possibilità di un’alleanza franco-austriaca e quindi a farlo riflettere sulla necessità di evitare un nuovo conflitto che sarebbe stato fatale per l’Italia.

Era la dimostrazione che le armi della diplomazia non potevano del tutto sostituirsi alla diplomazia delle armi: le sconfitte di Novara, Custoza, Lissa, la mancanza di una grande vittoria conseguita sul campo contro gli austriaci saranno destinate a pesare a lungo sui destini del giovane Stato unitario.

Vecchie e nuove lealtà: le carriere negli Stati preunitari e gli ostacoli al riconoscimento del Regno d’Italia

Altro spinoso problema che emerse nei primi anni di amministrazione unitaria degli Affari esteri fu quello della fusione o assorbimento dei funzionari provenienti dai ministeri degli Esteri degli Stati preunitari e in particolare del Regno delle Due Sicilie. Date le proporzioni limitate, infatti, il problema non si poneva per il Granducato di Toscana e il Ducato di Parma – furono pochissimi i funzionari che passarono nella nuova amministrazione unitaria – mentre non bisogna dimenticare che il Regno delle Due Sicilie aveva strutture e apparati di un grande Stato, con una propria tradizione diplomatica e una non disprezzabile rete diplomatico-consolare soprattutto nel Levante.

Con decreto 31 dicembre 1860, veniva soppressa la direzione degli Affari esteri istituita presso la luogotenenza generale in Napoli e si sanciva il passaggio di tutte le sue competenze al ministero degli Affari esteri con sede a Torino. Lo stesso decreto stabiliva che tutto il personale, diplomatico e consolare sarebbe stato collocato in disponibilità a partire dal 1° gennaio 1861 e che una commissione ne avrebbe valutato i titoli «onde proporre le misure di giustizia e convenienza [...] in armonia colle vere e ben conosciute esigenze del servizio». Per quanto riguarda la carriera interna, alla fine tutti i vecchi capi di dipartimento vennero esclusi, mentre furono riammessi soprattutto i funzionari più giovani dei livelli medio-bassi di carriera, e tra questi coloro che avevano avuto modo di stringere già dei rapporti con il nuovo governo, come Domenico Bianchini, che era stato alla Legazione borbonica di Torino, e Cesare Troysi, che, pur essendo il figlio di un alto magistrato, già ministro della Giustizia di Ferdinando II, aveva subito aderito al nuovo regime e prestato servizio presso la Segreteria generale del dittatore dell’Italia meridionale. Nel 1861 venne richiamato Pompeo Schmucker, che era stato un diplomatico borbonico, di origine austriaca, già in servizio a Berlino e dispensato dal governo dittatoriale. In relazione a questo passaggio prevalse un criterio misto, politico e funzionale: si valutarono cioè ragioni di opportunità e di prudenza di fronte alle riserve dell’opinione pubblica liberale, che avrebbe voluto una cesura radicale con la vecchia amministrazione. Si attuò quindi un differimento delle immissioni, a seconda dell’affidabilità dei singoli funzionari, che dipendeva sia dal grado di lealtà verso il nuovo governo, sia da fatti oggettivi quali l’età o l’anzianità di servizio, che lasciavano presumere una maggiore difficoltà di adeguarsi alla nuova realtà.

Le stesse difficoltà si registrarono nei passaggi relativi alla carriera diplomatica. Alla caduta del Regno delle Due Sicilie, tutti gli inviati straordinari e ministri plenipotenziari in servizio attivo furono destituiti. Degli incaricati d’affari e dei segretari, la maggior parte venne messa in disponibilità. Quindi nessuno dei ministri borbonici fu inserito nei ruoli della diplomazia italiana: tra gli incaricati d’affari, solo Raffaele Ulisse Barbolani fu quasi immediatamente chiamato a prestare servizio a Torino, il 17 marzo 1861 e già nel 1867 chiamato in un posto chiave come quello di segretario generale. Pasquale Giuliano Massone fu mantenuto in aspettativa e richiamato in servizio solo il 1° agosto 1876; tra i segretari, nell’aprile del 1861 ne furono richiamati soltanto tre e un altro venne ripescato nel maggio del 1862.

È opportuno sottolineare l’importanza di tale passaggio e per certi versi anche la sua drammaticità, per chi aveva condiviso le proprie fortune professionali con il percorso politico della dinastia borbonica. Infatti, esso non fu affatto lineare, tanto è vero che negli altissimi gradi, come ha scritto Ruggero Moscati, la diplomazia napoletana rimase fedele al suo re, «che continuò per qualche tempo a rappresentare presso gli stati che non avevano riconosciuto il Regno d’Italia e si ritrasse poi dignitosamente in disparte» (Moscati 1961, p. 24; Martullo Arpago 1989).

