La recente riforma delle misure cautelari

Libro dell'anno del Diritto 2016

La recente riforma delle misure cautelari

Giorgio Spangher

Con la l. 16.4.2015, n. 47 il legislatore è intervenuto sulla disciplina delle misure cautelari secondo quattro linee di intervento. La prima è costituita dallo sviluppo delle indicazioni della Corte costituzionale tese al superamento delle presunzioni di pericolosità. La seconda è costituita dall’indicazione del superamento del carcere come misura primaria di restrizione. La terza è tesa ad un restyling della disciplina nel nome di un rafforzamento dei presupposti delle cautele attraverso un più meditato impegno nelle scelte processuali. La quarta è finalizzata a rafforzare i poteri del Tribunale del riesame secondo una impostazione di garanzia e di stabilità delle decisioni.

La ricognizione

Con la l. n. 47/2015 è stata approvata la riforma delle misure cautelari che contiene alcune significative novità che possono essere di seguito determinate.

1.1 La decarcerizzazione

In primo luogo, si cerca di ridimensionare le situazioni che conducono all’applicazione della restrizione inframuraria. L’obbiettivo indotto dalla condanna europea dell’Italia (sentenza Torreggiani) viene perseguito attraverso vari strumenti.

Innanzitutto, in modo più generale, trovando la previsione estrinsecazione per tutte le misure, si cerca di rendere più stringenti i presupposti dei pericula libertatis richiedendo, per le situazioni di cui alle lett. b) e c) del comma 2 dell’art. 274 c.p.p., che le esigenze, oltre ad essere concrete, siano anche attuali. Si precisa, inoltre, che le riferite situazioni non possono desumersi esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per il quale si procede.

Va collocata in questa stessa linea, anche la previsione che richiede al giudice, oltre all’esposizione, anche una valutazione autonoma delle esigenze cautelari, dei gravi indizi e degli elementi forniti dalla difesa (art. 292, co. 2, lett. c) e c bis), c.p.p.). Si vuole in tal modo reagire alla prassi che legittima – con le precisazioni fornite dalla giurisprudenza in materia – le cd. motivazioni per relationem. L’assunto è consolidato – come si vedrà – dal riconoscimento – sul punto – di specifici poteri di controllo del giudice del riesame (art. 309, co. 9, c.p.p.).

Com’è noto, si sosteneva in giurisprudenza la legittimità della motivazione che si riporti al contenuto di un atto sempre che l’apparato argomentativo del provvedimento richiamato risulti congruo rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione (Cass., S.U., 21.6.2000, n. 17, Primavera; Cass., S.U., 29.11.2005, n. 2737/11, Campenni). Si affermava così che il giudice può recepire integralmente la richiesta del p.m. a condizione che abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni dell’atto richiamato, ritenendole coerenti alla sua decisione e sia possibile instaurare, nel procedimento incidentale, un effettivo contraddittorio tra le parti.

Sempre nella logica della decarcerizzazione, innovando, rispetto ad un negativo orientamento giurisprudenziale a Sezioni Unite (Cass., S.U., 22.4.2010, n. 20300, Lasala), il primo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., prevede ora che la custodia cautelare in carcere possa essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultano inadeguate.

L’ipotesi del cumulo, già prevista espressamente in precedenza solo per le situazioni di cui all’art. 276, co. 1, c.p.p. ed all’art. 307, co. 1 bis, c.p.p., trova ora una ulteriore possibile estrinsecazione a seguito della modifica del comma 4 dell’art. 299 c.p.p. ove si dispone che in sede di sostituzione il giudice possa disporre l’applicazione congiunta di altra misura coercitiva o interdittiva.

In linea con la riferita scelta legislativa si colloca anche la modifica introdotta al comma 3 dell’art. 275 c.p.p. ove è inserita la previsione che impone al giudice nel disporre la custodia cautelare in carcere, di indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con la procedura di controllo di cui all’art. 275 bis, co. 1, c.p.p. (cioè, il cd. braccialetto elettronico).

