La grande scienza. Neuroimaging della funzione cognitiva

Storia della Scienza (2003)

La grande scienza. Neuroimaging della funzione cognitiva

Adina L. Roskies

Neuroimaging della funzione cognitiva

Storicamente, lo studio della mente e lo studio del cervello sono stati a lungo separati. La psicologia si avvicinava alla mente come se fosse una scatola nera, un'entità il cui lavorio interno risultava nascosto, ma il cui funzionamento poteva essere esplorato esaminando le trasformazioni tra i dati in entrata e i dati in uscita e misurando parametri caratteristici di tali trasformazioni, quali i tempi di reazione e l'accuratezza nello svolgimento di un compito. Lo studio del cervello, viceversa, era il regno della biologia. Le tecniche classiche utilizzate per studiare l'anatomia e la fisiologia del tessuto nervoso hanno svelato molti aspetti importanti della struttura e del funzionamento del cervello, grazie all'analisi del sistema nervoso di topi, gatti, scimmie e persino lumache di mare. Le implicazioni di queste scoperte neurofisiologiche per il funzionamento del cervello umano dovevano però essere sempre dedotte, in quanto la natura invasiva delle tecniche a disposizione impediva una loro diretta applicazione allo studio dell'attività cognitiva umana.

Per oltre un secolo, gli studi sul comportamento dei cerebrolesi e quelli anatomici del cervello umano post mortem sono stati pertanto i metodi neuroscientifici predominanti nell'approccio diretto al problema della sua neurofisiologia. Questa metodologia è cambiata radicalmente negli ultimi decenni perché gli straordinari progressi teorici e tecnologici hanno favorito lo sviluppo di alcune metodiche non invasive in grado di investigare il funzionamento del cervello: le tecniche di neuroimaging. La vera forza di queste tecniche nel delucidare le più profonde attività del cervello in fase cognitiva si evidenzia soprattutto quando esse sono combinate con approcci psicologici adeguati.

Poiché gli studi di imaging cerebrali appaiono sempre più frequentemente in letteratura, ponendo importanti problemi a ricercatori in vari campi, diventa tanto più rilevante avere familiarità con i metodi di neuroimaging.

Questo saggio tratta alcune questioni fondamentali per apprezzare le potenzialità di tali tecniche nel chiarimento delle basi neuronali del processo cognitivo e, inoltre, intende fornire materiale di riflessione a chi intenda valutare criticamente gli studi che stanno fiorendo in letteratura. I punti presi in esame comprendono una descrizione delle tecniche usate per l'imaging cerebrale, un'analisi a livello sistemico del funzionamento del cervello e uno schema per valutare la funzione cognitiva a un livello appropriato per gli studi di imaging. Dopo una breve visione d'insieme delle più importanti tecniche di neuroimaging attualmente in uso, si esamina in particolare l'imaging a risonanza magnetica funzionale (fMRI, functional magnetic resonance imaging), discutendone sia le capacità tecniche e metodologiche sia i limiti. Si accenna anche a importanti questioni in grado di stimolare la riflessione sulle facoltà cognitive del cervello. Infine, dopo aver costruito una base per la comprensione delle tecniche di neuroimaging, vengono illustrati, con esempi tratti dalla letteratura, i modi in cui gli studi di neuroimaging hanno contribuito alla nostra comprensione delle basi neuronali dell'attività cognitiva.

Le varie modalità di neuroimaging

La maggior parte delle tecniche neurofisiologiche classiche fornisce informazioni sul funzionamento del sistema nervoso a livello cellulare o subcellulare. Quasi tutte queste tecniche producono una sorta di rappresentazione visiva del funzionamento neuronale, che si tratti di istogrammi delle scariche cellulari, di videomicroscopie al rallentatore di cellule in migrazione oppure del tracciato oscilloscopico di un singolo potenziale d'azione. Tutte potrebbero essere considerate tecniche di neuroimaging. Invece di discutere i confini di tale termine, per gli obiettivi di questo articolo si considerano tecniche di neuroimaging quelle che forniscono informazioni sul funzionamento del sistema nervoso su larga scala e a livello sistemico.

La discussione sarà in gran parte limitata all'uso di queste tecniche negli 'studi di attivazione', ossia negli studi messi a punto per attribuire ruoli funzionali a specifiche regioni del cervello, nelle quali sono stati identificati cambiamenti elettrici o corrispondenti cambiamenti emodinamici. Delineando i correlati neuronali dei processi cognitivi, migliora la nostra conoscenza delle componenti costitutive di tali processi e si accresce, nello stesso tempo, la nostra comprensione dell'organizzazione cerebrale. In alcuni casi, gli studi sull'attivazione delineano 'l'anatomia funzionale' di un compito cognitivo; in altri, tentano di determinare in modo più dettagliato il tipo di computazione che una regione compie.

Nei paradigmi di attivazione le risposte sono tipicamente misurate tra due o più compiti assegnati durante una serie di scansioni condotte in una singola seduta di sperimentazione. Si ritiene che le differenze a livello regionale nel segnale misurato durante i vari compiti riflettano le differenze nell'attività neuronale locale associata allo svolgimento di quei compiti. Tali differenze regionali nell'attività cerebrale possono essere determinate in vari modi. Nella maggior parte degli esperimenti di neuroimaging si usa un metodo chiamato 'sottrazione' per individuare le regioni di variazione emodinamica tra due diversi compiti.

I paradigmi di sottrazione possono impiegare il confronto diretto tra il compito bersaglio e il compito di comparazione, rivelando le regioni differentemente attivate tra i due compiti o, alternativamente, ciascun compito di interesse può essere confrontato con gli altri rispetto a un comune compito di base, che rivela sia le analogie sia le differenze tra i due compiti. Nella sottrazione, le immagini mediate e normalizzate di una condizione di base o di comparazione vengono sottratte dalle immagini mediate e normalizzate di un compito bersaglio. Le regioni a intensità positiva nell'immagine risultante riflettono le regioni cerebrali maggiormente attive nel compito bersaglio; le regioni a intensità negativa riflettono quelle maggiormente attive nel compito di comparazione. Le differenze nell'attivazione locale tra le diverse condizioni di scansione si possono attribuire alle differenze tra i compiti svolti. Le implicazioni della sottrazione di immagine non possono andare oltre, in quanto la sottrazione è solo un mezzo in grado di rilevare le differenze di attività tra due condizioni diverse.

Tav. II

Ciascuna delle tecniche che verranno discusse occupa una nicchia importante per la sua capacità di fornire informazioni sulle caratteristiche spaziali e temporali dell'attività neuronale di un cervello integro. Infine, per gli studi di attivazione è fondamentale sapere quanto accuratamente la tecnica di neuroimaging rifletta il segnale biologico sottostante. Quando le tecniche sono considerate nel contesto della natura dei segnali biologici sottostanti che esse riflettono, ciascuna di esse presenta distinti vantaggi e svantaggi. La Tav. II illustra le scale spaziali e temporali alle quali sono sensibili le varie tecniche di neuroimaging, nel quadro dei metodi neurofisiologici standard utilizzati per studiare il funzionamento cerebrale.

Sebbene una discussione dettagliata di ciascuno di tali metodi esuli dallo scopo di questo saggio, una breve rassegna di queste tecniche sarà sufficiente a descrivere, per sommi capi, il panorama del neuroimaging. L'EEG (elettroencefalogramma) e il MEG (magnetoencefalogramma), così come alcuni tipi di imaging ottica, sono sensibili direttamente o indirettamente alle variazioni di potenziale elettrico nel tessuto cerebrale provocate dalla depolarizzazione e ripolarizzazione dei neuroni che costituiscono l'attività cerebrale. Di contro, altri tipi di imaging ottica, come la NIRS (near infrared spectroscopy, spettroscopia nel vicino infrarosso), la PET (positron emission tomography, tomografia a emissione di positroni) e l'fMRI, misurano in modo diretto o indiretto le variazioni di flusso sanguigno che accompagnano e riflettono l'attività neuronale (Raichle 1987). Saranno esaminati in particolare i risultati derivanti dall'fMRI, che ha ampiamente soppiantato la PET come tecnica per acquisire dall'intero cervello dati sull'attività neuronale regionale.