Nel periodo critico in cui gli sforzi del governo di Torino erano diretti alla legittimazione internazionale del nuovo Regno d’Italia, i ministri borbonici furono come una spina nel fianco della diplomazia italiana. Non mancarono, infatti, episodi in cui gli ex diplomatici borbonici cercarono di ostacolare tale legittimazione: così Edoardo Targioni a L’Aja e Antonio Francesco La Grua-Talamanca, principe di Carini, che cercò di determinare a Berlino, in occasione dell’incoronazione del nuovo imperatore, un conflitto diplomatico che soltanto la prudenza di De Launay riuscì a evitare. Rientra nello stesso ordine di avvenimenti la questione della mancata consegna degli archivi consolari napoletani da parte della Spagna, che portò alla rottura delle relazioni con Madrid; e qui erano visibili lo zampino della diplomazia borbonica e gli intrighi dei rappresentanti napoletani tra i fuoriusciti in Francia.

La diplomazia della Destra storica: le riforme Visconti Venosta

È abbastanza intuitivo che il riassorbimento dei funzionari dei vecchi Stati rispondeva anche alla necessità di un adeguamento dell’amministrazione alle nuove esigenze unitarie. Un altro problema dei primi anni dell’Unità fu infatti quello delle risorse finanziarie necessarie per l’ampliamento delle funzioni e degli organici. Dalla relazione dell’onorevole Giovanni Barracco sullo stato di previsione per il 1863, sembrava che le soluzioni fossero due: adeguarsi ai bilanci degli altri Stati d’Europa oppure a quello dell’antico Piemonte. Inutile dire che a prevalere fu la seconda opzione, che sin da allora provocò uno squilibrio tra i modesti mezzi messi a disposizione della nostra diplomazia e i fini ambiziosi di una politica estera che intendeva realizzare l’unità politica e territoriale della nazione in un confronto diretto con le grandi potenze.

Nonostante i criteri di rigore finanziario, nel 1862 il bilancio definitivo era risultato quasi raddoppiato (L. 3.238.832,01) e la commissione di bilancio aveva chiesto per il 1863 un ulteriore aumento di L. 431.796,87. Era stato necessario aumentare la spesa per il personale dell’amministrazione centrale, che contava ora su 51 unità, 9 in più rispetto al 1862, così come lo era stato aumentare gli stanziamenti per il personale delle legazioni, che erano cresciute di numero. Anche se erano state chiuse le legazioni di Firenze, Roma e Napoli, ne erano state aperte altre sette (Lisbona, Atene, Stoccolma, Copenaghen, New York, Buenos Aires e Rio de Janeiro).

Bisogna ricordare che il nuovo Regolamento diplomatico emanato da Durando nel 1862 aveva stabilito che il numero dei ministri plenipotenziari, dei ministri residenti e degli incaricati d’affari fosse fissato con la legge di bilancio in relazione alle esigenze di copertura delle legazioni, per cui parte della somma stanziata serviva per le indennità dei nuovi capi missione, mentre un’altra andava a coprire il fabbisogno per le indennità degli ufficiali subalterni. Al 1862-63 il Regno d’Italia aveva 14 capi missione accreditati presso paesi europei (Baden, Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Paesi Bassi, Portogallo, Prussia, Russia, Spagna, Svezia e Norvegia, Svizzera) ai quali se ne devono aggiungere altri 5 in contesti extraeuropei (Impero ottomano, Argentina, Brasile, Uruguay, Usa). Maggiori spese derivarono dall’elevamento del posto di primo segretario a consigliere nelle cinque grandi ambasciate (Parigi, Londra, Berlino, Pietroburgo, Costantinopoli). Un ulteriore aumento era poi stato richiesto per il personale dei consolati, ricorrendo a giustificazioni di ordine politico e di ordine funzionale. Per esempio, si sosteneva che l’annessione di Napoli e della Sicilia aveva di fatto modificato le frontiere marittime e nuovi mari si erano aperti alla marina italiana, come il Mar Baltico e il Mare del Nord, già frequentati dalle navi napoletane.

Vi era inoltre l’esigenza di mantenere i consolati o potenziarli laddove esistevano quelli degli antichi Stati, per la presenza di comunità italiane, anche se venivano ovviamente chiusi quelli degli antichi Stati presenti nelle città del Regno d’Italia. Inoltre, si rendeva necessario aprire dei consolati politici, cioè che dovevano svolgere funzione di legazioni in alcuni paesi come la Serbia o la Romania, e ciò per esercitarvi una maggiore influenza. Stesso discorso valse per la Tunisia e per il Marocco.