Nella stessa linea, si colloca anche la modifica del comma 1ter dell’art. 276 c.p.p. ove si dispone che, in deroga a quanto disposto dal comma 1 della medesima previsione, qualora il soggetto (agli arresti domiciliari) trasgredisca alla prescrizione del divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, non si dà luogo alla revoca della misura ed alla sua sostituzione con il carcere qualora il fatto sia di lieve entità.

In realtà, più che una deroga a quanto disposto dal citato comma 1 dell’art. 276 c.p.p., che già esclude meccanismi automatici, si tratta di una ulteriore puntualizzazione degli elementi sulla cui base il giudice, nel rapporto tra arresti domiciliari e carcere, deve parametrare la discrezionalità delle sue scelte.

In linea con questa previsione si colloca anche la modifica introdotta al primo periodo del comma 5bis dell’art. 284 c.p.p. ove si escludeva l’applicazione degli arresti domiciliari nei confronti del condannato – per evasione – nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede. Si fa ora salva l’ipotesi in cui, sulla base di specifici elementi, il fatto sia lieve e le esigenze cautelari possano essere ancora soddisfatte con la misura in esecuzione.

Non può ritenersi estranea alla riferita “filosofia” della riforma, l’allungamento del tempo di durata delle misure interdittive. Il comma 2 dell’art. 308 c.p.p., infatti, prevede ora il termine massimo di durata delle misure interdittive in dodici mesi, ferma restando la possibilità di proroghe – entro i termini fissati dal primo periodo dello stesso comma – qualora la misura sia disposta per esigenze probatorie.

La focalizzazione. Le presunzioni di pericolosità

Un ruolo centrale nella riferita strategia legislativa assume la riscrittura dell’art. 275, co. 3, secondo periodo, c.p.p. in linea con le indicazioni della Corte costituzionale.

Com’è noto, con una serie di decisioni (C. cost. 21.7.2010,n. 265; 12.5.2011, n. 164; 22.7.2011, n. 231; 3.5.2012, n. 110; 29.3.2013, n. 57; 18.7.2013, n. 213; 23.7.2013, n. 232), l’ultima delle quali di poco precedente la riforma de qua (C. cost. 26.3.2015, n. 48) si è previsto che per alcune specifiche fattispecie (art. 600 bis, primo comma; artt. 600 bis e 600 quater c.p.; art. 575 c.p.; art. 74 d.P.R. 9.10.1990, n. 309; art. 416 c.p. in relazione all’artt. 473; art. 416 bis al fine di agevolare l’associazione; art. 630 c.p.; art. 609 octies c.p.) il giudice applichi la misura della custodia in carcere, ma che la presunzione di pericolosità – in relazione alle specifiche modalità del fatto – può essere vinta non solo dalla mancanza di esigenze cautelari, consentendo al soggetto di restare libero, ma anche dalla presenza di pericula graduati che permettono l’applicazione di cautele meno afflittive.

Tenuto conto di questi precedenti il nuovo art. 275, co. 3, secondo periodo, c.p.p., prevede che la situazione di pericolosità assolutamente presunta, per la quale si dispone il carcere, salvo che non sussistano elementi che evidenziano la mancanza di esigenze cautelari, siano soltanto quelle relative ai reati di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p.

In queste situazioni, la prescrizione assoluta di pericolosità dovrebbe escludere l’operatività del riformato art. 275, co. 3bis, c.p.p. (sostituzione del carcere con arresti domiciliari e controllo elettronico).

Per le altre situazioni riportate nel (nuovo) terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. (delitti di cui all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p., nonché delitti di cui agli artt. 575, 600 bis, primo comma, 600 ter, escluso il quarto comma, 600 quinquies e, quando ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609 bis, 609 quater e 609 octies c.p.) si applicherà la misura della custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi che escludono le esigenze cautelari ovvero salvo che sia possibile, nel caso concreto, soddisfare le (attenuate) esigenze cautelari con altre misure.