Elettroencefalogramma e magnetoencefalogramma

L'elettroencefalogramma utilizza un apparato di elettrodi localizzati sul cuoio capelluto per rivelare le variazioni dei campi elettrici generate dall'attività neuronale. Analogamente, il magnetoencefalogramma rivela le perturbazioni nel campo magnetico sulla superficie del capo, causate dagli effetti induttivi delle variazioni dei campi elettrici nel cervello. Entrambe queste tecniche possono essere utilizzate insieme a manipolazioni cognitive allo scopo di studiare gli aspetti del processo cognitivo. I metodi di EEG, quando sono usati in questo modo, sono spesso citati come EP (evoked potentials, potenziali evocati) o come ERP (event-related potentials, potenziali correlati a eventi). I segnali elettrici o magnetici rilevati da questi metodi forniscono un'immagine in tempo reale dell'attività cerebrale, in termini di tracciati dinamici dei segnali in vari punti del cuoio capelluto. Comunque, con questo tipo di dati la localizzazione della fonte risulta problematica: determinare la collocazione del tessuto neuronale attivo è un problema serio che può dar luogo a un numero pressoché infinito di soluzioni (il cosiddetto problema inverso). Allo scopo di localizzare le fonti bisogna aggiungere ulteriori limitazioni. Così, mentre la risoluzione temporale di queste tecniche è di gran lunga superiore a quella di altri metodi di visualizzazione del funzionamento del cervello, in molti casi esse sono inadeguate per la localizzazione spaziale di segnali multipli. Nuovi e promettenti approcci utilizzano i dati provenienti da altre modalità di imaging funzionale per ridurre il problema inverso, specificando il numero delle sorgenti puntiformi da modellare e le loro posizioni approssimative (George et al. 1995; Dale et al. 2000). Tuttavia, metodi basati su principî in grado di integrare queste modalità sono ancora in fase di sviluppo e gli sforzi per combinarli si basano tuttora su informazioni addizionali o ipotesi sul funzionamento del sistema nervoso.

Tecniche di imaging ottica

Alcune tecniche di imaging ottica utilizzano agenti di contrasto esogeni, come coloranti la cui fluorescenza dipende dalla differenza di potenziale, dalla concentrazione di calcio o da altre variabili regolate fisiologicamente; esistono anche tecniche che si basano su fattori endogeni, come la diffusione della luce in risposta al volume cellulare. La maggior parte di questi metodi è invasiva o comunque inadatta per gli studi sull'uomo, eccetto che in casi limitati, come per esempio in neurochirurgia. Ciononostante la NIRS, che misura, attraverso il cranio, lo spettro di assorbimento della luce da parte dell'emoglobina ossigenata, dell'emoglobina deossigenata e della citocromo c ossidasi, si dimostra una promettente tecnica di imaging funzionale non invasiva. Al momento, i principali limiti della tecnica sono costituiti dalla luce, poiché non riesce a penetrare a fondo nei tessuti, e dal metodo, che misura risposte emodinamiche relative al flusso sanguigno in siti discreti, piuttosto che in tutto il cervello.

Tomografia a emissione di positroni

La PET è stata la prima tecnica di neuroimaging dell'intero cervello a offrire una buona localizzazione della fonte dell'attività neuronale. Essa lavora localizzando gli eventi di decadimento di traccianti marcati radioattivamente, somministrati al soggetto per endovena o tramite inalazione. I rivelatori PET, sistemati in anelli attorno allo scanner, individuano fotoni emessi da annichilazioni elettrone-positrone causate dal decadimento radiattivo, e li localizzano secondo un principio chiamato 'rivelamento per coincidenza'. Gli eventi di decadimento individuati e registrati durante una scansione dell'emissione sono ricostruiti in un'immagine della distribuzione spaziale dei segnali tramite un algoritmo matematico basato su una retroproiezione filtrata, un algoritmo tomografico sviluppato per la prima volta per la TC (tomografia computerizzata).

La versalità della PET come modalità di neuroimaging è dovuta al fatto che si possono usare traccianti specifici per 'etichettare' molte variabili fisiologiche differenti. Tra i marcatori (marker) fisiologici collegati al funzionamento del cervello che la PET può misurare vi sono il metabolismo del glucosio e dell'ossigeno, il volume sanguigno, la distribuzione di diversi ricettori neurochimici e il flusso sanguigno cerebrale. Le misurazioni di questi marcatori sono importanti per comprendere le basi fisiologiche di vari metodi di neuroimaging, così come per scopi clinici. Gli studi riguardanti prove di legame dei recettori si sono rivelati di valore incalcolabile in quanto hanno permesso di svelare alcuni 'segreti' farmacologici del cervello, compresa la distribuzione e l'affinità dei recettori e dei siti leganti il farmaco, e di mostrare l'eventuale perdita funzionale di una certa classe di recettori associata a sindromi cliniche specifiche.

Nei paradigmi di attivazione con la PET l'attività neuronale regionale è dedotta dalle misurazioni del flusso sanguigno cerebrale locale. Come il flusso sanguigno aumenta per fornire energia ai muscoli quando vengono utilizzati, allo stesso modo esso aumenta per portare i substrati metabolici glucosio e ossigeno a regioni localizzate del cervello che sono coinvolte nell'attività di elaborazione. Usando traccianti che incorporano l'isotopo dell'ossigeno 15O, dotato di un'emivita di 122 s, per misurare le variazioni del flusso sanguigno durante lo svolgimento di determinati compiti, sono stati fatti considerevoli passi avanti nella comprensione dei processi cognitivi, quali per esempio la visione, l'attenzione, il linguaggio, l'apprendimento motorio e la memoria (Roland 1993; Posner e Raichle 1994).

Fino al recente sviluppo dell'fMRI, la PET non aveva rivali per la capacità di fornire informazioni circa l'organizzazione funzionale del cervello umano su larga scala. Tuttavia, poiché questa tecnica produce un'informazione utile nel corso di un singolo periodo di scansione, tipicamente da 40 secondi a un minuto, e richiede una media significativa e una smussatura dei dati per ottenere un adeguato rapporto tra segnale e rumore (SNR, signal to noise ratio), la sua utilizzazione presenta alcuni limiti che vale la pena rilevare. In primo luogo, una scansione produce una misura del flusso sanguigno cerebrale regionale sull'intero periodo di scansione, che può includere molti processi oltre quelli che il ricercatore è interessato a esaminare o pensa di stare esaminando; ciò deve essere tenuto presente quando si interpretano i dati della PET. Il bisogno di un SNR sufficiente impone che le misurazioni debbano essere filtrate e mediate su diverse esecuzioni o differenti soggetti, per ridurre i segnali non sistematici (rumore) e preservare invece i segnali sistematici. Per la maggior parte degli studi di attivazione PET, la risoluzione dell'immagine finale è tra i 10 e i 16 mm (sebbene la localizzazione della fonte del segnale non sia strettamente limitata dalla risoluzione dell'immagine, e la PET possa produrre un'informazione posizionale con precisione assai maggiore di quella che la risoluzione dell'immagine permetterebbe, sulla scala di pochi millimetri; Fox et al. 1986). Inoltre, quando i dati sono mediati su soggetti differenti, la risoluzione spaziale dei dati risultanti è piuttosto ridotta a causa della variabilità funzionale e anatomica. Infine, a causa dei limiti di dosaggio della radiazione e dei limiti pratici dei paradigmi della PET, su ciascun soggetto può essere effettuato solo un numero limitato di scansioni. Poiché le potenzialità spaziali della PET hanno una 'grana' meno fine della scala spaziale della risposta emodinamica, vi possono essere limiti nella capacità di riflettere in modo attendibile le differenze di piccola scala negli schemi dell'attività neuronale. D'altra parte, le immagini PET mediante 15O mostrano una relazione quantitativa nota con il flusso sanguigno, che è a sua volta correlato con l'attività neuronale, offrendo un importante vantaggio sulla fMRI nell'interpretazione dei risultati.

