La Grande guerra e la rivoluzione fascista

Cristiani d'Italia (2011)

La Grande guerra e la rivoluzione fascista

Emilio Gentile

Un decennio rivoluzionario

Gli anni fra il 1915 e il 1925 furono per gli italiani il periodo più rivoluzionario della loro vita unitaria, con una successione di avvenimenti imprevisti e sconvolgenti, che ebbero origine dalla Grande guerra e investirono la vita pubblica e la vita privata, la società, lo Stato, la politica, la cultura, la Chiesa, la religione1.

All’inizio del 1915 l’Italia era uno Stato monarchico liberale governato da un regime parlamentare che da oltre un decennio si era incamminato sulla via di una più effetiva democrazia. Alla fine del 1925, lo Stato monarchico non era più liberale, il regime non era più parlamentare, il governo era divenuto monopolio di un partito unico, il Partito nazionale fascista, sovrastato dalla personalità politica e carismatica del suo duce, il primo fondatore e capo di un regime totalitario nell’Europa occidentale.

Anche nel mondo cattolico italiano, gli anni dal 1915 al 1925 furono un periodo di avvenimenti importanti, che aprirono la strada a un cambiamento profondo nei rapporti fra lo Stato e la Chiesa.

Nel 1915, la posizione d’imparziale neutralità assunta da Benedetto XV di fronte all’Europa in guerra e la sua opposizione all’intervento italiano avevano riaperto la frattura nei rapporti fra il Vaticano e lo Stato laico, che nel decennio precedente, dominato dai governi presieduti da Giovanni Giolitti, sembravano invece avviati verso una sorta di conciliazione silenziosa, un tacito compromesso, aprendo la via per la partecipazione dei cattolici alla vita politica2.

Nel 1925, il governo dittatoriale diBenito Mussolini, che fin dalla vigilia dell’ascesa al potere aveva ripudiato la laicità dello Stato liberale e si era mostrato prodigo di omaggi e concessioni alla religione cattolica e alla Chiesa, auspicò l’avvio di trattative per giungere, «in un tempo più o meno lontano», a comporre il dissidio fra la Chiesa e lo Stato, che egli giudicava «funesto per entrambi, e storicamente fatale», per compiere «con ferma coscienza, il nostro dovere di italiani e di cattolici»3.

Infine, fra il 1915 e il 1925, avvenne un cambiamento decisivo nel ruolo dei cattolici nello Stato nazionale4. Gli eventi più rilevanti di questo cambiamento furono la conciliazione del cattolicesimo con il patriottismo, maturata negli anni della guerra, e, dopo il conflitto, la realizzazione della prima esperienza in Italia di un partito politico di ispirazione cattolica ma non confessionale, il Partito popolare italiano, fondato nel 1919 per iniziativa del sacerdote siciliano Luigi Sturzo, con il proposito di attuare nello Stato nazionale una democrazia ispirata ai principi cristiani. La parabola del Partito popolare coincise con il periodo di crisi, agonia e morte del regime liberale: alla fine del 1926, il Partito popolare, con tutti gli altri partiti, fu sciolto per imposizione del regime fascista, che esaltava il cattolicesimo come religione ufficiale dello Stato italiano, ma vietava ai cattolici di svolgere una qualsiasi attività politica che non fosse entro le organizzazioni fasciste, confinando il clero e tutte le associazioni cattoliche alle attività religiose e assistenziali. Tre anni dopo la fine dello Stato liberale, la Santa Sede siglava con lo Stato fascista, un trattato e un Concordato che ponevano fine alla ‘questione romana’.

Cattolici e Stato nazionale: dall’astensione alla partecipazione

Nel decennio precedente la Grande guerra, l’atteggiamento della Chiesa di Pio X nei confronti dello Stato nazionale era rimasto ufficialmente immutato rispetto alla condanna emessa dal Vaticano nel 1870. Tuttavia, nel corso del decennio giolittiano, aveva cominciato a mutare il comportamento dei cattolici nella vita politica, orientandosi verso un’intesa elettorale con i liberali conservatori per far fronte comune contro il Partito socialista e la sinistra anticlericale. Nello stesso periodo, la guerra di Libia aveva accentuato l’accostamento allo Stato nazionale dei settori cattolici che avevano interessi economici e finanziari nella nuova colonia italiana, favorendo il diffondersi di un nazionalismo cattolico, sensibile alle idee autoritarie e imperialistiche dell’Associazione nazionalista italiana e infervorato dalla prospettiva di un colonialismo missionario e civilizzatore5.

Col mutare dell’atteggiamento cattolico verso lo Stato liberale, un momento importante fu il patto Gentiloni, sottoscritto per le elezioni del 1913, le prime effettuate dal governo Giolitti dopo la riforma elettorale che concedeva il suffragio universale maschile. Il patto, espressione del moderatismo cattolico, prevedeva il sostegno degli elettori cattolici ai candidati liberali, che avevano sottoscritto l’impegno a opporsi all’introduzione del divorzio e a sostenere le rivendicazioni dei cattolici sulla scuola, la famiglia e la salvaguardia delle loro associazioni e delle congregazioni religiose6. Altri esponenti del movimento cattolico come don Sturzo, fautore di un ruolo politico autonomo dei cattolici nella politica nazionale, disapprovarono il patto, tanto più che don Sturzo considerava Giolitti un corruttore della democrazia con i suoi metodi trasformisti e clientelari di governo e la manipolazione delle elezioni nel Mezzogiorno per favorire i propri candidati7. Dalle elezioni del 1913 uscì una nuova maggioranza, che Giolitti non riuscì a dominare come era avvenuto nel decennio precedente. In effetti, il 4 marzo 1914, Giolitti rassegnò le dimissioni indicando come suo successore il rappresentate della destra liberale Antonio Salandra, che ebbe l’incarico di formare il nuovo governo. Antigiolittiano, promotore, con Sidney Sonnino, di una ‘politica nazionale’ per rafforzare lo Stato liberale, Salandra era un conservatore ancora convinto che lo Stato dovesse essere difeso tanto dai socialisti quanto dai cattolici e per questo aveva giudicato un errore il patto Gentiloni8. Ma era anche lui contrario al divorzio e a una legislazione più severa sulle congregazioni religiose9. Pertanto, il governo Salandra ottenne l’appoggio dei cattolici. Fu Salandra, insieme a Sonnino, nominato ministro degli Esteri nel novembre 1914, a dover affrontare la questione dell’intervento italiano nella Grande guerra.

Il papa per la pace

Dopo l’attentato di Sarajevo, Pio X si adoperò invano per scongiurare l’esplosione di un conflitto europeo. Il 2 agosto 1914, iniziate le ostilità, il pontefice esortò i cattolici di tutto il mondo a pregare «per ottenere che Dio, mosso a pietà, allontani quanto prima le funeste faci della guerra» ispirando ai governanti delle nazioni pensieri di pace10. Quando Francesco Giuseppe chiese al papa la benedizione per il suo esercito, rispose: «Io benedico la pace»11. Vecchio e malato, gravato dall’angoscia per la guerra, Pio X moriva il 20 agosto. Ai cardinali riuniti nel conclave, il 31 agosto il segretario alle lettere ai principi, il prelato Aurelio Galli, nella orazione de eligendo summo pontefice, richiamando il giudizio di Pio X sulla guerra, osservò che questa era stata provocata dai mali della società moderna, che aveva abbandonato l’insegnamento di Cristo: la guerra era una manifestazione provvidenziale della collera divina, che in tal modo voleva punire e purificare le nazioni12. Il 3 settembre il conclave elesse papa il cardinale Giacomo Della Chiesa, che assunse il nome di Benedetto XV13. Cinque giorni dopo, il nuovo pontefice, confermando l’interpretazione della guerra come castigo divino, esortava i cattolici a implorare Dio affinché «deponga questo flagello dell’ira sua, col quale fa giustizia dei peccati delle nazioni»14. Nella sua prima enciclica Ad Beatissimi apostolorum principis emanata il 1 novembre 1914, Benedetto XV denunciò la tragedia della guerra combattuta da popoli che si dicevano cristiani con «barbarica raffinatezza» e «con armi spaventose», da far dubitare «che essi discendano da uno stesso Padre, che abbiano la stessa natura e facciano parte della stessa società umana». Il pontefice ribadì che la guerra era una punizione divina per i mali intrinseci alla società moderna, dalla laicizzazione dello Stato e della scuola, alla lotta di classe, ma nello stesso tempo invitava i governanti a porre fine alla carneficina ricercando le vie della pace. In una allocuzione al Concistoro del 22 gennaio 1915, il papa confermò la neutralità della Chiesa cattolica, che riprovava «con tutte le forze ogni violazione del diritto ovunque sia stata commessa», ma respingeva allo stesso modo il tentativo di «coinvolgere l’autorità pontificia nelle dispute dei belligeranti»15.

Alla dichiarata neutralità della Santa Sede non seguì un comportamento analogo da parte del clero e dei cattolici delle nazioni belligeranti. In massima parte, sia nel fronte dell’Intesa, sia nel fronte degli imperi centrali, i cattolici si schierarono a sostegno dei loro paesi giustificando la partecipazione al conflitto come una «guerra giusta» combattuta per difendersi contro un nemico identificato come l’anticristo16. Il clero contribuì a sacralizzare la guerra come una crociata contro il male, a santificare la dedizione alla patria, a trasfigurare in martiri i caduti in battaglia17.

