La guerra e la pace

Storia di Venezia (1994)

La guerra e la pace

John R. Hale

A fianco del mito "ufficiale" di Venezia - quello della stabilità territoriale e politica, dell'armonia sociale, della maestria nel gioco del moto perpetuo costituzionale - si affermò, dopo la fine della guerra con il Turco del 1537-40, un altro mito, sussidiario ma altrettanto diffuso: quello di Venezia come paradigma dell'idea di neutralità.

La sua prima comparsa risale al 1548, anno in cui l'imperatore Carlo V, malato e preoccupato dall'idea di una morte prematura, approntò una rassegna a tutto campo degli interessi asburgici a beneficio del figlio, il futuro Filippo II. A proposito dell'Italia, l'imperatore osservava che Firenze, Mantova e Genova erano strettamente legate alla causa degli Asburgo; le propensioni imperiali di Siena e Lucca erano forse da incoraggiare; Ferrara era quasi certamente sicura ma andava tenuta d'occhio, dati i legami di sangue con i Francesi; quanto a Venezia, che pure era l'unico Stato davvero indipendente, difficilmente avrebbe creato problemi, in considerazione della sua posizione di neutralità (1).

Con l'inizio del secolo XVII, queste ipotesi ben informate erano ormai divenute dogma. Un inglese colto e attento alle cose politiche, che fu per qualche tempo a Venezia negli anni Novanta del Cinquecento, contrapponeva al sospetto, tipico del periodo precedente Cambrai, che la Repubblica aspirasse "a ottenere la sottomissione dell'Italia intera", l'atmosfera degli anni successivi, durante i quali "i Veneziani si erano occupati soltanto di conservare il proprio [i territori>, e parevano aver rinunciato ad ogni progetto di usurpazione ai danni dei vicini"; anzi, "aborrivano ogni forma di guerra", persino contro i Turchi. E continuava aggiungendo che questo atteggiamento pacifico era dovuto in parte alla mancanza di risorse e di uomini di spicco allevati (come le aristocrazie del Nord) alla guerra, ma anche al fatto che "i gentiluomini di Venezia crescevano nel piacere e nella lussuria, il che non poteva non degradare ed effemminare la loro mente". Per questo affidavano i comandi di terra agli stranieri, anche se "gentiluomini di Venezia avevano comandato con valore la flotta" (2).

In questo accoppiamento della neutralità con l'effemminatezza si riflettono insieme l'invidiabile reputazione di città d'arte, di lusso e di piaceri che Venezia andava sempre più acquistando, e un argomento di scherno antico almeno quanto la nota dichiarazione di Machiavelli del 1509, per cui troppo tempo avevano atteso i Veneziani per sostituire al libro di san Marco la spada (3). Su questo punto ritornerà Pier Maria Contarini nel suo Corso di Guerra, pubblicato a Venezia nel 1601. Siamo circondati da nemici, sosteneva, eppure anteponiamo le arti della pace, "mercatura, scienza, filosofia, legge", a quella della guerra. "Però è in antico proverbio, le lettere esser state la ruina d'Italia" (4). Nel 1617 Sir Henry Wotton, ambasciatore inglese a Venezia, si dichiarava esterrefatto di fronte alla determinazione del patriziato a scendere in guerra con l'Austria pur sapendosi tanto infiacchito "dalla forma di governo, dalla lascivia della gioventù, dalla prudenza dei vecchi, dalla lunga abitudine agli agi e dal disgusto per le armi" (5).

Le opinioni imparziali di due francesi circa la neutralità di Venezia in un contesto europeo caratterizzato dalle alleanze aggressive e dagli stati satellite basteranno a confermare quanto fosse diffuso questo giudizio. Entrambe provengono dagli ambienti più propensi ad operare per por fine alle guerre tra potenze cristiane. Per il primo ministro di Enrico IV, Maximilien de Béthune, duca di Sully, a tanto si poteva giungere attraverso una radicale redistribuzione del territorio tra quindici unità politiche approssimativamente eguali. Convinto che così Venezia come l'Ungheria non si sarebbero intromesse in questa redistribuzione delle terre europee, limitando entrambe le loro attività militari alla lotta contro gli Ottomani, proponeva di rafforzare la seconda assegnandole l'Austria, la Stiria, la Carinzia e la Carniola, allargando nel contempo la base economica e strategica di Venezia con l'annessione della Sicilia al suo impero "da mar" (6). Per Eméric de Crucé la risposta consisteva in un'organizzazione di nazioni unite che rappresentasse tutte le grandi potenze, cristiane e infedeli. Pensava a un consiglio "composto dagli ambasciatori di tutti i monarchi e delle repubbliche sovrane, che saranno i depositari e gli ostaggi della pace comune. E per meglio legittimarlo, tutti i detti principi giureranno di tenere per legge inviolabile ciò che verrà promulgato a maggioranza di voti da detta assemblea, e di perseguire con le armi chi volesse opporvisi". E dove mai poteva aver sede il quartier generale di questa assemblea? A Venezia; non per la bellezza del sito, ma per la centralità della sua posizione geopolitica, e "perché è in pratica neutrale, e indifferente a tutti i prìncipi" (7).