Imaging a risonanza magnetica funzionale

Lo sviluppo dell'MRI ha reso possibile visualizzare, in modo tridimensionale e non invasivo, la struttura interna di oggetti composti da materiali chimicamente diversi, con una risoluzione molto più alta rispetto a quella che si ottiene attraverso le tecniche basate sui raggi X come la TC. Fino a poco tempo fa, la risonanza magnetica era usata soprattutto in sede clinica per visualizzare la struttura di patologie cerebrali, come i tumori e gli edemi e solo negli ultimi anni è diventato evidente che il segnale MR può riflettere anche le variazioni emodinamiche provocate dall'attività neuronale.

Il segnale della risonanza magnetica (originariamente risonanza magnetica nucleare o NMR, nuclear magnetic resonance) deriva dalle caratteristiche intrinseche dei nuclei dodati di momenti di dipolo magnetico in un campo magnetico esterno. La precessione od oscillazione dei dipoli magnetici in un campo magnetico costituisce il segnale base MR. Nel cervello il segnale MR proviene principalmente dai nuclei di idrogeno delle molecole d'acqua, e il suo tempo di decadimento dipende dalla composizione del tessuto. Il segnale decade più lentamente nella materia grigia piuttosto che nella materia bianca e ancora più lentamente in molte lesioni come i tumori. Il contrasto tra un tessuto e un altro in un'immagine MR è dovuto principalmente a questa differenza nel tempo di decadimento del segnale MR.

Sia il segnale MR sia i mezzi per la formazione dell'immagine richiedono una complessa serie di applicazioni di gradienti di campo magnetico e di impulsi di frequenze, che marcano efficacemente il segnale proveniente da ciascuna posizione con un unico segnale caratteristico. Il segnale complesso risultante, a variazione temporale, misurato con bobine riceventi (un segnale a frequenza temporale) riflette direttamente il contenuto spaziale di frequenza dell'oggetto che si sta visualizzando; applicando una trasformata di Fourier a questi dati, viene prodotta un'immagine.

La sequenza dettagliata di impulsi, che influenza in modo cruciale il segnale MR ed è essenziale per qualsiasi resoconto completo dell'MR, è troppo complessa per essere trattata qui. Il gran numero di parametri coinvolti in ogni esperimento di imaging MR e l'ampio spettro di valori che si possono scegliere per ciascuno di essi rendono la tecnica molto stimolante e versatile (Buxton 2001).

Gli studi fMRI sull'attivazione

Tav. III

Sin dalle prime dimostrazioni della potenzialità dell'MR come tecnica per misurare l'attività cerebrale, sono stati sviluppati parecchi tipi di sequenze di impulsi sensibili ai parametri correlati al funzionamento del cervello, come la perfusione, il volume sanguigno e l'ossigenazione del sangue. La tecnica BOLD (blood oxygenation level dependent, dipendente dal livello di ossigenazione del sangue), più frequentemente usata, trae vantaggio dal fatto che le proporzioni relative di emoglobina ossigenata e deossigenata nel sangue cambiano in seguito all'aumento dell'attività neuronale (Tav. III).

Durante l'attivazione, gli incrementi del consumo di ossigeno sono inferiori a quelli del metabolismo del glucosio e del flusso sanguigno (Fox e Raichle 1986). Di conseguenza, l'incremento di ossiemoglobina dovuto all'aumentato flusso sanguigno supera di gran lunga la conversione dell'emoglobina ossigenata in deossigenata, dovuta al consumo di O2. L'ossiemoglobina e la deossiomoglobina hanno differenti proprietà magnetiche; il netto decremento nella relativa concentrazione di deossiemoglobina risulta da un aumento del segnale BOLD.

Limiti tecnici della fMRI

In teoria, non c'è un limite inferiore alle capacità della fMRI di risolvere l'informazione spaziale, poiché con l'aumento dell'intensità dei gradienti di campo magnetico e del tempo di imaging si possono individuare strutture sempre più piccole. Tuttavia, i magneti adatti per gli studi del cervello umano generalmente producono campi di intensità compresi tra 1,5 e 4 tesla (sebbene di recente siano stati utilizzati magneti da 7 tesla; Pfeuffer et al. 2002) e, per mantenere la durata della scansione entro un lasso di tempo ragionevole, le immagini funzionali dei cervelli umani raramente sono spinte al di sotto della soglia del millimetro.

Come per tutte le modalità di imaging, il rapporto segnale/rumore è un fattore limitante. L'SNR per la fMRI è proporzionale al segnale intrinseco (inclusa la forza del campo), al volume del voxel e alla radice quadrata del tempo di imaging. Ridurre la dimensione lineare del voxel alla metà (per es., il voxel di un fattore 8) richiede un aumento del tempo di imaging di 64 volte per mantenere lo stesso SNR. Poiché la modulazione dell'intensità del segnale BOLD durante l'attivazione funzionale è relativamente piccola, in genere del 2-5% al di sopra del segnale a riposo, l''arte' dell'MR consiste nel massimizzare il segnale rispetto al rumore. Le dimensioni del voxel scelte negli esperimenti fMRI riflettono la necessità di questo bilanciamento e non la risoluzione spaziale della tecnica in sé. Per migliorare l'SNR i dati sono frequentemente mediati su numerose sequenze condotte su uno stesso soggetto. Occasionalmente i dati sono mediati su diversi soggetti, come nella PET, per aumentare ulteriormente l'SNR ma, a causa della variabilità anatomica e funzionale tra i soggetti, ciò avviene a scapito della risoluzione spaziale dell'immagine finale.

Quanto sia accurata la localizzazione dell'attivazione cerebrale da parte della fMRI resta un problema aperto e, in una certa misura, la risposta dipende dalla sequenza di impulsi usata: si ritiene che alcune sequenze evidenzino le vene di deflusso, le quali possono trovarsi ad alcuni millimetri dal sito dell'attività neuronale che provoca i cambiamenti di ossigenazione, mentre altre mirano in modo più specifico ai letti capillari del tessuto attivo. Inoltre, la scansione con un voxel di piccole dimensioni dirige la tecnica verso l'identificazione di piccole regioni con grande variazione di ossigenazione, che di nuovo possono corrispondere alle localizzazioni delle vene di deflusso, non del neuropilo. Queste misurazioni potrebbero offrire una rappresentazione fuorviante della localizzazione e dell'intensità dell'attività neuronale sottostante. Nella maggior parte degli studi fMRI i voxel misurano almeno alcuni millimetri di lato.

Sebbene i dettagli sulle caratteristiche temporali della reazione emodinamica non siano ben compresi, è noto che un cambiamento rivelabile del flusso sanguigno ha luogo molti secondi dopo l'attività neuronale che lo produce e che il segnale ha bisogno di pochi secondi per aumentare fino al suo massimo e decadere. Così, sebbene la fMRI possa misurare i cambiamenti del flusso sanguigno quasi in tempo reale, ciò che essa misura corrisponde all'attività neuronale avvenuta diversi secondi prima. I dati attuali suggeriscono tuttavia che l'inizio e lo sviluppo della reazione emodinamica, misurata in una data area rispetto a uno stimolo particolare, sono del tutto attendibili, il che permette di fare, a partire dai dati, alcune deduzioni sulle proprietà temporali delle risposte misurate (Miezin et al. 2000).