Neutralità e dovere

In Italia, nel periodo della neutralità, i cattolici militanti si divisero fra neutralisti e interventisti, con molteplici e differenti motivazioni per la scelta dell’una o dell’altra posizione, che andavano dal pacifismo integrale all’interventismo convinto18. Per un pacifismo integrale era, per esempio, Guido Miglioli, l’organizzatore delle leghe bianche nel Cremonese, che combatté animosamente contro l’intervento: il suo neutralismo scaturiva dalla sua fede religiosa, avversa per principio alla guerra e dalla sua avversione per lo Stato laico e borghese, che dalla guerra sarebbe uscito rafforzato coalizzando contro il proletariato le forze conservatrici, autoritarie e nazionaliste, e bloccando l’emancipazione economica, sociale e politica dei contadini, che egli sapeva naturalmente ostili alla guerra19. Inizialmente schierato per una neutralità incondizionata era Filippo Meda, esponente moderato del cattolicesimo politico, ma dopo l’invasione del Belgio il suo atteggiamento cominciò a mutare, per giungere infine alla scelta in favore dell’intervento, a difesa dei diritti dei popoli violati dall’aggressione tedesca20. Su posizioni di una neutralità condizionata, variamente motivata, si schierarono molti esponenti del moderatismo cattolico, come il conte Giuseppe Dalla Torre, presidente della giunta direttiva dell’Azione cattolica, dichiarando però di essere pronti a conformarsi, da buoni cittadini, alle decisioni del governo, sia per patriottismo sia per obbedienza all’autorità costituita, se questa avesse deciso, per proprie valutazioni, la necessità dell’intervento. «Non siamo né interventisti né neutralisti», scriveva padre Agostino Gemelli il 10 marzo 1915, ma «siamo semplicemente, e tout court, cittadini italiani» ai quali la «virtù dell’amor di patria» imponeva «di tacere e di obbedire», avendo fiducia «negli uomini che ci governano», perché al «governo solo e ai suoi consiglieri spetta la decisione. Noi dobbiamo tacere, prepararci, ubbidire»21. Un atteggiamento analogo, al di là delle discussioni sull’applicabilità della teoria cristiana della «guerra giusta» all’intervento italiano, fu assunto dalla rivista dei gesuiti «La Civiltà cattolica»22.

Nel complesso, i vescovi e il clero furono sensibili al naturale pacifismo delle masse, specialmente nelle regioni meridionali e nelle regioni di confine con l’Austria, esponendo, nello loro pastorali, il giudizio del pontefice sulla guerra come flagello divino e sostenendo la neutralità, ma furono tuttavia egualmente disposti a riconoscere il principio del dovere e dell’obbedienza all’autorità in caso di intervento dell’Italia in guerra23.

Cattolici interventisti

Fra gli interventisti convinti, mossi da ragioni ideali oltre che da valutazioni politiche, vi erano i giovani militanti della Lega democratica nazionale, come Eligio Cacciaguerra e Giuseppe Donati, che condividevano con l’interventismo democratico di Battisti, Salvemini e Bissolati la motivazione della guerra come lotta per la liberazione delle nazionalità oppresse e per l’abbattimento del militarismo e dell’autoritarismo incarnati dagli imperi centrali24. Donati riteneva «indubitabile» la «liquidazione dell’Austria», come scriveva il 20 settembre 1914, e l’Italia non poteva restaure neutrale e, di conseguenza, «patire lo scorno e il danno immenso della cosiddetta politica delle mani nette che ricorda proprio le mani nette di Pilato»25. Interventista convinto era anche Sturzo, che alla partecipazione degli italiani alla guerra attribuiva una funzione palingenetica della politica italiana, considerandola una grande occasione storica per liquidare il sistema trasformistico giolittiano e per avviare un profondo rinnovamento morale, civico e politico, promuovendo la partecipazione cattolica al consolidamento della coscienza nazionale26.

Il 1 maggio 1915, la giunta direttiva centrale dell’Unione popolare, di cui Sturzo era segretario, pubblicò un appello nel quale perorava la causa della pace approvando la «vigile neutralità» decisa dal governo italiano, nella speranza che «i diritti e le aspirazioni della Patria si possano attuare senza il grave olocausto di giovani vite», ma nello stesso tempo dichiarava, con un tonalità retorica nazionalisteggiante, che tali diritti e aspirazioni non potevano essere sottoposti «a veruna condizione, poiché essi esprimono il grido di giustizia di fronte alla missione di civiltà che l’Italia deve affermare e compiere nel mondo». Era questa, proseguiva l’appello, «una vocazione nazionale, che risponde ai destini della provvidenza e che, riallacciandosi alle glorie del passato, ci sospinge verso un grandioso avvenire». Per questo, concludeva l’appello, «dobbiamo essere preparati con suprema concordia ai magnanimi sacrifici»27. Entrata l’Italia nel conflitto, nel novembre 1915 Sturzo giustificò la partecipazione alla guerra spiegando che la guerra stessa era una grande rivoluzione, che doveva rigenerare il mondo partorito dalla Rivoluzione francese, iniziatrice del processo che aveva messo al bando la religione cristiana dallo Stato e dalla società, provocando la decadenza delle nazioni. La guerra restituiva vigore alla energie morali, «che il tocco del fuoco che purifica e del ferro che uccide ha destato con grandi eroismi e con la grande esplosione di sentimenti di viva fede incuorante al supremo sacrificio. Così la guerra ha elevato il valore dei principi divini ed eterni di morale, di diritto e di religione»28.

Un’appassionata espressione del sentimento patriottico cattolico la si trova negli scritti e nel comportamento di don Primo Mazzolari, un giovane prete che aderì all’interventismo democratico, collaborando al giornale «L’Azione» di Cesena, organo della Lega democratica cristiana di Eligio Cacciaguerra. Don Mazzolari non riteneva affatto che l’interventismo dei cattolici, per un suo aspetto nazionalista, fosse negazione dei valori universali del cristianesimo. Anche noi cattolici, affermava nell’ottobre 1915, «siamo nazionalisti, cioè accettiamo la nazione come organismo necessario al ben vivere sociale, la quale risponde a un insieme di ragioni etniche, storiche culturali, e a un insieme di nobili e tenaci sentimenti che si raccolgono nel santo nome di patria», ma il nazionalismo dei cattolici era del tutto differente dal partito nazionalista «che è una forma morbosa d’un sentimento naturale, mentre noi conosciamo alla nazione i limiti del suo crescere che sono segnati dai diritti altrui», riconoscendo «la necessità di uno sviluppo armonico con le altre nazioni»29. E ancora, un anno dopo,don Mazzolari ammoniva: «La patria è una santa cosa e appunto per questo dobbiamo guardarci dal farne un idolo. Essa deve porsi nell’ordine della realtà universale e di qui stimarla»: così come «agli interessi della patria bisogna sacrificare quelli privati», allo stesso modo «nell’interesse dell’umanità bisogna sacrificare l’egoismo della nazione»30. Quando l’Italia entrò in guerra, don Mazzolari, già più volte riformato, fece richiesta di arruolamento volontario. Nel testamento, lasciato prima di partire, scrisse di voler esser ricordato, in caso di morte, solo per aver compiuto con orgoglio il suo dovere verso la patria, desiderando come unico compenso «che non si dimenticasse domani che dei sacerdoti sono morti volentieri per la patria, per ricordare solo e rinfacciare che altri non abbiano saputo forse amarla come meglio dovevano»31.

Cattolici nella Grande guerra

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, i cattolici italiani non si comportarono diversamente dai cattolici delle altre nazioni belligeranti, compiendo il loro dovere, con più o meno comprensione o convinzione per quanto riguardava gli scopi della partecipazione italiana al conflitto32. Un alto contributo di valore militare fu dato dai giovani militanti nella Gioventù cattolica, come fu riconosciuto dallo stesso maresciallo Armando Diaz: diecimila caduti, 17 medaglie d’oro (fra le quali Damiano Chiesa e Enrico Toti), 703 medaglie d’argento, 82 medaglie di bronzo e 267 croci di guerra33. In tal senso, così come era avvenuto in Francia fin dall’inizio della guerra, anche in Italia la Grande guerra operò a favore di una sorta di tacita e spontanea conciliazione dei cattolici con lo Stato nazionale. A tale conciliazione contribuì, e ne fu nello stesso tempo una manifestazione, la riammissione dei cappellani militari nell’esercito, decisa alla vigilia dell’intervento, per offrire assistenza religiosa ai soldati al fronte34.

L’esperienza della guerra, il confronto quotidiano con la morte, con la sofferenza, con il dolore, furono considerate dalla Chiesa una condizione di vita che poteva favorire il risveglio religioso sia fra la massa dei combattenti che fra le loro famiglie, avviando così un processo di ‘ricristianizzazione’ per combattere il processo di ‘scristianizzazione’ prodotto dalla modernità. Inoltre, nel fronte interno, le amministrazioni comunali guidate da cattolici e le varie associazioni e organizzazioni cattoliche svolsero un’attiva opera di sostegno allo sforzo bellico e per l’assistenza alle famiglie dei soldati e dei caduti. Il comportamento disciplinato e patriottico dei cattolici combattenti e l’impegno dei cattolici nel fronte interno non venne meno dopo la condanna della guerra come «inutile strage», espressa il 1 agosto 1917 da Benedetto XV nella Nota ai capi delle potenze belligeranti, anche se questa provocò forte risentimento fra le potenze dell’Intesa: fu il ministro degli esteri Sonnino che insistette con gli alleati perché non rispondessero alla Nota del pontefice. E fu ancora l’Italia che si oppose a una partecipazione di rappresentanti della Santa Sede alla conferenza della pace35.

Molto attivo nel promuovere la conciliazione fra cattolicesimo e patriottismo fu, per tutto il periodo della guerra, padre Agostino Gemelli, impegnato come medico, come sacerdote e come studioso della psicologia del soldato36. Gemelli respingeva l’accusa di antipatriottismo rivolta ai cattolici, rivendicando ai cattolici il diritto di partecipare con le proprie «credenze politiche, sociali, religiose, ossia quelle credenze che noi crediamo essere le vere, quelle che crediamo rispondenti ai bisogni e alle finalità del nostro paese» alla vita e alla grandezza della patria37. Pertanto, la dottrina cattolica non osteggiava affatto il patriottismo, inteso come volontà di difesa della sovranità e del territorio nazionale e di tutto ciò che «appare come prodotto dello sviluppo nazionale, quindi la formazione politica, l’organizzazione sociale, la tradizione, le finalità, le speranze, insomma tutto il patrimonio spirituale della nazione»38. L’amore della patria era per i cattolici una virtù che aveva la sua origine in «Iddio stesso, in quanto la patria è lo strumento della potenza, della bontà, della provvidenza divina», ed era pertanto «incluso, come il meno nel più ed il particolare nel generale, nel culto dovuto a Dio»39. Allo stesso modo, la coscienza nazionale italiana non poteva prescindere dalla componente essenziale del suo patrimonio storico, ideale e morale, cioè la religione cattolica, come «uno dei più fermi fondamenti della unità nazionale»40.

