La grande scienza. Bioetica

Storia della Scienza (2003)

La grande scienza. Bioetica

Eugenio Lecaldano

Bioetica

La bioetica può essere intesa come l'insieme delle riflessioni sui problemi etici che accompagnano le scelte umane nelle situazioni che influenzano le condizioni degli esseri viventi. La vita chiamata in causa può essere la vita della persona stessa che sceglie oppure quella di altri individui, come accade nella 'bioetica in senso stretto' (concernente in generale i problemi legati alla nascita, alla cura medica e alla morte degli esseri umani) oppure - collocandoci così all'interno di una 'bioetica in senso largo' - si può riflettere sulle implicazioni che le nostre scelte hanno per la vita di esseri non appartenenti alla specie umana, come le varie specie animali, o, in una prospettiva ancora più allargata, per la vita vegetale propria per esempio di alberi, piante e così via. Tali riflessioni sono già state diffusamente sviluppate nel corso dei millenni della storia culturale e si sono consolidate in alcune concezioni morali continuamente riproposte quali - per limitarci ad alcuni esempi di concezioni identificabili nel corso del pensiero occidentale - quelle di Aristotele, Lucrezio, Tommaso d'Aquino, Descartes, Spinoza, Hume, Kant, Darwin. Nella seconda metà del XX sec., però, la riflessione sulle varie questioni di bioetica ha coinvolto un numero sempre maggiore di persone (non soltanto scienziati, medici e pensatori, ma l'opinione pubblica in generale) sulla base di molti problemi che sono divenuti di tutti. Tale coinvolgimento di larghe fasce di persone nella riflessione su questioni bioetiche ha riguardato in primo luogo problemi che si possono fare rientrare in una più estesa 'bioetica quotidiana' (Berlinguer 2000) che ha a che fare con alternative sulla nascita e la cura medica che, non chiamando in causa tecniche molto sofisticate o procedure fortemente innovative, devono essere affrontati da un grande numero di persone e non esclusivamente da quelle che vivono nelle società avanzate occidentali. Un analogo coinvolgimento si è avuto con quei problemi, più propriamente caratterizzabili come 'bioetica di frontiera' (Berlinguer 2000), che nascono da situazioni molto sofisticate e peculiari, nelle quali sono chiamate in causa le scelte di pochi individui, per esempio ricercatori o persone che accedono a pratiche mediche nuove e, come tali, complesse ed eccezionali. La riflessione bioetica ha coinvolto non soltanto l'opinione pubblica in generale ma anche le istituzioni politiche e giuridiche di numerosi paesi. In questa sede non si renderà conto della discussione di tipo più immediato ed emotivo né in dettaglio delle leggi, sentenze o proclami fatti valere da diverse sedi istituzionali.

Per quanto riguarda le leggi o sentenze relative alle questioni di bioetica, da una parte sono rilevabili ancora forti diversità tra gli orientamenti presenti nei diversi paesi e, dall'altra, in società come quella italiana, è ancora in corso una faticosa rivisitazione della legislazione del passato con esiti molto limitati sull'aggiornamento dei codici. Nel caso poi dei documenti approvati dai numerosi comitati nazionali di bioetica costituiti nei paesi occidentali si tratta spesso di contributi rispondenti a esigenze diverse a seconda dei contesti nazionali e rilevanti quindi sul piano sociologico più che su quello etico o normativo. Cercando di fare valere una prospettiva più critica e universalistica, saranno illustrate le concezioni e le dottrine con cui si è cercato di affrontare sistematicamente, ed eventualmente di risolvere, i problemi etici riguardanti vari aspetti della vita umana.

La riflessione su tali problemi è tutt'altro che conclusa e non è stata ancora oggetto di un'elaborazione sistematica. Allo stato attuale è possibile unicamente cercare di tracciare un bilancio provvisorio delle linee principali della bioetica. La mera elencazione di titoli di libri e articoli nei quali sia esplicitamente contenuta la parola bioetica non consente naturalmente di stilare un bilancio oggettivo; appare dunque inevitabile fornire interpretazioni della storia della bioetica, numerose versioni della quale già si confrontano nel dibattito scientifico.

Uno dei primi punti decisivi necessari a ricostruire la vicenda della bioetica è quello del suo inizio (Jonsen 1998). Ferma restando la consapevolezza della natura convenzionale e simbolica della scelta di un evento come cominciamento di un processo, per quanto riguarda la genealogia della bioetica è accettabile la tesi che la presenta come una ricaduta a livello di riflessione degli sviluppi scientifici e dei mutamenti sociali verificatisi nella società americana - e, conseguentemente, nel mondo occidentale - negli anni Sessanta del secolo scorso. Questa prospettiva permette di spiegare perché l'oncologo Van Rensselaer Potter abbia pubblicato proprio nel 1970 un articolo intitolato Bioethics, the science of survival, che presenta per la prima volta il termine (a cui nel 1971 farà seguito il volume di Potter, Bioethics: bridge to the future) e perché nel 1972 Warren Reich abbia deciso di intitolare l'enciclopedia che stava preparando, e che uscì nel 1978 in 4 volumi, Encyclopedia of bioethics. Gli anni Sessanta hanno rappresentato una fase di straordinario sviluppo nel campo della medicina relativamente ai trattamenti medici. In proposito si può ricordare che il rene artificiale fu introdotto per la dialisi a Seattle all'inizio del decennio e che, alla fine di esso, il chirurgo Christiaan Barnard realizzò il primo trapianto di cuore in Sudafrica. Proprio a questo perfezionamento della tecnica dei trapianti fece seguito un riesame della concezione della morte umana, che il documento reso pubblico nel 1968 dalla Commissione della Harvard Medical School sul "Journal of the american medical association" collegava non più alla cessazione dell'attività cardiaca e respiratoria ma alla cessazione dell'attività cerebrale. Inoltre, sempre negli anni Sessanta si ebbe nella società americana una profonda trasformazione del costume ispirata a un deciso individualismo etico; in questo contesto si avviò una revisione del modo tradizionale di impostare il rapporto medico-paziente che segnò il rapido tramonto delle forme dette di paternalismo, in base alle quali i medici erano comunque autorizzati a intervenire sui loro pazienti, essendo gli unici competenti sul loro bene. In alternativa andò consolidandosi l'impegno a fare valere nelle situazioni mediche il consenso informato da parte dei pazienti.

La bioetica, vista alla luce di questa genealogia, si presenta come un diffuso movimento di riflessione individuale sui nuovi problemi generati dagli sviluppi della ricerca medica e biologica, rivolto a rivedere il costume etico trasmesso dalla tradizione per metterlo al passo con le esigenze interne a tale riflessione. Se si interpreta in questo modo l'inizio della bioetica si colgono anche gli elementi di continuità tra questi suoi primi sviluppi e gran parte della ricerca successiva, che risulta prevalentemente impegnata, nelle sue figure maggiori, a elaborare una nuova etica della vita. Personalità come Hugo Tristram Engelhardt, Peter Singer, Helga Kuhse, John Harris trovano in tal modo naturale collocazione nel contesto di una bioetica così intesa.