A parte l'elemento dell'"effemminatezza", nell'idea europea di Venezia come potenza quintessenzialmente neutrale si rifletteva una corrente forte - ma non costante né indiscussa - nell'ambito stesso della posizione veneziana sulla scena politica italiana e europea. Ritornato nel 1546 dall'ambasciata presso Carlo V, Bernardo Navagero affermava nella sua relazione: "Non si può se non sommamente lodare il sapientissimo disegno di vostra serenità di fuggir le guerre come perigliosi scogli [...>. Pace, serenissimo principe, pace! [...> e già rallegromi con vostra serenità e con le vostre eccellenze, che hanno uno Stato così gagliardo e forte, che ponno esser certe di goderla eternamente [...>; attendasi a reprimere la malvagità di quelli che son vaghi di cose nuove" (8). E l'esperienza romana durante i negoziati che precedettero la pace di Cateau-Cambrésis lo indusse, nella relazione del 1558, a consigliare il ricorso alla forza solo come pedina di scambio nel gioco della conservazione dello status quo: "mi sento finalmente confirmato, Serenissimo Principe, che le guerre siano sempre da fuggire, come quelle che portano molti incomodi" (9).

Nel 1559 il nuovo capitano generale di Venezia, Sforza Pallavicino, riconosceva che "chi haverà il governo dell'esercito di Vostra Serenità haverà da essere di attendere alla difensione et conservazione di questo suo Stato, et non lo arisicare o mettere in pericolo in una battaglia" (10). Nell'orazione commemorativa in onore dei caduti di Lepanto, Paolo Paruta si sentì abbastanza sicuro del consenso degli ascoltatori da poter ridimensionare le speranze veneziane in una conquista, o riconquista, territoriale. Chi aveva combattuto non era stato motivato "dall'ambitione [...> ma da una fermissima et honestissima intentione di difender la patria et d'esaltare la verissima fede di Christo" (11). E i suoi Discorsi politici, pubblicati nel 1599 e tradotti in inglese e in tedesco, diedero alle parole "neutrale" e "neutralità" un uditorio assai più vasto di quanto avessero mai conosciuto in precedenza. La neutralità veneziana, e la potenza che faceva di essa una forza attiva nel negoziato politico, fu la chiave che tenne insieme il mosaico italiano, impedendo che venisse ancora una volta infranto dalle potenze straniere, com'era avvenuto nel 1494 e nel 1530. A Venezia competeva la tutela della pace nella penisola "con molto prudente e sicuro consiglio, conservandosi nella sua neutralità" (12).

Nel 1538 il doge Nicolò da Ponte, cui erano ben noti certi istinti aggressivi nel patriziato invisibili all'esterno, mise in evidenza la follia dello spirito guerrafondaio. Venezia non ha amici, in Italia, e le antiche aree di reclutamento nelle altre regioni della penisola le si vanno chiudendo. Non le resta allora che ammassare attrezzature militari nel caso occorressero, assegnare e alimentare "un deposito de danari" per non dover ingaggiare forestieri, e perseguire un'intensa attività diplomatica per scoraggiare i potenziali nemici, cristiani o musulmani che siano (13).

Bene esprime il tono generale di questa tradizione, nello stesso anno in cui Eméric de Crucé sceglieva Venezia come sede della sua assemblea, Il nobile veneto del conte Antonino Colluraffi "Libritiensi", pubblicato nel 1623 con una dedica ad alcuni membri della famiglia Donà. Il nobile veneziano ideale, scrive, non è come l'aquila bensì come il cigno, pacifico eppure feroce nella difesa della propria nidiata. Avete fondato il vostro stato sulla guerra, e dovete rimanere forti, ma la guerra ormai è divenuta un "fine alieno dalla vostra Repubblica: essendo i suoi consigli [...> dirizzati al godimento di honorata pace, non à gli eventi di perniciosa guerra" (14).

Com'è ovvio, la posizione neutrale provocò risentimento, oltre che invidia e ammirazione. Moryson condivideva il senso di antipatia provato da altri europei, usi a cogliere la migliore rappresentazione della forza nell'ambizione dinastica sostenuta da una nobiltà di spada. Nella penisola l'immagine di un'"Italia" all'interno della quale, dopo il 1530, "Venetia sola filia intacta manet" - per citare una stampa del 1554 (15) - ma pare distaccata dalle preoccupazioni di altri Stati italiani, meno indipendenti, produsse un'inversione nell'atteggiamento nei confronti della Repubblica.

Nel secolo XV avevano odiato in lei l'aggressore. Nel XVI odiavano in lei il pacifista o, nella migliore delle ipotesi, il prevaricatore. "Tutti gli altri principi", dichiarò nel 1569 papa Pio V all'ambasciatore veneziano, "dal maggiore fino al minore aveanla in odio et ne dicevano male, et che ognun se ne risentiva e dicevano tutti la Repubblica non stimare niuno, né cercare a gratificarsi niuno" (16). In una poesia anonima del 1615 circa, "Italia" chiedeva:

Bell'Amazona mia [...>

Qual fin seria il mio, se tu t'addormi

In pace col vicin? (17)

E nel 1628 l'ambasciatore mantovano a Venezia scriveva al suo duca, sul quale si addensavano le nubi che avrebbero portato gli Spagnoli a strappargli di mano la città, che il senato si muove "con una sì mostruosa cautela [...> [che Venezia> si è hormai resa odiosa agli amici, poco o niente temuta dagli avversari" (18). E infatti nella guerra che seguì Venezia si mosse troppo tardi, troppo irresolutamente e con mezzi troppo scarsi per salvare Mantova dall'occupazione e dal sacco.

