La quarta Crociata

Storia di Venezia (1995)

La quarta Crociata

Donald M. Nicol

Le crociate, guerre cristiane contro gli infedeli per la riconquista di Gerusalemme e dei luoghi santi della Cristianità, sono per definizione imprese ispirate e organizzate dal papato. I crociati erano pellegrini, soldati di Cristo votati a compiere la volontà di Dio.

I Veneziani non furono mai crociati entusiasti. Il loro interesse per la prima Crociata del 1096 fu alquanto tardivo, e venne quando essi si resero conto dei profitti commerciali che le rivali Genova e Pisa cominciavano a trarre dagli Stati crociati fondati in Terrasanta: con Antiochia e Gerusalemme in mano cristiana si apriva la prospettiva di nuovi mercati nel Levante. Durante il 1099 Venezia armò la più grande flotta che fosse mai salpata dall'Italia verso Oriente. Nel 1100 la flotta giunse a Giaffa, e qui i Veneziani posero le condizioni del loro aiuto al re latino di Gerusalemme: lo avrebbero servito per due mesi e, in cambio, ai loro mercanti sarebbe stata concessa libertà di commercio in tutti i domini del re. Nasceva così la figura del crociato a contratto.

Dieci anni dopo il doge Ordelaffo Falier portò un'altra flotta in Palestina. Nulla sta ad indicare che avesse preso la croce come soldato di Cristo, ma arrivò comunque in tempo per sostenere re Baldovino di Gerusalemme nell'assedio di Sidone. Sidone cadde, e i Veneziani furono premiati con nuove concessioni commerciali nella città di Acri, del cui mercato credevano di essersi già impossessati i Genovesi. Nel 1120 Baldovino inviò a Venezia un appello disperato, corroborato dall'approvazione del papa: i Veneziani potevano dunque atteggiarsi a crociati. Con entusiasmo, questa volta, perché l'imperatore bizantino Giovanni II Comneno aveva appena rifiutato la conferma dei privilegi ai mercanti veneziani a Costantinopoli e nell'Impero. Venezia aveva tutta l'intenzione di reagire con una prova di forza: nulla di meglio che mascherarla sotto i panni della crociata. Nel 1122 fu costituita una flotta di cento bastimenti tra navi da guerra e da carico, armate con 15.000 uomini, di cui assunse il comando il doge Domenico Michiel in persona. Il doge arringò l'assemblea del popolo in San Marco, esortandolo a partire con lui per la guerra santa; sulla sua ammiraglia sventolava il vessillo di San Pietro, inviatogli dal papa. Mai prima di allora i Veneziani erano stati tanto ansiosi di presentarsi come difensori della Terrasanta.

Non pareva però che avessero troppa fretta di arrivarci: il primo pensiero nella mente del doge era la vendetta sui Greci. Il primo porto di scalo fu Corfù, che i Veneziani assediarono per tutto l'inverno. Se ne ritirarono, con grande riluttanza, soltanto nella primavera del 1123, quando giunse da Gerusalemme la notizia che re Baldovino era caduto prigioniero. Il doge e le sue navi ottennero una vittoria memorabile al largo di Ascalona, e nel 1124 imposero ai crociati una ricompensa immediata: ai mercanti veneziani sarebbe stato concesso un quartiere in ogni città del Regno latino di Gerusalemme, e sarebbero stati esentati da tutte le imposte. Ancora una volta risultava chiaro che i Veneziani erano crociati a contratto: la promessa di un'aureola di martirio in battaglia contro l'infedele era meno allettante della garanzia di una ricompensa materiale nella libertà di commercio. Avevano accettato di contribuire alla conquista di Tiro e Ascalona, ma una volta cacciati i Musulmani da Tiro ritennero di aver adempiuto il proprio compito di crociati: avevano altre, e più importanti, cose da fare sulla via del ritorno.

Corfù aveva resistito, dunque avrebbero preso la loro vendetta sull'imperatore bizantino altrove. Ritornando a Venezia saccheggiarono Rodi, attaccarono le isole di Chio, Samo, Lesbo e Andros, e distrussero la città di Methoni (Modone) nel Peloponneso. Nel giugno 1125 Domenico Michiel risaliva trionfante l'Adriatico per essere accolto come un eroe: si era coperto di gloria e aveva recato conforto ai cristiani in Terrasanta, ma soprattutto aveva fatto pagare cara ai Greci l'impudenza dell'imperatore. L'iscrizione sulla tomba di Domenico Michiel non parla di un pio crociato, ma del "terror Graecorum [...> et laus Venetorum" (1). Fu quella l'ultima volta, nel secolo XII, in cui i Veneziani si finsero crociati militanti; alla seconda e alla terza Crociata presero parte, a pagamento, solo come trasportatori e fornitori di navi da carico. Dalla Terrasanta avevano già ottenuto quanto volevano, e ora tutta la loro attenzione era puntata sul rinnovo degli assai più proficui privilegi commerciali a Costantinopoli. Pare che i rapporti con l'imperatore bizantino fossero degenerati al punto che a tutti i Veneziani fu imposto di radersi il mento e di non portare quindi la barba come i Greci (2).

La spedizione di Domenico Michiel nel 1122 servì forse da modello per la partecipazione veneziana alla quarta Crociata, ottant'anni dopo. La morale che si doveva trarne non è difficile da scorgere: le crociate sostenute dal doge di Venezia sarebbero state sfruttate per fini diversi, celati sotto il manto della pietà religiosa, avrebbero avuto obiettivi in consonanza con gli interessi veneziani, sarebbero state intraprese a un prezzo predeterminato e solo per un periodo di tempo limitato. Agli occhi di Venezia, la quarta Crociata rispondeva perfettamente a ognuna di queste condizioni. La Crociata fu ispirata e progettata da papa Innocenzo III, salito al soglio nel febbraio 1198. L'ordine al clero di predicare la guerra santa per la riconquista di Gerusalemme, da una decina d'anni in mano a Saladino, fu una delle sue prime iniziative. I maggiori successi vennero in Francia, dove le emozioni della gente furono suscitate da un predicatore itinerante, Folco di Neuilly, e dalla promessa papale della remissione dei peccati per chi avesse preso la croce, proclamata a Digione dal legato pontificio, il cardinale Pietro Capuano.

Nel novembre 1199 il conte Tebaldo di Champagne tenne un torneo nel suo castello di Ecry, sull'Aisne. Tra i numerosi ospiti, il conte Luigi di Blois e Goffredo di Villehardouin, maresciallo di Champagne. Travolta da un'esplosione di fervore religioso, l'intera compagnia prese la croce dei soldati di Cristo: si inaugurava così la quarta Crociata. Villehardouin fu uno dei pochi presenti che avrebbe seguito il movimento fino all'amara conclusione e il suo resoconto, nonostante le molte ambiguità, rimane la versione più coerente di quegli eventi. Folco di Neuilly continuò a predicare in altre regioni francesi, mentre l'abate Martino di Pairis percorreva la Germania. Nel febbraio del 1200 presero la croce a Bruges il cognato di Tebaldo, Baldovino IX di Hainault, conte di Fiandra, suo fratello Enrico e una schiera di altri. Si decise che la Crociata sarebbe stata guidata da Tebaldo di Champagne, scelta gradita a papa Innocenzo III.

Nei mesi che seguirono i conti e i baroni tennero una serie di riunioni per discutere le strategie. Decisero di puntare verso l'Egitto, non verso la Palestina, nella speranza di prendere di fianco i Saraceni. Ma per far questo, occorreva attraversare il mare. Nessuno di loro possedeva una flotta con il numero di navi che immaginavano sarebbe stato necessario, e dunque nominarono sei fiduciari per negoziare a Venezia il nolo di navi per il trasporto truppe: tra questi, Goffredo di Villehardouin. Fu una scelta obbligata, poiché solo a Venezia esistevano la manodopera, le risorse e le competenze necessarie per costruire e armare una grande flotta in breve tempo. I delegati furono ricevuti dal doge Enrico Dandolo, un uomo vecchio, secondo alcuni più che ottantenne, ma non per questo meno vivace e che aveva una vasta esperienza in politica e in diplomazia. Il doge si dichiarò disposto ad aiutare i crociati, ma i termini e le condizioni del contributo veneziano dovevano essere fissati chiaramente nella forma di un contratto vincolante. Dopo una settimana di trattative si stabilì, nell'aprile 1201, che Venezia avrebbe fornito navi e approvvigionamenti per un totale previsto di 4.500 cavalieri con i loro cavalli, 9.000 scudieri e 20.000 fanti. Il costo di questo servizio, da corrispondere a Venezia, veniva calcolato in 85.000 marchi d'argento. La flotta sarebbe stata pronta a salpare da Venezia il 29 giugno 1202; inoltre, "per amor di Dio", il doge si impegnava a integrarla con cinquanta galere, a condizione che a Venezia venisse riconosciuto il diritto sulla metà di tutte le conquiste fatte dai crociati. Una prima rata di circa 2.000 marchi fu versata al doge, il papa ratificò il contratto, e Villehardouin e colleghi ritornarono nella Champagne.