Diversa è invece la linea che connette la bioetica con i problemi morali generati dalle sperimentazioni effettuate dai medici nel periodo nazista. In questo caso la bioetica nasce da un fallimento della ricerca medica e della scienza che, lasciate a sé stesse, non hanno saputo moderare una loro intrinseca arroganza generando situazioni moralmente inaccettabili e indegne della vita umana. La bioetica in quanto etica della sperimentazione umana si presenta principalmente come esigenza di porre limiti alla ricerca scientifica, della quale non si può non diffidare perché caratterizzata da un'intrinseca tendenza a non tenere conto delle esigenze delle persone. La bioetica, dunque, più che come la ricerca - da parte di un gran numero di persone autonome - di nuovi criteri e principî da mettere alla prova in una libera convivenza civile per regolare le scelte sulla nascita, la cura, la morte e sul trattamento di animali e Natura, si presenta come la denuncia continua dei pericoli generati dalle nuove acquisizioni di una scienza e di una tecnica che hanno perso il loro radicamento in una salda antropologia umana. Coloro che interpretano in tal modo la bioetica sono impegnati in un continuo tentativo di riaffermare la validità di principî assoluti nella moralità tradizionale. Si tratta di un approccio spesso sottoscritto da teorici che all'accettazione di una visione religiosa del mondo uniscono una tendenza a rifiutare il valore conoscitivo della scienza e la sua capacità di ispirare significativi progressi nelle condizioni di vita degli esseri umani mediante le applicazioni che conseguono da queste conoscenze.

La bioetica come riflessione sistematica

Una volta ricostruita la genealogia della bioetica occorre avanzare una tesi che provi a individuarne con chiarezza l'identità disciplinare. Anche procedere su questa strada comporta scelte del tutto ipotetiche e ovviamente controverse.

La diffusione della riflessione sulle questioni di pertinenza della bioetica ha chiamato in causa elaborazioni a differenti livelli e un gran numero di specificità disciplinari diverse. Come la stessa nozione del termine suggerisce, l'interdisciplinarità è costitutiva della bioetica nel senso che è sua parte essenziale la presenza di due saperi: quello relativo alla vita e concernente la conoscenza dei modi reali in cui essa si sviluppa e in particolare delle forme in cui si manifesta nelle situazioni di pertinenza della bioetica; e quello volto a individuare criteri etici che consentano di affrontare adeguatamente i problemi che di volta in volta si pongono. Al di là di qualche tentativo di riempire lo spazio delle conoscenze sulla vita con forme di metafisica e di filosofia, la storia della bioetica mostra con chiarezza che soltanto le forme scientifiche di sapere sono state in grado di farne procedere le elaborazioni. Solamente le conoscenze acquisite dalla biologia scientifica sui processi della vita e le relative informazioni offerte dagli scienziati hanno costituito il filo rosso degli avanzamenti nella bioetica: nell'aspirazione a individuare una soluzione eticamente adeguata, tutti i tentativi di escludere la rilevanza delle informazioni o delle procedure messe a punto da nuove aree di ricerca (come, per es., quelle della cosiddetta ingegneria genetica o della mappatura del genoma) risultano falliti, come dimostrano le questioni coinvolte una ventina di anni dopo tali tentativi di negazione e tenendo conto di una prospettiva internazionale. In generale nessuna pretesa normativa di alcuna concezione bioetica è sopravvissuta una volta che le sue implicazioni o i suoi suggerimenti sono risultati incongrui con quanto il sapere scientifico andava mostrando. Tra quanti si occupano di bioetica vi è una diffusa consapevolezza che l'etica non è riducibile a un'elencazione di fatti o scoperte tecnico-scientifiche; forse non egualmente accettata, non meno giustificata sul piano logico è però anche la consapevolezza che l'etica è vincolata a una condizione empirica di sensatezza, la quale richiede che le sue prescrizioni e le sue norme non possano esigere o pretendere ciò che è chiaramente falso o realmente impossibile. Larga parte della riflessione bioetica è stata proprio impegnata nel mettere al passo con i risultati della ricerca biologica le credenze morali di fondo.

Naturalmente non egualmente determinato è lo spazio di pertinenza della riflessione etica. La ricerca di criteri adeguati di comportamento nelle situazioni problematiche ha richiesto, nel quadro della riflessione bioetica, un'ampia utilizzazione di una serie di discipline empiriche in grado di dare informazioni sulla condotta umana e sulle ricadute di specifiche scelte nelle situazioni future prevedibili. Psicologia, sociologia, antropologia, economia, storia sono alcune delle discipline chiamate in causa per ricostruire il contesto all'interno del quale non possono non collocarsi le scelte degli esseri umani e non mancano quindi contributi significativi che, di volta in volta, hanno privilegiato qualcuna di tali ottiche empiriche cercando di integrarle a nodi tematici particolarmente importanti per la bioetica (la nascita, la famiglia, la cura, la morte, la trasformazione delle figure professionali in medicina, gli effetti di determinate pratiche morali sulle vite individuali o sulle condizioni sociali). Il lato prescrittivo e normativo della riflessione bioetica ha visto anch'esso confrontarsi sovente diverse impostazioni disciplinari, in particolare quelle impegnate nella conoscenza ed elaborazione di dimensioni normative istituzionalizzate (come nel caso del diritto e della politica). Tali prospettive hanno fornito a loro volta utili indicazioni di alcuni requisiti necessari in bioetica per una ricerca riflessiva che non può essere idonea se si perdono di vista le leggi e le norme esistenti nelle società. Al di là di questo taluni hanno ritenuto opportuno ricondurre la ricerca di soluzioni adeguate alle questioni della bioetica integralmente all'interno di discipline consolidate, come il diritto o la politica, o considerarla esclusivamente come parte di ricerche normative più specifiche e settoriali, come quelle dell'etica medica, della medicina legale o della deontologia professionale di medici e ricercatori. Tutte le pretese di occupare in modo esclusivo lo spazio normativo della bioetica sono tuttavia risultate ingiustificate, mentre il contesto della bioetica stessa si è rivelato fertile per il fiorire non soltanto di nuove competenze ma anche di vere e proprie discipline, come per esempio il biodiritto o la biopolitica.

Le elaborazioni più originali sono quelle rimaste fedeli al nucleo problematico proprio della bioetica, che hanno ricercato, in modo argomentato e su basi empiricamente controllabili, una soluzione accettabile per tutte le persone coinvolte. Proprio questo è quanto è accaduto a diversi livelli negli ultimi decenni. Un'elaborazione del genere non si è consolidata nella discussione pubblica a causa della indeterminatezza e forte mutabilità di quest'ultima e del prevalere in essa di toni emotivi e non argomentati. Ciò non toglie che si è assistito a una liberalizzazione progressiva dell'opinione pubblica che lentamente è giunta ad accettare pratiche, inizialmente rifiutate, appena se ne sono comprese le ragioni in termini terapeutici o di maggiore libertà individuale e si è dissolto l'alone di paure, ansie e inquietudini diffuso dalla trattazione scandalistica prevalente nei mass-media.