Nel 1861 erano stati istituiti 10 nuovi consolati e altri 10 se ne aggiunsero nel bilancio del 1862, anno in cui furono aperti altri due viceconsolati. Il totale dei consolati al 1863 era di 43, con alla testa altrettanti consoli, ai quali andavano aggiunti 43 viceconsoli, più altri funzionari. Per quanto riguarda le missioni diplomatiche, nel 1864 Giovanni Antonio Migliorati veniva trasferito a Lima e accreditato presso numerosi Stati dell’America Centrale e del Sud (oltre al Perù, Bolivia, Cile, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Ecuador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Venezuela), mentre nello stesso anno veniva accreditato Vittorio Sallier de La Tour in Messico e nel 1867 Luigi Joannini Ceva conte di San Michele in Paraguay. Sempre nel 1867, Sallier de La Tour veniva accreditato in Cina e in Giappone, mentre in Europa, dopo il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866 che implicitamente conteneva il riconoscimento da parte dell’Austria del Regno d’Italia, un capo missione veniva accreditato nella capitale danubiana, nella persona di Giulio Camillo de Barral de Monteauvrard.

Pur senza entrare nel dettaglio della discussione parlamentare sullo stato di previsione di cui sopra, bisogna qui sottolineare la sua importanza, proprio perché impostava le linee politiche del bilancio del nuovo Regno. In merito alle strutture preposte alla cura degli affari esteri, in occasione di quel dibattito alcuni interventi avevano sostenuto che il bilancio fosse ispirato a uno spirito di grettezza, quando invece si doveva rinforzare l’immagine dell’Italia all’estero. La Sinistra puntava a farne un simbolo di lotta per il riscatto nazionale, tanto che il deputato Stefano Siccoli sostenne che fosse necessario fare tutte le possibili economie all’interno, perché nessuno avrebbe dovuto sospettare «della nostra povertà». «Che la nostra bandiera sventoli su tutti i lidi, che tutti i popoli la salutino, che tutti la rispettino e la temano, – sosteneva Siccoli, che aveva partecipato con Garibaldi alla campagna in Perù e poi alla spedizione dei Mille – sappia il mondo che siamo risorti […] sia questo un avvertimento, una speranza ed una promessa per tutte le genti oppresse» (Atti Parlamentari, Camera, tornata del 28 marzo 1863).

In quell’occasione non erano mancate critiche anche alla qualità delle nostre rappresentanze diplomatico-consolari, così come non erano mancati accenni ai diplomatici compromessi con i vecchi regimi. Particolarmente avversa si dimostrava la Sinistra, che non aveva sopportato l’immissione di alcuni elementi borbonici; questa polemica per certi versi rafforzava le tendenze conservatrici della diplomazia, che si strinse attorno alla Destra e trovò in Visconti Venosta il suo protettore. Durante la discussione sullo stato di previsione già citata, nel 1863, Visconti Venosta aveva difeso il ministro a Londra Taparelli d’Azeglio da alcuni attacchi mossigli da Siccoli, poi Carutti di Cantogno, accusato da Nino Bixio di aver approfittato della riforma del regolamento diplomatico per prepararsi una sede a L’Aja, e infine Camillo Caracciolo di Bella, accusato sempre da Bixio di essere stato ricompensato con una legazione per meriti politici. In quella stessa occasione Bixio aveva espresso tutte le sue perplessità nei confronti di alcuni personaggi della vecchia diplomazia, a suo giudizio non ancora informati ai princìpi del governo nazionale. Insomma, la Sinistra non perdeva occasione per lanciare i suoi strali verso un corpo dello Stato che non amava affatto.

Ma il ministero degli Affari esteri di quegli anni non necessitava soltanto di un adeguamento di carattere quantitativo, relativo cioè a un aumento del personale della carriera interna e a un potenziamento dell’amministrazione periferica. Guadagnata Venezia, si aprì una nuova fase di riassetto organizzativo che vide Visconti Venosta come protagonista. Al 1865, sotto la gestione La Marmora (settembre 1864-giugno 1866), il ministero era articolato su due centri direzionali: il ministro, che assicurava l’alta direzione politica, i rapporti con il Parlamento, con i rappresentanti delle potenze straniere e con i capi missione delle grandi sedi, e il segretario generale, che era capo della macchina amministrativa e degli affari politici ed era coadiuvato dal Gabinetto particolare del ministro. Inoltre, come si è visto, esso era organizzato per aree funzionali: un’area politico-diplomatica; un’area consolare-commerciale; un’area amministrativa.