I crociati si erano dunque impegnati a raccogliere ingenti somme di denaro per finanziare la costruzione e il nolo di una flotta immensa. I Veneziani, ispirati dal doge, riversarono tutte le risorse dell'economia e della città nella preparazione della flotta, per adempiere alla loro parte del contratto, convinti che tanto sforzo avrebbe portato a Venezia onore e profitto. Anche i crociati erano entusiasti di portare avanti quella che consideravano la volontà di Dio, ma ben presto la pecca fatale del loro contratto con Venezia sarebbe divenuta evidente: l'entusiasmo li aveva indotti a proporre una stima largamente esagerata del numero dei cavalieri e dei soldati che avrebbero risposto alla chiamata, e questo ottimistico errore di calcolo li aveva pesantemente indebitati con Venezia.

Si era deciso che la Crociata sarebbe stata guidata da Tebaldo di Champagne, che però morì poco dopo il ritorno della delegazione da Venezia. Il successore, proposto da Villehardouin, fu Bonifacio marchese del Monferrato, un uomo che aveva la Crociata nel sangue, dati gli stretti legami della sua famiglia con il Regno latino di Gerusalemme. Per molti versi fu un'ottima scelta. Prese la croce dalle mani di Folco di Neuilly a Soissons nel settembre 1201; si sarebbe unito ai crociati concentrati a Venezia l'estate successiva. Di ritorno in Monferrato, Bonifacio fece tappa a Hagenau, alla corte del cugino re Filippo di Svevia. Passarono insieme il Natale, in compagnia di un ospite inaspettato, il giovane principe bizantino Alessio Angelo, fratello di Irene, moglie di Filippo di Svevia. Il padre di Alessio, l'imperatore Isacco II, era stato spodestato da un colpo di stato nel 1195. Alessio era fuggito da Costantinopoli verso l'Italia, cercando aiuto per restaurare il padre sul trono. Da Ancona aveva proseguito per la Germania per visitare la sorella e suo marito. Senza dubbio l'incontro con Bonifacio, nuovo capo dell'imminente Crociata, gli fece balenare l'idea di approfittare della spedizione in Terrasanta, dirottandola su Costantinopoli. I crociati avrebbero acquisito meriti contribuendo a raddrizzare i torti subiti dal legittimo imperatore di Costantinopoli e da suo figlio. Alessio assicurò Bonifacio e Filippo che se essi lo avessero scortato fino a Costantinopoli il popolo bizantino lo avrebbe accolto come il liberatore dalla tirannia di un usurpatore, e come legittimo erede al trono. E per loro ci sarebbe stata una consistente ricompensa.

Filippo di Svevia sarebbe stato lieto di intervenire in difesa della causa della moglie Irene, di suo padre Isacco II e del giovane fratello Alessio, ma era in guerra con Ottone di Brunswick, e non poteva prender parte a una Crociata essendo stato scomunicato dal papa. Durante le festività natalizie alla corte di Filippo, nel 1201, non furono elaborati piani dettagliati, ma nella mente di Bonifacio di Monferrato si era ormai radicata l'idea. Alessio partì per Roma per perorare la causa di suo padre di fronte al papa, ma Innocenzo pensava soprattutto al futuro della sua Crociata: non vedeva motivo per autorizzarne la deviazione su Costantinopoli a beneficio di un principe greco spregiudicato e immaturo, il cui padre aveva forse pienamente meritato la sua sorte. Quando arrivò a Roma anche Bonifacio, per discutere i piani della Crociata, il papa lo avvertì che per nessun motivo la spedizione avrebbe dovuto rivolgersi contro cristiani. Bisognava puntare direttamente sull'Egitto.

I motivi per i quali l'avvertimento del papa fu disatteso, e la quarta Crociata finì a Costantinopoli invece che nella destinazione prevista, sono stati oggetto di infiniti dibattiti. La letteratura moderna sull'argomento è assai più abbondante che non le fonti contemporanee (3), eppure molti problemi rimangono irrisolti. Le fonti sono reticenti laddove dovrebbero essere più esplicite, oppure mancano del tutto laddove sarebbero più necessarie. In particolare, non esiste una versione veneziana contemporanea di un'intrapresa in cui il doge di Venezia ebbe parte tanto cospicua, e dunque le sue motivazioni possono essere soltanto desunte, o immaginate. Le testimonianze dirette più importanti sono quelle di Villehardouin, di Roberto di Clari e dello storico bizantino Niceta Coniate, tre autori per forza di cose tendenziosi. Roberto di Clari era infatti un ingenuo cronista dei fatti così come li vedeva; Niceta, dal suo canto, sapeva ben poco circa la progettazione e la direzione della Crociata, e, avendola subita sulla propria pelle, a Costantinopoli, non poteva certo ricostruirne un quadro obiettivo; Villehardouin, infine, era l'unico che potesse conoscere tutti i dettagli, anche se in taluni nodi cruciali della sua narrazione pare riluttante a riferire tutto ciò di cui era a conoscenza. In ultimo, ci sono gli atti e la corrispondenza di papa Innocenzo III, il mentore della Crociata. Innocenzo fece il possibile per mantenere il controllo sulla guerra santa che lui stesso aveva avviato, ed era un corrispondente prolifico, ma risulta evidente che spesso era male informato sulle decisioni prese sul campo, e alcune delle sue lettere ai comandanti appaiono stranamente inadeguate nella scelta dei tempi o degli interlocutori.

Lo storico moderno che voglia accertare che cosa andò storto, e per quali motivi la Crociata, per errore o per intenzione, finì per puntare su Costantinopoli, si trova quindi di fronte a fonti ricche di dettagli, ma povere di analisi nelle quali quei dettagli trovino connessione. Alcuni hanno concluso che l'evento del 1204 avvenne semplicemente per concatenazione di circostanze: una serie di accidenti e errori umani il cui inevitabile risultato non poteva essere impedito né dal papa né da altro potere. Così presenta la vicenda Villehardouin, in una versione che non lascia spazio a ulteriori motivazioni di avidità o di profitto. Altri storici, ansiosi di assegnare le responsabilità di quello che finì per trasformarsi in un "grave crimine contro l'umanità", cercano di leggere tra le righe del testo di Villehardouin, del tragico e disperato resoconto di Niceta Coniate e dei pubblici pronunciamenti del papa, per individuare il colpevole. Un tempo era di moda attribuire la colpa del fattaccio a papa Innocenzo III, oppure al doge di Venezia Enrico Dandolo. Il papa lasciò una ricca documentazione in propria difesa; quanto ai Veneziani, per caso o per intenzione coprirono ogni traccia non lasciando nulla di scritto, e i cronisti posteriori videro assai più gloria che non vituperio nelle imprese del grande doge Dandolo.

Si era deciso che gli eserciti crociati si sarebbero radunati a Venezia entro la fine del giugno 1202. Cominciarono a convergere sul punto di raccolta dopo Pasqua. I Veneziani avevano lavorato sodo per adempiere la loro parte del contratto: le navi per il trasporto delle truppe e del carico erano pronte a salpare. Ben presto però fu evidente che i capi della Crociata, travolti dall'ottimismo, avevano ordinato l'allestimento di troppe navi: all'appuntamento si presentò poco più di un terzo della gente prevista, e prima che la flotta potesse salpare da Venezia le navi andavano pagate. Per i crociati si trattava di onorare un impegno, per i Veneziani era un'impellente esigenza finanziaria, poiché avevano investito generosamente nell'impresa. Fu aperta una colletta tra i capi dell'esercito, e chi poteva permetterselo accettò di pagare il proprio passaggio: ma alla somma concordata mancavano ancora 34.000 marchi.

Date le circostanze il doge Dandolo, considerato che i crociati avevano imposto a Venezia tante spese e tante fatiche, propose loro di riscattarsi rendendogli un servizio: si imbarcassero sulle navi e scendessero lungo la costa dalmata per attaccare e conquistare il porto di Zara. Se avessero accettato, lui avrebbe dilazionato il saldo del debito, e la Crociata sarebbe potuta andare avanti. Zara si era ribellata al dominio veneziano, ed era ora sotto la protezione del re d'Ungheria; la sua riconquista avrebbe comportato quello scontro tra cristiani che il papa aveva espressamente proibito. In un primo momento il legato pontificio Pietro Capuano, che aveva raggiunto i crociati a Venezia, condannò la proposta, ma ripensandoci si convinse che sarebbe stata una guerra giusta. Alcuni crociati ne dubitavano ma i più, annoiati, irrequieti e frustrati da una calda estate di inattività nelle lagune, erano ansiosi di mettersi in movimento, qualsiasi fosse l'obiettivo.