Questo, dunque, fu il mito corollario di Venezia: una neutralità ammirata da alcuni, guardata in cagnesco o condannata da altri. Come gli elementi del mito portante, era mitico perché tanto nella coscienza stessa veneziana quanto nell'opinione degli osservatori esterni l'eccesso di distillazione lo trasformò in un'essenza troppo pura per l'uso negli affari e negli eventi d'ogni giorno. E la neutralità fu in eguale misura voluta e involontaria.

L'idea che gli osservatori esterni si facevano della neutralità di Venezia si informava alla loro prospettiva di occidentali. Dopo i grandi trattati di pace europei del 1529-30 e del 1559, la Repubblica non era mai intervenuta, quantomeno in modo diretto, nelle guerre scoppiate in dispregio a quegli accordi. Le sue intraprese militari, nel 1537-40 e nel 1571-73, erano state rivolte contro il Turco, potevano a buona ragione essere considerate come azioni difensive, e per di più - sebbene nessuno degli alleati di Venezia, la Spagna e il papato, le vedesse precisamente in questa luce - come disinteressate espressioni del dovere cristiano di tenere a bada l'infedele. Troppo poco si sapeva, in Occidente, della caparbia indifferenza opposta dalla Repubblica alle richieste di intervento nella guerra terrestre degli Austro-asburgici contro gli Ottomani tra il 1593 e il 1606; la sua reputazione non ne fu macchiata. Era quindi tanto più facile accettare la convinzione veneziana, instancabilmente promossa dagli ambasciatori e dagli storici ufficiali della Repubblica: il ruolo di Venezia si riassumeva nel rifiuto della conquista, nella difesa delle proprie frontiere, nella funzione di tutrice della Pax italica, e nella disponibilità a sostenere l'onere dell'ergersi a baluardo orientale della cristianità. E le successive guerre terrestri non avrebbero minimamente increspato le acque sulle quali galleggiava questa immagine di neutralità.

Della classe dirigente veneziana si era affermata un'immagine tanto marcatamente diversa da quella delle caste dominanti nelle altre nazioni (19) da farla considerare non soltanto come un'entità intrinsecamente a sé stante, ma anche come un modello omogeneo, privo di contraddizioni interne. In tempi recenti gli storici di Venezia si sono assunti il compito di smontare questo modello evidenziandone le singole componenti, definite dalle doti di comando individuali, dalle lealtà consortili, o dall'impazienza della giovane guardia di fronte ai cauti valori di una gerontocrazia. Il caso più evidente di un partito della guerra capace di avere il sopravvento fu, nel 1615-17, la guerra di Gradisca contro l'Austria e il suo mini-protettorato di Segna (20). Agli occhi dell'Europa, comunque, si trattò di un episodio marginale, quasi le pulizie di casa in un territorio di interesse locale, e sebbene gli esiti venissero decisi a Parigi e Madrid, il suo rilievo fu ben presto travolto dall'incontenibile marcia della politica europea verso il gorgo immane della guerra dei Trent'anni. E non lasciò segno alcuno sulla reputazione di Venezia come potenza pacifica. Lo stesso vale per la guerra di Mantova del 1629-31, nonostante l'intervento della Repubblica in aiuto della Savoia, e l'alleanza con la Francia per impedire che Mantova divenisse - come divenne per qualche tempo - un appannaggio spagnolo: la guerra ebbe ben poco effetto sugli osservatori politici esterni. E lo stesso vale, in misura ancor maggiore, per la guerra di Castro del 1642-44, in cui Venezia - incoraggiata dalla Francia e alleata con la Toscana - appoggiò il duca di Parma attaccato dai pontifici che sostenevano la rivendicazione dei Barberini su una parte del ducato di Castro, a lui soggetto.

Alla metà del secolo XVII, dunque, in piena guerra di Candia, proprio all'apogeo della suggestione del mito ufficiale - specie in Inghilterra e in Olanda (21), grazie anche alla posizione antipapale assunta da Venezia nella crisi dell'Interdetto e alla sua alleanza militare con la protestante Olanda nel 1617 - l'altra reputazione della Repubblica, quella legata alla neutralità, rimaneva intatta.

L'elemento mitico di questa reputazione era dovuto non soltanto al fraintendimento del conflitto d'opinioni intorno alla politica estera in seno al patriziato, ma anche all'incapacità di comprendere la naturale e costante propensione di Venezia a trattare, piuttosto che a combattere, con il Turco, nonché il fatto che per la Repubblica la neutralità non era tanto una inclinazione ideologica quanto una scelta più o meno obbligata. Il 1530 aveva forse lasciato Venezia come "sola figlia" d'Italia, ma su ognuna della sue frontiere incombeva una minaccia.