Con l'invenzione della fMRI ecoplanare (EPI, ecoplanar imaging) e il contemporaneo sviluppo della strumentazione che consente una variazione rapidissima dei gradienti del campo magnetico, una singola immagine MR può essere acquisita in meno di 100 ms e i dati sull'intero cervello in 1-2 secondi. Tuttavia la qualità del rapporto tra il segnale e il rumore di una singola immagine è troppo scadente perché la singola scansione EPI sia di per sé stessa utile. Le immagini EPI sono tipicamente mediate su esperimenti simili, per produrre dati fMRI con SNR adeguato.

La capacità della fMRI di acquisire dati in brevi intervalli di tempo offre importanti vantaggi. Poiché la fMRI non è invasiva e non comporta l'uso di sostanze radioattive, in teoria non vi è alcun limite al numero di volte in cui un singolo soggetto può essere sottoposto alle scansioni. Rispetto alla PET, ciò consente di ottenere un buon rapporto tra segnale e rumore e permette la progettazione di nuovi esperimenti concernenti gli aspetti temporali dell'emodinamica. Per esempio, sebbene le prime scansioni fMRI mediassero segnali su blocchi temporali, in genere di 10-30 s, e come tali fossero soggette allo stesso tipo di problemi interpretativi della PET, schemi sperimentali più recenti, servendosi dell'EPI, consentono di raccogliere le scansioni post hoc e di analizzarle in gruppi separati. Questo rende possibili esperimenti in cui diversi tipi di prove sono usati contemporaneamente e analisi basate su una risposta di tipo comportamentale (Buckner et al. 1996).

Allo scopo di esplorare la funzione cognitiva gli schemi a prova singola sono molto spesso più potenti degli schemi bloccati. Inoltre, la forma della curva della risposta emodinamica può essere analizzata mediante differenti tipi di prove in esperimenti a prova singola. Questi paradigmi 'connessi a un evento' rappresentano il più sofisticato schema sperimentale attualmente impiegato (Buckner 1998; Rosen et al. 1998).

Un'altra tecnica molto efficace che è stata di recente sviluppata è l'adattamento alla fMR (Grill-Spector e Malach 2001). Tale metodo consente di marcare efficacemente un sottoinsieme di neuroni in un'area eterogenea e di studiare le loro proprietà funzionali. Ciò si realizza adattando una popolazione di neuroni ed esponendola a un singolo stimolo ripetitivo, monitorando quindi il ritorno allo stato iniziale, quando vengono esposti a uno stimolo simile all'originale, dal quale differisce per un singolo parametro. Il ritorno allo stato iniziale indica quanto essi siano sensibili a questo parametro dello stimolo.

Analisi dei dati e interpretazione

I metodi di neuroimaging presentano un rumore intrinseco e i dati che si ottengono richiedono l'analisi statistica per una loro valida interpretazione. Come nella PET, con l'analisi dei risultati della fMRI si cerca di identificare le attivazioni regionali e di determinare la significatività statistica delle variazioni misurate. Il confronto multiplo rappresenta la più grande difficoltà che si incontra nel determinare la significatività statistica delle variazioni del segnale osservato. Una tipica immagine del cervello umano contiene migliaia di voxel. La soglia di significatività comunemente usata nei metodi statistici standard (p⟨0,05) indica che una misurazione sopra la soglia su venti è un falso positivo. Poiché le statistiche di neuroimaging sono effettuate su migliaia di voxel, misure significative non corrette genereranno molti falsi positivi. Occorre dunque utilizzare appropriate misure statistiche per fronteggiare questo rischio; un modo per evitare il problema consiste nell'usare analisi nell'ambito della 'regione di interesse'.

Un'altra difficoltà che si presenta nell'analizzare i dati di neuroimaging consiste nel fatto che il rumore di attivazione di immagine non è normalmente distribuito. A causa di ciò, spesso non vi è accordo su quali statistiche siano più adatte per l'analisi dei dati. L'invenzione di metodi statistici per l'analisi dei dati di imaging rappresenta un'area di ricerca in via di sviluppo. Tuttavia, a dispetto della varietà degli approcci parametrici e non parametrici correntemente impiegati per analizzare i dati di neuroimaging, tali differenti metodi statistici producono, in una prima approssimazione, risultati assai simili.

I dati fMRI possono essere analizzati sia con tecniche di sottrazione sia attraverso la correlazione delle evoluzioni temporali dell'attivazione con un segnale modello a tempo variabile (quando il segnale modello è una funzione a impulso rettangolare la correlazione è matematicamente equivalente alla sottrazione). Sia le analisi a sottrazione dei dati sia quelle a correlazione possono impiegare uno shift di fase per tener conto del prolungarsi del segnale emodinamico, con notevoli miglioramenti del segnale. Il vantaggio della sottrazione rispetto alla correlazione consiste nel fatto che, nel primo caso, non si devono scartare i dati indicanti l'intensità delle risposte. Tale intensità è un aspetto significativo dell'attivazione cerebrale e un importante complemento per la localizzazione delle risposte. Il vantaggio della correlazione rispetto alla sottrazione consiste nel fatto che la durata temporale può essere costruita in modo da includere i tempi di inizio e di caduta del segnale che si avvicinano maggiormente alle variabili biologiche rilevanti, fornendo in alcuni casi un migliore rapporto tra segnale e rumore. È possibile sfruttare il meglio dei due metodi effettuando un'analisi iniziale basata sulla correlazione e registrando successivamente le variazioni di intensità delle regioni significativamente attive.

Tuttavia, l'interpretazione dei dati fMRI può non essere semplice anche dopo aver effettuato l'analisi. La fMRI misura i cambiamenti del livello di ossigenazione del sangue, ma ciò che se ne deduce è l'attività neuronale, le cui relazioni spaziali e temporali con il segnale sono difficili da determinare. Inoltre, il segnale fMRI non distingue tra attività neuronale inibitoria ed eccitatoria, e può privilegiare le elaborazioni locali rispetto all'attività generata da connessioni a lunga distanza (Logothetis et al. 2001). Dalla fMRI si ottengono anche informazioni sulle differenze di elaborazione neuronale ma non sui livelli assoluti di attività. L'imaging con la fMRI è dunque un'impresa intrinsecamente interpretativa; non è possibile infatti estrarre semplicemente l'attività neuronale dai risultati di una scansione della fMRI (Heeger e Ress 2002).

Una visione sistemica del cervello

Oltre a comprendere le potenzialità e i limiti delle tecniche sperimentali usate per studiare le basi cerebrali della funzione cognitiva, è anche necessario avere un'idea del cervello in sé stesso, a un livello sistemico, adatto per questo tipo di indagine, che è decisivo per comprendere le possibilità del neuroimaging. Con la sola comprensione del cervello a livello cellulare, per esempio, si potrebbe accettare l'idea errata che la risoluzione dei metodi di neuroimaging è insufficiente per osservare la funzione cerebrale. Il ragionamento è il seguente: la risoluzione spaziale e temporale della PET e della fMRI è dell'ordine dei millimetri e dei secondi, ma la cognizione è mediata dai neuroni, la cui scala spaziale è nell'ordine dei micron e la cui attività si misura in millesimi di secondo. Anche un compito cognitivo complesso, come riconoscere un volto o costruire una frase, si svolge nell'ordine delle centinaia di millesimi di secondo. Se i metodi di neuroimaging non sono in grado di risolvere dimensioni spaziali e temporali di queste scale, ci si chiede come possano fornire informazioni interessanti sulle basi cerebrali della cognizione. I limiti di questa considerazione appaiono evidenti con una adeguata comprensione della base neuronale della cognizione a livello sistemico.