Il doge ne fu felice; una domenica di settembre mise in scena una spettacolare manifestazione in San Marco, che ricordava quella allestita ottant'anni prima dal suo predecessore Domenico Michiel. Salito sul pulpito, annunciò alla folla dei Veneziani e dei crociati che ora lui stesso avrebbe preso la croce e sarebbe partito, lasciando Venezia alle cure di suo figlio. Per quanto vecchio, stanco e debilitato, era convinto che nessuno meglio di lui potesse guidare la Crociata. Aveva ragione, perché conosceva le acque, i porti e le ricchezze dell'Adriatico e del Mediterraneo meglio di chiunque altro. Aveva già solcato tutti quei mari, e poteva guidare la flotta ovunque avesse voluto. Nel trasporto della propria eloquenza e della pietà religiosa, Dandolo scese dal pulpito e si inginocchiò di fronte all'altar maggiore, piangendo di emozione mentre gli cucivano la croce del pellegrino di Cristo non sulla spalla, ma sul cappello, affinché tutto il mondo la potesse vedere. Fu un momento di grande commozione, ma in quel momento qualcuno ebbe certo l'impressione che la guida, morale e effettiva, della Crociata, fosse passata nelle mani dei Veneziani, e per qualcuno fu un'impressione tanto forte da indurlo a rifiutare di partire per Zara, rinunciando all'impresa.

Il prezzo predeterminato per i servigi dei Veneziani non era trattabile, ed era superiore alle possibilità dei crociati. Il fatto che non potessero pagarlo è stato considerato causa prima della tragedia, o del trionfo, che si doveva concludere con la conquista latina di Costantinopoli. Anche la scadenza del contratto tra Venezia e i crociati era stata determinata: i Veneziani avevano accettato di servire la causa per la durata di dodici mesi, ma l'impresa si rivelò tanto proficua che il contratto fu prorogato; il doge Dandolo non sarebbe più tornato in patria.

Ai primi di ottobre, dopo mesi di indecisioni e ritardi, la flotta salpò da Venezia. Fu uno spettacolo sgargiante e magnifico: "mai prima di allora", scrive Roberto di Clari, che ne fu testimone, "s'era udita tanta gioia, né s'era vista un'armata più possente" (4). La destinazione immediata era Zara; da lì poi - così almeno ancora si presumeva - avrebbe proseguito per l'Egitto. Il doge aveva affari da sbrigare in diversi porti lungo l'Adriatico, ma non c'era fretta: aveva già avvertito i suoi passeggeri che ormai l'anno era tanto avanti che avrebbero dovuto svernare a Zara, prima di avventurarsi oltre. La flotta arrivò davanti a Zara il 10 novembre, ed entrò a forza nella rada. I soldati sbarcarono e dopo cinque giorni di assedio la città fu presa e messa a sacco. I Veneziani occuparono il porto, e i crociati si sistemarono nella fortezza, in attesa della primavera.

Il sacco di Zara, da lui proibito non appena gli era giunta voce del progetto, confermò nel papa il timore che la conduzione della quarta Crociata stesse sfuggendo al suo controllo. La reazione immediata fu la scomunica di tutti i responsabili, ma i crociati inviarono a Roma una delegazione per implorare comprensione e perdono. Spiegarono di aver agito sotto pressione, e il papa si lasciò convincere ad assolverli dai loro peccati a condizione che obbedissero ai suoi comandi in futuro e giurassero di non attaccare mai più altri cristiani. La cosa era particolarmente imbarazzante, perché il re di Ungheria, ora privato di Zara, era l'unico monarca cristiano che avesse appoggiato la Crociata. Ma il papa sospettava che le vere responsabilità andassero individuate altrove, e rifiutò di assolvere e perdonare i Veneziani: ritornando a Zara, i delegati portarono una bolla di scomunica che condannava il doge e i suoi. Il legato pontificio preferì passare la cosa sotto silenzio, temendo che la sua pubblicazione avrebbe disintegrato la Crociata.

Bonifacio, il capo, poteva giustificarsi essendo stato assente - se non ignaro - dalla scena del delitto: aveva affari altrove, ed era giunto a Zara dopo il fatto. Sarebbe interessante sapere che cosa l'avesse trattenuto; due settimane dopo il suo arrivo, infatti, lo raggiunsero messaggeri dalla Germania con un'esplicita proposta del principe bizantino Alessio, accompagnata da una raccomandazione di suo cognato Filippo di Svevia. Se i crociati avessero deviato dalla rotta per aiutarlo a riprendere quanto gli spettava a Costantinopoli, restaurando suo padre Isacco sul trono imperiale, Alessio prometteva di saldare tutti i debiti con Venezia, di finanziare la spedizione in Egitto, di rafforzare le loro schiere con 10.000 uomini per un anno e di mantenere una guarnigione permanente di cinquecento uomini a cavallo in Terrasanta. E inoltre faceva sapere che l'Impero bizantino sarebbe stato tanto felice del suo ritorno che la Chiesa e il popolo avrebbero reso obbedienza alla supremazia della Sede di Roma, rinunciando all'antico scisma. Queste, per citare Niceta, erano folli promesse di un giovane scervellato (5).

Il giorno dopo il suo arrivo a Zara, la proposta di Alessio e Filippo fu presentata a un'assemblea di tutti i principali partecipanti alla Crociata, laici e ecclesiastici. Le opinioni erano discordi. Bonifacio di Monferrato spingeva perché fosse accolta, energicamente spalleggiato da Dandolo. Una minoranza era contraria, sostenendo di aver preso la croce per combattere l'infedele, non per interferire nella politica di uno stato cristiano. Un migliaio di loro ne erano tanto convinti che lasciarono l'esercito a Zara, per trovare da soli la via della Siria. Secondo altri, l'offerta andava accettata se non altro per conservare la coesione della Crociata. La maggioranza, incoraggiata da Bonifacio e Dandolo, era convinta che nella proposta non vi fosse nulla di male, e che anzi potesse offrire vantaggi e nuove prospettive al futuro della guerra santa. Gerusalemme, dicevano, poteva essere riconquistata soltanto passando per l'Egitto o facendo transito per la Grecia; e se ora i Greci avessero rinnegato lo scisma, ritornando all'ovile della Chiesa romana, avrebbero gettato le loro immense risorse nella causa comune, assicurando la vittoria finale della cristianità unita contro l'infedele. I più magnanimi fondavano la decisione su un punto d'onore: si sarebbero vergognati di rifiutare il loro aiuto a questo giovane, e devotissimo, principe greco. I più realisti ritenevano che accettando i crociati si sarebbero liberati del debito con Venezia, procurandosi anche altri vantaggi economici e militari. I crociati della truppa, che si consideravano pellegrini, pensavano forse ai benefici spirituali di un pellegrinaggio nella città di Costantinopoli, tanto famosa per le sue sacre reliquie. Alla fine, comunque, la decisione tornava in mano al doge di Venezia, anche perché senza il suo assenso e le sue navi la Crociata non sarebbe giunta in nessun luogo. La proposta fu accettata, fu stipulato un accordo, e i messaggeri dalla Germania, delegati a siglarlo in nome di Alessio, ritornarono dal loro signore.

Il dado era tratto: la Crociata si era impegnata a puntare prima su Costantinopoli. Alessio l'avrebbe raggiunta a Zara, dove il suo arrivo era previsto per la Pasqua del 1203. Molti sono convinti che dietro la decisione si celasse l'influenza del doge di Venezia, conclusione che può essere inferita, ma non dimostrata, ancora una volta soprattutto per l'assenza di testimonianze veneziane contemporanee. E probabile che Dandolo fosse l'unica persona dell'intera Crociata che avesse mai visto Costantinopoli, dove in passato era stato inviato come ambasciatore almeno due volte. Conosceva bene i Greci, e non li amava, vere o meno che fossero quelle violenze personali che dichiarava d'avere da loro subite (e che gli avrebbero causato la perdita, seppur parziale, della vista). Il suo rancore era dovuto a questo, certo, ma anche ai torti inflitti ripetutamente alla comunità veneziana di Costantinopoli da imperatori bizantini.

L'antipatia tra Veneziani e Greci era reciproca. Era precipitata nel 1171, quando l'imperatore Manuele I aveva deciso di non poter tollerare oltre l'arroganza e la spregiudicatezza dei mercanti veneziani a Costantinopoli e altrove nell'Impero: li aveva fatti arrestare e espellere, annullando tutti i privilegi concessi dagli imperatori precedenti e privandoli delle fonti stesse di sostentamento. Dandolo era abbastanza vecchio da ricordare la vergogna e il dolore che ne erano derivati per Venezia; dichiarava, pare, che non avrebbe avuto pace fino a quando non avesse fatto pagare ai Greci ciò che l'imperatore Manuele aveva fatto alla sua gente (6). Trent'anni dopo la politica bizantina nei confronti di Venezia era cambiata. Molti Veneziani erano ritornati a Costantinopoli, e nel 1198 avevano riottenuto i loro privilegi commerciali e la condizione legale di stranieri residenti. Dandolo sospettava che questo atteggiamento più tollerante, così benefico per Venezia, potesse non durare. Si presentava l'occasione di insediare sul trono bizantino un giovane imperatore in debito con i Veneziani: non si doveva perderla, ma è probabile che nel 1202 l'idea di attaccare e conquistare Costantinopoli non fosse ancora il primo dei suoi pensieri. Non sarebbe stato comunque il primo occidentale a ritenere che l'intero mondo cristiano sarebbe stato migliore, e più felice, se Costantinopoli e l'Impero bizantino fossero stati piegati con la forza al dominio latino. Federico Barbarossa l'aveva affermato esplicitamente, e forse Dandolo aveva la stessa convinzione, ma nel 1202 pensava soltanto ai più modesti obiettivi di una resa dei conti con i Greci, e della tutela e promozione dell'onore e dei profitti di Venezia.