Arteria del commercio con il Levante, l'Adriatico veniva considerato Mare nostrum, una rivendicazione rinnovata ogni anno nel giorno dell'Ascensione con il rito dello sposalizio con il mare. Di questo ovviamente non tenevano conto alcuno i corsari, nordafricani o europei che fossero, che sempre più numerosi insidiavano nel Cinquecento il naviglio commerciale; ma si trattava comunque di un flagello spasmodico ai danni dell'economia, non di una minaccia politica. Non per difendersi dai pirati Venezia spendeva tanto nella fortificazione del Lido o nel rafforzamento delle basi costiere e delle galere di pattuglia. Temeva i Turchi, che nelle dure condizioni imposte dal trattato del 1540 avevano messo bene in chiaro come per loro il giorno dell'Ascensione non significasse nulla di diverso da qualsiasi altro giorno del calendario cristiano. Quanto all'Impero, non aveva mai riconosciuto le conquiste veneziane del 1508, che negavano all'Austria l'accesso al libero porto di Trieste: furono i timori veneziani per Marano e Capodistria, oltre all'appoggio dato dall'Austria ai guerriglieri di Segna, a provocare la guerra del 1615-17. Tanto più che il controllo spagnolo su Napoli e la Sicilia garantiva libero passaggio a un eventuale intervento navale quando Venezia era in guerra, come in quel periodo, con gli Asburgo. Fu dunque assai concreto l'allarme - e la conseguente concentrazione di truppe al Lido - suscitato dalle voci secondo cui il viceré di Napoli, il duca di Ossuna, stava progettando di intervenire dalla parte degli Arciducali.

Né i più consistenti investimenti nella produttività agricola, né la graduale trasformazione da emporio a centro industriale verificatisi in questo periodo bastavano a fare di Venezia qualcosa di diverso da una nazione mercantile, i cui commerci non potevano rinunciare agli sbocchi europei. Dal 1530 la Spagna, riottosa alleata di Venezia nelle guerre con il Turco, custodiva gelosamente la via d'Occidente verso la Lombardia. A partire dagli anni Novanta la simbiosi politica tra gli Asburgo di Spagna e quelli d'Austria, accomunati nella reazione al rifiuto veneziano di sostenere la causa asburgica contro la rinnovata pressione ottomana sull'Europa orientale, aggravò la minaccia che incombeva sulla frontiera settentrionale di Venezia e sulle vie commerciali verso l'Europa centrale e occidentale per le quali un secolo prima la Repubblica aveva combattuto con tanta tenacia. A partire dagli anni Sessanta, all'inquietudine suscitata dalla stagionale invasione della Lombardia spagnola da parte delle truppe che vi si radunavano prima di marciare verso i Paesi Bassi si aggiunse l'agitazione delle crisi legate ai conflitti franco-spagnoli per la Savoia e la Valtellina, che non minacciavano soltanto la sicurezza commerciale e strategica di Venezia, ma anche una delle poche fonti di reclutamento di cui disponeva per le sue guarnigioni e gli eserciti di linea: i Grigioni.

Altrettanto in pericolo era la frontiera meridionale. Meno importante sul piano economico, si trattava però di una linea strategicamente vulnerabile, al di sotto della quale ogni esplosione all'interno della tesissima Pax italica (come la guerra di Cosimo contro Siena), ovvero - soprattutto nella zona degli stati cuscinetto che costituivano il precario isolamento della Repubblica dall'espansione dei domini diretti della Toscana o del papa - ogni spostamento nella rete delle alleanze, poteva lacerare la membrana della sicurezza veneziana. Per questo Venezia preferì sostenere il più lontano pretendente francese al vacante ducato di Mantova piuttosto che quello spagnolo, e poi si schierò a fianco del duca di Parma.

Nessun gruppo egemone italiano era più propenso del patriziato veneziano a vedere i problemi politici attuali nella prospettiva storica. Cambrai, il castigo quasi fatale della precedente aggressività, era un ricordo incancellabile, e la guerra di Ferrara del 1482-84 un monito circa l'entità delle forze avverse che potevano scatenarsi di fronte a un tentativo di modificare le frontiere per ottenere vantaggi economici e strategici. E inoltre il patriziato disponeva di un livello di informazione senza pari su quanto accadeva nell'intera Europa, e con il procedere del secolo XVI ebbe modo di constatare come le grandi guerre esaurissero le risorse delle tesorerie e alienassero il consenso dei sudditi producendo pochi o nulli guadagni territoriali.