Fu Visconti Venosta, forte anche della sua prima esperienza come segretario generale, a rendersi conto della necessità di affrontare con criteri nuovi e più moderni il problema della riorganizzazione della macchina amministrativa e del ruolo della carriera interna. Egli procedette infatti a un riordino, stabilito con il regio decreto 23 dicembre 1866, che prevedeva una struttura articolata in tre direzioni (Affari politici, Affari commerciali, Affari privati e contenziosi) e una divisione (contabilità, economia e passaporti). Elementi salienti dell’intervento erano la formalizzazione della preminenza del segretario generale, la cui figura veniva rafforzata, e l’abolizione del gabinetto. Era il segretario generale che, su delega del ministro, avrebbe dovuto svolgere funzioni vicarie di carattere politico e nei rapporti con i rappresentanti esteri. Al segretario generale sarebbe spettata, inoltre, la diretta sorveglianza del personale del ministero e delle carriere dipendenti e ad esso, infine, sarebbe stata affidata la superiore direzione della divisione di contabilità. In assenza del ministro, i direttori superiori, che erano a capo delle direzioni, dovevano riferire al segretario generale, il quale in sostanza era al vertice di una piramide gerarchica, con al di sotto i direttori superiori, i direttori capi divisione e i capi sezione. Il segretario generale diventava quindi l’alter ego del ministro, ed era anche il capo dell’amministrazione e il supervisore della gestione contabile del ministero.

Che il provvedimento di Visconti Venosta andasse a toccare un punto nodale è dimostrato dal fatto che il suo successore, il conte di Campello, nei pochi mesi in cui mantenne la carica, pensò bene di cancellare il provvedimento, emanando con il regio decreto 8 settembre 1867 un nuovo ordinamento che prevedeva il ripristino del gabinetto. Nella relazione di accompagnamento si leggeva proprio che l’ordinamento Visconti Venosta aveva ridotto l’autorità del ministro, che andava invece ristabilita: nessuno al di fuori del ministro poteva rispondere a nome del governo, doveva esserci una sola parola e una sola firma autorevole; con la ricostituzione del gabinetto, quindi, si poneva il ministero «in grado di meglio compire la sua missione» (Ferraris 1955, pp. 23-24). Considerando il fatto che siamo in anni in cui si registra un ritorno del protagonismo della Corona negli affari esteri, è lecito presumere che dietro le pressioni per una deminutio del ruolo del segretario vi fosse il timore di frapporre ostacoli alle iniziative personali del re, che ora potevano passare indisturbate per la presenza di un ministro molto vicino a corte.

Ma il provvedimento Campello ebbe vita breve, a sua volta annullato da un ordinamento Menabrea del 30 dicembre 1867 che sanciva la soppressione – e questa volta per lungo tempo – del gabinetto. Anche questo è un passaggio importante, perché il successo della soluzione Visconti Venosta segnò la storia del ministero degli Esteri. Lungi dal voler ridurre la responsabilità del ministro, quel provvedimento rappresentava la formalizzazione della specialità funzionale della carriera diplomatica, di cui il segretario generale era perfetta espressione. Facendo di questa figura l’organo accentratore e il supervisore di tutte le attività, non si voleva di certo esautorare l’elemento governativo, ma assicurare un’unità di indirizzo che poggiasse su competenza tecnico-funzionale e senso politico, di cui il segretario doveva essere dotato, a bilanciamento del responsabile politico e a garanzia dell’autonomia amministrativa. Il provvedimento Visconti Venosta, infatti, voleva porre l’amministrazione degli Esteri al riparo dalla volubilità dei governi e anche dalle influenze della Corona: in questo senso, il segretario generale diventava non solo il garante delle prerogative della carriera, di cui doveva dimostrarsi capace di conoscere ogni segreto, ma anche della continuità dei processi politici e amministrativi. Non è un caso che la relazione del 1866, sulla quale si basò la riforma Visconti Venosta, fu stilata da un segretario generale come Enrico Cerruti, che Menabrea dal 1867 al 1869 si avvalse di altre due importanti figure come Barbolani e Alberto Blanc, che arrivò ad essere anche ministro, e che Visconti Venosta dal 1870 al 1871, nel concitato periodo post 20 settembre, volle accanto a sé un funzionario esperto come Artom.

Da allora, in questa carica si succedettero personaggi di grande rilievo, profondi conoscitori delle questioni internazionali e della macchina amministrativa, a ognuno dei quali è possibile legare momenti importanti della politica estera dell’Italia liberale. Per fare qualche nome oltre ai già citati: Giuseppe Tornielli Brusati di Vergano e Carlo Alberto Maffei di Boglio, altre due espressioni della diplomazia della Destra storica; un «quasi ministro» come l’onnipresente Malvano – un’«ostrica della Consulta» veniva chiamato da chi non lo amava molto – silurato da Crispi e reintegrato dopo la sua caduta; poi Raffaele Cappelli, Riccardo Bollati, Giacomo De Martino, sino a Salvatore Contarini, allontanato da Benito Mussolini perché simbolo di tutto ciò che il duce agli Affari esteri voleva eliminare, e sino a un «ministro de facto» come Renato Prunas che rimise in piedi il ministero degli Esteri del Regno d’Italia dopo l’8 settembre, ponendo le premesse per la fuoriuscita del paese dall’isolamento determinato dalle condizioni armistiziali e dalla «gabbia» del controllo alleato.