Papa Innocenzo III era in una posizione difficile. Il progetto di una temporanea deviazione della sua Crociata verso Costantinopoli non fu certo una sorpresa, ma era indignato da tanto apparente disprezzo per la sua autorità. Aveva condannato l'empia e arbitraria aggressione contro Zara, rifiutando di levare il bando della scomunica dal capo dei Veneziani e questi, tutt'altro che pentiti del misfatto, festeggiavano invece la grande vittoria di Zara. Per il papa era un dilemma morale: il diritto canonico non permetteva ai crociati, assolti per i peccati commessi, di stare al fianco degli scomunicati Veneziani, ma in un modo o nell'altro dovevano poter viaggiare insieme, pena la rinuncia all'intero progetto. Il legato pontificio non sapeva che pesci pigliare; fu il papa in persona a escogitare il necessario compromesso tra diritto canonico e senso comune che consentì alla Crociata di prendere la via di Costantinopoli. Innocenzo non aveva provato grande simpatia per il giovane Alessio, quando l'aveva incontrato, né nutriva grande fiducia nelle sue promesse di ricondurre sotto Roma la Chiesa e il popolo di Bisanzio. Come Dandolo, però, riteneva che forse si fosse presentata un'occasione per giungere all'unione delle chiese e a una partecipazione attiva dei Greci alla guerra santa. Meglio ratificare ciò che era sfuggito al suo controllo che rischiare, con una condanna definitiva, la rinuncia allo scopo ultimo della sua Crociata. Nel giugno 1203, quando già erano in cammino, scrisse proibendo ai crociati qualsiasi altra aggressione contro un paese cristiano. Ma ormai era troppo tardi per fermarli, e comunque parecchi di loro dubitavano che i Greci scismatici, che tante volte avevano ostacolato o tradito in passato la causa della guerra santa, potessero essere davvero considerati dei cristiani. Non era forse vero che l'imperatore Isacco, padre di Alessio, in nome del quale stavano navigando verso la lontana Costantinopoli, aveva stipulato un vergognoso trattato di pace col Saladino?

Il 7 aprile, la settimana dopo Pasqua, i crociati evacuarono la città di Zara e scesero ad accamparsi presso il porto. I Veneziani provvidero quindi alla distruzione sistematica della città, riducendola a un ammasso di macerie. Alessio non era ancora arrivato, e dunque un'avanguardia della Crociata salpò per Corfù, lasciando Dandolo e Bonifacio a Zara ad attenderlo. Si presentò il 25 aprile, accolto con grandi onori, poi si imbarcò coi suoi ospiti per raggiungere il resto della spedizione a Corfù. Qui, a fine maggio, il suo accordo con i capi della Crociata fu ratificato e annunciato in modo formale. Quando l'intera vicenda divenne di pubblico dominio si manifestarono nuovi dissensi e alcuni crociati rifiutarono di procedere oltre: sarebbero rimasti a Corfù in attesa di altre navi dall'Italia che li avrebbero condotti in Terrasanta. Ma la maggioranza si lasciò persuadere dalla diplomazia e dall'eloquenza di Bonifacio a rimanere con la flotta che avrebbe fatto vela per Costantinopoli.

Il 24 maggio, una bella giornata limpida con brezza favorevole, le navi salparono da Corfù. Aggirato il Peloponneso, risalirono lungo le isole di Eubea e Andros fino a Abydos nell'Ellesponto, dove l'avanguardia attendeva di essere raggiunta dal grosso della spedizione. Il 23 giugno giunsero in vista di Costantinopoli, rimanendo abbagliati dallo spettacolo della grande città che si stendeva di fronte ai loro occhi. La mattina dopo bordeggiarono lungo le mura dirigendosi verso Calcedonia e Scutari sulla riva asiatica del Bosforo, dove sbarcarono e piantarono le tende.

L'imperatore Alessio III, l'usurpatore zio del giovane Alessio, era stato avvisato in tempo più che utile dell'avvicinarsi della Crociata, ma ben poco aveva fatto per prepararsi. Se si fosse venuti alle armi, il che nessuno ancora aveva prospettato, si consolava pensando che in passato le gigantesche mura della sua città avevano respinto chiunque le avesse assalite: non c'era alcun motivo per ritenere che i crociati potessero riuscire laddove tanti altri avevano fallito. Il giovane Alessio si era vantato della festosa accoglienza che gli avrebbe riservato il popolo, ma nessuno uscì a dargli il benvenuto. Anzi, quando Dandolo lo prese a bordo della sua galera per farlo sfilare, sotto la bandiera della tregua, lungo le mura della città, raccolse soltanto grida di dileggio e derisione, e una pioggia di sassate. Uno dei rarissimi errori di calcolo di Dandolo, o piuttosto una messa in scena per dimostrare in modo inconfutabile che ora i crociati avrebbero dovuto ricorrere alla forza per ottenere lo scopo per cui erano venuti? L'esperimento aveva dimostrato che il popolo di Costantinopoli non aveva alcuna intenzione di accogliere come liberatore un personaggio così platealmente manovrato dai Veneziani. Tra i crociati, a questo punto, non sembra sussistessero dissensi circa la necessità del ricorso alla forza per compiere la loro missione. Il 5 luglio traversarono il Bosforo e occuparono Galata, sulla riva europea, poi una nave veneziana speronò la catena che sbarrava l'accesso al porto del Corno d'Oro, spezzandola, e la flotta entrò senza incontrare resistenza. L'esercito, intanto, marciò verso la punta del Corno d'Oro, riparò rapidamente il ponte che lo attraversava e si accampò abbastanza vicino al palazzo imperiale di Blacherne da poter lanciare frecce attraverso le finestre.

L'attacco finale fu accuratamente pianificato come un'operazione congiunta: non sarebbe mai riuscito se i Veneziani non avessero avuto completo controllo del mare. E anzi, i Veneziani avevano chiesto insistentemente che l'intera campagna venisse lasciata a loro e alle loro navi: un'idea offensiva per i cavalieri crociati, che erano arrivati con i loro cavalli e cercavano l'occasione di uno scontro terrestre. Si stabilì dunque che avrebbero attaccato le mura dalla parte di terra, mentre i Veneziani aggredivano le difese, più deboli, lungo il Corno d'Oro. Si prepararono dunque le scale d'assalto, e si costruirono delle piattaforme in cima agli alberi delle navi, dalle quali i soldati avrebbero potuto tirare sulle mura dall'alto. Forse non sapevano che nessuno, prima di allora, aveva violato quelle mura; forse non si rendevano nemmeno conto della superiorità numerica del nemico. Ma erano felici di entrare in azione dopo tanti mesi di frustrazione, e in loro c'era la disperazione di chi sa che la sopravvivenza dipende dal successo, perché le vettovaglie cominciavano a scarseggiare. Il 17 luglio, terminati i preparativi, sferrarono l'attacco. Dalla parte di terra, un gruppo di crociati che tentava di scalare le mura nei pressi del palazzo di Blacherne fu respinto dopo un corpo a corpo con le guardie, ma dal mare i Veneziani riuscirono a schierare le loro navi in una lunga linea a ridosso delle mura. Tra i primi a balzare a terra fu il doge in persona, col gonfalone di San Marco in pugno. La resistenza, dapprima accesa, cedette all'assalto generale che seguì, e da un momento all'altro i Veneziani si trovarono in cima alle mura, conquistando venticinque torri. Per celare i loro movimenti crearono una cortina fumogena appiccando il fuoco ad alcuni edifici, ma il vento allontanò le fiamme dalle mura, riversandole invece, con effetti ben più distruttivi del previsto, sull'abitato. Lo scopo era comunque stato raggiunto.