Se il sentirsi circondati - nell'immaginazione come nella realtà - da un mondo gravido di minacce incoraggiava a evitare i conflitti mantenendosi neutrali, anche il costo della guerra aveva il medesimo effetto deterrente (22). La guerra del 1537-40 costò in ognuno di quegli anni una somma spaventosamente vicina a quella delle entrate totali della Repubblica - già totalmente impegnate dalle spese di pace. Il costo delle campagne del 1570-73 le superò ampiamente, e lasciò dietro di sé non soltanto un indebitamento paralizzante, ma anche un notevole disagio di fronte all'eventualità che i valori sociali tradizionali potessero risultare significativamente erosi dal fatto di dover rimborsare a interessi molto alti i crediti di quei ricchi non-patrizi i cui prestiti avevano resa possibile la guerra (23). I costi della guerra di Gradisca - un conflitto su scala minore - sono particolarmente difficili da accertare poiché le procedure contabili non ressero alla prova: comunque ammontarono a una cifra compresa fra un terzo e la metà delle entrate, ponendo inoltre, in modo più eclatante che non le guerre precedenti, il problema degli sprechi dovuti a un controllo inefficiente, e della discrepanza fra convenienza finanziaria e vantaggio militare. La guerra di Mantova, che pure richiese l'invio di sussidi alla Savoia, l'arruolamento di diciottomila effettivi straordinari e un contributo del governo alla fortificazione di Vicenza, fu ancor meno dispendiosa sul piano finanziario, ma assai più umiliante su quello del rapporto fra valore e denaro. La guerra di Castro, grazie ai rinforzi modenesi e toscani al contingente straordinario veneziano, costò meno di tutte, ma rappresentò un monito circa la scarsa affidabilità degli alleati italiani, ciascuno dei quali aveva un altro mulino cui tirar l'acqua, nonché sull'inopportunità di distogliere unità della flotta - ne vennero impiegate per un'azione di bombardamento diversiva contro i porti pontifici dell'Adriatico - dal loro compito prioritario nella prova di forza tesa a demolire la crescente convinzione del sultano Ibrahim I che Creta fosse ormai un frutto maturo per la raccolta (24).

E per di più, i decenni delle guerre "a buon mercato" furono punteggiati da costosissime crisi che proprio grazie a una prova di forza non si trasformarono in guerre vere e proprie.

Nicolò Contarini poneva la questione in termini molto chiari nell'introduzione, per lui forse fin troppo misurata, alla sua inedita storia dei propri tempi. A proposito del periodo successivo al 1597, scriveva che ancora una volta sulla anomala posizione di indipendenza della Repubblica incombeva la minaccia del papa e delle altre potenze europee. "Di qui è che alla Republica convenne dopo questo tempo star sempre avvolta o in guerre aperte, o in suspetti pericolosissimi, peggiore [con l'andare del tempo, ovviamente> per lo più delle guerre istesse, et così dalla maniera con la qual era longamente vissuta in felicissima tranquillità, mutarsi ad altro partito, et esser continuamente intenta al proceder altrui, guardinga delle cose sue, star sempre armata, profonder a tempo immensa quantità d'oro, sustentar hor l'uno, hor l'altro de vicini indeboliti, maneggiar l'armi per non inciampar ne danni e nell'insidie tese" (25).

Contarini pensava alle quasi-guerre che assillarono il periodo della crisi sarpiana del 1606-7 (quando Venezia arruolò circa tredicimila effettivi straordinari oltre alle guarnigioni permanenti), e alla prolungata crisi della Valtellina che, molto prima dell'alleanza franco-savoiardo-veneziana contro la Spagna del 1523, aveva imposto il rafforzamento delle guarnigioni e l'ingaggio a scadenza annuale di truppe straordinarie, un investimento sul fronte occidentale che andava ansiosamente calibrato sulla necessità di tenere a bada le costanti minacce degli Austriaci e dei Turchi su quello orientale.

Preoccupato dalla possibilità che il pendolo della guerra europea oscillasse di nuovo in direzione di un'Italia settentrionale dalla quale si era allontanato dopo il 1530, Contarini non prendeva in considerazione gli anni compresi tra quella data e il 1597, periodo nel corso del quale possiamo identificare almeno sedici momenti di crisi che portarono a costose mobilitazioni preventive delle forze armate di terra o di mare, o di entrambe (26). In ognuno degli anni di cui Contarini si occupa, comunque, ai costi delle crisi si aggiunsero, nel far pesare il piatto della bilancia in favore della neutralità, i costi delle guerre.

Oltre a questo, per Venezia l'ingaggio di truppe straordinarie per rinforzare le guarnigioni difensive nei momenti di crisi, ovvero per integrare in previsione di una guerra gli effettivi dell'esercito di linea e delle truppe imbarcate sulla flotta, diveniva sempre più difficile e costoso. Operando di conserva, a partire dalla metà del Cinquecento, la solidarietà asburgica austro-spagnola e l'antiprotestantesimo controriformato del papato inibivano con il terrore le tradizionali aree di reclutamento del governo veneziano in Italia, stendendo inoltre un cordone sanitario tra la Repubblica e le sue fonti di braccia non italiane. Ne conseguivano i costi maggiori delle procedure di reclutamento di raggio più vasto, nonché l'aumento della paga per quel numero sempre più esiguo di uomini che, dopo aver riscosso il primo soldo e la condotta, si lasciava convincere e presentarsi effettivamente in servizio. Tra il 1615 e il 1617, ad esempio, gli arruolatori in Germania, in Francia e in Olanda sborsarono ben più di 200.000 ducati in anticipi per diciassettemila uomini, dei quali tremila soltanto si presentarono al campo (27). Il problema era stato posto in evidenza da Nicolò da Ponte nel 1583: gli arruolatori veneziani erano stati banditi dalla Toscana e dallo Stato della Chiesa, e il duca d'Urbino, che aveva accettato uno stipendio spagnolo, osservava: "credo che sia ben di star in amorevolezza con tutti li Principi Cristiani" (28).