Il «sano nazionalismo»

La conciliazione fra cattolicesimo e patriottismo era perorata da Gemelli nella più generale prospettiva di una riconquista cattolica della società italiana entro la struttura dello Stato nazione, attraverso la rivendicazione del valore propriamente cristiano dell’amor di patria, muovendo dal presupposto che la religione cattolica non era solo parte integrante e fondamentale della individualità nazionale italiana, ma era anche l’unica forza morale unitaria che poteva condurre l’Italia sulla via di una nuova grandezza, per realizzare la sua missione universale di civiltà, secondo il disegno della provvidenza divina: «Per noi l’amor di patria si converte cioè nel desiderio fattivo che la patria nostra abbia ad essere cristiana per essere grande e per continuare degnamente le gloriose tradizioni dei secoli scorsi»41.

All’elaborazione di una concezione cattolica della nazione e del nazionalismo si dedicò principalmente, e in forma autorevole, «La Civiltà cattolica» con una serie di articoli pubblicati a partire dall’inizio del 191542. Muovendo dal presupposto che la dottrina e l’etica cristiana erano del tutto compatibili con i doveri del cittadino nei confronti della patria e dello Stato e con l’aspirazione alla grandezza della nazione, «La Civiltà cattolica» volle precisare e definire quel che per la Chiesa era il «vero amor di patria» e il «nazionalismo sano», per distinguerlo nettamente, e vigorosamente, dal nazionalismo come nuovo movimento politico statalista e imperialista, sorto in Italia all’inizio del Novecento43.

Il nazionalismo imperialista era una concezione materialistica della nazione e della grandezza nazionale, una «grandezza estensiva, di dimensione, non intensiva, di perfezione, grandezza di peso e non di prestigio, di mole e non di virtù», consistente unicamente nella espansione territoriale44. Da questa concezione materialistica della nazione, scaturiva una concezione del rapporto fra lo Stato e l’individuo, che la Chiesa condannava come «statolatria» pagana perché considerava «l’individuo mero strumento dello Stato e la famiglia e i suoi membri come cosa, tutta dello Stato»45.

Al nazionalismo pagano, la rivista opponeva il «sano nazionalismo» conciliato con la dottrina e l’etica cattolica. Senza il cattolicesimo, il nazionalismo «come il paganesimo antico, vorrà a torto il sacrificio dell’individuo alla sua chimera del Dio-stato; e ritornerà alla barbarie, per cui la vita umana non aveva valore, l’individuo non contava, la famiglia non esisteva, lo Stato era tutto»46. Il patriottismo cristiano, concludeva la rivista, conciliando «l’amore e il culto della patria e dei parenti con l’amore e il culto stesso di Dio, ci farà sempre tanto più forti e operosi al vero bene della patria e della nazione, quanto più lontani dalle esagerazioni e dagli equivoci di un nazionalismo e patriottismo di falsa lega»47.

Nazione e democrazia

Alla fine della Grande guerra, maturò l’idea di dar vita a un partito politico di cattolici, ispirato ai princìpi cristiani, ma non confessionale, mentre nello stesso tempo, nel 1918, dallo scioglimento della Unione economico-sociale, una della quattro associazioni del laicato cattolico in cui era suddivisa l’Azione cattolica, nasceva nel 1918 la Confederazione italiana dei lavoratori, a opera di esponenti del movimento sociale cattolico come Achille Grandi, Giovanni Gronchi e Guido Miglioli48. A promuovere la nascita del partito politico furono soprattutto don Sturzo e i cattolici democratici, che volevano affermare la presenza della religione cattolica quale componente fondamentale della vita nazionale, avviando l’attuazione di un disegno che mirava a realizzare, sul piano della piena autonomia politica dalla Chiesa, una conciliazione fra princìpi e valori cattolici da una parte, e princìpi e valori della nazione e dello Stato dall’altra, ma proponendo anche una radicale riforma dello Stato liberale49. Nel pensiero politico del fondatore del Partito popolare era presente un vivace orgoglio patriottico, la «fede che la patria nostra – per la quale combattiamo e lavoriamo – uscirà dalle angustie che la travagliano e la travaglieranno per un pezzo, rifatta nella sua unità morale, nelle sue forze indistruttibili, nella sua missione civilizzatrice»50. Nel disegno riformatore dello Stato, Sturzo ribadiva l’indissolubilità del nesso fra nazione e democrazia, convinto che «nel valore storico di un popolo, nella sua stessa tradizione, nella concezione della propria autonomia e indipendenza, nella coscienza della missione e nella ragione della civiltà» si identifica «lo sforzo nazionale a conservare istituti tradizionali, posizioni morali e politiche tanto all’interno che all’esterno»51. Ma proprio per avvalorare questo sforzo, precisava Sturzo, era essenziale la partecipazione attiva del popolo alla vita dello Stato. In questa prospettiva democratica e patriottica, cristianamente ispirata, di rinnovamento dello Stato italiano si realizzò la fondazione del primo partito politico, non confessionale, dei cattolici italiani.

Il Partito popolare italiano

All’inizio degli anni turbolenti del dopoguerra, il progetto di costruire una partito di ispirazione cattolica, basato sull’accettazione della realtà dello Stato nazionale, poteva ormai dirsi compiuto nelle sue linee essenziali. Occorreva ora impegnare concretamente i cattolici come forza autonoma fra le altre forze politiche laiche, socialiste, liberali, democratiche, nazionaliste, rivendicando, nello stesso tempo, nei confronti della classe dirigente liberale, radici più antiche e più salde nella tradizione nazionale. Fu così che il 18 gennaio 1919 fu lanciato l’appello al paese con il programma del Partito popolare italiano: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché, uniti insieme, propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà», nel rivendicare

«i vantaggi della vittoria conquistata con immensi sacrifici, fatti per la difesa dei diritti dei popoli e per le più elevate idealità civili, come è imprescindibile dovere di sane democrazie e di governi popolari trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società»52.

Il nuovo partito rifiutava l’imperialismo, senza però rifiutare una politica coloniale vantaggiosa per gli interessi nazionali ma «ispirata ad un programma di progressivo incivilimento», e aderiva ai princìpi di ordine internazionale espressi dal presidente americano Woodrow Wilson attraverso i suoi «18 punti», mentre nella politica interna i popolari erano contro lo Stato accentratore, al quale volevano «sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni –, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private». Fra le riforme politiche, per incrementare la democrazia, i popolari chiedevano un sistema elettorale con rappresentanza proporzionale, il senato elettivo e un ampio decentramento comunale, provinciale e regionale. Per quanto riguardava la Chiesa, il punto VIII del programma affermava: «Libertà ed indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale. Libertà e rispetto della coscienza cristiana, considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo».

Nel primo congresso del Partito popolare, tenuto a Bologna dal 14 al 16 giugno 1919, don Sturzo, eletto segretario politico, spiegò perché

«non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicismo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione»53.

Il Partito popolare, di conseguenza, pur non considerando la religione un affare privato di coscienza, ma ritenendola anzi un «principio etico informatore della morale pubblica» in uno Stato laico, e pur cercando nella religione cristiana «lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva», non si arrogava il diritto

«di parlare a nome della Chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare della forza della Chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento, nella organizzazione e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelle forti battaglie, che solo in nome nostro dobbiamo e possiamo combattere, sul medesimo terreno degli altri partiti con noi in contrasto»54.

Pertanto, precisava don Sturzo, come primo atto della sua esistenza, il nuovo partito doveva «staccare la nuova azione dal passato e marcare la ragione autonoma, nazionale e positiva del suo carattere», considerando definitivamente chiusa l’epoca della politica oligarchica e clientelare e iniziata l’epoca dei partiti che esprimevano la volontà dei cittadini nella molteplicità dei loro interessi e dei loro ideali. Al congresso di Bologna, i dati sulla organizzazione del Ppi apparivano di notevole successo, per un partito di recente nascita: a sei mesi dalla fondazione, le sezioni del Partito popolare erano passate da 850 a 2.197, e gli iscritti da 55.895 a 104.972. Nel successivo congresso di Napoli (8-10 aprile 1920) le sezioni erano salite a 3.137 e gli iscritti a 251.740. In quello stesso anno, gli iscritti ai sindacati “bianchi” della Confederazione italiana dei lavoratori erano 1.180.000.

La forza e la debolezza di un partito cattolico non confessionale

Il Partito popolare non nacque per iniziativa e promozione della Chiesa, ma dalla Santa Sede di Benedetto XV la sua nascita fu accolta con benevolenza, tanto più che, pur senza essere partito confessionale, esso si ispirava esplicitamente al cattolicesimo e aveva nel suo programma rivendicazioni che la Chiesa da tempo avanzava nei confronti dello Stato laico: dalla tutela della famiglia alla opposizione al divorzio, alla moralizzazione della vita pubblica, al riconoscimento delle scuole cattoliche private con l’introduzione dell’esame di Stato55. Per conseguire questo scopo, il Partito popolare avrebbe svolto in Italia quella stessa funzione in difesa della libertà della Chiesa che il partito cattolico del Zentrum svolgeva in Germania fin dal 1870, sia pure nella peculiare condizione di un paese a maggioranza protestante, mentre in Italia i cristiani non cattolici erano piccole minoranze56. Dall’esistenza di un partito politico di ispirazione cattolica, benché non confessionale, era comunque agevolato il disegno di riconquista cattolica della società italiana perseguito dal pontefice.

Tuttavia, per quanto deciso a svolgere la propria attività politica in piena autonomia dalla Chiesa, una implicita legittimazione del Partito popolare da parte della Santa Sede era necessaria e inevitabile, tanto più che il nuovo partito si avvaleva, nello svolgimento della sua azione politica, della vasta rete organizzativa dell’associazionismo cattolico, affiancata da catene di giornali, banche e cooperative, oltre che dell’intera struttura della gerarchia ecclesiastica, dagli arcivescovi ai parroci. Se questa implicita legittimazione era un fattore di forza per il Partito popolare, era allo stesso tempo anche un fattore di debolezza, perché inevitabilmente l’orientamento della Santa Sede nelle vicende politiche di quegli anni turbolenti influiva, condizionava e alla fine poteva anche contrastare la condotta politica del Partito popolare. Altro fattore d’intrinseca debolezza del nuovo partito, che don Sturzo voleva far crescere unito, robusto e autonomo, con un’organizzazione moderna e una disciplina interna che affidava un saldo potere alla segreteria nazionale, era costituito dall’eterogenea composizione sociale e culturale dei vari gruppi e movimenti cattolici già esistenti, che vi confluirono.