La ricerca di cui si può rendere conto in una trattazione enciclopedica di bioetica è rappresentata piuttosto dalle diverse concezioni sistematiche che si sono confrontate con il fine di individuare criteri idonei ad affrontare i problemi normativi posti dalle problematiche connesse alla vita. In questo senso negli ultimi decenni si sono presentate alcune impostazioni che hanno cercato di presupporre una riflessione compiuta di tutto l'insieme delle scelte di vita di fronte a cui si trovano oggi gli esseri umani. Si tratta di elaborazioni speculative che presentano nella storia della cultura umana un tratto di originalità nel senso che, con le loro pretese normative, coinvolgono un insieme di situazioni ramificate che non erano state affrontate dalla cultura del passato. Da questa prospettiva la bioetica si presenta come distinta dall'etica medica, sia in quanto tendenzialmente chiama in causa forme di vita come quella animale e vegetale oltre a quella umana (di pertinenza peculiare dell'etica medica) sia nel senso che non è propriamente un'etica per coloro che svolgono la professione medica bensì, anche quando si occupa delle questioni legate alle cure sanitarie, una ricerca di soluzioni che possano essere accettate da chiunque di volta in volta rivesta il ruolo di medico come quello di paziente.

La ricerca e il contesto empirico della riflessione bioetica

La bioetica è fortemente influenzata dagli avanzamenti della ricerca scientifica nel campo biologico e, nello stesso tempo, ampiamente impegnata a riflettere sui modi più idonei di rapportarsi a essi. Specialmente a livello della bioetica popolare diffusa nell'opinione pubblica a questo confronto con la scienza in generale e con la biologia in particolare viene assegnato il compito di porre limiti alle ricerche, dando vita così a quella che più propriamente può essere chiamata una 'bioetica conservativa'. La bioetica viene impropriamente associata a un atteggiamento di negazione e rifiuto dei nuovi risultati. Si cerca poi di ridurre i danni di un atteggiamento di rifiuto aprioristico nei confronti della scienza distinguendo radicalmente tra il piano della ricerca scientifica pura e quello della ricerca applicata o tecnica: una distinzione di piani che sembra del tutto fuori luogo nella biologia, che vede strettamente interconnessi piano conoscitivo e piano sperimentale.

Alcune forme di bioetica riflessiva sottoscrivono un rifiuto globale delle innovazioni che sono al centro delle situazioni della bioetica in quanto, elaborando una concezione religiosa del mondo e della vita umana, segnano come tratto distintivo della conoscenza del reale il riconoscimento del mistero e come atteggiamento costitutivo nei confronti del Creato un rispetto complessivo di ciò che è causato dall'Autore della Natura, spinto sino al punto di non disporre in alcun modo dei processi di vita, che si ritengono forniti di un loro proprio finalismo intrinseco. Una tale posizione, che troviamo filosoficamente teorizzata da esponenti del neotomismo (come, per es., Sgreccia 1994 e Reichmann 2000), è stata espressa nella sua forma più alta e originale per quanto riguarda l'area della bioetica dal pensatore tedesco Hans Jonas. Quest'ultimo ha cercato di elaborare un'etica della responsabilità in rapporto a quelle condizioni create - per l'uomo dagli sviluppi delle scienze biologiche e delle tecniche della vita e che è caratterizzata dalla massima cautela e rispetto della dignità intrinseca della vita umana (Jonas 1990). Una concezione etica che Jonas presenta come ricaduta pratica di una reintepretazione complessiva della vita che, in opposizione alle concezioni evoluzionistiche, riafferma una biologia di tipo finalistico (Jonas 1999).

All'interno della bioetica riflessiva è largamente accettata la tesi secondo la quale essa non può ridursi a semplice cassa di risonanza o giustificazione delle scoperte scientifiche e si sottolinea diffusamente la forma di fallacia naturalistica presente in tutte le posizioni che riducono l'orizzonte normativo presente nella bioetica a una mera registrazione o previsione di ciò che le scienze o la medicina sono in grado di ottenere. La bioetica si presenta piuttosto come un confronto in termini razionali su quali sviluppi scientifici siano da accettare e favorire e quali da ostacolare e rifiutare. Ritornano poi posizioni che continuano a considerare la scienza e la tecnica come intrinsecamente pericolose, conciliando questo atteggiamento antiscientifico di volta in volta con impostazioni spiritualistiche, idealistiche, esistenzialistiche o fenomenologiche. Nelle impostazioni più aperte nei confronti delle acquisizioni scientifiche e della ricerca medica è invece individuabile un progressivo processo di elaborazione rivolto a rendere esplicite le implicazioni etiche di tali acquisizioni segnando un chiaro discrimine tra un'area ristretta di eccessi rischiosi e un vasto campo di utilizzazioni positive e benefiche di esse.

Va preliminarmente ricordato che, come è stato più volte spiegato - in particolare da James Rachels (1996) - la ricerca biologica ha fortemente contribuito a modificare il quadro di riferimento dell'etica. Le maggiori conoscenze sulle somiglianze e sulle vicinanze (più recentemente documentate anche dai risultati delle ricerche sul genoma) tra umani e animali non umani hanno portato a includere sempre più nel raggio di pertinenza della condotta morale un atteggiamento responsabile nei confronti degli animali, in grado di provare sofferenze largamente simili a quelle dell'uomo. Dopo l'esportazione, da parte di pensatori animalisti come James Rachels, Tom Regan (1990) e Singer (1991), dei risultati delle ricerche della biologia evoluzionistica nel campo delle riflessioni etiche sui diritti degli animali e sulla loro liberazione dai trattamenti crudeli nella sperimentazione e nell'industria alimentare, non è più possibile dare per scontato che l'etica sia confinata alla specie umana. Non diversamente proprio la ricerca biologica ha mostrato in modo chiaro lo stretto radicamento evolutivo della vita nel contesto ambientale e ha evidenziato la ricaduta complessiva di fenomeni quali la riduzione della biodiversità o di altre trasformazioni a livello ecologico, in parte ancora controverse, come le conseguenze del buco dell'ozono.

Sulla base della riflessione sull'incidenza etica di eventi del genere si è così innestato un dibattito, del quale ha reso conto Sergio Bartolommei (1995), tra diverse concezioni: alcune impegnate ad attribuire alla Natura una rilevanza morale diretta, insistendo sulla profonda connessione ecologica tra la vita umana e l'ambiente circostante; altre invece convinte della possibilità di riconoscere alla Natura soltanto il valore indiretto di influenzare la vita degli esseri umani. L'allargamento della riflessione morale alla vita vegetale e all'ambiente è un altro indubbio risultato della riflessione sulle acquisizioni della ricerca biologica. La riflessione morale capace di tenere conto delle indicazioni della biologia scientifica cerca di influenzare l'opinione pubblica nel dibattito che si è aperto sulle applicazioni biologiche all'agricoltura e sulla creazione di organismi geneticamente modificati. I diffusi timori nei confronti di quello che viene chiamato 'il cibo di Frankenstein' vengono criticamente discussi da chi cerca di non affidarsi a formule vuote - come quelle di un appello a un cosiddetto principio di precauzione - e da chi è in grado di fare emergere, in luogo della criminalizzazione delle tecniche, la necessità di disporre di vincoli politici e giuridici contro interessi economici illegittimi (Bartolommei 2003).

Va inoltre sottolineato che la ricerca biologica ha segnato non soltanto un allargamento dell'universo di applicazione della responsabilità morale che è al centro della riflessione bioetica ma anche un chiaro spostamento di asse a proposito di ciò che è da considerare prioritario per identificare l'ambito proprio della moralità e dell'etica. Anche se le concezioni bioetiche si diversificano radicalmente nell'approccio e nei valori che privilegiano, una sorta di premessa condivisa risulta ora quella di mettere in primo piano l'attenzione per gli interessi individuali coinvolti piuttosto che per i tratti distintivi della specie umana, solitamente identificati nella tradizione con la capacità di ragionare. Per quanto riguarda l'interpretazione della responsabilità morale umana dal lato, per così dire, della soggettività di chi agisce è ancora prevalente una caratterizzazione che ricorre alla capacità di ragionare, mentre per quanto riguarda il lato oggettivo della responsabilità, ossia la caratterizzazione di quelli che possono essere i pazienti della condotta morale, prevale un'attenzione per una più elementare capacità di provare sofferenza o piacere, che tra l'altro accomuna umani e animali.