2.1 L’esclusione della custodia cautelare

Può non essere inopportuno ricordare che con l. 9.8.2013, n. 94, di conv. del d.l. 1.7.2013, n. 78 il limite di pena per applicare il carcere è stato elevato a cinque anni (art. 280, co. 2, c.p.p.) e che con d.l. 26.6.2014, n. 92, conv. nella l. 11.8.2014, n. 117 è stato introdotto un comma 2-bis dell’art. 275 c.p.p. ove si prevede che non può essere applicata la custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena (previsione già prevista ai sensi della l. 8.8.1995, n. 332) e che salvo quanto previsto dal comma 3 della stessa previsione e ferma restando l’applicabilità degli artt. 276, co. 1-ter, e 280, co. 3, c.p.p. non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che all’esito del giudizio la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni, ulteriormente eccettuata l’eventualità che si tratti dei delitti di cui agli artt. 423 bis, 572, 612 bis, c.p. e all’art. 4 bis l. 26.7.1975, n. 354, nonché quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza dei luoghi di esecuzione ex art. 284, co. 1, c.p.p.

L’unico elemento di “aggravamento” ai fini di una possibile applicazione della custodia in carcere è costituito dall’interpolazione del delitto di finanziamento illecito ai partiti (l. 2.5.1974, n. 195 e succ. modificazioni) per i reati che vanno considerati ai fini della determinazione dell’esigenza di cui alla lett. c) del comma 1 dell’art. 274 c.p.p.

2.2 La modifica all’art. 289 e interrogatorio di garanzia

Eccentrica, rispetto alle considerazioni svolte, essendo tesa a regolare un aspetto che sembrava richiedere una qualche chiarezza, in una prospettiva di funzionalità, è quella racchiusa nel nuovo periodo inserito nel comma 2 dell’art. 289 c.p.p. ove si precisa che in caso di applicazione della misura interdittiva della sospensione di un pubblico ufficio o servizio, in luogo di una misura coercitiva richiesta dal p.m., l’interrogatorio di garanzia seguirà le cadenze (ordinarie) di cui al comma 1-bis dell’art. 294 c.p.p.

2.3 Le impugnazioni: la nuova disciplina del riesame

Il secondo nucleo della riforma della misura cautelare attiene alla disciplina delle impugnazioni de libertate. L’elemento centrale – suscettibile di irradiare riflessi più ampi in relazione all’appello ed al ricorso per cassazione – è costituito dalle modifiche introdotte nell’art. 309 c.p.p., cioè, alla disciplina del riesame, ricollegando ai poteri del giudice del riesame la modifica introdotta alle lett. c) e c) bis del comma 2 dell’art. 292 c.p.p. Attraverso un nuovo periodo, alla fine del comma 9 dell’art. 309 c.p.p., si prevede che il Tribunale del riesame possa annullare il provvedimento impugnato non solo qualora la motivazione manchi – carenza grafica con le sue varie declinazioni (motivazione apparente, fittizia, informativa) – ma anche qualora difetti l’autonoma valutazione del giudice sulla gravità indiziaria, sulle esigenze cautelari e sugli elementi forniti dalla difesa. Si dovrebbe superare, in questo modo, l’orientamento della giurisprudenza in materia cautelare per la quale si riteneva legittimo che il giudice aderisse alle argomentazioni del richiedente, ricomprendendole nella sua motivazione spiegando le ragioni della propria adesione (Cass., S.U., 24.4.1991, n. 5, Bruno), ma soprattutto alcune “degenerazioni” di quest’impostazione che “degradavano” l’apporto (sostanziale) del giudice al provvedimento e la sua (reale) riconducibilità all’organo competente a emettere l’ordinanza restrittiva.

In tal modo, trova un significativo riscontro la previsione della espressa e peculiare sanzione contenuta nel comma 1 dello stesso art. 292 c.p.p. ove si dispone che la mancanza dei riferiti elementi è sanzionata con la nullità rilevabile anche d’ufficio. Nonostante l’intendimento del legislatore della l. n. 332/1995, evidenziato e rafforzato dalla presenza di analoga previsione sanzionatoria nella lett. a) del comma 1 dell’art. 274 c.p.p., la sanzione non era stata percepita nelle sue implicazioni e subiva i condizionamenti della disciplina sui limiti del potere di annullamento del Tribunale della libertà.

Invero, la riconosciuta possibilità per il tribunale di integrare la motivazione e di sanzionare solo la sua mancanza rendeva scarsamente incisiva la riferita sanzione, che poteva essere fatta valere solo attraverso il ricorso diretto in Cassazione.