L’unità perseguita da don Sturzo fu ostacolata da una varietà di posizioni interne, che andavano da una destra clericale, tradizionalista e conservatrice a un vario centro democratico, fino ad arrivare a un’estrema sinistra con tendenze anticapitaliste e antiborghesi. Nella varietà degli orientamenti politici si rifletteva la sua eterogenea composizione sociale, che raccoglieva, sotto la volta della comune fede religiosa, aristocrazia, alta borghesia finanziaria e industriale e grandi proprietari; un composito ceto medio di professionisti, impiegati, insegnanti, commercianti, e medi e piccoli proprietari, e un ceto popolare di artigiani e soprattutto contadini.

Nelle prime elezioni politiche che si tennero nell’Italia del dopoguerra il 16 novembre 1919, col sistema proporzionale introdotto dal governo Nitti allora in carica, il Partito popolare riportò un grande successo, risultando il secondo partito italiano con il 20 per cento dei voti e 100 deputati (i cattolici eletti nella precedente legislatura del 1913 erano 29), mentre il Partito socialista italiano conquistò il primo posto con il 34 per cento dei voti e 150 deputati57.

Da quel momento, il Partito popolare partecipò con i suoi rappresentanti a tutti i governi che si avvicendarono in Italia fino all’avvento del fascismo al potere, presieduti da Francesco Saverio Nitti (giugno 1919-giugno 1920), Giovanni Giolitti (giugno 1920-luglio 1921), Ivanoe Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922), Luigi Facta (febbraio-ottobre 1922). Ma a nessuno di questi governi il Partito popolare riuscì a dare un’impronta decisiva nel senso del proprio programma riformatore58. Fu, questo, l’aspetto forse più grave della combinazione di forza e debolezza insita nel Partito popolare: pur essendo la seconda formazione politica italiana, non riuscì a svolgere una funzione autonoma nella crisi politica e istituzionale dello Stato liberale. Fu il dramma del Partito popolare nel dramma della crisi dello Stato liberale: partito costituzionale indispensabile per la formazione di qualsiasi maggioranza di governo, che escludesse il Partito socialista, il Ppi dovette rassegnarsi a collaborare con governi guidati da esponenti della democrazia laica, come Nitti e Bonomi, o della vecchia classe dirigente liberale, come Giolitti e Facta, ma non fu mai capace di assumere la guida del governo: per ben due volte, in occasione della crisi del terzo governo Nitti nel giugno 1920 e dopo la caduta del governo Bonomi nel febbraio 1922, fu offerto a Filippo Meda l’incarico di formare il governo, e per due volte Meda rifiutò: mancò così l’occasione al Partito popolare, come scrisse più tardi don Sturzo a proposito del secondo rifiuto, che aprì la strada ai deboli e inetti governi Facta, di fare «il suo esperimento di potere, breve o lungo non importa, con un altro uomo, che poteva essere tra i più provetti della nostra vita parlamentare»59.

La crisi dello Stato liberale fu dovuta certamente al logoramento della vecchia classe dirigente, che ambiva a svolgere ancora un ruolo predominante e tuttavia fu incapace di far fronte alla nuova politica di massa. Ma un fattore aggravante fu la contrapposizione irriducibile fra i due maggiori partiti usciti dalle elezioni del novembre 1919, il Partito socialista e il Partito popolare, che rese impossibile una soluzione in senso democratico della crisi stessa. Affascinato dal mito della rivoluzione bolscevica, il Partito socialista dissipò la sua forza in uno sterile massimalismo rivoluzionario, mentre il Partito popolare, fautore di un rinnovamento democratico dello Stato, dovette accettare la collaborazione con governi precari sostenuti da fragili maggioranze con i democratici e i liberali: al Ppi fu sempre preclusa la via verso una maggioranza alternativa con i socialisti riformisti del gruppo parlamentare, sia per il rifiuto dei dirigenti massimalisti del Psi, sia per l’opposizione interna della destra clericale conservatrice, sia, infine, nel 1922 e ancora nel 1924, per il fermo divieto posto dal nuovo pontefice Pio XI a qualsiasi collaborazione fra popolari e socialisti60. Pertanto, la funzione riformatrice del Partito popolare si esaurì nella collaborazione ai governi di un sistema parlamentare sottoposto alla violenta contestazione di forze antiparlamentari e fra loro antagoniste, il socialismo rivoluzionario e il comunismo a sinistra, il nazionalismo rivoluzionario e il fascismo a destra.

Il fascismo: da pagano a cattolico

Il movimento dei Fasci di combattimento, fondato da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 non aveva ottenuto nessun deputato alle elezioni del 1919. Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane61. Ateo militante negli anni giovanili, quando era socialista rivoluzionario, dopo la conversione all’interventismo e l’espulsione dal Partito socialista, alla fine del 1914, Mussolini era rimasto ateo, anticlericale e pagano, e tale si professava quando diede vita al fascismo: «Noi» scriveva all’indomani della sconfitta elettorale del 1919 «che detestiamo dal profondo tutti i cristianesimi, da quello di Gesù a quello di Marx, guardiamo con simpatia straordinaria a questo ‘riprendere’ della vita moderna, nelle forme pagane del culto della forza e dell’audacia»62.

Ma cinque mesi dopo, nel maggio 1920, al secondo congresso dei Fasci di combattimento, Mussolini iniziò a mutare atteggiamento verso la Chiesa e il cattolicesimo.

«Quanto al Papato bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi in tutto il mondo ed una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici. Nessuno in Italia, se non vuole scatenare la guerra religiosa, può attentare a questa comunità spirituale. Lenin stesso si è arrestato dinnanzi all’autorità del Santo Sinodo e in Russia la religione è rispettata»63.

Pochi mesi dopo, nell’agosto, Mussolini inneggiava all’impero spirituale del cristianesimo «che non ha territori, ma ha ancora un’idea nella quale si raccolgono quattrocento milioni di uomini sparsi sulla faccia della terra»: «È un impero che conta oramai la sua vita a millenni. Sui flutti agitati della storia è ancora la barca del divino ebreo Gesù quella che galleggia meglio di tutte le altre»64. E un mese dopo, Mussolini ripudiava l’anticlericalismo e l’anticattolicismo:

«dico subito [disse in un discorso ai fascisti cremonesi il 5 settembre] che non sono anticlericale di professione. L’anticattolicesimo di chi parla di tresche fra parroci e Perpetue, è oramai una cosa rancida e superata. Ma meno ancora io voglio che siamo anticattolici. Abbiamo in Italia una grande forza riconosciuta; da Roma si parla a quattrocento milioni di uomini. Roma, oltreché come capitale d’Italia, va riguardata come capitale di un immenso impero spirituale. Se il nazionalismo utilizzasse, al fine dell’espansione nazionale, la forza del cattolicesimo, io credo che potrebbe trarne molta utilità»65.

La virata mussoliniana in materia di politica religiosa proseguì nel corso del 1921 quando il fascismo divenne un partito di massa e s’impose con la violenza dello squadrismo distruggendo gran parte della organizzazione politica e sindacale del partito socialista, presentandosi come il difensore dell’Italia, dell’ordine, della società borghese e della religione cattolica. «Qualcuno può dirvi» disse Mussolini durante la campagna elettorale nel maggio 1921 «che il fascismo è nemico della religione, che vuole scristianizzare l’Italia. Questa è una ridicola e ignobile calunnia. Noi non facciamo dell’anticlericalismo vecchio stile: noi rispettiamo profondamente la religione quando sia sinceramente professata»66.

Alle elezioni del maggio 1921 i fascisti parteciparono aderendo ai blocchi nazionali patrocinati daGiolitti, il quasi ottantenne presidente del Consiglio in carica, il quale pensava di poter indebolire sia il Partito socialista sia il Partito popolare e, nello stesso tempo, di riuscire a disinnescare la violenza del fascismo favorendo la ‘parlamentarizzazione’ del movimento. La campagna elettorale era stata funestata da violenti scontri fra i fascisti e i loro avversari, con numerose vittime. Anche militanti del Partito popolare e circoli cattolici subirono la violenza squadrista67. Nonostante ciò, dalle elezioni, il Partito socialista e il Partito popolare si confermarono come i due maggiori partiti, anche se il socialista, dopo la scissione del gennaio 1921 che aveva dato vita al Partito comunista, avevano perduto voti e seggi, mentre il Partito popolare aveva aumentato i suoi deputati da 100 a 108. Tuttavia il fascismo, benché avesse ottenuto soltanto 35 deputati, era la vera forza dominante nel paese, con oltre 200.000 iscritti militarmente organizzati, e continuò a praticare la violenza per aprirsi la strada verso la conquista del potere.

Il disegno di Giolitti era fallito e la sua permanenza alla guida del governo incontrò la decisa opposizione didon Sturzo, per l’antica avversione nutrita verso il politico piemontese68. Il Partito popolare ebbe una più ampia presenza nel nuovo governo presieduto dal socialista riformista Ivanoe Bonomi, varato nel luglio 1921, che tentò di porre fine alla violenza armata patrocinando un ‘patto di pacificazione’ fra i socialisti e i fascisti, accettato da Mussolini. Ma la rivolta dei capi squadristi contro Mussolini fece naufragare il tentativo pacificatore e la successiva trasformazione del movimento fascista in Partito nazionale fascista, decisa dal congresso dei Fasci nel novembre 1921, diede al fascismo la struttura definitiva di un partito milizia, cioè un partito militarmente organizzato che usava la violenza per imporsi ai propri avversari69. In quella occasione, Mussolini parlò dei rapporti fra Stato e Chiesa, affermando che lo Stato era sovrano

«in ogni campo dell’attività nazionale. Prima di togliere la legge delle guarentigie occorrono cautele. La diplomazia vaticana è più abile di quella della Consulta. Bisogna imporre il rispetto a ogni fede, perché per il fascismo il fatto religioso rientra nel campo della coscienza individuale. Il cattolicesimo può essere utilizzato per l’espansione nazionale»70.