La diplomazia italiana e il nuovo ordine internazionale tra rottura e continuità

Negli anni dei primi riconoscimenti del Regno d’Italia e di Visconti Venosta si registra un discreto movimento del personale diplomatico. Per limitarci ai capi missione – fermi De Launay a Berlino e Nigra a Parigi – sino al 1868 a Londra rimase Taparelli d’Azeglio, che venne sostituito con Carlo Cadorna. A Pietroburgo fu inviato Caracciolo Di Bella dal 1867 al 1870, al quale successe Barbolani, che vi rimase sino al 1876. A Costantinopoli, dal 1863 al 1866 capo missione è Giuseppe Greppi, mentre dal 1866 al 1875 si succedono Visconti Venosta, Giuseppe Bertinatti, Barbolani e Luigi Corti, che rimarrà in quella sede sino al 1885. Sia Greppi che Corti saranno destinati a una fulgida carriera – Corti arriverà anche ad essere ministro degli Esteri – ma saranno travolti dal ciclone riformatore crispino in quanto assunti a simbolo della diplomazia tradizionale, alla quale Crispi imputava molti limiti e riconosceva pochi pregi: Corti, nonostante fosse un protetto del re, fu richiamato bruscamente da Londra, mentre Greppi, milanese di nascita, che aveva iniziato la sua carriera nel servizio austriaco per poi votarsi alla causa nazionale, fu rimosso dalla sua sede di Pietroburgo alla fine del 1887, quando vi svolgeva ufficio di ambasciatore straordinario. Sia Corti che Greppi erano stati anche capi missione a Madrid, il primo dal 1867 al 1869 e il secondo per un lungo mandato dal 1875 al 1883.

Altri movimenti rilevanti furono l’avvicinamento nel 1867 di Artom dalla Danimarca alla Legazione di Baden dove risiedette sino a quando non fu chiamato da Visconti Venosta a Roma; il già citato invio di Carutti nei Paesi Bassi dal 1864 al 1869, dove fu sostituito dal 1870 al 1882 da Bertinatti; la nomina di Filippo Oldoini a Lisbona nel 1868, altro personaggio molto vicino a corte, tanto che Maria Pia di Savoia lo considerava un amico di famiglia, e altra vittima di Crispi, che lo collocò a disposizione del ministero nel 1888. Un movimento interessò anche la nostra rappresentanza in Grecia, dove Terenzio Mamiani della Rovere fu sostituito nel 1864 da Domenico Pes di San Vittorio, al quale subentrò Migliorati dal 1871 al 1876. Mamiani venne infatti trasferito in Svizzera, dove dal 1867 al 1881 risiedette Luigi Amedeo Melegari.

Per quanto riguarda le sedi più lontane, abbiamo già citato i casi di Cina e Giappone, mentre per ciò che riguarda gli Stati Uniti vi furono inviati tre grandi diplomatici: Marcello Cerruti nel 1867, dopo essere stato segretario generale, poi Corti dal 1870 al 1875 e Blanc, che vi risiedette dal 1875 al 1881. La legazione a Washington sino al primo conflitto mondiale rivestì un’importanza secondaria, ma evidentemente si dimostrava buona palestra per carriere di livello.

Il moderato Visconti Venosta, che provvide anche al primo ordinamento del personale diplomatico dopo l’Unità (29 novembre 1870, n. 6090), con particolare riguardo alla carriera, alle funzioni, alle competenze, agli stipendi e alle indennità, licenze, congedo ecc., si era dimostrato quindi un riformatore, ben interpretando le aspettative della carriera. In quest’ultimo provvedimento, l’art. 3 riconosceva la figura degli addetti di legazione, cioè del personale che veniva cooptato senza concorso ai livelli iniziali della carriera, ma poneva il limite che esso non potesse essere superiore a un quarto del numero complessivo dei funzionari diplomatici stipendiati. Dietro questa limitazione si celava l’esigenza di frenare gli ingressi di natura politica, potenziando piuttosto il canale della meritocrazia concorsuale, segno inequivocabile che la burocrazia ministeriale stava trovando una più stabile configurazione, attraverso una sua definitiva professionalizzazione.