Gran parte della riflessione bioetica, come si vedrà fermandosi sulle diverse questioni che in essa si affrontano a proposito della nascita, morte e cura, è costituta da un confronto tra diverse concezioni su situazioni particolari per valutare l'accettabilità o meno sul piano etico di determinate condotte. Questa riflessione si è accompagnata con una più accurata specificazione diretta a capire quale sia la natura precisa della scoperta biologica o dell'innovazione della tecnica medica di cui si sta criticamente discutendo. Laddove l'opinione popolare può accontentarsi di nozioni generiche come 'clonazione', 'ingegneria genetica', 'eutanasia', 'ricorso a terapie sostitutive', 'riproduzione artificiale', e così via, la riflessione bioetica è caratterizzata da un continuo approfondimento di queste nozioni, da una loro specificazione e dunque da una riflessione che, sul piano etico, non impegna più nozioni astratte bensì condotte molto determinate e spesso uniche. Nel contesto della bioetica degli ultimi decenni la ricerca biologica e la medicina scientifica hanno svolto un lavoro preliminare finalizzato all'individuazione precisa di eventuali danni e rischi, determinabili o prevedibili, che accompagnano le diverse alternative che si confrontano. È così risultato chiaro che le alternative etiche significative si presentano alla riflessione normativa solo dopo che siano stati risolti i problemi di sicurezza o di affidabilità scientifica e medica delle pratiche di volta in volta in discussione. I criteri di precauzione, di prudenza o di accettabilità medico-scientifica sono apparsi in definitiva largamente condivisi e un filtro attraverso il loro esame è stato sempre in un certo senso propedeutico al vero e proprio confronto etico sostantivo. Proprio per questo la riflessione bioetica degli ultimi decenni segna un progressivo spostamento del piano della discussione che mostra una tendenziale accettazione delle forme più avanzate di ricerca scientifica e degli sviluppi medici che hanno superato la fase di diffidenza. La bioetica come insieme di riflessioni si presenta quindi, anche includendo in essa quelle concezioni che sembrano più ostili nei confronti della biologia e della medicina scientifica, come una struttura che permette agli esseri umani di conoscere meglio nuove scoperte e pratiche per giungere ad accettarle come vie per accrescere le potenzialità terapeutiche a loro disposizione.

I nuclei della riflessione bioetica nel contesto della medicina

L'elaborazione più articolata e approfondita della bioetica negli ultimi decenni del XX sec. ha interessato le questioni sollevate dalle innovazioni riguardanti la nascita, la cura e la morte. Un tentativo molto fortunato di fornire un quadro critico complessivo delle diverse teorie che si sono impegnate nell'ambito più settoriale della bioetica costituita dall'etica biomedica è stato offerto da Thomas L. Beauchamp e James F. Childress già dal 1979 con il loro volume Principles of biomedical ethics, riproposto con revisioni e ampliamenti fino a una quarta edizione del 1994. Essi hanno fornito un'ampia panoramica distinguendo tra utilitarismo, kantismo, etica del carattere, individualismo liberale, comunitarismo, etica dell'avere cura, casistica, teoria della moralità comune. Gli stessi Beauchamp e Childress hanno poi sostenuto come teoria più efficace una concezione che è nota come principilismo e che è stata anche difesa da Ranaan Gillon (1985). Il principilismo è la concezione secondo la quale tutti i nuovi problemi di fronte ai quali si trova l'etica biomedica possono essere risolti ricercando una soluzione operativa che nasca da una convergenza tra i diversi principî già presenti in generale nella moralità di senso comune e più specificamente nella moralità professionale del personale sanitario. Quelli indicati da Beauchamp e Childress sono il 'rispetto dell'autonomia', la 'non-maleficenza', la 'beneficenza', la 'giustizia'; eventuali contrasti nelle situazioni concrete tra questi principî possono essere risolti attraverso una forma particolare di criterio decisionale che tenga anche conto delle conseguenze delle diverse alternative da scegliere, valutandole alla luce di un 'bilanciamento dei principî'. Si tratta dunque di un metodo misto il quale privilegia, come spesso accade nella bioetica, l'esame del caso mettendo da parte qualsiasi aspirazione deduttiva e sistematica.

In alternativa alla classificazione proposta da Beauchamp e Childress si può fornire una caratterizzazione che utilizza un modello esplicativo più semplificato, presentando quindi il dibattito bioetico degli ultimi decenni come sviluppato principalmente in un confronto fra tre approcci di tipo diverso. Da una parte le concezioni bioetiche che mettono al centro i principî e che vengono definite bioetiche deontologiche; dall'altra, le concezioni che ritengono prioritaria la considerazione delle conseguenze delle scelte e delle valutazioni prescritte e che vengono definite bioetiche consequenzialiste; infine le concezioni secondo le quali la soluzione adeguata può essere trovata solamente non perdendo di vista le qualità approvabili o disapprovabili che debbono essere fatte prevalere nei caratteri delle persone coinvolte e che vengono dette bioetiche della virtù.