Sturzo sul fascismo

In un primo momento, il Partito popolare, come gran parte dei liberali e dell’opinione pubblica borghese, aveva giustificato la violenza fascista contro il Partito socialista come una comprensibile reazione da parte di elementi borghesi alla politica terroristica del massimalismo rivoluzionario durante il cosiddetto ‘biennio rosso’, dal 1919 alla fine del 1920. Del fascismo come «fenomeno di difesa e di reazione», prodotto dallo «spirito di conservazione» dell’ordinamento nazionale, contro l’azione di «coloro che negano la patria per l’internazionale» e «il diritto degli altri per il monopolio di una classe», aveva parlato nel maggio 1921 anche Sturzo, il quale riteneva allora che il fascismo «non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma»71. «La Civiltà cattolica» riportò frequentemente le notizie degli episodi di violenza fascista, facendo tuttavia distinzione fra un «fascismo di difesa», provocato dalla prepotenza socialista, e un «fascismo di violenza», che sfociava in nuove prevaricazioni e turbamento dell’ordine72.

Ma nei mesi successivi il fascismo ampliò e consolidò la sua forza, estendendo la sua violenza anche agli altri partiti che considerava un ostacolo per le sue ambizioni, compreso il Partito popolare. Ad accrescere l’avversione del fascismo verso il Partito popolare era stata l’ipotesi di una collaborazione con il Partito socialista, emersa nel terzo congresso del Ppi tenuto a Venezia dal 20 al 23 ottobre 1921, con la richiesta, da parte della sinistra democratica rappresentata da Francesco Luigi Ferrari, dell’esclusione di qualsiasi collaborazione con il fascismo73. A questi orientamenti, tuttavia, si opponeva l’ala più conservatrice del partito, che invece simpatizzava per il fascismo come movimento antisocialista che proclamava la difesa della religione e della Chiesa.

Mussolini contro Sturzo

Più volte nel 1921, don Sturzo aveva denunciato alle autorità di governo l’opera «di violenza e di sopraffazione, di aggressione e di minacce» compiuta dai fascisti contro i popolari in varie province74. Gli attacchi fascisti contro esponenti del Partito popolare si intensificarono nel 1922:

«Nei centri e nelle campagne [scriveva don Sturzo a Bonomi il 24 febbraio] ricatti, intimidazioni, rappresaglie, violenze, che talora assumono carattere di ferocia eccezionale, si commettono e si ripetono da parte dei fascisti contro i Popolari senza freno alcuno, in libertà piena, poiché le autorità preposte all’ordine pubblico, e l’arma dei RRCC [Regi Carabinieri], se non sempre, palesemente limitano la loro azione, in una tranquilla indifferenza, quando pur si tratti di prevenire, di impedire, di sanzionare fatti gravissimi»75.

Due giorni dopo il gruppo parlamentare della Democrazia provocò la caduta del governo Bonomi per preparare il ritorno al governo di Giolitti, ma i popolari si opposero, con il cosiddetto ‘veto’ di don Sturzo, accettando tuttavia di sostenere un giolittiano tutt’altro che autorevole e capace come Luigi Facta76.

Da quel momento, mentreMussolini corteggiava pubblicamente la Chiesa con ostentate manifestazioni di ossequio, i fascisti intensificarono gli attacchi contro il Partito popolare. Ciò che il duce maggiormente temeva era un’alleanza parlamentare fra socialisti riformisti e popolari che potesse dar vita a un governo più autorevole e forte, deciso a porre fine alla violenza fascista per ristabilire l’ordine nella legalità. Il 28 febbraio, in un’intervista, il duce si scagliò con virulenza contro lo «sturzismo», definendo «il piccolo, mediocre siciliano», «questo prete politicante e deforme, che non celebra mai la messa e va in giro con la tonaca sudicia a fare della bassa politica invece che cura di anime», «un pericolo enorme per la religione in generale e per il cattolicismo in particolare»77. Nella seconda metà del 1922, mentre precipitava la crisi dello Stato liberale e il Partito fascista cominciò a pensare alla conquista del potere, il fascismo intensificò l’aggressione polemica e pratica contro i popolari: «brutta gente i seguaci di Sturzo», disse Mussolini in un’intervista il 12 luglio78. E il 25 luglio definiva il Partito popolare «vero ed autentico pescecane della politica italiana», con la sua collaborazione governativa, intrecci di interessi con le banche cattoliche ecc.: « È tempo che l’indegna mistificazione del Partito Popolare sia denunziata alla nazione», perché questo partito «non è cattolico e ancor meno cristiano», e perciò «dannoso agli interessi della religione e infido di fronte agli interessi della Patria»79. Due giorni dopo, continuando il martellamento polemico contro il partito diSturzo, scrisse: «Siamo di fronte ad un Partito infetto di socialismo, quindi anticattolico, quindi anticristiano», e fece allusione a voci nelle alte sfere del Vaticano, dove ci si domandava se la nascita del Partito popolare non fosse stata un danno enorme per la Chiesa, citando i comunicati con i quali la Santa Sede dichiarava di non aver nulla di comune con l’azione del partito di don Sturzo.

Pio XI: «Mussolini, un uomo formidabile»

Nel frattempo, il 22 gennaio era morto Benedetto XV. Mussolini commentò la morte del pontefice esaltando la «enorme potenza spirituale del cattolicismo». L’emozione suscitata dalla morte del papa nel mondo civile era per Mussolini la prova «che gli elementi religiosi della vita stanno potentemente risorgendo nell’anima umana. Il laicismo scientista e la sua logica degenerazione, rappresentata dall’anticlericalismo ciarlatano, stanno agonizzando»80. Quando, il 6 febbraio l’arcivescovo di Milano,Achille Ratti, fu eletto papa, a sessantacinque anni, assumendo il nome di Pio XI, e volle benedire la folla dalla loggia esterna di San Pietro, cosa che non accadeva del 1870, Mussolini commentò favorevolmente la sua elezione: «Ritengo che con Pio XI le relazioni fra l’Italia e il Vaticano miglioreranno»81. Anche il nuovo pontefice si era espresso in termini molto positivi suMussolini nel 1921, durante un colloquio privato al quale assistette un giornalista francese:

«Mussolini, un uomo formidabile: avete compreso bene? Formidabile [...] che avanza a grandi passi e invade tutto come una forza di natura. È un neoconvertito, perché viene dai ranghi dell’estrema sinistra, e dei novizi ha lo zelo che lo spinge ad andare avanti. E poi, afferra dai banchi di scuola i suoi seguaci e, in un colpo, li innalza alla dignità di uomini, e di uomini armati. E li seduce, li fanatizza, regna sulla loro immaginazione. Vi rendete conto di quel che ciò significa, e quale forza è nelle sue mani? [...]. Lui è l’avvenire. Resta da vedere come tutto questo andrà a finire e l’uso che egli farà della sua forza. Come si orienterà il giorno in cui dovrà scegliere un orientamento? Riuscirà a resistere alla tentazione, che insidia tutti i capi, di ergersi a dittatore assoluto?»82.

Il cardinale Ratti aveva incontrato occasionalmente Mussolini durante una cerimonia religiosa per il Milite ignoto nel duomo di Milano il 4 novembre 1921, alla quale parteciparono i fascisti con il loro duce. Il cardinale fu «cortesissimo» permettendo agli squadristi di entrare nel duomo con i loro gagliardetti, come ricordò più tardi lo stesso Mussolini83. Non risulta che vi siano stati altri incontri, sia pure occasionali, fra il cardinale Ratti e il capo delle camicie nere, che a Milano aveva il suo quartiere generale84.

Formatosi nel cattolicesimo lombardo conservatore, autoritario per temperamento, antiliberale e soprattutto antibolscevico intransigente, dopo l’esperienza prossima al bolscevismo, vissuta in Polonia come nunzio nel 1920, Pio XI era inflessibilmente contrario a qualsiasi collaborazione del Partito popolare con i socialisti85. Egli condannava i metodi violenti del fascismo ma certamente non gli dispiaceva, come non dispiaceva a larga parte dei cattolici conservatori, nella Curia e nel Partito popolare, la disfatta che il fascismo aveva inflitto al socialismo e che si accingeva a infliggere anche al liberalismo. Rimanevano inascoltate le poche voci dei cattolici antifascisti, comeFerrari, il quale fin dall’agosto 1922 aveva messo in guardia i cattolici denunciando le aspirazioni dittatoriali di Mussolini e del fascismo, dimostrando l’incompatibilità del cattolicesimo con il fascismo non solo per i suoi metodi, ma per la sua concezione antidemocratica e paganeggiante dello Stato, ispirata al modello oligarchico dell’antica Roma86.

Il 30 ottobre 1922, l’«uomo formidabile», dopo aver minacciato una mobilitazione delle squadre fasciste per la conquista rivoluzionaria del potere con una marcia su Roma, otteneva dal sovrano l’incarico di formare il nuovo governo. Nonostante il parere contrario di don Sturzo, il gruppo parlamentare del Partito popolare decise di partecipare al governo Mussolini, con la convinzione che ciò avrebbe contribuito a disarmare lo squadrismo fascista e a favorire l’integrazione del Partito fascista entro il regime parlamentare. Questa convinzione era largamente diffusa in tutto lo schieramento costituzionale87.

Il regno di Cristo e la rivoluzione fascista

Il nuovo presidente del consiglio fece sapere al Vaticano, come riferì il Segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri all’ambasciatore del Belgio, che egli «era un buon cattolico e la Santa Sede non aveva nulla da temere da lui»88. E per dimostrarlo, volle che tutti i membri del suo governo, fra i quali vi erano popolari, liberali, laici, agnostici e immanentisti, partecipassero con lui a una messa solenne nella Basilica di S. Maria degli Angeli per l’anniversario del 4 novembre. Il 16 novembre presentò il suo governo alla Camera dei deputati e ottenne la fiducia con larghissima maggioranza, dopo un discorso che si era concluso con un’invocazione: «Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica»89. Alcuni giorni dopo, durante una conferenza internazionale a Losanna, dialogando con alcuni giornalisti stranieri, Mussolini disse:

«Il mio spirito è profondamente religioso. La religione è una forza fondamentale che va rispettata e difesa. Sono perciò contrario alla demagogia anticlericale ed ateista, la quale rappresenta un vecchio gioco. Affermo che il cattolicesimo è una grande potenza spirituale e morale e confido che i rapporti fra lo Stato italiano e il Vaticano saranno d’ora innanzi amichevoli»90.