Alessio III era più famoso per la sua letargia che per il suo eroismo, e nei cavalieri occidentali suscitava un istintivo disprezzo: per loro la guerra e l'eroismo erano una seconda natura. Quando fu finalmente convinto a guidare le sue truppe fuori dalle mura, si trovò di fronte l'esercito crociato schierato in ordinata linea di battaglia. Vi furono momenti di agitazione, e si mandarono urgentemente a chiamare i Veneziani per rinforzare lo schieramento. A questo punto l'usurpatore perse quel po' di coraggio che era riuscito a raccogliere e si ritirò. Quella notte imballò tutti i gioielli e i generi di conforto che poteva portare e fuggì dalla città con la figlia Irene. Né i Veneziani né i crociati erano informati su quanto accadeva in città, ed erano convinti che l'indomani mattina si sarebbe di nuovo ingaggiata battaglia. Prima dell'alba, però, arrivarono al campo messaggeri con l'annuncio che i Bizantini avevano perduto un imperatore per trovarne subito un altro. Isacco II era stato tirato fuori di prigione, vecchio e cieco com'era, per essere reinsediato sul trono. Pareva proprio che l'obiettivo che aveva dirottato la Crociata fosse stato conseguito d'acchito, e si doveva prender atto del fatto compiuto.

I primi a saperlo furono Bonifacio di Monferrato e il figlio di Isacco, il giovane principe Alessio. Non a torto, Bonifacio sospettava un complotto, l'ennesima astuzia dei Greci. Nemmeno Alessio era davvero soddisfatto: si aspettava di essere lui il nuovo imperatore, perché nella tradizione bizantina la cecità escludeva l'eleggibilità al trono, e suo padre era cieco. Anche i crociati erano delusi; erano arrivati laggiù per aiutare Alessio e non quel suo padre decrepito che non avevano nemmeno mai visto. Pretesero quindi l'invio di messaggeri in città per garantire che, se avessero riconosciuto Isacco come imperatore, questi a sua volta avrebbe chiamato Alessio come co-imperatore, impegnandosi anche ad onorare tutti i termini dell'accordo stipulato con Alessio a Zara. Isacco esitava, non potendo conoscere quelle condizioni, ma finì per acconsentire, e Alessio fu scortato in città dai suoi benefattori. Il 1° agosto 1203 fu incoronato co-imperatore con il nome di Alessio IV.

La Crociata aveva raggiunto lo scopo della sua deviazione su Costantinopoli; ora toccava all'imperatore Alessio e a suo padre di onorare gli impegni assunti pagando quanto dovuto, e Veneziani e crociati avrebbero proseguito per la loro strada. Ed era bene partissero presto, poiché fu subito evidente che a Costantinopoli non erano graditi. Gli unici residenti che si fossero rallegrati del loro arrivo erano quelli della comunità veneziana, tra i maggiori esponenti della quale c'erano numerose vecchie conoscenze personali del doge Dandolo. Circa vent'anni prima Dandolo era stato inviato a trattare con l'allora imperatore Andronico Comneno per il reinsediamento dei mercanti veneziani, che nel 1203 costituivano ormai a Costantinopoli una colonia influente e numerosa, da contarsi nell'ordine delle migliaia più che delle centinaia (7). Senza dubbio lo spettacolo del loro doge che entrava in rada alla testa della più grande flotta che avessero mai visto li aveva entusiasmati, e la loro presenza in città era sicuramente un fattore di cui Dandolo aveva tenuto debito conto nei suoi calcoli. Da loro poteva ottenere informazioni dall'interno, erano i suoi agenti, le sue spie. Sapevano meglio di lui quanto fossero profondi l'odio e la diffidenza dei Bizantini per i Latini: non si sarebbero mai schierati al fianco del giovane pretendente Alessio, portato a spalle dai crociati, che aveva promesso di sottomettere la Chiesa ortodossa all'autorità di Roma. L'atmosfera in città era tanto tesa che i crociati accettarono saggiamente di accamparsi a Galata, sull'altra riva del Corno d'Oro, che attraversavano solo come turisti o pellegrini per visitare i monumenti e venerare le reliquie sacre nelle chiese.

In un primo momento gli imperatori Isacco e Alessio si impegnarono per raccogliere il denaro e chiudere il debito con Venezia, ansiosi com'erano anch'essi di potersi accomiatare al più presto dai crociati. Una parte della somma fu raccolta e versata, ma non sarebbero mai riusciti a trovarla tutta, non potendo ancora accedere alle risorse delle province fuori Costantinopoli. A metà agosto Alessio, accompagnato da Bonifacio di Monferrato e Enrico di Fiandra, partì per dar la caccia al fuggiasco Alessio III, insediatosi come legittimo imperatore a Adrianopoli in Tracia. Il doge rimase a Costantinopoli. Prevedeva guai. Aveva già accettato di rinnovare il contratto con i crociati per un altro anno, fino al giorno di San Michele del 1204, il che forse - ma sembrava improbabile - avrebbe dato ai Bizantini il tempo per pagare i debiti. La spedizione punitiva di Alessio in Tracia non sortì nulla, ma durante la sua assenza il rancore degli abitanti di Costantinopoli verso gli stranieri che si mescolavano a loro esplose nella violenza. La folla greca assalì gli insediamenti italiani in città, e i residenti veneziani furono tra i più colpiti. Qualche giorno dopo si vendicarono, non sui Greci ma sul piccolo quartiere musulmano. Una banda di Fiamminghi, Veneziani e Pisani piombò sulla moschea con l'intenzione di distruggere quello che ai loro occhi di crociati era un simbolo della fede che avevano giurato di combattere. Nella confusione che seguì si accese un fuoco, che fu alimentato da un forte vento da nord e ben presto divenne incontrollabile. L'incendio durò quasi una settimana, bruciando chiese, botteghe e quartieri commerciali. I mercanti italiani, molti ormai ridotti sul lastrico, traversarono il Corno d'Oro per riparare presso i crociati. Al ritorno dell'imperatore Alessio, in novembre, vaste zone della città erano deserte e in rovina.

Era ormai assolutamente indispensabile pagare subito i debiti con Venezia e far ripartire i crociati. L'imperatore impose nuove tasse, e si alienò le gerarchie della Chiesa confiscando e facendo fondere i loro tesori d'oro e d'argento. I crociati stavano perdendo la pazienza; in dicembre inviarono a palazzo una delegazione guidata da Villehardouin per presentare un ultimatum a Alessio: se non avesse saldato i debiti al più presto, li avrebbe costretti a riscuotere con la forza. Non l'avrebbero fatto, comunque, senza una formale dichiarazione di guerra. Il messaggio non fu accolto bene, e Villehardouin e i suoi colleghi furono fortunati a uscire vivi dal palazzo: agli occhi del giovane imperatore avevano davvero passato ogni misura. In dicembre, e ancora nel gennaio 1204, tentò di far incendiare la flotta, ma i Veneziani, con una grande prova di coraggio, riuscirono a salvare le loro navi. I rapporti tra Greci e Latini erano al punto critico, e da entrambe le parti Alessio era guardato con sfiducia e antipatia. Il terreno era pronto per una rivolta dei Greci contro l'imperatore che li aveva messi in quella situazione. Fu organizzata una congiura per sostituirlo con un altro imperatore capace di riscattare il tradimento sofferto dalla Chiesa e dal popolo di Bisanzio. Il caporione era Alessio Ducas Murzuflo, genero di Alessio III. Nel gennaio una folla inferocita decise di fare da sé, e proclamò un proprio candidato, ma Murzuflo ebbe la meglio, occupando il palazzo e arrestando il rivale. Il giovane imperatore Alessio, in nome del quale era stata dirottata una Crociata, fu gettato in prigione, dove fu strangolato l'8 febbraio 1204; suo padre morì pochi giorni dopo, di paura, di demenza o di vecchiaia. Murzuflo salì al trono col nome di Alessio V.

Era intenzione dichiarata del nuovo imperatore di rinnegare tutte le clausole dell'accordo stipulato dal suo predecessore con i Veneziani e i crociati, e di toglierseli di torno il più presto possibile. In un certo senso questo facilitò loro le cose: con la scomparsa del loro protetto e di suo padre erano liberi da qualsiasi obbligo morale nei confronti dei Greci, e con la coscienza a posto potevano chiudere la questione mettendo direttamente le mani sulle ricchezze di Bisanzio, con o senza una dichiarazione di guerra formale. Per la seconda volta la presa di Costantinopoli si riproponeva come obiettivo della quarta Crociata. Per i Veneziani era questione di realismo politico; per i crociati di legittima indignazione e di fervore morale. I loro preti assicuravano che sarebbe stata una guerra giusta, una vendetta per l'assassinio del giovane principe che avrebbe portato anche alla sottomissione forzata della Chiesa bizantina all'obbedienza di Roma. Ma il progetto nasceva anche dalla disperazione, perché dal nuovo regime a Costantinopoli i crociati non potevano aspettarsi né rifornimenti né protezione. Anche la fuga poteva rivelarsi difficile. Ancora una volta, si trattava di vincere o morire.