Il cervello e le unità funzionali localizzate

Il cervello dei mammiferi è un organo fortemente strutturato, con numerose regioni distinte che si possono identificare da un punto di vista anatomico, fisiologico e funzionale. Gli studi sulle proprietà fisiologiche delle cellule della corteccia cerebrale dei mammiferi hanno dimostrato che regioni corticali diverse sovrintendono all'elaborazione di tipi di informazione differenti, come il movimento, la forma, la localizzazione degli stimoli visivi. Si può dimostrare che in molti casi queste distinzioni che riguardano la funzione si accordano con confini strutturali ben identificati. Il cervello è dunque un organo formato da molteplici sottounità funzionali interconnesse, ed è questo principio di localizzazione a rendere possibile l'uso delle tecniche di neuroimaging per lo studio dei processi cognitivi. Gli studi sugli esseri umani, effettuati con la PET e la fMRI, hanno provato in maniera convincente che la corteccia umana, come quella dei primati non umani, è divisa in aree funzionali specifiche (Fox et al. 1986; Sereno et al. 1995; Tootell et al. 1995; DeYoe et al. 1996; Engel et al. 1997). Oltre alla specificità funzionale, molte aree funzionali sono fortemente organizzate dal punto di vista topografico. Intelligenti esperimenti consentono l'uso di tecniche di neuroimaging per esplorare l'organizzazione topografica all'interno di alcune di queste aree (Fox et al. 1986; Sereno et al. 1995; DeYoe et al. 1996; Engel et al. 1997; Tootell e Hadjikhani 2001; Huk et al. 2002). È anche possibile esplorare la fisiologia di classi di neuroni anatomicamente isolate attraverso l'imaging durante la variazione delle dimensioni dello stimolo alle quali sono sensibili. Alcuni studi, per esempio, hanno dimostrato l'esistenza di diverse sensibilità di contrasto nelle regioni della corteccia visiva (Tootell et al. 1995; Boynton et al. 1996), mentre altri hanno registrato la modulazione dell'attenzione (Culham et al. 2001).

Tuttavia, è sostanzialmente corretto affermare che la funzione cognitiva è distribuita e ciò determina implicazioni significative per il neuroimaging. L'elaborazione è distribuita in senso macroscopico, poiché differenti regioni del cervello sono responsabili dell'elaborazione di diversi aspetti di un compito e, per l'esecuzione di quest'ultimo, sono necessarie molte regioni discrete che lavorino in concerto tra loro. Anche i compiti cognitivi più elementari hanno molteplici componenti, i cui correlati neuronali possono agire in parallelo o in serie in molte parti diverse del cervello. Poiché raccolgono i dati dell'intero organo, la PET e la fMRI sono le uniche tecniche adatte a esplorare la distribuzione delle componenti funzionali entro il cervello.

Sebbene il neuroimaging sia un metodo di indagine assai potente, è importante riconoscerne i limiti. In primo luogo, il ruolo svolto dai singoli neuroni non è attualmente analizzabile con un qualunque metodo di neuroimaging non invasivo. Inoltre, molte popolazioni neuronali possono occupare la stessa piccola regione di tessuto, ma essere preposte ad attività di elaborazione differenti, come nel caso della corteccia visiva primaria. Risposte emodinamiche simili possono, di conseguenza, essere ottenute da stimoli e compiti diversi. In tali circostanze non è possibile distinguere le popolazioni neuronali l'una dall'altra. L'attivazione di popolazioni neuronali sovrapposte può limitare la capacità di queste tecniche di compiere distinzioni funzionali molto sottili. Per questo motivo, tali tecniche non saranno mai utili, probabilmente, per 'leggere il pensiero', o per altri compiti che richiedono un'unica attribuzione a schemi di attività (O'Craven e Kanwisher 2000; Haxby et al. 2001).

Una prospettiva sistemica del cervello rivela che, durante la realizzazione di compiti cognitivi, l'attività neuronale è localizzata fortemente a livello delle regioni corticali, per quanto queste regioni possano essere ampiamente distribuite nel cervello. Nel determinare quali regioni siano attive, e durante quali compiti, si comincia a comprendere come il cervello suddivida compiti cognitivi complessi in componenti più semplici. Il fatto che esperimenti di neuroimaging abbiano fornito informazioni attendibili e riproducibili sui centri dell'attività neuronale durante compiti che vanno dalla vista al linguaggio, alla memoria e all'abilità di apprendimento, dimostra che il cervello non è un organo omogeneo, nel quale tutti i processi cognitivi impiegano gli stessi gruppi di neuroni, ma è piuttosto una struttura altamente organizzata con unità funzionali specifiche.

La conoscenza dei processi cognitivi come ausilio nella progettazione degli esperimenti

Per progettare o valutare gli studi di neuroimaging funzionale, è necessario conoscere non solo i limiti degli strumenti di misurazione e la biologia del cervello, ma anche le basi degli approcci cognitivi. La progettazione e l'analisi degli esperimenti rappresentano le sfide più grandi di questa impresa. Qui di seguito verranno discussi alcuni problemi essenziali per la progettazione di adeguati esperimenti di neuroimaging e per l'interpretazione dei loro risultati.

Negli studi sull'attivazione vengono utilizzati tre tipi di compiti: i compiti bersaglio, comprendenti un compito o un sottocompito di interesse; i compiti di comparazione, simili ai precedenti ma che manipolano o mantengono costante una componente di interesse; i compiti di base, di livello più basso, usati per rappresentare uno stato inattivo. Le differenze nell'attivazione regionale tra scansioni di compiti attivi o fra scansioni di compiti attivi e di base riflettono differenze nelle richieste associate al compito. La selezione dei compiti è estremamente importante poiché influenza l'interpretazione e il risultato dello studio. La scelta delle condizioni di base e di comparazione è in parte governata dalla scomposizione funzionale del compito di interesse primario.

La scomposizione funzionale

I compiti cognitivi complessi sono quasi sempre costituiti da numerose sottooperazioni; per esempio, nella maggior parte degli esperimenti sull'attivazione, un soggetto riceve istruzioni, percepisce stimoli, svolge determinate operazioni cognitive e risponde apertamente in un modo prescritto. La scomposizione funzionale si riferisce alla scomposizione concettuale di un compito completo nelle sue componenti e rappresenta una 'incisione' nella sua integrità, lungo le sue giunture funzionali. Sebbene questo fatto non riceva generalmente una sufficiente attenzione, una scomposizione funzionale attenta e appropriata è alla base del successo degli esperimenti di neuroimaging.

Di solito, uno studio sull'attivazione è ispirato dall'interesse verso un particolare tipo di processo cognitivo. Mentre è ben evidente che un'ipotetica scomposizione dei processi che avvengono durante un periodo di scansione è necessaria per interpretare i risultati degli esperimenti di neuroimaging, soltanto di rado si riconosce che, negli esperimenti migliori, particolari della stessa modalità sperimentale emergono da successivi, ripetuti momenti di scomposizione funzionale.

Scomposizione funzionale e impostazione dell'esperimento

Il metodo più diretto per affrontare l'esperimento consiste nel caratterizzare un paradigma del compito bersaglio tenendo conto delle informazioni introdotte, delle necessità di elaborazione e dei risultati. L'esperimento ideale mantiene due di queste tre componenti fissate nei vari compiti di comparazione e manipola il più basso numero possibile di variabili per volta. Se è disponibile la documentazione, di carattere psicologico o neurologico, riguardante la natura del compito, in un esperimento di neuroimaging questa può essere usata per indirizzare la scomposizione funzionale.