Con il progredire dell'arte della fortificazione, diventava imprescindibile l'impiego di forze molto più numerose, capaci di impegnarsi sui tempi lunghi dell'assedio, oltre a reggere l'urto della battaglia campale. La soluzione più ovvia al problema del reclutamento, secondo i consiglieri militari della Repubblica, consisteva nel rafforzamento dell'esercito permanente di guarnigione.

Nel 1582 le truppe di guarnigione, in Terraferma e oltremare, contavano - sulla carta, quantomeno - novemiladuecentosettantanove uomini, la cui paga annuale ammontava a circa 420.000 ducati. Nel 1621 un numero più o meno analogo di effettivi costava, a seguito degli aumenti di paga nel periodo intercorso, circa 617.500 ducati. Queste somme, di per sé cospicue in rapporto alle entrate dello Stato, vanno forse raddoppiate se dobbiamo tener conto delle altre componenti del sistema difensivo la cui consistenza rappresentava il nerbo essenziale della credibilità della diplomazia veneziana: la flotta, e i contributi del governo alle opere di fortificazione e all'industria bellica. Il costo annuo della difesa costituiva dunque un ulteriore incentivo a rifuggire da ogni impegno bellico. Non sorprende che il piano presentato nel 1606 da Francesco Martinengo - una forza permanente di ventinovemila uomini al costo (da lui calcolato) di 2.750.000 ducati in un anno in cui il totale delle entrate era lievemente inferiore a questa somma - finisse archiviato (29), così come sarebbe stata archiviata nel 1621 la proposta di Cosimo del Monte di ventisettemilacinquecento effettivi per la sola Terraferma (30).

Queste cifre inducono a prendere in considerazione un ulteriore fattore di dissuasione per chi era convinto che la Repubblica dovesse assumere una posizione più aggressiva.

A proposito dell'Olanda alla metà del secolo XVII, uno storico ha scritto recentemente che "l'arte della sicurezza olandese consisteva [...> nel mantenere una forza sufficiente per scoraggiare l'aggressione esterna, ma non tale da mettere in pericolo la libertà interna" (31). È una descrizione perfetta del medesimo dilemma di fronte al quale si trovava Venezia nel rapporto con le popolazioni a lei soggette.

In tutta Europa, solo fra gli Svizzeri la "società" aveva qualche voce in capitolo sulle decisioni relative alla guerra e la pace. Nelle monarchie erano i principi a decidere; nelle repubbliche, le minoranze più influenti all'interno di patriziati che a loro volta rappresentavano una minuscola minoranza della popolazione per la quale legiferavano. La società non contava nulla, ma non si poteva non tener conto della società.

Venezia era riuscita a conservare le sue conquiste quattrocentesche anche perché aveva ratificato le "libertà" locali, facendo importanti concessioni all'autogoverno. I rettori, i castellani e i governatori, coadiuvati dalla speciale autorità dei provveditori generali e degli inquisitori, garantivano la focalizzazione del sistema imperiale su Venezia, ma tutti questi strumenti di accentramento poggiavano sulle tradizioni locali, sulla valutazione locale di costi e benefici, sulla generosità delle borse locali. Che tanta parte del tempo dedicato dal senato alle deliberazioni si consumasse escogitando risposte alle proteste collettive e alle petizioni individuali è indicativo della misura in cui l'applicazione delle decisioni centrali era condizionata dalla buona volontà locale. Anche dopo la costituzione di una cassa di guerra, nel 1584, Venezia non poté mai entrare in un conflitto senza attingere anche alla rendita "ordinaria", e il pagamento dei debiti di guerra veniva finanziato dalle tasse.

Anche in tempo di pace il governo centrale dipendeva dalle realtà locali in misura quasi pericolosa, ad esse assegnando la responsabilità finanziaria per due terzi circa delle spese per le fortificazioni e per buona parte di quelle per le milizie territoriali, supporto essenziale per le guarnigioni nei momenti di allarme o di guerra. Esigenze come la requisizione di carri e cavalli per il trasporto dei rifornimenti militari, o l'alloggiamento delle truppe, costituivano variabili costanti nel rapporto fra realtà locali e governo centrale. La richiesta alle ricche città della Terraferma di contribuire al pagamento delle guarnigioni d'oltremare, in luoghi assai meno facoltosi che ai loro occhi non rivestivano il benché minimo interesse; l'imposizione alle autorità di una data zona di fornire braccia (che quindi avrebbero dovuto trascurare i propri campi) per la costruzione di fortificazioni in una zona campanilisticamente considerata estranea: erano questi i problemi apertamente contestati che ponevano costantemente il senato di fronte al fatto che "Venezia" era in eguale misura un'unità politica e una confederazione. Si sarebbe tentati a ipotizzare che la consapevolezza di come il suo stesso impero non fosse che una fragile costellazione di alleanze contribuiva a confermare nel governo veneziano la convinzione dell'inaffidabilità delle alleanze straniere (con la Spagna nel 1537-40 e nel 1570-73 e con la Francia durante la guerra di Mantova, ad esempio), riflettendo la sua propensione - e ancora una volta Gradisca si staglia come unica eccezione nel quadro di questa analisi - a conservare soltanto il minimo di forza necessario a non presentare la Repubblica come una neutrale troppo facile da sfidare.