Una volta presa la decisione, cominciarono a pianificarne gli esiti. E fu a questo punto che la portata dell'impresa vide un'improvvisa e drammatica estensione. Nessuno aveva parlato, fino a quel momento, di rimanere a Costantinopoli per sempre o di eleggere loro stessi l'imperatore, e ancor meno si era parlato di conquistare l'intero Impero bizantino. Ora invece, preparandosi a prendere la città, si facevano progetti per entrambe le eventualità. Nel marzo 1204 i capi stipularono un nuovo patto per il governo della città e dell'Impero che speravano di conquistare, fissando la divisione del bottino, la spartizione dei territori e l'elezione di un imperatore. I firmatari furono il doge Dandolo per Venezia, Bonifacio di Monferrato, Baldovino di Fiandra e due altri cavalieri francesi per i crociati. Per prima cosa i Veneziani si sarebbero rifatti sulle spoglie di guerra del credito tanto procrastinato, e quindi avrebbero avuto diritto alla prima scelta, fino a tre quarti del valore complessivo. L'elezione dell'imperatore latino di Costantinopoli sarebbe spettata a un comitato costituito da sei crociati e sei Veneziani. Il candidato vincitore avrebbe avuto possesso di un quarto della città e dell'Impero e dei palazzi imperiali, mentre al perdente sarebbe andata la cattedrale di Santa Sofia, il cui clero avrebbe avuto il diritto di eleggere un patriarca latino. I tre quarti rimanenti dell'Impero sarebbero stati equamente divisi tra i crociati e i Veneziani, concessi in feudo dall'imperatore, che tutte le parti si impegnavano a servire fino al marzo 1205. Il doge veniva comunque esentato dall'obbligo di rendere servigi militari o di qualsiasi altro genere all'imperatore (8).

Nel trattato di spartizione è facile individuare il pugno di ferro e la visione del doge Enrico Dandolo: il documento può avere molte pecche, ma sicuramente non quella di non tutelare e promuovere gli interessi di Venezia. Elenca un gran numero di porti, città, isole e province bizantine che per i crociati erano soltanto nomi, mentre i Veneziani le conoscevano quasi tutte assai bene, tanto più che disponevano di un aggiornato almanacco dell'Impero nel testo del privilegio concesso ai loro mercanti dall'imperatore soltanto sei anni prima. Una volta conquistata Costantinopoli, gli interessi veneziani erano garantiti; di quelli dei Greci, destinati ad essere governati da un imperatore straniero, nessuno si curava; e nell'eccitazione del momento tutti i crociati, tranne i più devoti, dimenticarono la Terrasanta.

Presa la decisione, si fecero i preparativi per l'attacco, che sarebbe arrivato dal mare, contro le mura lungo la linea del Corno d'Oro. Il successo dipendeva dalla potenza e dall'abilità della flotta veneziana. Il primo tentativo fu lanciato all'alba del 9 aprile, ma Alessio Murzuflo, che aveva posto il suo quartier generale in cima a una collina dalla quale poteva sovrastare la flotta, combatteva con ben altro spirito rispetto al predecessore: intorno a mezzogiorno, dopo feroci scontri lungo tutte le mura, i crociati furono costretti a ripiegare con pesanti perdite. Tre giorni dopo ritornarono all'attacco, raddoppiando la linea delle navi in modo da trasportare un numero maggiore di truppe d'assalto. A mezzogiorno, mentre le cose prendevano una brutta piega, un vento improvviso spinse le navi sotto riva, e i più audaci tra i cavalieri riuscirono ad aggrapparsi alle mura, conquistando qualche torre. Il primo a entrare in città fu Aleaume, fratello del cronista della Crociata Roberto di Clari, che riuscì ad aprirsi il passaggio per una postierla, combattendo sotto un fuoco intensissimo. Furono forzate altre tre porte, e i cavalieri cominciarono a riversarsi in città a cavallo. L'imperatore ripiegò, e Bonifacio, Baldovino e Enrico di Fiandra presero posizione in diverse parti della città per continuare i combattimenti il giorno dopo. Alcuni dei loro soldati, temendo di farsi sorprendere nell'oscurità, accesero un fuoco che non riuscirono a controllare, e altri edifici andarono in fiamme. Nella notte Murzuflo si dileguò, e un certo Costantino Lascaris, che con il fratello Teodoro si era distinto nei combattimenti in difesa della città, fu frettolosamente proclamato imperatore. Ma era troppo tardi per riorganizzare la resistenza, e Costantino e Teodoro si unirono alla folla dei fuggiaschi sul molo del palazzo, imbarcandosi per la costa asiatica del Bosforo.

All'alba di martedì 13 aprile l'esercito crociato si preparò per la battaglia, ignaro dei fatti della notte, la fuga dell'imperatore e lo sfaldamento di ogni resistenza. Non fu un esercito riposato e riorganizzato a presentarsi, bensì una deputazione di preti bizantini scortata da guardie imperiali, venuta ad annunciare a Bonifacio che la città era sua. Non c'era un imperatore con il quale fissare i termini della resa, ma non era il momento di badare a queste formalità: Bonifacio, capo ufficiale della Crociata, aveva ricevuto le chiavi della città. Partì subito, con le sue truppe, per occupare i palazzi, presumendo che sarebbe stato lui il primo imperatore latino di Costantinopoli. Si dice che il popolo accorresse per le strade a salutare il marchese del Monferrato, suo nuovo imperatore. Enrico di Fiandra occupò l'altro palazzo, e il doge trovò un'altra residenza adeguata. Poi i soldati furono autorizzati a mettere a sacco la città: era il giusto premio per i vincitori, ed erano state preventivamente fissate le regole per ordinare la raccolta e la distribuzione del bottino. Di fatto non vi fu alcun ordine nella loro condotta, né alcuna giustizia per le vittime: per tre giorni i soldati, sguinzagliati come belve affamate nella città più ricca del mondo cristiano, imperversarono per le strade, scaricando una frustrazione a lungo trattenuta, dando libero sfogo al rancore e al disprezzo per i Greci.

I cronisti francesi Goffredo di Villehardouin e Roberto di Clari quasi sembrano vergognarsi mentre si soffermano sugli orrori del sacco, e quanto ai Veneziani, non hanno lasciato testimonianze: per conoscere i dettagli dobbiamo dunque rivolgerci alle vittime greche. Niceta Coniate, uno dei sopravvissuti, chiama i crociati "precursori dell'Anticristo", e contrappone alla loro bestialità la moderazione e la tolleranza dei Saraceni nei confronti dei cristiani a Gerusalemme nel 1187. A Costantinopoli, infatti, i crociati non limitarono il saccheggio agli edifici pubblici e alle case private, ma spogliarono di ogni ricchezza anche le chiese; e d'altra parte, avendo passato dei mesi a vagare per la città come turisti, sapevano bene dove cercare i tesori più ricchi. La chiesa dei Santi Apostoli fruttò un bottino spettacolare dalle tombe degli antichi imperatori, ma i trofei più preziosi e ambiti furono quelli raccolti nella grande chiesa di Santa Sofia. I massacri, gli stupri e le orge di ubriachezza furono semplici corollari all'assai più proficuo impegno del saccheggio di oro, argento e oggetti preziosi, e Niceta ci offre un erudito rendiconto delle antiche sculture e opere d'arte greche e romane che andarono inutilmente distrutte in quelle tre giornate. Se erano reticenti sui dettagli, i cronisti francesi rimasero comunque impressionati dall'entità del tesoro raccolto: secondo Villehardouin mai, dalla creazione del mondo, si era visto un tale bottino ammassato in una sola città. Una delle testimonianze più raccapriccianti, comunque, ci viene non dalla penna di un greco o di un crociato, ma da quella di papa Innocenzo III, che si affrettò a censurare un evento che aveva forse previsto, ma che era stato impotente a scongiurare (9).

Quando, dopo tre giorni, fu imposto un freno alla brutalità e al saccheggio, il bottino venne ammassato in tre chiese; nessuno poteva stabilirne l'effettivo valore, nessuno sapeva quanto fosse stato invece occultato, ma si stimava che il valore complessivo si aggirasse sui 400.000 marchi d'argento. La prima scelta spettò al doge Dandolo, che si contentò di 50.000 marchi, o il loro equivalente in contante, poi il resto del bottino fu diviso in base al trattato di spartizione. Come era prevedibile, i Veneziani fecero la parte del leone: si erano ben guadagnati quel premio. E altrettanto prevedibile era che fossero esigenti nella scelta, non indiscriminatamente avidi come i crociati; sapevano cogliere l'eleganza e la bellezza artistica, e oltre a questo tenevano molto a mettere le mani sui pezzi migliori delle reliquie, di cui erano da sempre appassionati collezionisti. Dandolo, l'uomo della grande vittoria, era ben deciso a far sì che quel trionfo, e il suo premio, venissero pubblicamente ostentati in patria; non sapeva che non sarebbe mai ritornato a Venezia. Ma i quattro cavalli che fece portare da Costantinopoli sono il suo monumento trionfale; per sé scelse soltanto, a sottolineare la sua pietà cristiana, una fiala contenente gocce del sangue del Salvatore e altre reliquie preziose destinate alla chiesa di San Marco (10).