Come abbiamo già messo in evidenza, il ricorso alla cooptazione negli anni della Destra storica rispose alle esigenze della rivoluzione nazionale, un fenomeno che toccò anche le fasce apicali dell’amministrazione. Non erano infatti mancate le nomine di ambasciatori politici in sedi di primo livello, come nel caso del marchese Gioacchino Pepoli o di Minghetti. A Vienna, dal 1871 venne inviato un grande diplomatico, ma proveniente dai ranghi militari, come Carlo Felice Nicolis di Robilant, altro «uomo del re», che vi rimase per più di un decennio. Nomina politica era stata quella di Mamiani della Rovere, che, a parte le precedenti esperienze nello Stato pontificio, era stato ministro dell’Istruzione con Cavour e lo stesso dicasi per il già citato Melegari. Altro ambasciatore politico fu il napoletano Caracciolo di Bella, acceso liberale sin dai moti del 1848, che fece la sua prima esperienza diplomatica nel 1861 a Lisbona, incaricato di trattare il matrimonio fra Maria Pia, figlia di Vittorio Emanuele II, e il re Luigi I di Portogallo, un altro tassello – dopo il legame tra la principessa Clotilde e il principe Bonaparte cui avevano «lavorato» Cavour e Nigra – di quella politica dei matrimoni che fece da sfondo alla causa nazionale. E ambasciatore politico di questi anni fu anche Carlo Cadorna, inviato a Londra dal 1869 al 1876, una nomina dietro la quale è possibile vedere ancora il gradimento particolare del re.

Visconti Venosta, che può essere considerato come il simbolo della diplomazia della Destra storica, si era fatto difensore delle prerogative della carriera, sostenendo durante i dibattiti parlamentari che la nomina degli agenti all’estero fosse determinata da considerazioni di opportunità politica e che quindi il governo dovesse essere libero da condizionamenti. Soprattutto in quelle sedi ritenute politicamente più importanti, Visconti Venosta rivendicava la possibilità di scegliere i titolari della missione anche fuori dai ranghi della carriera diplomatica. Si trattava di una posizione molto netta, che corrispondeva a quella del governo, e anche di un passaggio importante in cui si affermava la specialità della funzione diplomatica e che da allora in poi fu un punto fermo della prassi costituzionale. Ciò tuttavia non voleva significare un’elusione dei diritti di coloro che avevano superato il concorso, di cui si fece sostenitore un moderato come Carlo Alfieri di Sostegno, fondatore dell’Istituto superiore di studi sociali di Firenze, il cui scopo era quello di formare la nuova classe politica dello Stato liberale. Egli si dichiarava d’accordo sulla discrezionalità politica delle nomine, ma soltanto per i gradi più elevati della diplomazia e non per i ruoli da incaricato d’affari in giù, perché riteneva che per i giovani che avessero sostenuto un concorso rigoroso occupare quei posti fosse un diritto morale.

E infatti il reclutamento concorsuale dette anche in quegli anni buoni risultati: oltre ai già citati Malvano, Pansa, Avarna di Gualtieri, Catalani, nella seconda fase degli anni di governo della Destra storica entrarono funzionari come Paolo Eugenio Bajnotti nella carriera consolare (1867), Federico Barilari (1867), Cesare Bertolla (1869), Giulio Vaccaj (1869), Ferdinando Fassati di Balzola nella carriera interna (1873), Giorgio Calvi di Bergolo (1876), Edmondo Mayor des Planches (1875), Alberto Pisani Dossi (1871), Edoardo Compans di Brichanteau (1867) nella carriera diplomatica, tra i ranghi della quale nel 1867 fu ammesso per concorso anche il ventenne Sidney Sonnino, che da volontario ebbe modo di conoscere le sedi di Madrid, Vienna e Berlino.

Se guardiamo ai caratteri della diplomazia della Destra storica, possiamo dire che da un punto di vista sociologico non abbiamo grandi cambiamenti rispetto agli anni di Cavour, nel senso che nella carriera interna e in quella consolare si registra una buona rappresentanza della borghesia, mentre nel ramo diplomatico prevale l’estrazione nobiliare, elemento comunque in crescita a causa, in questa fase, dell’immissione del personale degli antichi Stati. Relativamente a questi anni, nonostante si possa già da tempo parlare di una diplomazia caratterizzata da una funzione nazionale, l’elemento piemontese è ancora largamente dominante e ciò anche dopo l’assorbimento dei funzionari delle vecchie amministrazioni. A parte qualche caso, tra i quali quelli di Barbolani e Bianchini sono forse i più eclatanti, bisogna rimarcare che tutte le leve di comando sono saldamente nelle mani dei piemontesi.

Possiamo dunque sostenere che al 1870 esiste una diplomazia che diventa consapevole della propria specialità funzionale, quindi anche gelosa della sua autonomia, della discrezionalità della propria azione rispetto alle sollecitazioni provenienti dall’elemento politico, responsabile dei propri compiti e che agisce in base a considerazioni di natura tecnica. Difficile poter parlare di diplomazia ancora ciecamente asservita ai voleri della dinastia, quando un «conservatorissimo» come De Launay, appartenente alla più pura tradizione savoiarda, si opponeva da Berlino a re Vittorio Emanuele II per evitare che l’Italia entrasse in guerra a fianco della Francia nel 1870. E si consideri che proprio De Launay era uno dei più gelosi custodi della professione, che avrebbe voluto preservare dal contatto con i «dilettanti», cioè i politici.