Rimane comunque un'ultima questione. Abbiamo già visto in quale misura le considerazioni di carattere pratico incidessero sulla determinazione di Venezia ad astenersi, in linea di massima, dall'intervento nei conflitti europei quando non sussisteva una minaccia diretta alla sua sicurezza o alla sua sopravvivenza. Ma che dire di quell'elemento all'interno del "mito" della neutralità che attribuiva questo atteggiamento all'effemminatezza della Repubblica?

Esisteva, dopo tutto, una deprimente "storia" moralistica di Venezia alla quale i predicatori - sovente - e i patrizi - di tanto in tanto amavano dar voce. All'epoca di Cambrai Girolamo Priuli aveva pianto la perdita del valore dei patrizi, dissanguato dai precedenti decenni di pace, durante i quali la ruggine che aggrediva le armi appese alle pareti dei palazzi aveva eroso anche il metallo della loro fibra morale (32). La bofonchiante opinione di questi laudatores temporis acti trovava conforto anche in una ben nota variazione sul tema della ruota della Fortuna: per citare il soldato vicentino Luigi da Porto, la pace porta la ricchezza, la ricchezza l'orgoglio, l'orgoglio l'iracondia, l'iracondia la guerra, la guerra la povertà, la povertà la mansuetudine, la mansuetudine la pace, la pace la ricchezza... e così via, all'infinito (33). Un secolo dopo lo stesso Nicolò Contarini riconosceva che la pace aveva corrotto la vigilanza e il valore, poiché dai piaceri della prosperità "venivano a conseguitare, per necessità, l'otio et a lui compagni le delitie et il lusso, sempre in generale detestati come caggione delle pernicie delle città" (34). L'idea che la pace, favorendo il fiorire delle arti e dei piaceri, pervertisse le virtù civiche era tanto diffusa in Europa che non occorrevano certo voci veneziane per ricordare agli stranieri che la costruzione di nuovi palazzi e chiese, la sontuosità delle feste e la raffinatezza delle cortigiane potevano anche essere i sintomi di un rilassamento morale.

La parola "pace", comunque, ricorreva troppo spesso nei discorsi di senatori e ambasciatori per poterle attribuire, nel linguaggio ufficiale, la benché minima sfumatura critica. I festeggiamenti che seguirono Lepanto, e le sue commemorazioni poetiche e pittoriche che continuarono anche dopo la perdita di Cipro e la conclusione di un trattato assai poco soddisfacente, stanno a dimostrare quanto fosse sentito il desiderio di una vittoria indiscutibile da poter celebrare. Nei nuovi cicli decorativi prodotti per palazzo Ducale dopo gli incendi del 1574 e del 1577 tutte le connotazioni della pace dopo la vittoria erano positive. Alla Pace si accompagnavano la Giustizia, la Libertà, e una Prosperità incondizionatamente benigna. Ma risultava comunque chiaro che la pace poteva essere durevole solo sulla scorta della preparazione armata (35). Dopo tutto, non era la pace di un'età dell'oro monda di conflitti, né quella di un'epoca in cui si potessero a cuor leggero fondere le spade per farne degli aratri. La sicurezza del trono della Pax veneta dipendeva dalle sue guardie armate: tra queste, quanti erano i Veneziani, o i sudditi di Venezia?

La risposta non è difficile (36). Le proposte presentate in senato nel 1515 sull'elezione di un certo numero di giovani patrizi ai comandi militari di terra non furono più riprese, né vi furono membri del maggior consiglio che prestassero servizio militare per iniziativa individuale, come avevano fatto alcuni - ne sono stati identificati ventitré - prima del 1530. Ma il sistema dei provveditorati militari, grazie al quale i patrizi marciavano con le formazioni militari, fungevano da consiglieri per i loro comandanti e ne riferivano a Venezia, sovrintendevano alle opere di fortificazione e ispezionavano le guarnigioni in Terraferma e nello Stato "da mar", sopravvisse intatto. Se a questo si aggiungono i comandi navali affidati a patrizi, le informazioni militari che gli ambasciatori erano tenuti a riferire e l'impiego del personale della cancelleria nelle campagne di arruolamento, la casta dominante di Venezia continuava a essere meglio informata in materia militare di qualsiasi altra classe dirigente europea. Gli osservatori stranieri che li accusavano di scarsa marzialità vedevano i patrizi in patria, nei loro palazzi, negli uffici in cui curavano gli affari, o mentre si recavano a piedi o in barca alle riunioni di governo con indosso la veste civile; non li vedevano quand'erano a cavallo, con l'armatura indosso, alla vigilia dell'azione, o quando discutevano di tattica coi soldati di professione. Per loro i Veneziani erano gente che viveva nell'agio pagando altri per combattere, e ignoravano, o volevano ignorare, il fatto che ogni corporazione o "scuola" forniva una propria quota di galeotti, e che l'incidenza dell'arruolamento di sudditi veneziani nelle milizie di mare e di terra era superiore, in rapporto alla popolazione maschile abile, a quella di qualsiasi altra potenza europea. Venezia stava diventando la città più visitata d'Italia, la più attentamente osservata, e il contrasto tra il suo aplomb civico e la spada semisguainata della persuasione diplomatica appariva ancor più evidente. Nel Galateo, uno dei libri più letti e tradotti in Europa dopo la sua pubblicazione nel 1558, Giovanni della Casa intendeva soltanto contrapporre le maniere più rozze della provincia a quelle più raffinate della capitale, quando, parlando di corazze e cotte di maglia, affermava: "quello che in Verona per avventura converrebbe si disdirà in Vinegia" (37). Ma i suoi aristocratici - o aspiranti tali - lettori trovavano certo in queste parole la conferma di un pregiudizio radicato.