Quando il polverone del sacco di Costantinopoli si fu placato, a coloro che l'avevano scatenato non rimaneva che scegliere, nel loro numero, il nuovo imperatore. Non c'erano eredi bizantini al trono: Alessio IV, in nome del quale la Crociata si era assunta tanti rischi e tante spese, era stato assassinato dall'usurpatore Murzuflo, e il codice cavalleresco dei crociati li rassicurava circa la perdita del diritto di quest'ultimo a chiamarsi imperatore - chi uccideva il suo signore sovrano non aveva diritto a nulla. A tempo debito Murzuflo sarebbe stato stanato e messo a morte esclusivamente per questo reato contro il diritto feudale. Il trattato del marzo 1204 stabiliva che l'imperatore latino sarebbe stato eletto da un comitato di sei Veneziani e sei crociati. Era una procedura inconsueta; i Francesi non erano certo abituati a costituire comitati per eleggere i loro sovrani, era estraneo alla loro tradizione. Ma non era poi tanto diversa dalla procedura per l'elezione del doge di Venezia, riformata sul finire del secolo XII: ancora una volta si intravede l'influenza di Dandolo. Non che ci tenesse a diventare imperatore; non aveva alcun desiderio di assumersi le responsabilità di un monarca feudale sul trono di Costantinopoli, e declinò persino l'invito a far parte del comitato elettorale. Tra i crociati invece la nomina degli elettori provocò tante discussioni che fu deciso che dovessero essere soltanto abati e vescovi, e tra questi il legato pontificio Pietro Capuano. L'elezione si tenne nella residenza del doge il 9 maggio. Di fatto i candidati erano soltanto due, Bonifacio di Monferrato e Baldovino di Fiandra. Bonifacio, capo della Crociata, pareva la scelta più ovvia, e già aveva rafforzato la sua posizione sposando la vedova dell'imperatore Isacco II e insediandosi nel palazzo imperiale, ma si sapeva che il doge preferiva Baldovino, e fu Baldovino, conte di Fiandra, ad essere scelto come primo imperatore latino di Costantinopoli. Il 16 maggio fu incoronato dai suoi vescovi con una magnifica cerimonia nella cattedrale di Santa Sofia. Bonifacio ne fu amaramente deluso, ma fu lui, con grande nobiltà d'animo, a portare la corona per la consacrazione del rivale, cui rese omaggio riconoscendolo come suo signore. Quanto al doge, era sicuramente molto compiaciuto.

Ma i sostenitori di Bonifacio erano insoddisfatti, e lo spinsero a chiedere una modifica nell'assegnazione delle province promesse al candidato al trono sconfitto. Invece dell'Asia Minore Bonifacio preferiva prendere possesso di Salonicco, la seconda città del mondo bizantino, dove il suo compianto fratello Ranieri aveva un tempo tenuto un feudo che chiamava il suo regno. Baldovino aveva già accettato la sottomissione di Salonicco, ma Bonifacio era pronto a por mano alle armi, e solo l'intervento diplomatico del doge riuscì ad evitare una guerra civile che avrebbe demolito dalle fondamenta l'Impero latino: Baldovino riconobbe l'errore e conferì a Bonifacio il titolo di signore di Salonicco.

Era stato prestabilito che se l'imperatore fosse stato scelto tra i crociati, la nomina del patriarca di Costantinopoli sarebbe spettata ai Veneziani. Il patriarca greco era in esilio, e il clero ortodosso era stato cacciato da Santa Sofia. Quindici vescovi latini presero l'iniziativa di proclamare loro patriarca il veneziano Tommaso Morosini, allora in Italia, decretando inoltre che in futuro soltanto i Veneziani sarebbero stati eleggibili alla carica di canonico del capitolo della cattedrale. La violazione del diritto canonico era scandalosa, perché il papa non era stato nemmeno consultato, e i Veneziani erano ancora soggetti a scomunica. Il doge scrisse al papa nell'estate del 1204, chiedendogli di levare il bando in riconoscimento dei servizi resi da lui e dalla sua gente a maggior gloria di Dio e della Chiesa romana, ma il papa non era soddisfatto: ci si era presi gioco della sua autorità, e aveva l'impressione, non per la prima volta, di essere stato raggirato dai Veneziani.

Spettava a Baldovino di Fiandra, ora ("per grazia di Dio imperatore dei romani"), il compito di notificare formalmente al papa e alla cristianità occidentale la notizia della conquista di Costantinopoli e della propria incoronazione. Il papa si rallegrò per quella che era disposto a considerare opera della volontà di Dio per la tanto attesa riunificazione a Roma della Chiesa orientale, ma la sua gioia scomparve quando conobbe i dettagli del sacco della città e della nomina, provocatoria e non autorizzata, di un patriarca latino scelto dai Veneziani. La decisione presa dalla maggioranza dei crociati, di stabilirsi a Costantinopoli e non andare oltre, significava la fine della quarta Crociata, e la rottura dei loro voti come soldati di Cristo. Il papa si infuriò quando scoprì che il suo legato Pietro Capuano aveva avuto la presunzione di scioglierli da quei voti e di togliere la scomunica ai Veneziani. Capuano fu subito rimosso dall'incarico, con l'ordine di procedere verso la Palestina. Soltanto nel gennaio 1205 il papa ratificò l'illegittima nomina di Morosini al patriarcato, e scrisse al doge Dandolo una lettera in cui, sia pure a denti stretti, riconosceva i grandi servizi da lui resi per l'unità della Chiesa, in grazia dei quali Dio lo avrebbe assolto dai suoi peccati e dal voto di crociato. Dandolo rese l'anima a Dio nel giugno di quell'anno; aveva una novantina d'anni. Passò a miglior vita soddisfatto, convinto di aver fatto la volontà del Signore anche nella condizione di cristiano scomunicato, fin dal momento dell'attacco a Zara due anni prima. E ancora più soddisfatto, forse, per aver posto le fondamenta di una nuova era di onori e profitti per Venezia: come il suo grande predecessore Domenico Michiel, aveva ben dimostrato di saper essere il terrore dei Greci e la gloria dei Veneziani.

Non esiste una versione veneziana contemporanea della quarta Crociata, ed è dunque difficile giungere a una conclusione circa i motivi, i progetti e le ambizioni originali di Dandolo. Lo storico bizantino Niceta Coniate, che della Crociata fu una vittima, non aveva dubbi sul fatto che il doge fosse il cattivo della storia. Le fonti veneziane del periodo furono entrambe scritte nel 1229, al tempo del successore di Dandolo, Pietro Ziani. La prima è la Historia ducum Veneticorum, ed è strano che dal manoscritto manchi proprio la sezione più direttamente rilevante ai fini della quarta Crociata; possiamo desumerne il contenuto solo dal sommario che compare nel cosiddetto Chronicon Justiniani, composto nel secolo XIV. È una narrazione semplice, con informazioni utili sulla politica dinastica bizantina e sull'affare di Zara, ma non dice nulla dei motivi dei Veneziani, e non nomina nemmeno il papa (11). L'unica altra fonte veneziana quasi contemporanea è la continuazione, o "terza edizione", del Chronicon Altinate, un resoconto ancor più scarno e sintetico che non aggiunge nulla ai fatti già noti, né alla loro interpretazione (12).

Il più antico resoconto veneziano completo della quarta Crociata è quello di Martino da Canal, che occupa una ventina di pagine della sua opera (13). Scriveva in francese, nella speranza di poter così propagandare la grandezza di Venezia presso un pubblico più vasto; conserviamo comunque un'unica copia del manoscritto. Il suo più recente curatore dimostra in modo definitivo che Martino da Canal era veneziano, che aveva imparato il francese al servizio dei re Lusignano di Cipro, e che era un funzionario del governo di Venezia. Dichiara di aver tratto le informazioni per le sue Estoires de Venise, redatte tra il 1267 e il 1275, da precedenti cronache veneziane scritte in latino. Conoscendo il francese, potrebbe aver consultato anche Goffredo di Villehardouin e Roberto di Clari, ma data la sostanziale differenza della sua versione dalle altre, dobbiamo ritenere che non li conoscesse. È un misto di fatti e di fantasie, di verità e di invenzione, sicché gli storici moderni tendono a trascurarlo o a ridicolizzarlo. È spesso, e palesemente, impreciso, è ingenuo e sfacciatamente apologetico, è spudoratamente patriottico, eppure riesce a cristallizzare l'opinione veneziana sui fatti del 1204, e in linea di massima i cronisti veneziani successivi si sarebbero attenuti, in modo più o meno consapevole, a quelle opinioni generali. E probabile che il più grande di loro, Andrea Dandolo, nel Trecento, tenesse davanti agli occhi il testo di Martino da Canal mentre scriveva la sua più celebre cronaca.