Comunque, non agevolava l’accoglimento dell’eccezione la mancata adesione alle ragioni che avevano indotto il legislatore a prevedere questa sanzione ritenuta in dottrina (in parte) asistematica. Non c’è la consapevolezza, infatti, che gli elementi indicati al comma 2 dell’art. 292 c.p.p. costituiscano i dati strutturali del provvedimento – la sua premessa – e non solo meri elementi della motivazione.

2.4 Il diritto dell’imputato a comparire

Sotto il profilo procedurale, il primo elemento innovato dalla legge de qua è costituito dalle modifiche introdotte nel primo periodo del comma 6 dell’art. 309 c.p.p. nonché attraverso l’inserimento del comma 8-bis dell’art. 309 c.p.p. Si prevede, infatti, da un lato, che con la domanda di riesame «l’imputato può chiedere di comparire personalmente» e dall’altro, che «l’imputato (il quale) ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente».

Invero, la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 309, co. 8 e 127, co. 3, c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 24, co. 2, Cost., nella parte in cui prevedono che l’imputato se detenuto in luogo fuori della circoscrizione del giudice del riesame deve essere sentito, qualora ne faccia richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo, anziché dal tribunale del riesame.

Secondo i giudici costituzionali, infatti, l’art. 309 c.p.p. poteva essere interpretato nel senso di non escludere la comparizione personale dell’imputato se questi ne avesse fatto richiesta oppure se il giudice l’avesse ritenuto ex officio opportuna.

Nonostante le precisazioni delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 22.11.1995, n. 40, Carlutti; Cass., S.U., 25.3.1998, n. 9, D’Abramo), orientata a riconoscere il diritto dell’imputato richiedente a comparire all’udienza permanevano diversificati orientamenti articolati, legati alla particolarità della condizione restrittiva dell’imputato, che dovrebbero ora essere superati.

L’art. 101 disp. att. c.p.p. opererebbe nel caso di richiesta di comparizione non formulata con la domanda di riesame.

2.5 Il differimento dell’udienza

Alla riferita previsione si ricollega – in parte – anche l’inserimento di un comma 9-bis dell’art. 309 c.p.p. ove si prevede che entro due giorni dalla notificazione dell’avviso dell’udienza, l’imputato possa chiedere – personalmente – che il tribunale differisca la data dell’udienza che da un minimo di cinque a un massimo di dieci giorni.

Alla fine di ottenere il differimento è necessaria la presenza di giustificati motivi. Tentando una mera esemplificazione, queste ragioni potrebbero essere costituite dalla grande quantità del materiale posta a fondamento dell’ordinanza cautelare; dalla necessità di sviluppare una più penetrante attività difensiva rispetto a quanto esplicitato in sede di interrogatorio di garanzia, dalla esigenza di completare lo svolgimento di indagini private, dalla finalità di valutare l’(eventuale) materiale sopravvenuto trasmesso al collegio del pubblico ministero. In quanto ricollegabile – come anticipato – al diritto a comparire personalmente, la richiesta potrebbe essere motivata anche da impedimenti personali (fisici o psicologici).

Il tribunale, valutate le ragioni addotte a sostegno della richiesta, potrà – motivatamente – accoglierla o respingerla, in tutto o in parte, fissando la data della nuova udienza.

Due precisazioni. Il disposto del differimento, a richiesta dell’imputato, proroga i termini per la decisione (dieci giorni dal ricevimento degli atti: art. 309, co. 9, c.p.p.) e quello di nuovo conio (v. infra) per il deposito del provvedimento (ai sensi del riformato comma 10 dell’art. 309 c.p.p.). È escluso che il differimento – motivato dalla complessità del caso e dall’ingente materiale probatorio – possa essere disposto anche d’ufficio dal tribunale.

Resta incerto il coordinamento con quanto previsto dall’art. 101 disp. att. c.p.p.

2.6 Il nuovo termine del deposito del provvedimento

Probabilmente il dato di maggiore novità è costituito dalla nuova formulazione dell’art. 309, co. 10, c.p.p. ove viene introdotto un termine per il deposito dell’ordinanza nella cancelleria del tribunale.