La tendenza a ritenere che le questioni di bioetica siano risolvibili con l'affermazione di principî o norme fondamentali è stata largamente presente nella riflessione degli ultimi decenni. L'appello ai principî nei contesti della bioetica si è spesso accompagnato a una prospettiva di tipo assolutistico, che considera la vita morale come caratterizzata dalla capacità di affermare principî ultimi da contrapporre a qualsiasi cedimento ai desideri e alle preferenze che, di volta in volta, si presentano nelle vite individuali. In questo senso i principî al centro delle bioetiche deontologiche vanno tenuti distinti da quelli richiamati da Beauchamp e Childress, impegnati piuttosto, con il loro principilismo, a elencare una serie di criteri validi solo prima facie e come orientamento per una disamina critica volta a cercare la soluzione giusta. Nel caso dei fautori delle concezioni più propriamente deontologiche la necessità di individuare principî in grado di ispirare una molteplicità di scelte in situazioni anche differenti ha portato spesso a enunciarli in termini molto astratti e con l'uso di nozioni retoricamente assai suggestive: si trovano affermati principî come quelli della 'sacralità della vita umana' o della 'dignità della vita umana'. Alcuni pensatori, tenendo conto della diversità delle persone coinvolte nelle situazioni concrete della bioetica, hanno ritenuto che l'affermazione in essa di principî si dovesse accompagnare al riconoscimento della loro non assolutezza. Proprio l'ambito della bioetica ha visto svilupparsi una forma di deontologismo nella quale si riconosce, come per esempio ha più volte fatto Ronald Dworkin (1994), che il fondamento dei principî affermati sta nella ricerca da parte di una persona dell'integrità della propria biografia e, dunque, questi non possono essere considerati né eterni né reali fino al punto di dovere essere imposti a tutti. Tale appello ai principî ultimi è stato sviluppato lungo diverse linee sostantive. Molto diffusa è stata la prospettiva nella quale, richiamandosi a Kant, si è sostenuto che i principî al centro della bioetica possono essere visti come dettami di una razionalità pratica che si fa ispirare dall'imperativo categorico nelle sue diverse formulazioni. I sostenitori di una bioetica kantiana hanno pertanto insistito sul principio di fondamentale dignità della persona umana, che non permetterebbe mai di considerare una persona come mezzo ed esige invece di attribuire a ciascun individuo una sacralità più o meno fortemente connotata. Questa bioetica kantiana della persona naturalmente ha poi generato diverse applicazioni a seconda della definizione che, di volta in volta, è stata data della nozione filosofica di persona. Non sono così mancati esponenti della bioetica kantiana che hanno posto al centro della nozione di persona, come tratto che ne specifica la peculiare dignità, il riconoscimento della sua libertà, giungendo in tal modo a individuare, come per esempio ha fatto Max Charlesworth (1996), l'etica per la bioetica nel principio dell'autonomia della ragion pratica, che considera la soluzione adeguata dei differenti problemi come una norma che la volontà della persona coinvolta può accettare come principio universale. Differente è stata la forma di approccio deontologico forse più diffusamente praticata negli ultimi decenni, la quale ha ritenuto che la soluzione adeguata andasse cercata affermando i diritti fondamentali delle persone coinvolte. La bioetica deontologica ha promosso la centralità e l'inoppugnabilità, di volta in volta, di un gran numero di diritti presentati solitamente come morali e pregiuridici. Essi sarebbero capaci di ispirare nelle leggi dei diversi paesi aggiustamenti o trasformazioni tali da permetterne la salvaguardia in presenza, appunto, delle innovazioni di ambito bioetico. Alcuni di tali diritti sono stati formulati in un modo tanto generale da potere attraversare tutte le diverse dimensioni della bioetica; questo è stato il caso, per esempio, del 'diritto alla vita' o del 'diritto a non subire sofferenze non volute'. In altri casi invece sono stati raccomandati come decisivi diritti più specifici in collegamento con le diverse situazioni coinvolte, quali, per esempio, il 'diritto a essere informato sulle cure', il 'diritto a rifiutare una cura' o il 'diritto alla libertà procreativa', e così via. Difficoltà si sono presentate nel cercare di ricondurre a una qualche unità questa versione della bioetica dei diritti e l'elaborazione è sembrata più soddisfacente quando si è proceduto - come nel caso del già ricordato Charlesworth (1996) - cercando di ricavare i diritti fondamentali da qualche condizione politica o sociale considerata acquisita o consolidata, quali per esempio le istituzioni di una società liberal-democratica. Non sono mancate nemmeno bioetiche deontologiche che hanno presentato come fondamentali principî non tanto sostantivi quanto procedurali, parimenti a quei teorici che, ispirati da John Rawls, hanno rilevato con insistenza, con Engelhardt (1999), che i principî validi in bioetica dovevano essere frutto di una contrattazione e derivare dunque da una convergenza fra stranieri morali su una base di norme minime sufficienti a garantirne la convivenza.

Il contributo dell'approccio consequenzialista alla riflessione bioetica è stato largamente dominato dal prevalere di una ben precisa teoria, quella utilitaristica. Impostazioni utilitaristiche esplicitamente dichiarate sono state avanzate ripetutamente da Jonathan Glover (1977) e Singer (1996, 2001), ma anche autori come Harris (1997) hanno lavorato intorno a prospettive utilitaristiche così come Richard M. Hare (1993), il quale ha fatto valere per i problemi bioetici un impasto molto complesso di utilitarismo e principio di universalizzabilità di derivazione kantiana. L'impostazione utilitaristica si è spesso caratterizzata per una sorta di revisionismo radicale, che ha portato a ritenere accettabili molte delle pratiche nuove al centro della bioetica finalizzate al raggiungimento di condizioni di vita migliori per tutti gli esseri umani. Nelle loro analisi delle situazioni bioetiche gli utilitaristi hanno affiancato alla considerazione degli esiti delle pratiche in esame su tutti coloro che sono coinvolti una tendenza a rifiutare come negative sofferenze e dolori delle persone e a vedere come positivi il rispetto delle preferenze e il soddisfacimento dei desideri individuali, quando ciò non reca danno ad altri. Proprio per questo gli utilitaristi hanno assunto insistentemente una posizione critica nel denunciare l'attaccamento alle norme tradizionali nelle situazioni della bioetica come un culto per la regola, spinto fino a procurare inutili sofferenze non volute alle persone direttamente coinvolte. Oltre che per una prevalente inclinazione a favorire nuove pratiche in caso di efficacia terapeutica o di effetti benefici, la bioetica utilitaristica si è anche caratterizzata per la riproposizione della tesi, già avanzata da John Stuart Mill a metà del XIX sec., che distingueva tra ambito di pertinenza dell'intervento pubblico e area delle scelte personali (Mill 1999). In questo senso è un atteggiamento diffuso tra i sostenitori della bioetica utilitaristica quello di distinguere tra scelte che possono produrre danni agli altri che sono di pertinenza dei tribunali e dei legislatori e scelte riguardanti invece gli stili di vita personale che, sebbene approvate o disapprovate da un punto di vista morale nel discorso pubblico, non possono in alcun modo giustificare interventi coercitivi sulla vita delle persone (Lecaldano 1999, 2002).

Per quanto riguarda le bioetiche delle virtù, l'alternativa principale si è posta tra concezioni neoaristoteliche e concezioni non-aristoteliche e il conseguente contrasto sul tipo di virtù da porre al centro del contesto della bioetica.Tuttavia, al di là di queste diversità, larga parte della trattazione dei teorici di una bioetica delle virtù ha inteso evidenziare l'astrattezza degli approcci alle questioni che caratterizza le vie deontologiche e consequenzialistiche: a tali approcci sembra sfuggire principalmente che, nel contesto delle questioni bioetiche, le nostre valutazioni rinviano a persone le cui condotte possono essere apprezzate o disapprovate solo se viste come espressioni dei loro tratti caratteriali stabili e consapevoli. Molto efficace è stato il contributo dei teorici della virtù per contestare una ricostruzione astratta delle condizioni soggettive di scelta, presentate come se le persone coinvolte fossero collocate fuori del tempo e dello spazio e prive di una biografia personale. Recuperando in termini di etica delle virtù il contesto concreto nel quale si pongono le drammatiche alternative di cui si occupa la bioetica, ben più rilevanti dei principî e delle conseguenze si presentano le relazioni personali individuali del soggetto coinvolto: le sue lealtà, fedeltà, fiducie, ruolo professionale, e così via. Su questo sfondo comune, da una parte si sono collocati coloro che, elaborando un filone neoaristotelico, hanno finito con il mettere in primo piano la prudenza e la capacità di ispirare le scelte a valutazioni oggettive riguardo quanto le diverse pratiche in esame sono in grado di favorire, per l'umanità nel suo complesso, uno sviluppo che ne perfezioni le capacità più elevate (Hursthouse 1987). Dall'altra parte si è sviluppata invece la strategia non aristotelica, impegnata a riprendere piuttosto il quadro di Mill. Secondo questo approccio le virtù in gioco nella bioetica non vanno ricondotte a un modello unico, identificato sulla base di una concezione generale della natura umana, ma ciascuna persona seguirà la propria via alla virtù. Il tratto peculiare di una bioetica delle virtù non aristotelica sta nell'insistere che la ricerca individuale di un carattere migliore più stabile è la strada per far sì che persone, libere di perfezionarsi, finiscano con il realizzare una comunità caratterizzata da una maggiore felicità e da un benessere generali.