Tuttavia, molto di rado, è possibile scomporre in modo completamente funzionale un compito sulla base di dati empirici. In assenza di prove empiriche indipendenti, occorre chiedersi in che modo sia possibile affrontare un problema di scomposizione funzionale. Le tecniche per una corretta impostazione sperimentale sono in questo caso di vitale importanza per compensare la mancanza di una scomposizione funzionale complessiva. I compiti di comparazione devono essere strettamente associati al compito bersaglio su molti fronti, allo scopo di cercare di manipolare specifiche richieste del compito e di mantenere costanti, il più possibile, le sue caratteristiche non rilevanti per il problema in questione. Questo approccio sperimentale evita l'implicita assunzione di una scomposizione funzionale in quelle aree in cui è sconosciuta. Poiché molte operazioni cognitive rilevanti non sono completamente specificate, sarà più facilmente interpretabile un protocollo sperimentale semplice ed efficiente, che vari il minor numero possibile di componenti non direttamente rilevanti per il compito in atto. In questo modo, le differenze nell'attivazione tra le condizioni di scansione potranno essere attribuite senza ambiguità alle variabili manipolate. Analogamente, i parametri mantenuti costanti tra i compiti potranno essere usati per stabilire i ruoli funzionali delle regioni fortemente attive tra le scansioni.

Quando si progettano compiti di comparazione, occorre tenere presente che variazioni apparentemente piccole nei tratti superficiali tra i compiti possono avere effetti sorprendenti sugli schemi di attivazione (Fox e Raichle 1984). Parametri come la frequenza di presentazione visiva, la frequenza delle risposte motorie, la frequenza o familiarità di parola e così via possono influenzare notevolmente l'emodinamica e confondere l'interpretazione dei risultati sperimentali. Di conseguenza, è importante cercare di adattare per quanto possibile questi parametri alle condizioni sperimentali, a meno di verificarne esplicitamente gli effetti. Per esempio, nell'esaminare le differenze di elaborazione fra termini ad alta e bassa frequenza, le parole dovrebbero essere presentate nella stessa misura, essere della stessa lunghezza e dello stesso numero di sillabe, e la soluzione migliore le vorrebbe il più possibile corrispondenti anche nella composizione fonetica.

Anche se una data scomposizione funzionale può sembrare giustificata e completa, bisogna ricordare che il suo ruolo è quello di avanzare un'ipotesi di lavoro, una soltanto tra le numerose alternative possibili. La validità di una particolare scomposizione funzionale può sempre essere messa in discussione, specialmente se le prove empiriche ottenute dall'esperimento o da altre fonti non si conformano al modello ipotizzato.

Scelta dei compiti di base

Molti studi sull'attivazione sono volti a chiarire quali regioni del cervello siano coinvolte in un compito X. Per fornire una risposta l'ideale sarebbe confrontare i livelli di attività durante un compito X con i livelli di attività quando il cervello 'non sta facendo nulla' o è a riposo. Ciò è impossibile, in quanto il cervello non è mai veramente a riposo, dovendo presiedere alle funzioni omeostatiche, regolare il livello di attenzione o di allerta, e così via. È però possibile individuare condizioni che prevedono un'elaborazione cognitiva minima (Gusnard e Raichle 2001).

I compiti di base sono solitamente scelti per essere compiti semplici che non condividono importanti caratteristiche o esigenze con il compito di interesse. Si deve sempre tener presente che il compito scelto come presumibilmente semplice potrebbe in realtà non essere tale, o potrebbe avere in comune con il compito di interesse alcune componenti, senza che lo sperimentatore ne sia consapevole. Molti ricercatori utilizzano compiti di base standard in tutti i loro studi, indipendentemente dall'obiettivo dell'indagine. Ciò rende più facile trovare schemi comuni di attivazione in molte ricerche diverse e apre la possibilità a future metaanalisi. A prescindere dalla scelta del compito di base, è di primaria importanza essere consapevoli delle operazioni cognitive richieste da quel compito, così come delle altre in cui il soggetto potrebbe impegnarsi.

Scelta dei compiti di comparazione

I compiti di comparazione sono più complessi, spesso di alto livello, scelti perché differiscono in qualche modo specifico dal compito primario di interesse (nel qual caso sono a volte chiamati compiti di contrasto) o perché condividono con esso importanti caratteristiche oppure per entrambi i motivi. Una scomposizione funzionale del compito primario di interesse può identificare caratteristiche funzionali che dovrebbero essere condivise oppure assenti nel potenziale compito di comparazione, allo scopo di verificare un'ipotesi specifica sul ruolo funzionale di una o più aree oppure su una particolare scomposizione funzionale. Si possono in tal modo sviluppare compiti che soddisfino questi criteri. La scelta dei compiti di comparazione o di contrasto è una discriminante fondamentale per l'effettiva pregnanza e validità di uno studio. Un'attenta selezione dei compiti può infatti essere decisiva per svelare il ruolo funzionale di una o più regioni del cervello, mentre una loro scelta inappropriata può produrre uno studio che fallisce nel centrare qualsiasi specifico problema cognitivo.

La misura del comportamento

Un requisito minimale per uno studio ben progettato è che i soggetti svolgano effettivamente il compito che lo sperimentatore crede stiano svolgendo. Per tale motivo nel corso delle sedute esplorative vengono acquisite misure comportamentali. Per esempio, dati relativi ai tempi di reazione, alle misure di accuratezza, alla frequenza di azione, e così via, possono essere usati per valutare lo svolgimento del compito e le strategie usate che hanno un impatto significativo sull'intepretazione dei risultati di neuroimaging. È ovvio che una conduzione fortemente comportamentale del compito e dei metodi di valutazione del compito stesso è fondamentale per impostare correttamente ed eseguire con successo un esperimento.

In certe condizioni, specialmente quelle della fMRI in cui il movimento facciale che accompagna le risposte verbali può creare serie interferenze, non è possibile misurare il comportamento palese durante la scansione. Si possono comunque usare alcune strategie per valutare se il compito viene svolto come previsto. Per esempio, il ricordo degli oggetti può essere condizionato manipolando il modo in cui essi vengono codificati: un compito a codificazione profonda, come un giudizio semantico, produce un ricordo migliore rispetto a un compito a codificazione debole, come un giudizio ortografico. Si possono presentare ai soggetti alcuni oggetti e chiedere loro di svolgere segretamente compiti che comportano una manipolazione in profondità dell'elaborazione. Se essi svolgano o meno questi compiti secondo le istruzioni ricevute, lo si può accertare indirettamente al termine della seduta, attraverso test sulla memoria.

I rischi dell'attribuzione funzionale

fig. 1

Poiché il neuroimaging cerca di attribuire ruoli funzionali a regioni cerebrali specifiche o a gruppi di regioni, non è sorprendente che le pubblicazioni sull'argomento spesso affermino, in modo più o meno esplicito, che un certo studio dimostra che l'area X attiva la funzione Y. È raro che ciò sia vero. È virtualmente impossibile interpretare la rilevanza funzionale di una qualsiasi regione attivata sulla base di una o di alcune scansioni. Quanto si può dire con certezza è che il compito complesso A, realizzato con i parametri usati nell'esperimento, induce un'attività nella regione X e che tale compito può essere provvisoriamente scomposto in senso funzionale nei sottocompiti W, Y, Z, eccetera. Al massimo, un esperimento di neuroimaging può fornire forti indizi che quella regione sia coinvolta in un particolare processo. Nessuno studio singolo può dimostrare la funzione di una particolare regione cerebrale. Perché si possa con forza stabilire un'attribuzione funzionale è necessario un processo estensivo e interattivo definito 'triangolazione funzionale'. Non diversamente dalla triangolazione nelle rilevazioni, la definizione del panorama anatomico-funzionale richiede molteplici misurazioni nel corso di una varietà di compiti e un continuo affinamento dell'interpretazione del ruolo che una particolare area svolge nella cognizione. L'osservazione dell'attivazione di una specifica regione cerebrale in un'ampia gamma di compiti caratterizzati da una stessa sottocomponente funzionale costituisce una buona prova per l'attribuzione funzionale (fig. 1); anche l'assenza di quell'attivazione in compiti simili privi di quella componente funzionale rafforza ancor più l'inferenza (sebbene, visto che l'analisi deve servire a ridurre al minimo i falsi positivi, sia necessario essere cauti con le affermazioni circa la mancanza di attivazione). La sfida della triangolazione funzionale risiede nell'individuazione di compiti appropriati per verificare le ipotesi funzionali. Poiché lo 'spazio' della funzione cognitiva è multidimensionale, possono essere necessarie molte misurazioni per accumulare prove sufficienti a triangolare la funzione in una qualche area, con la clausola che qualsiasi attribuzione funzionale è incrementale e aperta a revisioni di fronte a eventuali dati incoerenti.