La scelta della neutralità nel conflitto franco-prussiano voluta da Visconti Venosta, che rimaneva un convinto filofrancese, non fu presa a cuor leggero: in quegli anni la diplomazia italiana fu combattuta tra l’esigenza di non pregiudicare i rapporti con la Francia nei riguardi della questione romana e quella di mantenere buone relazioni con Berlino, necessarie per una politica di equilibrio tra Parigi e Vienna. Malvano scriveva nel 1868 ad Artom che la neutralità era per l’Italia una «stretta inesorabile necessità», sottolineando però quanto fosse opportuno «di nulla omettere che possa assicurarcene il beneficio». Funzionale all’obiettivo di Roma capitale, quella scelta aveva pur sempre un significato ben chiaro: «era la prova decisiva che l’Italia unita non era una semplice e effimera creazione napoleonica» (Chabod 1965, p. 97).

Certo non si può dire che la caduta del Secondo Impero fosse stata vissuta con distanza dagli uomini della Destra storica, cresciuti alla luce dell’esperienza cavouriana, consapevoli dell’importanza dell’alleato francese e del suo apporto nella campagna del 1859 («figli di Magenta e di Solferino», furono poi retoricamente e forse anche maliziosamente apostrofati). Un personaggio come Nigra, vicinissimo agli ambienti imperiali, che il 4 settembre 1870 aveva favorito la fuga dell’imperatrice Eugenia dalle Tuileries tra la folla urlante, visse con dolore il crollo dell’Impero, che aveva già lucidamente previsto da qualche anno. Nel 1868, scriveva ad Artom di voler andar via da Parigi, non perché gli fosse improvvisamente venuta a mancare la benevolenza dell’imperatore e dell’imperatrice, ma a causa della «vita d’incertezza continua, e questa tremenda spada di Damocle che è la questione romana, la quale non sarà sciolta se non il giorno in cui vi sarà in Francia una rivoluzione radicale e violenta» (Nigra ad Artom il 19 gennaio 1868, DDI, X, 1861-1870, doc. 58, p. 63). Nigra però, rispondendo ai voleri di Visconti Venosta, non cambiò sede e rimase nella capitale francese per altri sette anni, dimostrandosi degno di svolgere il proprio compito anche sotto il nuovo regime e anche contro il giudizio del re, che lo aveva in antipatia, influenzato in ciò dal genero Giuseppe Napoleone e dai bonapartisti, che non gli perdonavano il suo atteggiamento leale nei riguardi della Repubblica. E riguardo a Nigra, si ricordi come fu ancora capace di difendere gli interessi del Regno d’Italia nella sede di Vienna, dove fu inviato nel 1885, quando mostrò favore nei confronti della Triplice alleanza, come se i tempi di Plombières appartenessero ormai a un’altra epoca.

E in effetti, dopo gli esiti della guerra franco-prussiana il contesto internazionale appariva profondamente mutato, con tutto ciò che significava la nascita dell’Impero tedesco e l’avvio di una politica di potenza, e con esso il sistema diplomatico italiano creato da Cavour e che Visconti Venosta aveva consolidato. Venuta meno la protezione francese, Roma era divenuta capitale del Regno d’Italia, ma le condizioni di pace imposte dalla Germania alla Francia, che veniva privata dell’Alsazia e della Lorena, significavano la negazione di quei princìpi di nazionalità sui quali si era basato tutto il processo unitario italiano. In un contesto in cui il problema diventava «non essere divorati», come diceva Visconti Venosta a proposito di un’Europa diventata come un grande campo militare, la difesa e il consolidamento del giovane Stato unitario costituirono la nuova sfida della diplomazia italiana.

Una sfida che fu portata avanti nel segno della continuità: l’avvento della Sinistra storica al governo del paese non significò, infatti, alcuno stravolgimento di linea e tantomeno, come dicevamo sopra, in direzione di quella democratizzazione della politica estera per anni invocata dai banchi dell’opposizione. La nuova classe di governo si preoccupò soprattutto di legittimare se stessa, tranquillizzando le cancellerie europee, dove di certo non era stato dimenticato il passato rivoluzionario di molti suoi esponenti. Non solo non ci fu alcun ribaltamento di linea, ma si instaurò un clima molto accondiscendente nei confronti dei vecchi equilibri interni all’amministrazione, una ricerca di legittimazione che andava anche in direzione di casa Savoia, a sua volta alla ricerca di homines novi, che fossero però collaboratori docili e malleabili.