L’attività de qua dovrà essere espletata entro trenta giorni dalla decisione, fatta salva la possibilità che, per la sua complessità, in ragione del numero degli arrestati o della gravità delle imputazioni, il giudice nel dispositivo fissi un termine più lungo, comunque non superiore a quarantacinque giorni da quello della decisione.

Invero, come emerge dall’art. 128 c.p.p. e come riconosciuto dalle Sezioni Unite della Cassazione, doveva ritenersi che il provvedimento dovesse essere depositato entro cinque giorni e che l’eventuale inosservanza di tale ultimo termine, quantunque sfornita di sanzione processuale, esponeva i magistrati a responsabilità civile e disciplinare, oltre che, all’occorrenza, penale (Cass., S.U., 25.3.1998, n. 11, Manno).

Tuttavia, la natura meramente ordinatoria di quest’ultimo termine e la mancanza di sanzioni processuali avevano evidenziato – nella prassi – ampi sforamenti di questa scansione temporale.

Si faceva, del resto, notare che, per quanto questo elemento potesse incidere sui termini per l’eventuale successivo ricorso in Cassazione, la conoscenza del dispositivo riduceva i pregiudizi legati al mancato rispetto del riferito termine. Se la decisione era stata favorevole il soggetto non solo ne era a conoscenza, ma il provvedimento estrinsecava subito i suoi effetti; se la decisione era negativa, comunque i tempi della decisione del ricorso, fissati dall’art. 311 c.p.p., erano meramente ordinatori. Inoltre, non mancavano altri strumenti di tutela: l’art. 299 c.p.p.

Nell’intento di rendere effettivo il rispetto di questo termine, assicurando una tempistica più rigorosa al giudizio di riesame, in linea con quanto già previsto per il mancato rispetto dei termini per la trasmissione degli atti e per quello della decisione, si è stabilito che anche il mancato rispetto di questo termine determini la perdita di efficacia della misura. In altre parole, la consapevolezza che l’ordinamento non è in grado di rispettare le scansioni temporali – fissate dalla legge – di un provvedimento emesso in assenza di un preventivo contraddittorio, con ricadute sulla libertà personale, ha indotto il legislatore a sanzionare questo deficit di garanzie ed efficienza con la caducazione di un suo provvedimento. Questo elemento potrebbe essere oggetto di considerazione in una prospettiva più ampia.

Inoltre, nell’ulteriore intento di rendere concreta ed effettiva la previsione, si è affermato che il mancato rispetto delle scansioni che determinano la perdita di efficacia delle misure non permettono di reiterare il provvedimento. Correggendo quanto fino ad oggi era consentito, nei riferiti casi di cui al sostituito comma 10 dell’art. 309 c.p.p., si dispone che la misura non possa essere rinnovata.

Bilanciando questo dato con i pericula libertatis si è tuttavia previsto che la preclusione non operi in presenza di esigenze cautelari eccezionali di cui il giudice dovrà dare specifica motivazione.

Corre – forse non inutilmente – l’obbligo di ribadire che i riferiti termini della decisione e del deposito potranno subire le implicazioni dell’accoglimento della domanda di differimento avanzata dall’imputato (art. 309, co. 9bis, c.p.p.).

Va ulteriormente precisato che, invece, l’eventuale mancato rispetto dei tre giorni liberi resta sanzionato con l’invalidità del rito, che non determina la perdita di efficacia del provvedimento, qualora ancorché invalidamente, la decisione sia emessa in termini.

La previsione relativa al potere dell’imputato di chiedere il differimento dell’udienza è estesa anche al riesame del provvedimento che ha disposto una misura cautelare reale: il comma 7 dell’art. 324 c.p.p. è, infatti, integrato con il richiamo al comma 9-bis dell’art. 309 c.p.p. I mantenuti richiami ai commi 9 e 10 dell’art. 309 c.p.p. consentiranno di rendere operativa sia la nuova previsione anche in punto di termini di deposito del provvedimento (con le relative sanzioni), sia i rinnovati poteri di annullamento da parte del tribunale del riesame in caso di carente valutazione autonoma da parte del giudice che ha disposto il provvedimento. Tuttavia, la mancanza di un termine perentorio e decadenziale della tardiva trasmissione degli atti (Cass., S.U., 28.3.2013, n. 26268, Cavalli) rende la previsione de qua non molto efficace.