La Santa Sede accolse benevolmente il nuovo governo presieduto dal duce del fascismo. «Questo movimento» dichiarò il Segretario di Stato l’11 novembre «è diventato una necessità. L’Italia andava all’anarchia e il Re ha saggiamente agito, perché comandare ai soldati di sparare era egualmente dannoso»91. Apadre Gemelli, fondatore e rettore della Università cattolica di Milano, che gli chiedeva quale atteggiamento assumere verso il nuovo governo, Pio XI rispose: «Lodare no. Fare l’opposizione aperta non conviene, essendo molti gli interessi da tutelare. Occhi aperti!»92. «La Civiltà cattolica», riflettendo il pensiero del Santo Padre, fece sapere ai cattolici italiani che essi dovevano comunque sottostare a una forma di governo, quando «sia legittimamente costituita, sebbene inizialmente difettosa o anche discutibile per diversi aspetti», per ciò che «richiede l’ordine pubblico o il bene comune della società», e che non era lecito a nessuno, partiti o individui, «tramare ad abbatterla o soppiantarla o modificarla con vie ingiuste»93. A questa regola di rispetto del governo legittimamente costituito, la Santa Sede si attenne scrupolosamente nei successivi tre anni, assistendo silente alla demolizione della democrazia parlamentare da parte di un governo legittimato da una maggioranza parlamentare ma operante nel paese con la propria milizia armata per la distruzione delle opposizioni.

Mentre il duce del fascismo faceva pubblica professione di religiosità cattolica, il pontefice proclamava, con la sua prima enciclica Ubi arcano, pubblicata il 23 dicembre 1922, la necessità di instaurare «la pace di Cristo nel Regno di Cristo», per liberare l’umanità dalle rovine morali e materiali provocate dallaGrande guerra, dagli odi di nazione e di classe, dalla degradazione morale e da tutti i mali che erano stati prodotti e diffusi dalla perversa modernità94. Era certamente alta l’ambizione che ispirava Pio XI per il suo pontificato: sconfiggere la perversa modernità laica nata dalla libertà di coscienza e dalla ribellione alla Chiesa di Roma, che aveva generato la peste politica del liberalismo, della democrazia, del socialismo, del comunismo; riconquistare la società al cristianesimo per realizzare nel mondo moderno il Regno di Cristo. Era ambizione morale altissima di Pio XI ricondurre lo Stato moderno alla concezione cristiana del bene comune e restituire alla Chiesa di Roma l’autorità spirituale assoluta, che a essa spettava come società perfetta depositaria dell’unica verità rivelata dalla parola di Dio attraverso le Sacre Scritture e l’incarnazione del Cristo.

Per realizzare la riconquista cattolica della società e ricondurre lo Stato italiano alla concezione cristiana e al magistero della Chiesa, Pio XI seguì due strade. La prima, fu la riorganizzazione dell’Azione cattolica, avviata nell’ottobre 1922 e completata l’anno successivo, dandole una struttura rigidamente centralizzata, sotto il suo diretto controllo, attraverso la dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica, e assegnandole compiti esclusivamente di educazione morale e spirituale, col divieto di far politica anche a favore del Partito popolare95. La seconda strada fu il sostegno della Santa Sede al governo di Mussolini, che fu subito generoso di doni, spontaneamente offerti alla Chiesa, appagando desideri e rivendicazioni ignorate per sessanta anni dai governi liberali, anticlericali e massonici. Fra questi doni vi erano l’introduzione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari, l’obbligo dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche, l’istituzione dell’esame di Stato che parificava gli istituti privati cattolici alle scuole pubbliche; sostanziosi miglioramenti economici per il clero e per il culto; il riconoscimento delle feste religiose incluse nel calendario delle feste civili; la protezione delle processioni e delle cerimonie religiose; i provvedimenti per la tutela della pubblica moralità, del buon costume, della famiglia; l’opposizione al divorzio e il riconoscimento della sacralità del matrimonio; la repressione della pornografia, del gioco d’azzardo. Inoltre, il governo realizzò il salvataggio del Banco di Roma, che sosteneva finanziariamente una catena di giornali cattolici, mentre il Gran Consiglio del fascismo, organo supremo del Partito fascista, dichiarò l’incompatibilità del fascismo con la massoneria. Infine il dono più grande: l’avvio di colloqui segreti fra il governo e la Santa Sede al fine di risolvere la questione romana e pervenire alla conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa di Roma96.

Ai doni del fascismo, la Chiesa rispose mostrando un atteggiamento sempre più favorevole alla conservazione del governo di Mussolini. A tal fine, la Santa Sede considerò l’esistenza del Partito popolare come un ostacolo alla collaborazione con il governo fascista, specialmente dopo che Mussolini aveva posto fine alla collaborazione governativa licenziando i membri popolari, in seguito al terzo congresso del Ppi, tenuto a Torino nell’aprile 1923, dove don Sturzo aveva tenuto un discorso decisamente antifascista97. Due mesi dopo, il sacerdote siciliano rassegnò le dimissioni da segretario del partito, per ‘desiderio’ dello stesso Santo Padre, condizionato dalle pressioni del duce fascista, che minacciava rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote siciliano. Con le dimissioni di Sturzo, si accelerò la disgregazione interna del Partito popolare, perché la destra conservatrice e clericale, i «clerico fascisti» come li definì don Sturzo, uscì dal Ppi per creare gruppi propri schierati con il fascismo98.

Fautore principale della collaborazione cattolica con il regime era innanzi tutto Pio XI, pur con tutte le cautele, le preoccupazioni e le diffidenze che i metodi violenti dei fascisti gli suscitavano. Infatti, benché addolorato per le violenze compiute contro associazioni cattoliche ed esponenti del clero, il pontefice continuava a nutrire fiducia nell’«uomo formidabile», condividendo con il suo movimento l’avversione per il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il bolscevismo99.

Contro il cesaropapismo in camicia nera

Nell’estate del 1923 all’ambasciatore belga, il papa disse:

«Mussolini non è un Napoleone, e forse neppure un Cavour, ma egli solo ha avuto una comprensione precisa di ciò che era necessario al suo paese per liberarlo dall’anarchia alla quale l’avevano ridotto un parlamentarismo impotente e tre anni di guerra. Vedete come abbia la nazione dietro di sé. Possa egli rigenerare l’Italia»100.

La fiducia del pontefice nel duce non venne meno neppure dopo che i fascisti, il 23 agosto 1923, avevano assassinato a randellate don Giovanni Minzoni, l’arciprete di Argenta, in provincia di Ferrara, sostenitore del Partito popolare e organizzatore dei contadini. E ancora non venne meno neppure quando fu assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, in seguito alle elezioni politiche di aprile, svoltesi sotto il peso della violenza squadrista, che avevano dato al fascismo una larghissima maggioranza parlamentare. Benché ridotto a 40 deputati, il Ppi comunque risultò il primo partito dell’opposizione antifascista.101 E fu l’organo del Ppi, «Il Popolo», il primo giornale ad attribuire il 13 giugno la scomparsa del deputato socialista a un delitto politico. Il suo direttore, Giuseppe Donati, iniziò una coraggiosa inchiesta per scoprire e denunciare i mandanti dell’assassinio102. Nel discorso tenuto ai segretari provinciali del Ppi, il 16 luglio, il nuovo segretario del partito Alcide De Gasperi, eletto il 20 maggio, dichiarò ormai esaurita la speranza di una ‘normalizzazione’ del fascismo di fronte alla brutale realtà di «una fazione la quale si è impadronita a mano armata del potere e a mano armata lo difende», con la volontà «di usare alternativamente le armi del partito per dominare lo Stato e le forze dello Stato per conservare la dittatura di partito»103.

Invano i popolari antifascisti, come Donati, Ferrari,Igino Giordani, don Giulio De Rossi, oltre lo stesso don Sturzo, e il nuovo segretario De Gasperi, esortarono la Chiesa a non cedere al corteggiamento del nuovo ‘cesaropapismo’ in camicia nera, denunciando la natura anticattolica e anticristiana del fascismo, che predicava e praticava un’etica di guerra e di odio che era l’antitesi dell’etica cristiana, mentre idolatrava la nazione e lo Stato come le divinità di una nuova religione. Nell’ambito del cattolicesimo antifascista ebbero subito circolazione, fin dai primi mesi del governo fascista, espressioni di nuovo conio, come «totalitarismo» e «religione politica», per descrivere il nuovo cesaropapismo in camicia nera, che corteggiava la Chiesa e il cattolicesimo solo per farne strumento del proprio dominio politico104.

Durante la grave crisi del fascismo seguita al delitto Matteotti, che fece crollare il consenso a Mussolini, i partiti antifascisti, compresi i popolari, decisero di abbandonare il Parlamento, nella cosiddetta secessione dell’Aventino, finché non fosse stata ristabilita la legalità e il rispetto delle libertà costituzionali. Ma «L’Osservatore romano» ammoniva i credenti che secondo la dottrina cattolica essi dovevano obbedire all’autorità legittima opponendosi a rivolgimenti ottenuti con la violenza, col rischio di precipitare il paese nel buio105. In tal modo, la Santa Sede confermava la fiducia al governo Mussolini nel momento più grave, perché temeva che la sua caduta avrebbe provocato l’anarchia o la vittoria del bolscevismo. Il Partito popolare fu sconfessato dalla Chiesa e abbandonò al suo destino di partito antifascista esposto alla rappresaglia fascista. Su insistenza del cardinale Gasparri, con passaporto vaticano don Sturzo il 25 ottobre 1924 partiva per Londra. Pensava di restare all’estero per qualche mese: vi rimase più di venti anni, in volontario esilio.

L’Anno Santo del 1925

Dopo il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925, ebbe inizio la demolizione del sistema parlamentare e l’instaurazione del regime totalitario a partito unico, completata alla fine dell’anno successivo, senza che nessuna riprovazione venisse pronunciata dalla Santa Sede. Nello stesso tempo, gli intellettuali fascisti, definiti da Donati «cattolicisti atei», esaltavano il «carattere religioso e perciò intransigente del fascismo», affermando, come faceva Giovanni Gentile nel Manifesto degli intellettuali fascisti, divulgato il 21 aprile 1925, che l’idea fascista era un’idea religiosa106.