Anche utilizzando la triangolazione funzionale, resta la possibilità che una singola regione sia responsabile di alcuni o persino tanti tipi diversi di operazioni cognitive. Questa conclusione non riflette necessariamente un'incoerenza biologica o interpretativa. È noto che in certe aree cerebrali, come la corteccia visiva, differenti classi di cellule in una piccola regione sono responsabili di diverse operazioni; ciò accade probabilmente in tutto il cervello. Poiché il flusso sanguigno è misurato (e forse regolato) a livello regionale (nell'ordine dei millimetri) e non a livello cellulare (nell'ordine dei micron), l'attivazione di differenti popolazioni neuronali nella stessa area può portare a schemi di flusso sanguigno identici, almeno data la risoluzione e la sensibilità delle attuali tecniche di neuroimaging. Di conseguenza, l'attivazione della stessa regione in compiti diversi non implica necessariamente l'operatività di identiche componenti funzionali.

Il contributo del neuroimaging alla conoscenza del funzionamento del cervello

Avendo ormai acquisito in certa misura i limiti cui sono soggetti i metodi di neuroimaging, ci si potrebbe chiedere quali progressi siano stati compiuti grazie a queste tecniche. A volte il neuroimaging è stato criticato per aver fornito informazioni che avrebbero potuto essere ottenute con altre neurotecniche e contestazioni più aspre sostengono che tali dati non avrebbero rivelato nulla che non fosse già noto. Nel contestare tali critiche saranno illustrati alcuni progressi ottenuti con tali tecniche.

È un caso piuttosto raro in qualunque campo che si ottenga un insieme correlato di informazioni adottando un unico genere di approccio specifico. Sotto questo aspetto, le tecniche di neuroimaging non sono privilegiate rispetto ad altre tecniche scientifiche. Mentre è certo che gran parte della conoscenze che si sono acquisite attraverso gli studi di neuroimaging si sarebbero potute ottenere attraverso l'esame di una popolazione di pazienti con lesioni o mediante l'analisi elettrofisiologica intraoperatoria di soggetti epilettici, oppure con altre tecniche sperimentali, bisogna sottolineare che i metodi di neuroimaging offrono, in molti casi, un mezzo più pratico per studiare particolari problemi cognitivi. Utilizzando un numero ridotto di soggetti umani normali, gli esperimenti di neuroimaging possono affrontare problemi cognitivi che altrimenti necessiterebbero di pazienti con lesioni fortemente specifiche, ai quali pochissimi ricercatori potrebbero avere accesso. Inoltre, dedurre un funzionamento normale da studi su pazienti con lesioni può essere problematico per diverse ragioni. Il danno della regione deputata alla facoltà cognitiva in questione, o comprendente le fibre nervose che passano attraverso l'area lesionata, può influenzare il comportamento e complicare il compito di localizzare la funzione. Inoltre, il danno cerebrale potrebbe avere sui processi cognitivi effetti non specifici o secondari, che potrebbero non riflettere con precisione il ruolo della regione lesa nella cognizione. Per queste e altre ragioni, le tecniche di neuroimaging su soggetti normali sono spesso più adatte per esplorare la cognizione umana. Per indicare più concretamente i tipi di contributi che il neuroimaging è in grado di fornire, verranno presentati alcuni esempi di studi che hanno accresciuto le nostre conoscenze.

Conferme sull'uomo di quanto già noto dagli studi sui primati

Numerose ricerche su aree cognitive differenti, dalle indagini sul sistema visivo a quelle sulla memoria, hanno confermato ipotesi formulate sulla base dei risultati degli studi sulla fisiologia e sulle lesioni dei primati, associando caratteristiche regioni del cervello a specifici ruoli cognitivi. Come è stato fatto in modo esauriente per le scimmie, è stata disegnata la corteccia visiva umana, tenendo conto dell'eccentricità e dell'angolo visivo, e suddivisa in diverse regioni definite in senso funzionale (Fox et al. 1986; Sereno et al. 1995; Tootell et al. 1995; Engel et al. 1997). Inoltre, le funzioni di contrasto e di sensibilità al colore dei neuroni nella corteccia visiva umana sono state studiate in modo parametrico (Boynton et al. 1996). I risultati sono molto simili a quelli ottenuti nelle scimmie con le tecniche fisiologiche e attualmente con la fMRI (Brewer et al. 2002). Analogamente, le regioni della corteccia prefrontale dorsolaterale bilaterale, associate alla memoria operativa nelle scimmie, sono state confermate come sede della memoria operativa dagli studi di neuroimaging effettuati sull'uomo (Petrides et al. 1993; Courtney et al. 1997); recentemente sono stati effettuati confronti direttamente sullo svolgimento di compiti cognitivi complessi (Nakahara et al. 2002). Attraverso la fMRI è inoltre possibile ottenere informazioni sulle differenze tra l'organizzazione del cervello nell'uomo e in un primate non umano (Tootell e Hadjikhani 2001).

Il recente sviluppo delle tecniche fMRI sui primati non umani ha aperto un nuovo e promettente filone di ricerca. Il neuroimaging nei primati permette di stabilire un legame più diretto tra la neurofisiologia cellulare della cognizione e i risultati della fMRI effettuata sull'uomo. I risultati della fMRI condotta sulle scimmie possono essere interpretati alla luce di dati fisiologici cellulari noti o accessibili (Tolias et al. 2001) e studi simili mediante la fMRI possono essere compiuti su soggetti umani. La possibilità di studiare direttamente il legame tra la risposta della fMRI e l'attività neuronale sarà fondamentale per inferire, in base alle informazioni fornite dalla fMRI, aspetti particolari del funzionamento del cervello umano.

Ottenimento di informazioni non disponibili dagli studi sugli animali

In aggiunta a quanto si ipotizza sulla base della neurofisiologia dei primati, esiste la possibilità che i ruoli funzionali di certe aree del cervello non possano essere del tutto confrontabili tra l'uomo e i primati non umani. Per esempio, l'uomo possiede capacità cognitive che mancano ai primati non umani, come quella di usare il linguaggio; perciò determinate regioni cerebrali devono essere adattate a compiere queste funzioni. Gli studi di Michael Petrides e collaboratori (1993) sulla memoria verbale operativa nell'uomo hanno dimostrato che le regioni della corteccia prefrontale dorsolaterale, omologhe a quelle promuoventi la memoria operativa nelle scimmie, sono coinvolte nel mantenimento dell'informazione verbale a breve termine. Inoltre, un gran numero di studi (Petersen et al. 1988; Petrides et al. 1993; Raichle et al. 1994; Buckner et al. 1996) ha accumulato prove del fatto che una regione nella corteccia prefrontale sinistra, vicina all'opercolo, è deputata alla realizzazione di compiti linguistici. Attualmente si stanno progettando studi mirati per isolare in modo più specifico il ruolo funzionale di quest'area nel linguaggio. Dunque, gli studi di neuroimaging effettuati sull'uomo consentono di esplorare la base neuronale delle funzioni cognitive specificamente umane.