2.7 L’appello cautelare e il giudizio di rinvio

Nell’intento di rendere omogenea la disciplina dei gravami de libertate il legislatore introduce alcune modifiche anche alle previsioni in tema di appello cautelare nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento della decisione ricorsa.

Al comma 2 dell’art. 310 c.p.p. si prevede, pertanto, che la decisione possa essere depositata entro trenta giorni dalla decisione, ovvero, in caso di stesura della motivazione particolarmente complessa, per il numero degli arrestati e la gravità delle imputazioni (rectius, accuse) entro quarantacinque giorni, termine che il giudice indicherà nel dispositivo. Il mancato richiamo al comma 10 dell’art. 309 c.p.p. rende inoperanti le previsioni sanzionatorie ivi contenute, in linea con la natura ordinatoria del procedimento d’appello cautelare. Non possono non segnalarsi, al riguardo, le ricadute delle indizioni giurisprudenziali sui provvedimenti riesaminabili (solo quelli genetici e quelli appellabili, ancorché suscettibili di incidere – anche significativamente – sulla libertà personale).

Alla luce del richiamo all’art. 310 c.p.p. – seppur nei limiti della compatibilità – il nuovo comma 2 dell’art. 310 c.p.p. contenuto al comma 2 dell’art. 322 bis c.p.p. che prevede i termini per il deposito del provvedimento sarà operante anche nell’appello dei provvedimenti cautelari reali: trenta giorni o quarantacinque giorni in relazione alla complessità soggettiva, o oggettiva, del provvedimento appellato.

Molto incisiva si prospetta la modifica introdotta con il comma 5-bis dell’art. 311 c.p.p. Innovando un consolidato e specifico orientamento giurisprudenziale – ribadito dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., 8.5.1996, n. 5, D’Avino) – si dispone che, in caso di annullamento con rinvio del provvedimento che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’art. 309, co. 9, c.p.p., la decisione deve essere pronunciata entro dieci giorni dalla ricezione degli atti e l’ordinanza va depositata entro trenta giorni dalla decisione, esclusa la possibilità del più lungo termine di quarantacinque giorni previsto ex artt. 309, co. 10 e 310, co. 2, c.p.p.

Anche in questo caso, il mancato rispetto dei riferiti termini determina la perdita di efficacia della misura e la sua reiterazione sarà possibile solo per la presenza di pericula eccezionali; fa eccezione l’ipotesi in cui l’annullamento riguardi una misura applicata nel giudizio cautelare d’appello, in considerazione del fatto che l’esecuzione del provvedimento ex art. 310, co. 3, c.p.p. è sospesa per effetto del ricorso: si ritiene non necessario far perdere efficacia ad un provvedimento che non è in esecuzione.

Resterebbe da chiedersi – il problema, peraltro, esula dalla previsione de qua – la sorte di un provvedimento cautelare annullato dalla Cassazione, per difetto di motivazione in punto di gravità di indizione o di esigenze cautelari.

Stante il mancato richiamo al citato comma 5bis dell’art. 311 c.p.p. da parte dell’art. 325 c.p.p., la previsione non opera in caso di annullamento con rinvio in sede di riesame delle misure cautelari reali.

2.8 La visita penitenziaria al portatore di handicap grave

La riforma affronta anche un’altra questione: la disciplina relativa alla visita penitenziaria al portatore di handicap grave. È, infatti, modificato l’art. 21 ter l. n. 354/1975. Si estende dalla situazione di imminente pericolo di vita o delle gravi condizioni di salute del figlio minore (infermo), anche non convivente, al caso in cui il figlio sia affetto da handicap in condizioni di gravità (ex art. 3, co. 3, l. 5.2.1992, n. 104, accertata ai sensi dell’art. 4 della stessa legge), l’autorizzazione alla madre condannata, imputata o internata, ovvero al padre nelle stesse condizioni della madre, a recarsi – con le cautele regolamentari previste – a visitare l’infermo o il figlio affetto da handicap grave.