Il Partito popolare cercò di sopravvivere alla crescente repressione del nuovo regime totalitario in costruzione, proseguendo la sua battaglia per la difesa della democrazia. Con molta riservatezza, il partito tenne il suo quarto e ultimo congresso a Roma dal 28 al 30 giugno 1925107. Sturzo inviò una lettera per incitare i popolari a mantenersi fedeli, pur nelle avversità e nelle persecuzioni, al «compito grave e difficile» che «la Provvidenza ha assegnato al partito popolare» per dedicare il proprio sacrificio, mentre i potenti «trionfano nella reazione, nella illegalità, nella violenza», al conseguimento della «vera pace del paese, alla riconquista della libertà perduta, al risanamento morale della coscienza e della convivenza nazionale senza limitazioni e senza sottintesi»108. Il congresso fu concorde nel sostenere la necessità di impegnare tutte le energie per riconquistare la libertà perduta, ora che il regime costituzionale aveva praticamente cessato di esistere. De Gasperi insistette sulla necessità della intransigenza ideale e politica nella lotta antifascista, per l’insuperabile antitesi dottrinale e morale del popolarismo nei confronti del fascismo deificatore della nazione e idolatra dello Stato. E con un plauso alla ritrovata unità, fatto dal presidente, si concluse l’ultimo congresso dei popolari.

Il 1925 fu anno di frequenti atti di violenza compiuti in varie località contro persone e istituzioni cattoliche da parte dei fascisti, che ora avevano come segretario nazionaleRoberto Farinacci, il «ras» provinciale intransigente, integralista, totalitario e anticlericale, come lo era gran parte dei fascisti delle province109. Le violenze più frequenti avvennero nelle province settentrionali dove più forte era la rete delle associazioni cattoliche. Si stava tornando al paganesimo, disse nella sua omelia di Natale del 1925, il vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia, un fiero oppositore del fascismo110.

Di questa situazione di violenza, non vi fu alcun cenno nell’allocuzione che il pontefice aveva tenuto il 14 dicembre. Il papa rivolse ai governanti del nuovo regime il suo ringraziamento per aver assicurato l’ordinato svolgimento delle celebrazioni, «e tutto questo» precisò il papa «si verificava nonostante le difficoltà molteplici nella quali il paese si travagliava». Poi rese grazie a Dio per uno sventato attentato alla vita del capo del governo, e si disse compiaciuto per tutto quello «che da qualche tempo si viene facendo in favore della Religione e della Chiesa, non disconoscibile per quanto parziale riparazione alle ingiurie e ai danni ad esse già da tempo e troppo a lungo inflitti»111. Dopo l’allusione alla questione romana, Pio XI parlò della persecuzione che la Chiesa subiva in Messico da parte del governo repubblicano anticlericale, per rivolgere un altro apprezzamento ai governanti italiani per «tutto ciò che tende ad impedire o per lo meno attenuare le lotta di classe ed a coordinare le diverse attività del bene comune» ma rivendicò alla Chiesa il primato della sua dottrina sociale e il riconoscimento delle libertà necessarie per poterla svolgere e tradurla in pratica. Queste libertà, ribadì il papa, la Chiesa doveva «difendere e reclamare, essendo essa per dottrina e costituzione» contraria all’anarchia, verso la quale, disse il pontefice, liberalismo e socialismo conducevano inevitabilmente, quanto ad ogni concezione politica «che facendo la società e lo Stato fine a se stessi, è facilmente, per non dire fatalmente portata a sacrificare ed assorbire i diritti individuali e particolari, con esito, come facilmente si intende, non meno disastroso»112.

Il papa si accingeva a iniziare il nuovo anno 1926, il quarto dell’Era fascista, come allora i fascisti cominciavano a dire. La paura del bolscevismo, l’avversione per la democrazia, la speranza di riconquistare la società a Cristo lo avevano indotto a vedere nell’«uomo formidabile» che aveva distrutto il deprecato Stato liberale e laico, un aiuto provvidenziale per restituire la Chiesa all’Italia e l’Italia alla Chiesa. Ma nell’intimo del suo animo, il papa era inquieto per quanto stava accadendo in Italia. Non rimpiangeva la democrazia liberale, ma neppure il nuovo regime fascista lo tranquillizzava113.

Alla fine del 1925, Donati, che aveva condotto una coraggiosa inchiesta per dimostrare la responsabilità delle alte gerarchie fasciste nell’assassinio di Matteotti, andò in esilio a Parigi. Un anno dopo, nel novembre 1926, quando il Partito fascista, ormai padrone incontrastato dello Stato, mise fuori legge tutti i partiti, anche Ferrari prese la via dell’esilio114. All’estero, don Sturzo, Donati e Ferrari proseguirono la loro battaglia contro il nuovo regime totalitario, cercando di far conoscere in Europa il pericolo che il fascismo rappresentava per la democrazia e per il cristianesimo.

Note

1 Cfr. F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961; G. Candeloro, Storia d’Italia, VII-IX, Milano 1978-1981; Storia d’Italia, IV, Guerra e fascismo, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, Roma-Bari 1997.

2 Cfr. A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1971, pp. 361 segg.; G. Spadolini, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Milano 1974; E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Roma-Bari 2003, pp. 98 segg.; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Roma-Bari 1988, pp. 3 segg.; A. Canavero, I cattolici nella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, Brescia 1991.

3 Così si esprimeva Mussolini in una lettera inviata il 4 maggio 1926 al ministro della Giustizia Alfredo Rocco, riportata in C.A. Bigini, Storia inedita della Conciliazione, Milano 1942, pp. 72-74.

4 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966, pp. 577 segg; Id., Storia del movimento cattolico in Italia, II, Il partito popolare italiano, Bari 1966.

5 Cfr. L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera italiana dal 1871 al 1914, Bari 1970, pp. 171 segg.; G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, pp. 166 segg.; P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trust della stampa cattolica (1907-1918), Milano 2001, pp. 174 segg.; R. Moro, Nazionalismo e cattolicesimo in Federzoni e la storia della destra italiana nella prima metà del Novecento, a cura di B. Coccia, U. Gentiloni Silveri, Bologna 2001, pp. 53 segg.

6 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, cit., pp. 550 segg.; G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, cit., pp. 202 segg.; E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea, cit., pp. 244-251.

7 Cfr. G. Manacorda, Sturzo e Giolitti, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Roma 1973, pp. 433-461.

8 Cfr. A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, cit., p. 404.

9 Cfr. G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, cit., p. 229.

10 Cit. in F. Malgeri, La Chiesa, i cattolici e la prima guerra mondiale, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, p. 189; cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede. Dalla grande guerra alla conciliazione, Bari 1966; F. Latour, La papauté et le problème de la paix pendant la première guerre mondiale, Paris 1996, pp. 18 segg.; A. Lacroix Riz, Le Vatican, l’Europe et le Reich de la première guerre mondiale à la guerre froide, Paris 19963, pp. 7 segg.

11 Cfr. M. Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi. Da Sant’Agostino a Papa Wojtyla, Roma-Bari 2006, p. 104.

12 Cfr. D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una legittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008, p.15.

13 Cfr. Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di G. Rossini, Roma 1963.

14 Cit. in D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra, cit., p.17.

15 Cit. in G. Minois, L’ Église et la guerre. De la Bible à l’ère atomique, Paris 1994 (trad. it. La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all’era atomica, Bari 2003, pp. 496-497).

16 Cfr. E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Milano 2008.

17 Cfr H. Missalla, “Gott mit uns“. Die Deutsche katholische Kriegspredigt 1914-1918, München 1968; J. Fontana, Les catholiques français pendant la Grande Guerre, Paris 1990; Chrétiens dans la Première guerre mondiale, sous la direction de N.J. Chaline, Paris 1993; E. Gentile, Un’apocalisse nella modernità. La Grande Guerra e il Mito della Rigenerazione della politica, «Storia contemporanea» 26, 1995, pp. 768-774; W. Achleitner, Gott im Krieg. Die Theologie der österreichischen Bischöfe in den Hirtenbriefen zum Ersten Weltkrieg, Wien 1997; Religione, nazione e guerra nel primo conflitto mondiale, «Rivista di storia del cristianesimo», 3, 2, 2006; U. Mazzone, A religious war? Suggestions from the First World War, in Cristianesimo e conflitto in età moderna e contemporanea, a cura di U. Mazzone, Bologna 2009 (Annali di storia dell’esegesi, 26/2), pp. 237-263.

18 Cfr. P. Scoppola, I cattolici e il problema della guerra nel dibattito sull’intervento, in Id., Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Bologna 1966, pp. 235-301; G. De Rosa, I cattolici, in Il trauma dell’intervento: 1914/1919, Firenze 1968, pp. 167-201; F. Malgeri, La Chiesa, i cattolici e la prima guerra mondiale, cit., pp. 196-203.

19 Cfr. F. Leonori, Non guerra, ma terra! Guido Miglioli: una vita per i contadini, Milano-Roma 1969; L. Bruti Liberati, Il mondo cattolico cremonese e la Grande Guerra in La figura e l’opera di Guido Miglioli (1879-1979), a cura di F. Leonori, Firenze 1982, pp. 82-94.

20 Cfr. G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze 1959, pp. 184-192.

21 Cit. in G. Cosmacini, Gemelli, Milano 1985, pp. 153-154.

22 Cfr. F. Traniello, Guerra, Stato, nazione negli scritti di padre Rosa apparsi su “La Civiltà cattolica”, in Benedetto XV, a cura di G. Rossini, cit., pp. 661-677.

23 Cfr. A. Monticone, I vescovi italiani e la guerra 1915-1918, in Benedetto XV, a cura di G. Rossini, cit., pp. 627-659; G. De Rosa, I cattolici, cit., pp. 186 segg.; L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella grande guerra, Roma 1982; I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Scottà, Roma 1991.

24 Cfr. M. Guasco, F. Traniello, Cacciaguerra nella vita politica del suo tempo, in Eligio Cacciaguerra e la prima democrazia cristiana, a cura di P. Colliva, G. Marconi, C. Riva, Roma 1982, pp.452-467; G. Rossini, introduzione a G. Donati, Scritti politici, a cura di G. Rossini, I, Roma 1956, pp. LII-LXII; M. Guasco, Giuseppe Donati e la Lega democratica dopo Murri, in Giuseppe Donati tra impegno politico e problema religioso, a cura di R. Ruffilli, P. Scoppola, Milano 1983, pp. 9-33.

25 G. Donati, La fine dell’Austria e gli interessi dell’Italia, «L’Azione», 20 settembre 1914, ora in Id., Scritti politici, I, cit., p. 315.

26 F. Piva, F. Malgeri, Vita di Luigi Sturzo, Roma 1972, pp. 188 segg.; G. De Rosa, Luigi Sturzo, Torino 1977, pp. 155 segg.

27 Cit. F. Piva, F. Malgeri, Vita di Luigi Sturzo, cit., p. 191.

28 Una conferenza di don Luigi Sturzo, «L’Italia», 13 novembre 1915, cit. in F. Piva, F. Malgeri, Vita di Luigi Sturzo, cit., pp. 192-193.

29 P. Mazzolari, Diario 1905-1915, a cura di A. Bergamaschi, Bologna 1997, p. 726; cfr. P. Mazzolari, Quasi una vita. Lettere a Guido Astori (1908-1958), a cura di G. Astori, Bologna 1979; A. Bergamaschi, Un contestatore per tutte le stagioni, Bologna 1969.

30 Ibidem, p. 67.

31 Ibidem, pp. 724-725.

32 Cfr. P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915/1918, Bari 1969, pp. 100 segg.

33 Cfr. R. Moro, L’azione cattolica di fronte al fascismo, in Storia del movimento cattolico in Italia, IV, diretta da F. Malgeri, Roma 1981, p. 86.

34 Cfr. R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Roma 1980.

35 Cfr. Benedetto XV e la pace, 1918, a cura di G. Rumi, Brescia 1990.

36 Cfr. G. Cosmacini, Gemelli, cit., pp. 151 segg.; M. Franzinelli, Padre Gemelli per la guerra, Ragusa 1989.

37 A. Gemelli, Principio di nazionalità e amor di Patria nella dottrina cattolica, Torino 1918, p. 67.

38 Ibidem, pp. 57-58.

39 Ibidem, p. 61.

40 Ibidem, p. 44.

41 Ibidem, p. 67.

42 Cfr. E. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 136-143.

43 Nazionalismo e amor di patria secondo la dottrina cattolica, «La Civiltà cattolica», 8 gennaio 1915, pp. 129-144.

44 Ibidem, p. 137.

45 Ibidem, p. 140.

46 Ibidem, p. 135.

47 Equivoci del nazionalismo: “martiri” in guerra e “preti in zaino”, «La Civiltà cattolica», 8 maggio 1915.

48 Cfr. La Confederazione italiana dei lavoratori, 1918-1926: atti e documenti ufficiali, a cura di A. Robbiati, Milano 1981; La figura e l’opera di Guido Miglioli 1897-1979, a cura di F. Leonori, Cremona 1982; L. Bellotti, Achille Grandi e il movimento sindacale cristiano, Roma 1970; A. Grandi, Sindacalismo cattolico e democrazia sindacale, a cura di W. Tobagi, Bologna 1978; G. Di Capua, Achille Grandi e la laicità della politica, Soveria Mannelli 2004; G.F. Merli, Giovanni Gronchi. Contributo a una biografia politica, Pisa 1987; U. Spadoni, Giovanni Gronchi nell’Azione cattolica, nel Partito popolare, nella Confederazione italiana dei lavoratori, I, 1902-1922, Firenze 1992.

49 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico, cit., pp. 17-45.

50 L. Sturzo, Riforma statale e indirizzi politici, Firenze 1923, p. 79.

51 Ibidem, pp. 31-32.

52 Il testo dell’appello e del programma è riprodotto in Gli atti dei congressi del partito popolare italiano, a cura di F. Malgeri, Brescia 1969, pp. 35-39; cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il Partito popolare italiano, Bari 1966; E. Aga Rossi, Dal partito popolare alla democrazia cristiana, Rocca San Casciano 1969; Storia del movimento cattolico in Italia, III, diretta da F. Malgeri, Roma 1980.

53 Ibidem, p. 48.

54 Ibidem.

55 Cfr. G. Sale, Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV 1919-1922, Milano 2005.

56 Cfr. K.L. Egon Lönne, Il cattolicesimo politico nel XIX e XX secolo, Bologna 1991, pp. 235 segg.

57 Cfr. E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze 2000, pp. 12-13.

58 Cfr. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1979, p. 158.

59 L. Sturzo, Popolarismo e fascismo, Bologna 1956, pp. 35 segg; cfr. P. Craveri, De Gasperi, Bologna 2006, pp. 71-72.

60 G. De Rosa, Popolarismo e socialismo nella crisi della società italiana del primo dopoguerra, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Roma 1973, pp. 463 segg.

61 «Il Popolo d’Italia», 6 giugno 1919.

62 B. Mussolini, Vecchie usanze, «Il Popolo d’Italia», 12 dicembre 1919, ora in Id., Opera omnia, a cura di E. Susmel, D. Susmel, Firenze 1951-1963, XIV, p. 193.

63 B. Mussolini, Opera omnia, cit., XIV, p. 471.

64 Id., Bolscevismo imperiale, «Il Popolo d’Italia», 6 agosto 1920, in Id., Opera omnia, XV, p. 125.

65 Ibidem, p. 187.

66 Ibidem, XVI, pp. 314-315.

67 Cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989, pp. 202-205.

68 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., p. 192 segg.

69 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino 1966, pp. 100 segg.; E. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 215 segg.

70 B. Mussolini, Opera omnia, cit., XVII, p. 221.

71 Discorso tenuto a Roma il 2 maggio 1921, in L. Sturzo, Discorsi politici, Roma 1951, pp. 87-88.

72 Cfr. G. Sale, Popolari e destra cattolica, cit., pp. 97 segg.

73 Cfr. Gli atti dei congressi del partito popolare italiano, cit., pp. 221 segg.

74 Cit. in G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il partito popolare italiano, cit., p.186.

75 Cit. in E. Gentile, Storia del partito fascista, cit., p. 580.

76 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Il partito popolare italiano, cit.

77 B. Mussolini, Opera omnia, cit., XVIII, pp. 73-74.

78 Ibidem, p. 278.

79 Ibidem, p. 309.

80 B. Mussolini, Vaticano, «Il Popolo d’Italia», 24 gennaio 1922, in B. Mussolini, Opera omnia, cit., XVIII, p. 17.

81 G. Castelli, La Chiesa e il fascismo, Roma 1951, pp. 45-46.

82 L. Valti, Celui qui ouvrit le Vatican, «L’Illustration», 9 gennaio 1937, p. 33.

83 Cfr. G. Castelli, La Chiesa e il fascismo, cit., p. 46.

84 Invece la notizia di un incontro fra il cardinale Ratti e Mussolini il 28 marzo 1921 nel duomo di Milano, in occasione dei funerali delle vittime di un attentato al teatro «Diana», riferita da Margherita Sarfatti in Dux (Milano 1926, p. 241), e ripetuta da vari biografi di Mussolini, è senza fondamento perché in quel periodo il cardinale era delegato apostolico in Polonia.

85 Cfr. Y. Chiron, Pie XI (1857-1939), Paris 2004.

86 Cfr. F.L. Ferrari, “Il Domani d’Italia” e altri scritti del primo dopoguerra (1919-1926), a cura di M.G. Rossi, Roma 1983, pp. 13-16.

87 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 388 segg.

88 B. Beynes, Quatre ans à Rome (1921-1926), Paris 1934, p. 137.

89 B. Mussolini, Opera omnia, cit., XIX, pp. 23-24.

90 Ibidem, p. 33.

91 Cit. in G. Sale, Fascismo e Vaticano, cit., p. 10.

92 Cit. in ibidem, p. 25.

93 Ibidem, p. 27.

94 Y. Chiron, Pie XI, cit., pp. 134 segg.

95 Cfr. R. Moro, Azione Cattolica, clero e laicato di fronte al fascismo, cit, pp. 101 segg.

96 Cfr. F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla conciliazione, cit., pp. 140-151; R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., pp. 494 segg.; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009, pp. 102 segg.

97 L. Sturzo, Discorsi politici, Roma 1951, p. 323.

98 Cfr. A. Riccardi, Il clerico-fascismo, in Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, cit., pp. 3 segg.

99 Cfr. Y. Chiron, Pie XI, cit., pp. 216 segg.

100 B. Beynes, Quatre ans à Rome, cit., p. 169.

101 Cfr. G. Sale, Fascismo e Vaticano, cit., pp. 162 segg.

102 Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna 2004.

103 Cit. in E. Aga Rossi, Dal Partito popolare alla Democrazia cristiana, cit., pp. 189-192; cfr. P. Craveri, De Gasperi, cit., pp. 86 segg.

104 Cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi, Roma-Bari 2001, pp. 145 segg.

105 Cfr. G. Sale, Fascismo e Vaticano, cit., pp. 158 segg.

106 G. Donati, Perché commemoriamo il concilio di Nicea (31 maggio 1925), in La terza pagina de Il Popolo, a cura di L. Bedeschi, Roma 1973, p. 385.

107 Gli atti dei congressi del Partito popolare italiano, cit., pp. 551 segg.

108 L. Sturzo, Miscellanea londinese (1925-1930), Roma 2003, pp. 54-55.

109 Cfr. S. Rogari, Santa Sede e fascismo dall’Aventino ai Patti Lateranensi, Bologna 1977, pp. 68 segg.; G. Sale, Fascismo e Vaticano, cit. pp. 209 segg., e i documenti riprodotti, pp. 431 segg.

110 «Il Cittadino di Brescia», 27 dicembre 1925; cfr. A. Fappani, Mons. Gaggia e il Fascismo, in Momenti e aspetti della cultura cattolica nel ventennio fascista, Brescia, 1977, pp. 130-148.

111 Discorsi di Pio XI, I, 1922-1928, edizione italiana a cura di D. Bertetto, Torino 1960, p. 499.

112 Discorsi di Pio XI, I, 1922-1928, cit., pp. 499-500.

113 Cfr. E. Gentile, New idols: Catholicism in the face of Fascist totalitarian, «Journal of Modern Italian Studies», 2, 2006, pp. 152 segg.

114 Cfr. F. Malgeri, Il fuoruscitismo popolare, in Storia del movimento cattolico in Italia, IV, diretta da F. Malgeri, Roma 1981, pp. 41 segg.

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