È dunque possibile spiegare e accantonare quell'elemento del mito della neutralità che si rifaceva ad una qualche corruzione del nerbo veneziano. Venezia cercava di rinviare ogni confronto diretto non tanto perché aveva maggiore fiducia nella lettera della diplomazia che nella forza della spada, ma perché sapeva ormai fin troppo bene che un piccolo Stato doveva ricorrere a spade straniere, sempre più costose, e sempre più difficili da reperire senza scatenare una guerra fiscale che per il suo corpo politico poteva rivelarsi ancor più esiziale di quella militare.

Traduzione di Enrico Basaglia

Papier d'état du Cardinal de Granvelle, a cura di Charles Weiss, I-III, Paris 1942, pp. 267 ss.

Fynes Moryson, Shakespeare's Europe, London 1903, pp. 138-139.

Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 21 ss.

Pier Maria Contarini, Corso di Guerra, Venezia 1601, p. 2.

Life and Letters of Sir Henry Wotton, a cura di Lloyd P. Smith, I-II, Oxford 1907: II, pp. 121.

Armando Saitta, Dalla Res Publica Christiana agli Stati Uniti di Europa, Roma 1948, pp. 28 ss.

The New Cyneas, a cura di Thomas W. Balch, Philadelphia 1909, pp. 104 e 120-122.

Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di Eugenio Alberi, ser. I, I, Firenze 1839, pp. 339-341.

Ibid., ser. II, III, Firenze 1834-1863, pp. 404-409.

A.S.V., Materie miste notabili, b. 7, c. 77r-v.

Paolo Paruta, Oratione funebre, in Degl'istorici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto, I-III, Venezia 1718: II, p. 17.

Id., Discorsi politici, a cura di Giorgio Candeloro, Bologna 1963, p. 330. Si veda anche il Discorso V, passim.

13. Ricordi del doge Nicolò da Ponte per il buon governo della patria in pace ed in guerra, a cura di Niccolò Barozzi, in Raccolta veneta. Collezione di documenti relativi alla storia, all'archeologia, alla numismatica, I, Venezia 1866, pp. 5-17.

14. Ibid., pp. 58-59.

15. Paolo Arrigoni-Achille Bertarelli, Le stampe storiche conservate nella raccolta del Castello Sforzesco, Milano 1932, fig. 3.

16. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I-II, Milano 1968: II, p. 121.

17. Alessandro D'Ancona, Saggi di polemica e di poesia politica del secolo XVII, "Archivio Veneto", 3, 1872, p. 400 (pp. 386-412).

18. Romolo Quazza, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, I, Mantova 1926, p. 219.

19. Luciano Pezzolo, "Un San Marco che in cambio di libro ha una spada in mano": note sulla nobiltà veneta del Cinquecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, pp. 81-94.

20. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneto agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, cap. IV.

21. Eco O.G. Haitsma Mulier, The Myth of Venice and Dutch Republican Thought in the Seventeenth Century, Assen 1980.

22. Per i calcoli finanziari e logistici che seguono, cf. Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, passim, e John R. Hale, L'organizzazione militare di Venezia nel '500, Roma 1990, passim, ma in particolare il cap. IX. Inoltre Luciano Pezzolo, Aspetti della struttura militare veneziana in Levante fra Cinque e Seicento, in Venezia e la difesa del Levante da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, p. 86.

23. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 312-313.

24. Per Mantova si seguono qui le indicazioni di R. Quazza, La guerra per la successione di Mantova; per Castro paiono plausibili le informazioni fornite da Giustiniano Martinioni nella sua prosecuzione dell'opera di Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venetia 1663.

25. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 309.

26. J. R. Hale, L'organizzazione militare, pp. 15 ss.

27. Ibid., pp. 159-160.

28. Cf. supra, n. 13.

29. A.S.V., Provveditori generali in Terraferma, f. 45.

30. Ivi, Miscellanea codici, Storia veneta, 143, nr. 21, 223 ss.

31. Simon Schama, La cultura olandese dell'epoca d'oro, Milano 1988, p. 253.

32. J. R. Hale, L'organizzazione militare, p. 141.

33. Lettere storiche, a cura di Bartolomeo Bressan, Firenze 1857, p. 26.

34 G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 311.

35. Wolfgang Wolters, Guerra e pace nei dipinti di Palazzo Ducale, in Venezia e la difesa del Levante da Lepanto a Candia 1570-1670, catalogo della mostra, Venezia 1986, pp. 251-254 (pp. 247-254).

36. J. R. Hale, L'organizzazione militare, capp. III e V.

37. Giovanni della Casa, Galateo, a cura di Claudio Milanini, Milano 1975, p. 129.