Il sintomo forse più evidente di questa continuità fu la destinazione a Londra di Menabrea, che era stato inviso alla democrazia sin dai tempi quarantotteschi di Vincenzo Gioberti ministro degli Esteri, quando venne rimosso dalla carica di primo uffiziale della Segreteria di Stato perché appunto considerato troppo conservatore. Stesso dicasi per la scelta di far reggere la Legazione di Parigi al generale Enrico Cialdini, altro ambasciatore politico, già inviato nel 1870 a Madrid con il compito di favorire la designazione a re di Spagna di Amedeo di Savoia. Nessuno, ovviamente, osò toccare De Launay a Berlino, mentre Nigra fu inviato in un’altra sede di alto livello come Pietroburgo e a Vienna fu riconfermato Nicolis di Robilant. Stesso discorso può essere fatto per quanto riguarda i collaboratori di Depretis e poi di Benedetto Cairoli al ministero: in questo senso, basti considerare la chiamata alla carica di segretario generale dal 1881 al 1883, con Mancini ministro, di Blanc, che era cresciuto alla scuola di Cavour. Così come non può essere sottaciuto ciò che avvenne a Malvano, uomo della Destra piemontese, che nel 1879 venne addirittura promosso da Cairoli e messo a capo di una neo-istituita Direzione generale degli affari politici e degli uffici amministrativi, suscitando critiche negli ambienti parlamentari di Destra e di Sinistra.

A ciò si aggiunga una spregiudicata politica di reclutamento di personale diplomatico di estrazione nobiliare, tale da invertire il trend generale che vede l’elemento borghese in costante ascesa, dato condizionato dal massiccio ricorso alle nomine di addetto onorario stabilite con decreto dal ministro. Ingressi che interessano soprattutto i giovani rampolli dell’aristocrazia piemontese, i cui cognomi indicano inequivocabilmente un’antica vicinanza a casa Savoia: Arborio di Gattinara, Avogadro di Casanova, Costa di Trinità, Della Croce di Dojola, Falletti di Villafalletto, Luserna Rorengo di Rorà.

Per quanto riguarda la linea di politica estera, che trovava in Visconti Venosta la sua matrice, si può dire che essa si infranse al Congresso di Berlino del 1878, che sancì il nuovo equilibrio di potenze imperniato sulla Germania, destinato a caratterizzare la situazione sino alla prima guerra mondiale. Fu un momento difficile della vita diplomatica del giovane regno, con Corti, il ministro degli Esteri di Cairoli, aspramente criticato per la sua politica delle «mani nette», in un consesso in cui ogni potenza guadagnava qualcosa, tranne l’Italia, ancora moralmente legata al principio di nazionalità.

Quelle critiche erano però il segno dei tempi: negli anni della Sinistra al potere, si comincia a verificare uno scollamento nei vincoli di affinità tra classe dirigente e classe politica, una prima crisi di quella comunanza di ideali e di strategie che negli anni della Destra storica era stata fattore essenziale del processo di unificazione territoriale e di cui l’azione lineare e condivisa della diplomazia di Visconti Venosta costituisce degna testimonianza. Fedele a quella linea e ancora contro i desiderata di casa Savoia e di gran parte della classe politica e anche dell’opinione pubblica, il nostro rappresentante a Vienna, Nicolis di Robilant, mostrava tutte le sue riserve nei confronti della Triplice alleanza, pensando che l’Italia dovesse recuperare prestigio, migliorare le condizioni economiche, finanziarie, militari e quindi consigliando ancora prudenza e lealtà. Alla fine, la contingenza internazionale caldeggiò l’accordo con le potenze centrali quale scelta necessaria per una giovane entità statuale che non voleva rassegnarsi al modo di vita di un piccolo paese neutrale: «non rimaneva se non ingoiare l’amaro calice», scrisse Benedetto Croce al proposito (Croce 1967, p. 104).

La diplomazia italiana fu pronta ad affrontare anche questa nuova pagina di vita internazionale, arrivandovi anzi con una coesione interna rafforzata dalle dure prove del processo unitario, nell’idea già consolidata che essa fosse in qualche modo chiamata ad agire al di sopra degli eventi della politica negli interessi generali del paese. Omogeneità politico-culturale e apoliticità tecnico-funzionale saranno i suoi caratteri distintivi, una tradizione che oltrepasserà i governi e le persone dei ministri e che in qualche modo, anche se molto soffertamente, riuscirà a sopravvivere anche al fascismo. Sulla persistenza di tale tradizione della nostra diplomazia, lo si può dire con sufficiente certezza, ebbe peso la consapevolezza di essere stata un segmento importante della classe politica che aveva costruito lo Stato nazionale.

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