L'etica delle virtù è stata spesso privilegiata dalle concezioni che hanno cercato di fare tesoro del pensiero delle donne (Tong 1997). Si è così insistito sul fatto che il contributo dell'esperienza femminile consiste nel mostrare la presenza, nei contesti della bioetica, di atteggiamenti che non possono essere colti dalle prospettive deontologiche e consequenziali, più interessate a relazioni di reciprocità o di scambio. Ecco quindi un forte impegno, come nel caso di Virginia Held (1997), a mostrare la centralità nei contesti della bioetica di forme di vita analoghe a quella che la madre istituirebbe con la sua prole, vale a dire situazioni caratterizzate da atteggiamenti di cura esercitati dalle persone senza alcuna esigenza di reciprocità. Secondo questa impostazione nelle situazioni bioetiche le relazioni interpersonali non possono in alcun modo essere interpretate riducendole a pratiche come il consenso esplicito o una contrattazione razionale. Quello introdotto dal pensiero delle donne e dalle etiche delle virtù rappresenta un arricchimento del quadro di lettura che nell'ultimo decennio del XX sec. sembra avere influenzato anche gli altri approcci alle questioni della bioetica. È pertanto comune trovare deontologisti e consequenzialisti impegnati a mostrare che, all'interno delle loro teorie, è possibile tenere conto di quei tratti di fiducia, cura e maggiore vicinanza personale che vengono messi in primo piano dalle bioetiche delle virtù strettamente intese.

Le concezioni bioetiche e i nuovi casi relativi a nascita e morte

Le diverse concezioni generali implicate nel tentativo di affrontare sistematicamente, da un punto di vista normativo, le nuove questioni centrali della bioetica sono fortemente alternative. Come hanno mostrato Beauchamp e Childress (1979) può risultare utile non perdere di vista la pluralità di prospettive sui casi concreti che si accompagnano alle diverse concezioni etiche maggiormente utilizzate sul piano teorico: infatti la capacità di guardare alle situazioni discusse tenendo conto della pluralità dei punti di vista etici consente di divenire sensibili a un insieme di tratti che risultano, di volta in volta, centrali per una prospettiva ma trascurati o considerati secondari da un'altra. Ciascuna teoria rappresenta dunque uno stimolo a percepire o a considerare la situazione rilevante dal punto di vista della morale, privilegiando certi aspetti; l'insieme delle teorie disponibili nella bioetica, perciò, non può che contribuire ad arricchire la capacità umana di avere consapevolezza della rilevanza morale di situazioni che sono affrontate in maniera egoistica e senza porsi problemi di coscienza, o in modo istintivo e abitudinario, da persone prive di scrupoli morali. Vedremo ora le diverse concezioni all'opera su alcune delle questioni maggiormente discusse.

Iniziamo dai problemi relativi alla morte, divenuti centrali nella nostra epoca, sia per la nuova caratterizzazione della morte in termini cerebrali sia per la disponibilità di strumenti in grado di vicariare le funzioni del corpo umano, rendendo possibile la sopravvivenza anche in caso di perdita di conoscenza. Tenuto conto della possibilità tecnica di sostenere e prolungare la vita anche in condizioni di grave debilitazione o addirittura di coma, il problema che maggiormente è stato affrontato ha riguardato la legittimità del suicidio assistito o di una vera e propria eutanasia attiva volontaria (Rachels 1986; Reichlin 2002). I fautori della sacralità e non disponibilità della vita umana hanno dovuto confrontarsi con argomenti elaborati da tutti e tre gli approcci principali della bioetica, volti a rendere esplicita una serie di ragioni morali che sembrano giustificare forme più o meno ampie di intervento quando il soggetto morente non vuole più continuare a vivere o ha lasciato chiare indicazioni in questo senso. Per quanto riguarda le concezioni deontologiche non sono mancati coloro che hanno riproposto il divieto di Kant contro qualsiasi forma di suicidio e dunque ancora di più contro qualsiasi intervento eutanasico. Altri hanno però indicato come accettabile un principio che permetta a qualsiasi persona di disporre della propria vita quando essa non è più meritevole di essere vissuta, giungendo in casi del genere, anche con Jonas, a riconoscere un vero e proprio "diritto di morire" (Jonas 1997). Naturalmente non sempre l'individuazione di un argomento di principio a favore dell'accettabilità morale dell'eutanasia attiva volontaria si è accompagnata con argomentazioni a favore di leggi, come quelle che in Olanda l'hanno resa non perseguibile, in determinate e regolate condizioni. Proprio l'impostazione consequenzialista ha contribuito maggiormente, con la sua attenzione per le conseguenze delle azioni o delle pratiche, a valutare criticamente l'accettabilità della tesi che l'eutanasia attiva volontaria non possa mai essere accettata per legge.

Un rifiuto di tipo consequenzialistico è sembrato quello che ha sostenuto che una legislazione del genere non può non aprire un inevitabile 'pendio scivoloso' che, prima o poi, comporterebbe un'accettazione anche di altre forme di uccisione di persone non consenzienti. Questo tipo di argomentazione è stato spesso rafforzato da un accostamento retorico-persuasivo tra l'eutanasia attiva volontaria e gli esiti ripugnanti realizzati da Hitler e dai nazisti con l'eliminazione dei malati di mente. Contro tale forma di ricorso all'argomentazione dello 'scivolo' si è obiettato che si tratta di un suo inappropriato uso di tipo logico e non empirico (Walton 1992). Un uso empirico dell'argomento del pendio scivoloso dovrebbe, da una parte, fare attenzione a non assimilare casi diversi, come una eutanasia esplicitamente richiesta da un malato alla fine della sua vita e un omicidio di una persona contro la sua volontà e, dall'altra, favorire una valutazione, ripetuta in diversi periodi, della probabilità che una certa pratica abbia conseguenze dannose, senza dare per scontato che gli esiti delle innovazioni legislative siano sempre catastrofici. Un altro contributo critico fornito dal filone consequenzialistico è stato la rivisitazione della tesi, ampiamente accettata a livello di moralità di senso comune, di una diversa gravità delle omissioni e, in generale, del non fare qualcosa, rispetto alle azioni e agli interventi attivi. Contro la legittimità di questa distinzione i consequenzialisti hanno insistito sul fatto che, in molte situazioni di fine vita, ciò che conta è piuttosto il risultato tanto del fare quanto del non fare. Secondo tale prospettiva il rifiuto di intraprendere, di continuare e di sospendere le cure è un comportamento che va visto come coinvolgente lo stesso tipo di responsabilità morale che è esplicitamente in gioco laddove si interviene attivamente su un'altra persona. Passando invece alle bioetiche delle virtù il loro contributo a una migliore analisi delle questioni di fine vita è stato, da una parte, quello di insistere sulla necessità di inquadrare le opzioni del morente all'interno del complesso della sua biografia per comprenderne pienamente il senso morale e, dall'altra, di invitare a guardare alla sincerità della motivazione della persona che eventualmente aiuta a morire. Proprio da questa impostazione deriva una critica verso le concezioni che ritengono utilizzabile nei contesti delle questioni di fine vita la dottrina, del resto ampiamente usata anche nell'etica del passato, del doppio effetto (Neri 1995). In base a tale dottrina, se un'azione ha esiti negativi non voluti può essere giustificata laddove l'intenzione da cui era mossa era di realizzare un beneficio: è il caso tipico del medico che prescriverebbe una dose crescente di analgesici a una persona per alleviarne le sofferenze e, così facendo, ne provoca la morte. La bioetica delle virtù sposta il quadro di responsabilità dalla singola intenzione al più ampio contesto del carattere e dunque delle motivazioni stabili sia dell'agente sia di chi patisce, criticando (approccio che ritiene rilevante per la valutazione) la sola intenzione come stato d'animo isolato e temporalmente limitato.

Un analogo confronto tra diverse concezioni etiche si è sviluppato in quel ramo di questioni bioetiche legate alle nuove pratiche che permettono la nascita degli esseri umani al di fuori del rapporto sessuale. Messa da parte la tendenza popolare fatta propria dalla morale cattolica di indicare nelle nascite cosiddette naturali la regola del giusto, si è da più parti lavorato per la messa a punto di un'etica riproduttiva che tenesse conto delle ragioni morali dei singoli relative alla nascita o meno della prole indipendentemente dalla modalità attuata. L'impegno a elaborare un'etica riproduttiva che sostituisse al criterio di ciò che è secondo Natura la possibilità di fare riferimento a scelte umane motivate da ragioni morali si è accresciuto anche considerando i gravi problemi per la nostra specie causati dall'enorme aumento demografico nel XX secolo. Le diverse concezioni si sono impegnate nel mettere a punto un'etica della responsabilità procreativa, valutando come non più accettabile quell'atteggiamento di passività e irresponsabilità che accompagna la scelta di affidare le nascite alla Natura o alla provvidenza divina. Vi è accordo nel ritenere che i principî che dovranno dare corpo alla responsabilità procreativa sono da determinare considerando non soltanto la volontà delle persone, ma anche la prole che nascerà; il dibattito bioetico, perciò, coinvolge in modo unitario, oltre alla questione della liceità del ricorso alle varie forme di riproduzione assistita, anche le questioni del ricorso alla diagnostica prenatale, ai test genetici, e così via. In questo senso nell'ambito delle questioni morali legate alla nascita vi è un ampio ricorso alle prospettive consequenzialistiche che, tra l'altro, portano a rifiutare determinate pratiche sulla base dei danni che esse possono produrre in coloro che nasceranno, così come portano a considerare irresponsabile il non ricorrere a forme di procreazione assistita quando questa è l'unica via per garantire la salute del nascituro (Mori 1995). Per quanto riguarda il ricorso alla riproduzione assistita va sottolineato che nessuna concezione etica accetta una pratica riproduttiva che dal punto di vista tecnico ha conseguenze dannose per la prole. Quando una simile pratica risulta dubbia o pericolosa, come allo stato attuale molto probabilmente è il caso della clonazione riproduttiva, vi è una convergenza nel dichiararla moralmente illecita. La più articolata riflessione etica ha coinvolto il ricorso alla cosiddetta FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione), e le possibilità che essa apre di avere una prole con gameti parzialmente o totalmente diversi da quelli della coppia che intende fare ricorso a tale pratica, evitando in tal modo la trasmissione di malattie genetiche. Molto differenti sono state le posizioni che le diverse concezioni etiche hanno fatto valere per le varie pratiche di fecondazione assistita. Un rifiuto di principio vi è stato da parte di quelle concezioni che, nel caso della fecondazione in vitro, hanno visto la produzione di embrioni umani come creazione di persone, in parte destinate alla distruzione nel caso dei cosiddetti embrioni soprannumerari, ossia di quegli embrioni che non vengono utilizzati all'interno della gravidanza. La discussione sugli embrioni prodotti in vitro nel corso di una pratica di fecondazione assistita si è anche collegata con la questione della possibile sperimentazione sugli embrioni stessi o su parti di essi, come nel caso della clonazione sulle cellule staminali. In larga parte dei paesi occidentali è però prevalso un atteggiamento non negativo nei confronti della possibilità di forme di sperimentazione terapeutica su embrioni soprannumerari, quando essi sono destinati alla distruzione. Largamente controversa è la questione della possibilità di applicare la nozione di persona già alle prime linee di sviluppo embrionale. Tale discussione non sembra tuttavia infirmare in linea di principio il ricorso a forme di fecondazione assistita che potrebbero cercare di ridurre o eliminare completamente il surplus di embrioni ed essere dunque sempre legate alla creazione di una vita. Malgrado ciò molti fautori di un'etica deontologica si sono opposti al ricorso a pratiche di fecondazione in vitro cosiddette eterologhe o alla maternità surrogata, sostenendo che esse realizzano per la prole l'inserimento in un contesto familiare che, in modi più o meno accentuati, si discosta da quello, accettabile eticamente, di una coppia eterosessuale che convive stabilmente. Secondo tali concezioni si ritiene che far nascere una persona in un contesto diverso da quello che caratterizzerebbe le famiglie stabilite giuridicamente metterebbe in pericolo la sua dignità.

Più aperte a una valutazione caso per caso delle diverse situazioni particolari sono state le etiche consequenzialistiche, che hanno indicato come parte di una genitorialità responsabile l'autonoma valutazione delle condizioni di vita effettiva della prole. Tali concezioni hanno sottolineato che una responsabilità procreativa dei genitori non può essere promossa facendo passare come sostitutivo dell'impegno etico personale l'adesione a qualche forma istituzionale di famiglia che, di per sé, non garantisce che il genitore si assumerà i suoi doveri. Molto spesso il dovere di garantire alla prole condizioni minime di salute può richiedere che i genitori ricorrano a forme di fecondazione in vitro anche considerate complesse. Il contributo peculiare delle concezioni delle virtù è stato quello di avere richiamato l'attenzione sulle qualità personali di chi sceglie di far nascere. Proprio apprezzando lo sviluppo di qualità morali nei caratteri delle persone coinvolte, una parte dell'etica delle donne ha finito con il valutare positivamente lo spazio aperto dalle pratiche di fecondazione assistita per una più ampia discrezionalità delle scelte delle donne: è infatti risultato chiaro, mediante tali pratiche, che il fenomeno della nascita umana non è soltanto un processo biologico ma qualcosa che richiede coraggio, virtù e capacità di curare la prole nelle donne che vi ricorrono (Held 1997). Anche la bioetica delle virtù rifiuta la strada che tende a considerare moralmente illecite alcune pratiche procreative sulla base di una valutazione intrinseca della tecnica adottata, spostando invece la considerazione sui soggetti che vi partecipano e sulla loro capacità di scegliere seguendo ragioni che possono essere apprezzate. Una parte della discussione tra queste concezioni etiche ha coinvolto la questione del ricorso o meno a leggi nell'area della procreazione assistita. Una volta messa da parte la tentazione di legare tutti gli esseri umani a una ben precisa morale riproduttiva, specialmente nei paesi occidentali è sembrata imporsi quella tendenza liberale che, muovendo dalla separazione tra legge e morale, ha favorito una riduzione dell'intervento legislativo, spesso limitandolo alle situazioni in cui possono essere veramente previsti danni certi per la prole (danni che, allo stato attuale, sono da escludere per tutte le diverse pratiche di fecondazione assistita in ambito medico).

La bioetica e le cure mediche

Per quello che riguarda le cure mediche i dibattiti al centro della riflessione bioetica ruotano intorno a tre diverse linee problematiche: quali condizioni morali vanno rispettate per legittimare una qualche imposizione delle prescrizioni del medico sul malato; quali sono i diritti morali del paziente concernenti le cure che non possono essere persi di vista dal personale sanitario e in che modo possono essere formulati; quali sono i principî etici a cui bisogna attenersi per realizzare sia una giusta distribuzione delle risorse sanitarie sia un'accettabile linea di determinazione di priorità di accesso a quei beni sanitari che dovessero risultare scarsi.

Nel caso delle condizioni che legittimano le pretese del medico nei confronti del paziente vi è stato uno spostamento del centro di soluzione negli ultimi decenni. Una prima fase è stata conseguente al superamento del cosiddetto paternalismo medico; ha prevalso, perciò, una concezione etica deontologica che faceva ruotare ogni cosa intorno al principio del consenso informato, segnando una prevalenza di pretese di razionalità formale per tutti coloro che erano coinvolti nelle situazioni mediche. In una fase successiva si è passati a mettere in primo piano le conseguenze delle singole situazioni sanitarie, come i caratteri e l'affidabilità professionale delle persone coinvolte. Per quanto riguarda la sperimentazione biologica o medica, superati alcuni limiti ritenuti intrinseci - come quelli affermati dalla moralità cattolica a proposito delle cellule staminali di provenienza embrionale - si è sottolineata, oltre l'importanza del consenso delle persone coinvolte, la necessità di una valutazione etica della legittimità della ricerca e, in questo senso, vi è stata una tendenza a ritenere accettate quelle ricerche (ovviamente convalidate con una metodologia sperimentale) le cui ricadute terapeutiche risultassero altamente probabili. Tentativi di estendere la nozione di libertà di cura fino a legittimare sul piano pubblico il ricorso a terapie e cure non scientificamente corroborate - come in Italia è accaduto nel caso della cura Di Bella - hanno in linea di massima incontrato la difficoltà di non riuscire a superare le obiezioni di chi ritiene che, nel campo medico, debbano essere rispettate al massimo le esigenze di una virtù come la prudenza, che esige di evitare procedure non testate dai metodi della medicina sperimentale. Il contributo peculiare della bioetica delle virtù è stato poi quello di rendere esplicito come le situazioni sanitarie, e dunque gli interventi accettabili dei medici, si leghino all'esistenza di relazioni di fiducia che non sono riconducibili alla logica dei rapporti di scambio o di contrattazione. In questo senso vi è stata recentemente, da parte di impostazioni sia consequenzialistiche (Kuhse 2000) sia deontologiche (O'Neill 2002), una contestazione della posizione che legge i rapporti medico-paziente riduttivamente in termini di consenso informato e una sottolineatura dell'importanza delle relazioni concrete di fiducia.

Per quanto riguarda i diritti morali di una persona malata nelle situazioni sanitarie è stata ampiamente accettata l'esigenza, fatta valere dalla bioetica deontologica, di un riconoscimento della centralità dell'autonomia del malato: egli non solo può pretendere di essere pienamente informato sulle cure che gli vengono praticate ma può anche rifiutarne alcune o tutte. Il diritto al rifiuto di cure anche salvavita non è ancora un principio consolidato in culture, come quella italiana, impregnate dalla morale della non disponibilità della vita (Chieffi 2000). Passi in questa direzione sono stati compiuti anche in Italia con il riconoscimento, da parte di alcuni tribunali, dell'accettabilità della richiesta dei testimoni di Geova di non essere sottoposti a trasfusione di sangue (Santosuosso 2001). In questo caso sono le motivazioni del rifiuto di cure a divenire rilevanti e dunque, sia pure sotto l'ottica ristretta di una tolleranza solo per la diversità religiosa e non anche per quelle morali, entrano in gioco le esigenze affermate dalle bioetiche delle virtù richiamando alla centralità di una considerazione complessiva della vita e delle qualità delle persone. Quest'area della salvaguardia dei diritti morali dei malati è stata però anche ampiamente attraversata dalla riflessione sulla legittimità ed estensione di validità delle cosiddette carte di autodeterminazione o testamenti di vita. Da una parte vi sono stati pensatori come Dworkin (1994) che hanno individuato la portata inderogabile che la scelta espressa da un singolo razionalmente consapevole sulla propria vita avrà un valore imprescindibile rispetto alle decisioni ulteriori di altre persone sulla sua vita, quando egli non è più competente; mentre sia dalle concezioni consequenzialistiche sia da quelle attente al carattere dei singoli è originato il tentativo di valutare tali carte di autodeterminazione ricorrendo a ragioni più ampie rispetto all'esclusiva attenzione per l'autonomia di una persona razionalmente competente. Le diverse concezioni etiche sembrano tuttavia convergere nel riconoscere la legittimità e il valore vincolante degli strumenti con cui un paziente può rendere manifesta la propria volontà in merito alle cure alle quali sarà sottoposto quando non sarà momentaneamente in condizione di esprimerla o quando non sarà più consapevole.

Nell'ambito della giustizia sanitaria, in una prima fase della bioetica le questioni cosiddette microallocative dell'accesso alle cure mediche e dei criteri mediante i quali distribuirle e mettere a punto liste di priorità hanno coinvolto specialmente le scelte legate ai trapianti d'organo. La tentazione di far valere il principio di autonomia in queste situazioni fino al punto di permettere un mercato degli organi si è scontrata con la necessità, affermata da principî di equità morale presenti in tutte le concezioni bioetiche, di proteggere i cittadini in condizioni economiche disagiate da forme di sfruttamento legate all'acquisto e alla vendita di organi. Un'ampia discussione ha altresì portato a escludere le presunte responsabilità morali di chi si ammala (per es., i fumatori o gli alcolisti) quali vincoli per l'elaborazione delle liste di priorità di accesso agli organi da trapiantare e si è piuttosto privilegiata la necessità di valutare in termini medici la probabile efficacia dell'operazione. Più recentemente le questioni della distribuzione delle cure hanno coinvolto il tema della validità dei brevetti, in particolare in collegamento con il costo dei farmaci anti AIDS nei paesi a economia arretrata dell'Africa o dell'Asia. Un correttivo alle mere leggi del mercato è stato ritenuto necessario per salvaguardare condizioni minime di equità nella distribuzione cosiddetta macroallocativa delle risorse sanitarie. Il tentativo di risolvere questi problemi con criteri oggettivi del tipo costi-benefici è risultato insufficiente da un punto di vista morale e si è imposta, soprattutto come un dovere della comunità internazionale degli Stati, l'esigenza di rendere operativo un qualche diritto a un "minimo decente di assistenza sanitaria" (Beauchamp e Childress 1979) per tutti gli esseri umani. È chiaro che si tratta a tutt'oggi di una pretesa solo ideale e discussioni sono in corso su come adattare, alle condizioni di globalizzazione e di ingiustizia nella disponibilità mondiale della ricchezza, le necessità di una distribuzione più equa delle risorse sanitarie, resa ancora più urgente dalle situazioni nuove e dalle grandi potenzialità che sono oggetto della riflessione bioetica.

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