Scelta tra modelli psicologici specifici

Nella psicologia cognitiva si verificano spesso situazioni in cui due o più teorie contrastanti spiegano ugualmente bene un fenomeno. In alcuni casi, il neuroimaging può essere usato per fornire prove che aiutino a scegliere una teoria piuttosto che un'altra (Kanwisher e Wojciulik 2000). Per esempio, gli esperimenti di neuroimaging hanno fornito importanti evidenze che permettono di scegliere tra due modelli psicologici, prima indifferenziabili, riguardo al ruolo che svolge l'attenzione spaziale nei compiti di ricerca visiva. Gli studi psicologici concernenti i paradigmi della ricerca visiva riportano curve con un aumento del tempo medio di scoperta dell'obiettivo in presenza di un aumento di fattori distraenti in concomitanza con i compiti di ricerca visiva. È stato ipotizzato che queste curve risultino dal decrescere dell'efficienza della ricerca parallela con più fattori distraenti o dal tempo aggiuntivo richiesto per realizzare cambi seriali di attenzione rispetto agli oggetti a disposizione.

I soli studi comportamentali non erano in grado di distinguere tra i due modelli. Con una serie di esperimenti PET, Maurizio Corbetta e collaboratori hanno individuato le aree nella corteccia parietale superiore che sono coinvolte nei cambiamenti di attenzione spaziale. In uno studio successivo (Corbetta et al. 1995), tali autori hanno scoperto che queste stesse regioni nella corteccia parietale superiore erano fortemente attivate nel corso di un compito di ricerca sulla congiunzione, e ciò ha fornito una prova evidente che per questi compiti di congiunzione il cervello impiega una strategia di ricerca seriale e non una ricerca parallela. L'imaging ha fornito un valido aiuto anche nei seguenti problemi: se l'attenzione sia basata sull'oggetto o sulla caratteristica; se i giudizi riguardanti il contesto in cui qualcosa è appreso (memoria della fonte) coinvolgano differenti operazioni di recupero, piuttosto che i giudizi di familiarità (memoria degli oggetti); se l'immagine mentale coinvolga o meno la riattivazione di aree corticali primitive.

Prove a sostegno di ipotesi generali sulla cognizione

I miglioramenti nella precisione e nella velocità con cui si svolge un compito dopo un certo periodo di pratica sono stati attribuiti al perfezionamento, con la pratica, dell'efficienza operativa del sistema neuronale oppure a un cambiamento nei circuiti neuronali che svolgono compiti ben noti o praticati. È probabile che un'analisi attenta della letteratura sulle lesioni avrebbe potuto consentire agli scienziati di discriminare tra queste due possibilità, tuttavia il tipo di cambiamento sotteso agli effetti della pratica è divenuto chiaro soltanto quando tali effetti sono stati esaminati con l'uso di metodi di neuroimaging. Numerosi studi sull'apprendimento cognitivo e su quello motorio hanno dimostrato che differenti circuiti cerebrali si attivano in relazione all'automaticità di un compito e che questi percorsi neuronali possono cambiare nel giro di minuti. Marcus E. Raichle e collaboratori (1994) hanno dimostrato che un compito di risposta verbale non sperimentato attiva sicuramente le regioni del cingolo anteriore prefrontale sinistro e delle cortecce temporali posteriori sinistre. Dopo un certo allenamento, le misure comportamentali cambiano: le regioni menzionate sopra diminuiscono la loro attivazione e la corteccia silviana insulare mostra un'attivazione più alta; lo schema dell'attività non è distinguibile da quello osservato in un semplice compito di ripetizione di parole. Di fronte a un nuovo stimolo, gli schemi di attivazione si riconvertono in quelli di un compito non sperimentato. Di recente sono stati forniti risultati simili, che mostrano un cambiamento nell'architettura neuronale sottesa allo svolgimento di compiti semplici e sperimentati, a proposito dell'apprendimento motorio e visuomotorio (Doyon et al. 1996). Recentemente, nell'effettuare l'imaging sull'abilità di apprendimento, sono state osservate differenze più sottili nell'attivazione (Poldrack 2000). L'ulteriore esplorazione dei tempi di cambiamento degli schemi e delle correlazioni con le variabili comportamentali getteranno nuova luce sulla plasticità neuronale e sulla variabilità dei percorsi di elaborazione che accompagnano le realizzazioni più complesse.

L'imaging ha permesso di compiere grandi progressi nella comprensione della memoria umana. Uno dei risultati più recenti e più sorprendenti ottenuti usando gli schemi connessi a eventi è l'aver scoperto che l'attivazione di regioni della corteccia prefrontale e paraippocampale è correlata con la qualità del ricordo verbale (Wagner et al. 1998) e visivo (Brewer et al. 1998); il tracciato dell'attività neuronale durante la codifica può predire se in seguito uno stimolo sarà ricordato oppure dimenticato (Brewer et al. 1998).

La fMRI può anche essere usata per indagare i correlati neuronali della percezione conscia. I compiti di antagonismo binoculare presentano a ciascun occhio immagini tra loro incompatibili: sebbene la stimolazione retinica rimanga costante, i soggetti percepiscono alternativamente soltanto un'immagine per volta. Frank Tong e collaboratori (1998) hanno evidenziato che le risposte di ciascuna delle due aree visive dimostratesi in precedenza selettive nei confronti dei volti e delle case variavano periodicamente in opposizione, a seconda che il soggetto riferiva di vedere lo stimolo del volto o della casa, dimostrando così che un'aumentata attività neuronale in queste regioni selettive nei confronti dello stimolo era correlata con la percezione conscia. Risultati simili sono stati mostrati nell'area della corteccia visiva primaria con stimoli di contrasti differenti (Polonsky et al. 2000). L'imaging durante presentazioni visive brevi e mascheramenti è stato usato per studiare la base neuronale del riconoscimento esplicito di oggetti (Bar et al. 2001).

Risultati imprevisti e nuove problematiche

Oltre a contribuire a chiarire problemi che la psicologia e gli studi sulle lesioni non erano stati in grado di spiegare, il neuroimaging ha fornito risultati del tutto imprevisti, ma sicuramente attendibili, le cui implicazioni per la teoria psicologica e neuronale restano oscure. Per esempio, in contrasto con le aspettative della letteratura neuropsicologica, gli studi di imaging hanno mostrato in modo coerente che le regioni della corteccia prefrontale sono importanti nel recupero della memoria episodica. Essi hanno suggerito che il coinvolgimento della corteccia prefrontale dorsolaterale nel recupero dell'informazione durante compiti di memoria episodica era lateralizzato (Tulving et al. 1994), anche se studi più recenti indicano che la lateralizzazione della funzione durante il recupero è influenzata da numerosi fattori, tra i quali la natura dell'informazione che deve essere recuperata (Wagner et al. 1998) e il suo livello di dettaglio (Dobbins et al. 2002). Una così chiara dissociazione del recupero della memoria episodica da altri tipi di recupero della memoria non era stata mai anticipata prima degli studi di neuroimaging e, sebbene le implicazioni funzionali e cognitive di questa scoperta debbano essere ancora determinate, senza dubbio esse influenzeranno in modo significativo le conoscenze sull'organizzazione funzionale dei processi della memoria.

Conclusioni

Numerosi e importanti progressi nella comprensione delle basi neuronali della funzione cognitiva sono stati già compiuti grazie alle tecniche di neuroimaging e altri senza dubbio ve ne saranno, dal momento che le nostre conoscenze aumentano progressivamente e si continuano a perfezionare le tecniche usate per investigare la cognizione. Gli studi PET e fMRI sull'attivazione rappresentano effettivamente un matrimonio tra neuroscienza e psicologia e forniscono una migliore comprensione sia della cognizione e degli approcci cognitivi sia del cervello. È necessario conoscere entrambi tali domini per poter apprezzare le qualità e i limiti di queste tecniche e per potersi impegnare in modo critico nell'affascinante impresa di visualizzare il funzionamento del cervello umano.

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