Va detto che Martino scriveva circa settant'anni dopo i fatti della Crociata, e una decina di anni dopo la fine del grande esperimento dell'Impero latino a Costantinopoli. I suoi perfidi Greci avevano riconquistato la loro città, un fatto triste e vergognoso al quale dedicava poche parole. Il racconto di come fosse nato quell'Impero, invece, è assai più lungo, e tutt'altro che triste e vergognoso. La conquista, per due volte, di Costantinopoli, e prima ancora la conquista di Zara, erano stati trionfi veneziani, con poco o nessun aiuto da parte dei Franchi. Si vuole dire, insomma, che senza i Veneziani e il loro doge nessuna di quelle imprese sarebbe riuscita, il che può ben essere vero. Ma in questo non c'era nulla di vergognoso: tutto era stato fatto per amore di Dio e della Chiesa, e per l'onore di Venezia. Fu dunque, conclude, per la saggezza di quel grande uomo (Dandolo) che una città grandiosa come Costantinopoli poté essere presa, e questo egli fece per servire la Santa Chiesa (14).

Non si può negare che questa sia una manipolazione della storia, ma aveva uno scopo specifico: doveva respingere qualsiasi ipotesi che il doge di Venezia avesse agito diversamente dai desideri del papa, e dimostrare che il profitto e l'onore veneziano coincidevano con il servizio della Chiesa romana. A Venezia le generazioni a venire si sarebbero orgogliosamente vantate di come Enrico Dandolo, con l'aiuto di Dio, avesse fatto pagare ai Greci il fio del turpe misfatto commesso ai danni dei Veneziani dall'imperatore Manuele I nel 1171 (15), e anche all'epoca il popolo di Venezia fu certo orgoglioso di quanto era stato fatto in suo nome. Ma forse c'era qualche motivo di preoccupazione. La situazione non aveva precedenti nella storia politica di Venezia: il doge non dava segno di voler ritornare, e aveva prorogato di un altro anno il contratto a termine con i crociati. Suo figlio Reniero continuava a fungere da reggente a Venezia mentre Dandolo perseguiva la sua nuova carriera di difensore e promotore della causa veneziana a Bisanzio. Le Storie di Martino da Canal erano impopolari anche perché tanta glorificazione dei dogi, e tra questi di Dandolo, non andava troppo a genio alla nuova oligarchia che reggeva Venezia ai suoi tempi. Enrico Dandolo si era mosso come un doge del tempo antico, e se i Veneziani di Costantinopoli furono naturalmente lieti di averlo tra loro, quelli rimasti in Italia non ne erano troppo sicuri. L'Impero latino prospettato dal trattato del 1204 era in teoria un condominio tra Veneziani e crociati, e Baldovino di Fiandra, in quanto imperatore, aveva conferito a Dandolo il titolo bizantino di despota.

Dandolo era molto influente, e godeva della massima libertà d'azione, non essendo vincolato dalle leggi feudali dei Franchi, e non essendo obbligato a rendere omaggio all'imperatore. E inoltre sapeva meglio di chiunque altro esattamente dove stava: era tra amici, e conosceva tutti gli inganni del mare e della terra. Aveva fatto bene a rifiutare il titolo di imperatore, accettando la dignità appena inferiore di despota. Ma gli piaceva indossare gli stivali viola dell'imperatore bizantino: per lui e i suoi ammiratori Costantinopoli non era la Nuova Roma, ma la Nuova Venezia (16).

Alla sua morte, nel giugno 1205, tanto Venezia che la comunità veneziana di Costantinopoli si trovarono senza un capo: il vecchio doge non aveva rinunciato a nessuna delle due responsabilità, né aveva lasciato indicazioni per il futuro. Quelli di Costantinopoli scelsero subito un nuovo capo nella persona di Marino Zeno, che adottò il titolo di podestà e dominatore o signore di un quarto e un ottavo dell'Impero di Romània. La colonia veneziana di Costantinopoli sembrava arrogarsi una posizione di indipendenza equivalente, se non maggiore, di quella di Venezia stessa. Per alcuni era giunto il momento di trasferire la capitale da Venezia a Costantinopoli, un'idea che da sola bastava a scatenare le ansie del popolo veneziano per il rampollo che esso aveva generato a Bisanzio. Enrico Dandolo aveva dunque ispirato e allevato un movimento separatista che ambiva nientemeno che alla bizantinizzazione di Venezia, presumendo persino che tutti i territori assegnati ai Veneziani dal trattato di spartizione rientrassero sotto l'autorità diretta del podestà di Costantinopoli. Pretese e aspirazioni, queste, che il nuovo doge Pietro Ziani, eletto a Venezia nell'agosto 1205, dovette rapidamente soffocare. Fu decretato che per il futuro ogni nuovo podestà di Costantinopoli dovesse prestare giuramento di fedeltà al doge e al comune di Venezia, e fu abolito anche il titolo di dominatore. Pietro Ziani troncò dunque sul nascere un'idea molto pericolosa, imponendo un giusto equilibrio di potere tra il governo a Venezia e le sue colonie a Bisanzio (17).

Agli storici moderni piace spartire le colpe per il dirottamento della quarta Crociata. Quando il polverone della battaglia e del saccheggio si fu placato, e Bisanzio fu controllata dagli Occidentali, per i crociati e i Veneziani c'era più materia di compiacimento che di colpa. Nessuno poteva giustificare la condotta barbara e rapace dei crociati durante il sacco, e il papa li condannò duramente; ma anche lui finì per convincersi che il fine aveva giustificato i mezzi, perché la Crociata era stata il modo voluto da Dio per riportare i fuorviati Greci nell'ovile di Roma. A questo fine almeno i Veneziani, per quanto scomunicati, erano stati i suoi agenti: loro soltanto conoscevano in anticipo i potenziali rischi e benefici, in termini materiali e forse anche spirituali. Ma non furono mai gravati dal senso di colpa, né in prospettiva, né in retrospettiva. Può ben darsi che all'epoca i Greci avessero ragione di sospettare che fosse stato il doge di Venezia Enrico Dandolo a portare i crociati a Costantinopoli, manovrando poi le cose in modo da dar loro un pretesto morale per conquistarla. Come regola generale i Veneziani vedevano nelle crociate un ostacolo per i loro affari, a meno di non poterne trarre qualche vantaggio finanziario: la quarta Crociata fu la partita più azzardata che avessero mai giocato, e a quegli affari recò beneficio al di là delle più rosee previsioni.

Traduzione di Patrizia Colombari

Marin Sanudo, Le vite dei Dogi di Venezia, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 194-195.

Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, ibid., XII, 1, 1938-1958, p. 236.

3. Le due monografie più recenti sulla quarta Crociata sono di Donald E. Queller, The Fourth Crusade. The Conquest of Constantinople, 1201 -1204, Philadelphia 1977, e di John Godfrey, 1204. The Unholy Crusade, Oxford 1980. Le fonti narrative più importanti sono Nicetae Choniatae Historia, a cura di Ioannes A. Van Dieten, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae, XI, 1, Berlin-New York 1975; Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, I-II, a cura di Edmond Faral, Paris 1938-1939; Robert de Clari, La conquête de Constantinople, a cura di Philippe Lauer, Paris 1924 (trad. it. La conquista di Costantinopoli (1198-1216). Studio critico, traduzione e note, a cura di Anna Maria Nada Patrone, Genova 1972). Su altre fonti, e sulla letteratura secondaria, cf. Donald M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano 1992, pp. 167 ss.

4. R. de Clari, La conquête, pp. 12-15.

5. Nicetae Choniatae Historia, p. 539.

6. Ibid., p. 538.

7. Peter Schreiner, Untersuchungen zu den Niederlassungen westlichen Kaufleute im Byzantinischen Reich des II. und 12. Jahrhunderts, "Byzantinische Forschungen", 7, 1979, pp. 175-191.

8. Il testo del trattato di spartizione è in Gottlieb L.Fr. Tafel-Georg M. Thomas, Urkunden zur äteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, Wien 1856, pp. 444-452; Antonio Carile, Partitio terrarum Imperii Romanie, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 126-305.

9. Nicetae Choniatae Historia, pp. 647-655; G. de Villehardouin, La conquête, pp. 38-55; R. de Clari, La conquête, pp. 69-80; Innocenzo III, in Jacques-Paul Migne, Patrologia Latina, CCXV, coll. 699-702.

10. Sul bottino di guerra e le reliquie portate a Venezia da Costantinopoli, cf. D. M. Nicol, Venezia e Bisanzio, pp. 240-244.

11. Historia ducum Veneticorum. Supplementum ex Chronicon quod vocant Justiniani, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, pp. 89-97.

12. Chronicon Altinate, in Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), pp. 116-118, 121.

13. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 44-63; v. anche Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XIII-XVI) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, pp. 177 ss.

14. M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. 62-63.

15. A. Dandolo, Chronica, p. 279.

16. Dionysios A. Zakythinos, La conquête de Constantinople en 1204. Venise et le partage de l'empire byzantin, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1965, pp. 139-153.

17. Robert L. Wolff, A New Document from the Period of the Latin Empire of Constantinople: the 0ath of the Venetian Podestà, in AA.VV., Pankarpeia. Mélanges Henri Grégoire, IV, Bruxelles 1953, pp. 539-573; D. M. Nicol, Venezia e Bisanzio, pp. 204-205.

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