L’autorizzazione opera, altresì, sia in caso di ricovero ospedaliero, sia per l’assistenza alle visite specialistiche.

Con il comma 2-bis dell’art. 21 ter le riferite previsioni sono estese al coniuge o al convivente che si trovi nelle riferite condizioni.

I profili problematici

Tentando una riflessione conclusiva appare necessario operare una prima distinzione tra le regole finalizzate alla decarcerizzazione e quelle del giudizio delle impugnazioni de libertate.

Invero, non possono non essere valutate positivamente le innovazioni in punto di autonomia della motivazione, di precisazione delle condizioni di sussistenza delle esigenze, la necessità di valutazioni in concreto dei comportamenti del soggetto ristretto, dell’eliminazione delle situazioni presuntive di pericolosità, di riduzione sotto vari profili del ricorso alla detenzione inframuraria a vantaggio degli arresti domiciliari, variamente attuati, nonché alla possibilità di applicazioni delle misure coercitive o interdittive anche cumulativamente.

Un discorso più articolato s’impone nel valutare i vari elementi della riforma del giudizio di impugnazione dei provvedimenti de libertate. Prima di una considerazione d’insieme, appare necessario fare una distinzione.

Non può, invero, non essere valutato positivamente – di per sé – il superamento dell’orientamento giurisprudenziale che legittimava la motivazione per relationem. Una pari considerazione – anche questa isolata – deve esprimersi per il riconoscimento del diritto dell’imputato di comparire personalmente e di chiedere – personalmente – il differimento dell’udienza. Sempre in termini positivi va considerato il riconoscimento dell’operatività anche nel giudizio di rinvio, del termine perentorio e decadenziale della misura entro il quale deve essere assunta la decisione.

Le ombre si evidenziano – anche in questo caso, isolatamente – sui nuovi tempi per il deposito del provvedimento – decisamente asistematici – ove si consideri che – a prescindere da quanto previsto dall’art. 128 c.p.p. – per le sentenze i tempi per il deposito della motivazione sono più stretti. Non sono del tutto convincenti le argomentazioni per le quali in questo merito si limitano prassi nelle quali i tempi del deposito erano ancora più lunghi e privi di sanzione.

Sotto quest’ultimo aspetto, è sicuramente significativa la previsione della perdita di efficacia della misura – alla quale si aggiunge il limite della non reiterabilità.

Le riserve si prospettano in considerazione delle ragioni addotte a sostegno di un tempo così significativo; pluralità di imputati e complessità delle imputazioni.

Una ricostruzione complessiva di questi elementi induce a qualche considerazione più ampia.

Presenza personale dell’imputato anche in tempi consistenti (per un rito che si connota da celerità), al fine di esercitare più a fondo il diritto di difesa, verifica dell’autonomia delle valutazioni, motivazione suscettibile di ampie considerazioni, su fatti complessi sia oggettivamente, sia soggettivamente, inducono a ritenere che si punti ad una solidità della decisione cautelare che superando il momento prognostico del provvedimento, necessitato dall’attualità dei pericoli e dalla concretezza delle esigenze cautelari si prospetta in termini connotati dalla stabilità.

In altre parole, il giudizio di riesame che sembrerebbe emergere dalla riforma appare teso ad una “anticipazione” del giudizio, soprattutto nella prospettiva di una affermazione di responsabilità per quelle situazioni complesse e organizzate di cui si cerca di delineare le interconnessioni tra fatti diversi e posizioni soggettive omogenee o diversificate. Il riesame, quindi, appare suscettibile di costituire una sorta di anticipazione del giudizio di merito, capace di consolidare l’esito di indagini lunghe, caratterizzate da una pluralità di episodi e di protagonisti e comprimari, consolidando presso l’opinione pubblica l’ipotesi investigativa.

È evidente, altresì, che esiti di questo tipo, sono destinati a riverberarsi sui successivi sviluppi in sede cautelare (ricorsi, revoche, sostituzioni), sulle scelte dei riti a sfondo premiale, sugli sviluppi acceleratori (giudizio immediato), sulle prognosi dibattimentali.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE