La riforma dei delitti di corruzione

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

La riforma dei delitti di corruzione

Francesco Viganò

La l. 6.11.2012, n. 190 ha riformato l’intero assetto dei reati di corruzione previsti dal nostro ordinamento, attraverso in particolare: l’introduzione di una fattispecie generale di corruzione per l’esercizio della funzione, in sostituzione della precedente figura della corruzione per un atto d’ufficio; la scomposizione della vecchia fattispecie di concussione in due distinte incriminazioni, l’una (che conserva la denominazione di concussione) riferita alle ipotesi di autentica “costrizione” del privato alla dazione o promessa di denaro o altra utilità, l’altra alla sua mera “induzione” mediante abuso dei poteri o della funzione da parte del pubblico funzionario; l’introduzione di una nuova figura delittuosa di traffico di influenze illecite, affiancata alla vecchia fattispecie sul millantato credito; la riformulazione del reato societario di infedeltà a seguito di dazione o promessa di altra utilità, oggi rubricato più semplicemente “corruzione tra privati”.

La ricognizione

La l. 6.11.2012, n. 190 ha riformato in profondità il sistema dei delitti di corruzione disciplinati dal codice penale e – per quanto concerne la corruzione tra privati – dall’art. 2635 del codice civile1.

Obiettivo fondamentale della riforma era quello di assicurare una maggiore efficacia alla repressione penale dei fenomeni corruttivi, oltre che alla loro prevenzione attraverso strumenti amministrativi, nella consapevolezza che tali fenomeni rappresentano un costo netto per il nostro paese, stimato da fonti ufficiali in una percentuale pari almeno all’1% del PIL nazionale.

Parallelamente, si trattava di adeguare il diritto penale italiano agli ormai numerosi obblighi internazionali in materia di corruzione, rispetto ai quali la legislazione sinora vigente presentava notevoli lacune e insufficienze.

La focalizzazione

Quattro le novità più significative introdotte dalla riforma: una nuova disciplina complessiva dei delitti di corruzione; lo sdoppiamento della “vecchia” concussione in due autonome figure di reato; l’introduzione di un nuovo delitto di traffico di influenze illecite; e una parziale riforma del delitto di «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità» di cui all’art. 2635 c.c., oggi ridenominato «corruzione tra privati».

2.1 La nuova disciplina dei delitti di corruzione

Il codice del 1930 distingueva, come è noto, tra due figure fondamentali di corruzione:

a) la corruzione per un atto d’ufficio (cd. impropria), disciplinata dall’art. 318 c.p. e caratterizzata dalla ricezione, da parte del pubblico ufficiale, della promessa o dalla dazione di denaro o altra utilità quale indebita retribuzione per compiere (cd. corruzione impropria antecedente passiva), o per aver compiuto (cd. corruzione impropria susseguente passiva), un atto del proprio ufficio; e

b) la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (cd. propria), disciplinata dall’art. 319 c.p. e caratterizzata parimenti dalla ricezione da parte del pubblico ufficiale della promessa o della dazione di denaro o altra utilità «per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio [cd. corruzione propria passiva, antecedente e susseguente]».

Nella seconda e più grave ipotesi l’ordinamento reagiva, dunque, non solo al mercimonio della pubblica funzione e all’indebito arricchimento del pubblico ufficiale (con correlativo pregiudizio al prestigio della pubblica amministrazione), impliciti in qualunque ipotesi corruttiva; ma anche all’effettiva distorsione delle funzioni pubbliche, concretizzata dal mancato compimento (o dal ritardo nel compimento) di uno specifico atto dell’ufficio, ovvero dal compimento – addirittura – di un atto in contrasto con i doveri d’ufficio da parte del pubblico ufficiale.

Il quadro delle incriminazioni fondamentali era poi completato, in particolare: dall’art. 320 c.p., che estendeva (e tuttora estende dopo la riforma) le disposizioni citate ai fatti corrispondenti commessi da un incaricato di pubblico servizio, prevedendo però una riduzione di pena non superiore a un terzo; e dall’art. 321 c.p., che stabiliva che le pene previste dagli articoli precedenti si applicassero anche al privato che dà o promette denaro o altra utilità al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (cd. corruzione attiva), salvo che nell’ipotesi di corruzione impropria susseguente (promessa o dazione di denaro o altra utilità al pubblico ufficiale per aver compiuto un atto del proprio ufficio), in cui il privato non era punibile.

La riforma del 2012 apporta, in questo quadro, una radicale innovazione, rappresentata dalla scomparsa dei delitti di corruzione impropria (nelle forme antecedente e susseguente, attiva e passiva) in favore di un inedito delitto di «corruzione per l’esercizio delle funzioni», disciplinato nella forma passiva dal nuovo art. 318 c.p., che si affianca al vecchio delitto di corruzione propria passiva (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio) di cui all’art. 319 c.p., i cui requisiti costitutivi restano inalterati. Le due incriminazioni vengono anche dopo la riforma estese – tenendo ferma la riduzione di pena sino ad un terzo – all’incaricato di pubblico servizio giusta il disposto dell’art. 320 c.p.; nonché a tutte le corrispondenti ipotesi di corruzione attiva in forza del novellato art. 321 c.p. Restano invece sostanzialmente invariate le norme di cui agli artt. 319 ter (corruzione in atti giudiziari), 322 (istigazione alla corruzione) e 322 bis c.p. (corruzione internazionale), salve talune interpolazioni necessarie ad assicurarne il coordinamento con le modifiche agli articoli precedenti.

Rispetto al passato, la nuova norma sulla corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 318 c.p. svincola la punibilità del pubblico ufficiale (nonché dell’incaricato di pubblico servizio e dello stesso privato, in forza rispettivamente degli artt. 320 e 321 c.p.) dalla puntuale individuazione di uno specifico atto o comunque di una specifica condotta oggetto dell’illecito mercimonio, consentendo la punizione di entrambe le parti del pactum in ragione della mera promessa o dazione indebite di denaro o altra utilità al pubblico funzionario. Laddove, invece, la pubblica accusa riesca a dimostrare che la pattuizione aveva ad oggetto il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, ovvero l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, il fatto risulterà inquadrabile ai sensi della più grave fattispecie di «corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio» di cui all’art. 319 c.p., che continuerà ad applicarsi tanto alla corruzione antecedente come a quella susseguente.

Così ristrutturato, il sistema si muove attorno ad una fattispecie generale (la corruzione per l’esercizio delle funzioni), della quale la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e la corruzione in atti giudiziari costituisce una species, essendo evidente che la compravendita di uno specifico atto contrario al dovere d’ufficio (ovvero dell’omissione o ritardo di un atto dovuto) altro non è se non una ipotesi particolare della più generale “compravendita della funzione” del pubblico ufficiale, che si realizza ogniqualvolta questi sia impropriamente retribuito «in relazione all’esercizio delle sue funzioni dei suoi poteri».

La nuova disposizione di cui all’art. 318 c.p. richiede che la dazione o la promessa di denaro o altra utilità al pubblico funzionario siano effettuate «per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri». L’inciso sostituisce quello originariamente previsto dall’emendamento governativo presentato il 17 aprile 2012 alla Camera dei Deputati, che faceva riferimento a una dazione o promessa «in relazione all’esercizio delle … funzioni o dei … poteri» del pubblico funzionario2. Non è, peraltro, chiaro il senso della modifica, e in ogni caso essa non sembra comportare alcuno spostamento del confine dei fatti punibili: la proposizione «per» è suscettibile di essere intesa in senso sia finale sia causale, e pare dunque riferibile tanto alle ipotesi in cui la dazione o la promessa siano effettuate in vista del futuro esercizio – non importa se legittimo o illegittimo – delle funzioni, quanto a quelle in cui esse siano prestate in conseguenza del già avvenuto esercizio di tali funzioni, a mo’ – insomma – di improprio ringraziamento al pubblico ufficiale per i favori o, genericamente, per l’attenzione prestata al privato. Rispetto al passato, l’area della punibilità si allarga dunque anche alle ipotesi in cui il privato dia o prometta denaro o altra utilità al pubblico funzionario per ringraziarlo di un atto dovuto: ipotesi che sinora non erano, invece, abbracciate dalla norma estensiva della punibilità di cui all’art. 321 c.p., che richiamava solo – nella formulazione previgente – il primo comma dell’art. 318 (disciplinante la corruzione impropria antecedente).

Anche il quadro sanzionatorio è notevolmente inasprito rispetto al passato. Il nuovo art. 318 c.p. prevede la reclusione da uno a cinque anni (contro la reclusione da sei mesi a tre anni stabilita dalla vecchia norma in tema di corruzione impropria), mentre le pene previste dall’art. 319 c.p. (rimasto invariato nella sua parte precettiva) si elevano alla reclusione da quattro a otto anni (rispetto al quadro precedente che prevedeva la reclusione da due a cinque anni). Analoghi irrigidimenti sanzionatori concernono il delitto di corruzione in atti giudiziari, dove in particolare la pena prevista per l’ipotesi base sale da tre a quattro anni nel minimo, e da otto a dieci anni nel massimo.

La conseguenza pratica più rilevante di tali inasprimenti si apprezza, naturalmente, sul terreno delle ricadute processuali, dal momento che in relazione a tutti questi delitti sarà ora possibile adottare misure cautelari (anche di natura custodiale, in presenza di massimi edittali sempre superiori ai quattro anni di reclusione), e sarà possibile altresì procedere a intercettazione delle conversazioni o comunicazioni giusta il generale disposto dell’art. 266, co. 1, lett. b, c.p.p.

Dal punto di vista del diritto intertemporale, infine, le nuove norme in materia di corruzione si pongono verosimilmente in rapporto di continuità normativa con le precedenti, dando luogo a una mera successione di norme modificative con gli effetti di cui all’art. 2, co. 4, c.p., salvo che per il caso della corruzione attiva impropria susseguente, non punibile alla stregua del dato normativo oggi vigente e abbracciata invece dalla fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione – la quale viene così a creare un’area di nuova incriminazione, ovviamente inapplicabile ai fatti pregressi.

A prescindere da questa limitata ipotesi, dunque, mi pare sussistere piena coincidenza tra l’area di condotte che risulterebbe complessivamente abbracciata dalle norme in tema di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di corruzione per l’esercizio della funzione, e quella che è oggi complessivamente abbracciata dagli artt. 318-321 c.p., così come interpretati dalla univoca giurisprudenza che già oggi riconduce all’alveo applicativo delle varie norme in materia di corruzione – nonostante le reiterate critiche da parte della dottrina – ogni ipotesi di indebita retribuzione a pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio in relazione all’esercizio delle rispettive funzioni, anche laddove la pubblica accusa non riesca a dimostrare il collegamento della dazione o della promessa con alcuna specifica condotta del pubblico funzionario.

2.2 La scomposizione della vecchia fattispecie di concussione

La seconda rilevante novità concerne lo sdoppiamento del delitto di concussione, in precedenza disciplinato unitariamente dall’art. 317 c.p., che prevedeva il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio il quale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringesse o inducesse taluno a una indebita dazione o promessa di denaro o altra utilità.

Il nuovo art. 317 c.p. limita invece il proprio ambito di applicazione a) al solo fatto del pubblico ufficiale (e non più, dunque, dell’incaricato di pubblico servizio) il quale b) costringa il privato alla illecita dazione o promessa: con esclusione delle ipotesi di mera induzione. Queste ultime costituiscono invece l’oggetto della nuova (e meno grave) figura criminosa di cui all’art. 319 quater c.p., inserita in chiusura delle incriminazioni delle ipotesi di corruzione passiva e rubricata Induzione indebita a dare o promettere utilità, che prevede il fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.

Il privato che effettua la dazione o la promessa non è punibile nell’ipotesi di concussione di cui all’art. 317 c.p., trattandosi all’evidenza di una vittima dell’abuso del pubblico ufficiale; mentre è per la prima volta considerato punibile dal secondo comma dell’art. 319 quater c.p., seppure con una pena sensibilmente inferiore rispetto a quella prevista per il pubblico funzionario che riceve l’indebita dazione o promessa, laddove per l’appunto sia destinatario di una mera induzione da parte di quest’ultimo.

Le sanzioni sono ulteriormente inasprite nel caso di concussione (per costrizione, oggi concussione tout court), delitto per il quale è oggi prevista la pena minima di sei anni di reclusione (contro i quattro precedenti), fermo restando il massimo già in vigore di dodici anni; mentre nel caso di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater c.p. la pena va da tre a otto anni di reclusione per il pubblico funzionario (con disciplina dunque più favorevole rispetto a quella prevista dal vecchio art. 317 c.p.) e fino a tre anni (senza previsione di minimi edittali) per il privato. Rispetto a entrambe le fattispecie, sarà dunque possibile attivare intercettazioni e sarà possibile altresì emettere misure cautelari anche custodiali, eccezion fatta che per il privato vittima di indebita induzione.

Dal punto di vista intertemporale, si dovrà tenere presente che il senso complessivo dell’operazione di riforma in materia di concussione è quello di scindere, semplicemente, la fattispecie attuale nelle due sottofattispecie che la compongono (concussione per costrizione e concussione per induzione), elevando ciascuna di essa a fattispecie autonoma, salvo che per ciò che concerne l’espunzione dall’area applicativa della concussione per costrizione dei fatti commessi dagli incaricati di pubblico servizio (con conseguente profilarsi, rispetto agli stessi, di una successione meramente modificativa di leggi, ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p., tra concussione ed estorsione aggravata). Tutte le altre ipotesi abbracciate dal vecchio art. 317 c.p. vengono invece a confluire nell’una o nell’altra delle nuove fattispecie, che si pongono entrambe in rapporto di specialità rispetto alla norma precedente e pertanto danno luogo, secondo gli insegnamenti della sentenza Giordano delle Sezioni Unite3, a un fenomeno di successione meramente modificativa di leggi penali4: con conseguente applicazione della lex mitior ai fatti commessi nel vigore della previgente disciplina. Si avrà invece una nuova incriminazione (inapplicabile come tale ai fatti pregressi) per il fatto del privato che sia stato indebitamente indotto alla dazione o alla promessa di denaro o altra utilità dal pubblico funzionario che abbia abusato della sua qualità o delle sue funzioni.

Qualche parola, infine, sulla questione della delimitazione reciproca delle ben quattro fattispecie base che, in esito alla riforma, sono oggi destinate a colpire le illecite dazioni o promesse di denaro o altra utilità ai pubblici funzionari (concussione; induzione indebita ex art. 319 quater c.p.; corruzione per l’esercizio della funzione; corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio). Pacifica risultando la riconducibilità all’art. 317 c.p. delle sole condotte caratterizzate da autentiche modalità costrittive, che dovrebbero verosimilmente essere identificate nelle sole ipotesi di violenza o minaccia, nella distinzione tra induzione indebita e fattispecie corruttive si riproporranno i problemi che oggi affaticano la dottrina e la giurisprudenza nella ricerca di una linea di demarcazione tra le attuali figure di concussione per induzione e corruzione5, per lo più risolti sulla base del criterio della presenza o meno di una situazione di soggezione psicologica del privato nei confronti del pubblico funzionario. A fronte della dazione o promessa di denaro o altra utilità in relazione all’esercizio delle funzioni del pubblico funzionario, dovrà dunque anche in futuro distinguersi a seconda che il privato si sia determinato al pagamento o alla promessa perché versante in una situazione di soggezione (essendo in tal caso configurabile il delitto di induzione indebita, con quadri sanzionatori differenziati per il pubblico funzionario e il privato), ovvero in seguito a una negoziazione su un piano di parità tra le parti (risultando allora applicabile uno dei due attuali delitti di corruzione, a seconda che l’accordo abbia o meno ad oggetto una condotta del pubblico funzionario contraria ai suoi doveri d’ufficio, con quadri edittali identici per entrambe le parti del pactum)6.

Non è facile, peraltro, immaginare come si orienterà la giurisprudenza in relazione a ipotesi sinora talvolta ricondotte alla concussione (per induzione), come quella del funzionario della Guardia di Finanza che durante una verifica fiscale si fa dare dal privato una somma di denaro per risparmiargli una (altrimenti doverosa) denuncia, ovvero del primario di un ospedale pubblico che induce il paziente ad usufruire delle proprie prestazioni in regime di libera professione, o addirittura a farsi versare direttamente una somma di denaro, in modo da ottenere un migliore posizionamento nelle liste d’attesa per un intervento chirurgico da eseguire nello stesso ospedale pubblico7. In simili ipotesi, infatti, la dazione di denaro è indubbiamente correlata al compimento, da parte del pubblico ufficiale, di una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio (rispettivamente, omettere una doverosa denuncia, ovvero collocare il proprio paziente privato in una posizione privilegiata rispetto alla generalità degli altri pazienti dell’ospedale); sicché, dal momento che l’art. 319 quater c.p. opera «salvo che il fatto costituisca più grave reato», dovrebbe qui applicarsi il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio di cui all’art. 319 c.p., che è sanzionato con una pena minima (quattro anni di reclusione) più elevata di quella prevista dall’art. 319 quater c.p. (tre anni di reclusione per il pubblico funzionario). Con la conseguenza, prima facie paradossale, che anche il privato – il quale pure versa in una posizione di soggezione psicologica rispetto al pubblico ufficiale, e che proprio per questo sinora è andato esente da pena – dovrebbe in queste ipotesi essere punito con la pena minima di quattro anni di reclusione.

L’unica via per sfuggire a tale conclusione potrebbe essere, allora, quella di ravvisare una vera e propria minaccia in simili condotte del pubblico funzionario, sì da qualificare il fatto come concussione ai sensi dell’art. 317 c.p., con conseguente radicale non punibilità del privato “costretto” all’indebito pagamento: con il costo collaterale tuttavia di una forzatura, sul piano sistematico, dei già incerti confini della minaccia penalmente rilevante, sino a comprendere ipotesi in cui difetta in maniera radicale l’estremo della prospettazione di un male ingiusto da parte del pubblico ufficiale, e in cui quest’ultimo rappresenta piuttosto al privato, in cambio del pagamento di un corrispettivo, la possibilità di conseguire un beneficio a cui questi non ha alcun diritto (sfuggire ad un accertamento fiscale e alle relative sanzioni, “scavalcare” gli altri pazienti nelle liste di attesa), e che anzi si connota esso stesso in termini di illiceità.

D’altra parte, sarà opportuno non scordare – in sede di esegesi delle nuove norme – che la ratio dell’introduzione del nuovo art. 319 quater c.p. sta proprio nell’esigenza, più volte oggetto di raccomandazioni al nostro paese in sede internazionale, di evitare il più possibile gli spazi di impunità del privato che effettui dazioni o promesse indebite di denaro o altra utilità ai pubblici funzionari, adeguandosi a prassi di corruzione diffusa in determinati settori8. Simili situazioni, spesso qualificate dalla giurisprudenza in termini di “concussione ambientale” – ove manca una precisa attività costrittiva o induttiva del pubblico funzionario, ma il privato si determina comunque alla dazione o alla promessa di denaro o altra utilità nella convinzione che, altrimenti, non otterrebbe ciò che gli è dovuto9 – dovrebbero d’ora in poi essere definitivamente sottratte all’area applicativa della concussione di cui al novellato art. 317 c.p., non essendo certamente ravvisabile alcuna costrizione a danno del privato, e ed essere al più sussunte – ammesso che si possa invece ravvisare una qualche forma di “induzione” da parte del pubblico funzionario – entro la nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p.: con conseguente punibilità dello stesso privato, sia pure in termini ridotti rispetto a quanto accade nei casi di corruzione.

Come acutamente evidenziato dalla dottrina, infine, la previsione della punibilità del privato nell’ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p. esclude che, d’ora in poi, il mero inganno possa essere classificato come condotta induttiva (secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza sin qui maggioritaria e dalla prevalente dottrina10), dal momento che non avrebbe alcun significato punire chi abbia corrisposto denaro o altra utilità al pubblico funzionario perché da lui indotto in errore sulla doverosità del pagamento, dovendo ora in tale ipotesi ravvisarsi unicamente una truffa aggravata a danno del privato11.

2.3 Il nuovo delitto di traffico di influenze illecite

Una terza rilevante novità della riforma è rappresentata dall’introduzione di un nuovo delitto di traffico di influenze illecite, disciplinato dal nuovo art. 346 bis c.p. La norma prevede il fatto di chi, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) e di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio».

Scopo dell’incriminazione è, all’evidenza, quello di colpire i fenomeni di intermediazione illecita tra il privato e il pubblico funzionario, finalizzato alla corruzione di quest’ultimo. La norma mira dunque a colpire condotte prodromiche rispetto a (successivi) accordi corruttivi che coinvolgeranno il titolare di pubbliche funzioni, sulle cui determinazioni si vorrebbe illecitamente influire; condotte che l’esperienza insegna essere anch’esse spiccatamente pericolose per i beni giuridici finali offesi dalla conclusione ed esecuzione di accordi corruttivi. Del tutto conseguentemente, la norma non si applica nel caso in cui il pubblico ufficiale accetti la promessa o la dazione del denaro da parte dell’intermediario, profilandosi in tal caso un concorso del privato, dell’intermediario e del pubblico ufficiale in un delitto consumato di corruzione.

La formulazione attuale della norma è, in verità, il frutto di una gestazione sofferta. La versione contenuta nell’originario emendamento governativo presentato il 17 aprile 2012 mirava a colpire ogni forma di illecita intermediazione finalizzata alla conclusione di un successivo accordo corruttivo, anche laddove quest’ultimo non avesse ad oggetto uno specifico atto del pubblico funzionario contrario ai suoi doveri d’ufficio, bensì la mera compravendita delle sue funzioni nel senso generico di cui al novellato art. 318 c.p. Conseguentemente, la clausola di sussidiarietà espressa che apre la norma recitava «fuori dai casi di cui agli articoli 318, 319 e 319-ter», e il testo successivo non faceva alcuna menzione del compimento di una condotta (attiva od omissiva) contraria ai doveri di ufficio come “causale” dell’intermediazione12. L’ulteriore emendamento presentato dal governo il 4 ottobre al Senato, poi definitivamente trasfuso nella formulazione approvata, esclude invece dal raggio dell’incriminazione le ipotesi di intermediazione in un fatto di corruzione per l’esercizio delle funzioni di cui all’art. 318 c.p.

Il testo approvato limita, inoltre, la portata dell’incriminazione all’offerta o alla dazione all’intermediario di «denaro o altro vantaggio patrimoniale», con esclusione quindi di ogni altra utilità di natura non patrimoniale.

La pubblica accusa dovrà, pertanto, dimostrare a) che l’intermediario si sia fatto dare o promettere o promettere denaro o altro vantaggio patrimoniale, quale prezzo per la propria mediazione ovvero per remunerare il funzionario pubblico – e dunque, in quest’ultima ipotesi, con l’obiettivo di trattenere egli stesso il denaro o il vantaggio, ovvero di versarlo successivamente al funzionario da corrompere –; e dovrà inoltre b) dimostrare che la promessa o dazione siano state effettuate «in relazione» al compimento, da parte del funzionario, di una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio, laddove l’espressione «in relazione» sembra alludere tanto alla prospettiva di un futuro compimento di una tale condotta da parte del funzionario, quanto ad un compenso del funzionario medesimo per una condotta antidoverosa già compiuta. Dal momento, però, che il traffico di influenze illecite in tanto è configurabile in quanto un delitto di corruzione ancora non sia consumato, l’ipotesi della intermediazione in una corruzione propria susseguente sarà in pratica confinata ai casi (verosimilmente non frequenti) in cui il pubblico funzionario abbia di propria iniziativa compiuto una condotta contraria ai propri doveri d’ufficio che abbia in concreto favorito il privato, ovvero abbia compiuto una tale condotta d’accordo con l’intermediario, senza però che né l’uno né l’altro fossero ancora destinatari di una previa promessa di pagamento da parte del privato (ché, altrimenti, saremmo in presenza di un concorso dei tre soggetti in una corruzione propria antecedente consumata); e su questo quadro fattuale si innesti la promessa o la dazione, da parte del privato, di denaro o altro vantaggio patrimoniale all’intermediario, quale compenso per la stessa attività di intermediazione, ovvero allo scopo di far transitare il denaro o il vantaggio al pubblico ufficiale, in chiave di remunerazione per quest’ultimo.

La versione approvata della norma prevede poi che la dazione o la promessa siano «indebite», e che la mediazione debba essere «illecita»: ma l’uno e l’altro requisito sono pleonastici, trattandosi per l’appunto di una mediazione avente ora come necessario oggetto il compimento, da parte del pubblico funzionario, di una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio, per la quale dunque non è pensabile che possa esservi un corrispettivo lecito né per il pubblico ufficiale, né per l’intermediario.

La condotta dell’intermediario deve, inoltre, realizzarsi «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di pubblico servizio». Il requisito – per quanto sintatticamente riferito alla ricezione della dazione o della promessa piuttosto che, come sarebbe logico, alla stessa attività di intermediazione illecita – ha la funzione di differenziare l’ipotesi in parola da quella contigua del millantato credito, che continua a essere disciplinata dall’art. 346 c.p., la cui formulazione è rimasta inalterata. Quest’ultima norma prevede come è noto il fatto di chi, «millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o promettere a sé o ad altri denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato», nonché – al secondo comma – l’ipotesi, più severamente punita, in cui il colpevole «riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare».

Nel sistema disegnato dalla riforma, dunque, il criterio discretivo tra traffico di influenze illecite e millantato credito dipende dalla circostanza se l’intermediario abbia relazioni reali con pubblici funzionari (e più in particolare con pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizio), nel qual caso si applicherà il nuovo reato; ovvero semplicemente rappresenti al privato relazioni in realtà inesistenti, nel qual caso resterà applicabile il millantato credito. Del tutto differenti, a questo punto, la ratio e l’oggettività giuridica delle due incriminazioni: l’una volta a colpire condotte che fanno sorgere un pericolo reale di future corruzioni; l’altra volta a sanzionare quella che nella sostanza è una truffa (a consumazione anticipata) a danno del privato, indotto a dare o promettere denaro o altra utilità ad un soggetto che in realtà intende tenere per sé il denaro o l’utilità in questione, senza volere né potere creare le condizioni per il perfezionamento di un accordo corruttivo tra il privato e qualsivoglia pubblico funzionario.

Scarsamente armonizzabile con il disegno normativo appare però il trattamento sanzionatorio previsto per i due delitti. Il millantato credito resta, infatti, punibile con la reclusione da uno a cinque anni congiuntamente a pena pecuniaria nell’ipotesi base, e addirittura con le reclusione da due a sei anni parimenti congiunta a pena pecuniaria nell’ipotesi del secondo comma; mentre per l’ipotesi base di traffico di influenze illecite è prevista semplicemente la reclusione da uno a tre anni, con conseguente esclusione tanto della possibilità di adottare misure cautelari, quanto della possibilità di disporre intercettazioni in fase di indagine. Una tale disparità sanzionatoria non trova, a ben guardare, alcuna ragionevole giustificazione, dal momento che il traffico di influenze illecite crea un reale pericolo di distorsioni dell’esercizio di funzioni pubbliche (a maggior ragione sulla base di una norma che restringe la punibilità ai fatti commessi «in relazione» al compimento di condotte antidoverose da parte del pubblico funzionario); mentre nel delitto di millantato credito un tale pericolo non sussiste, e l’unica proiezione offensiva di carattere pubblicistico, che sola potrebbe spiegare – tra l’altro – il ben più elevato carico sanzionatorio rispetto al delitto di truffa, è identificabile nel mero prestigio della pubblica amministrazione, sotto il profilo dell’immagine di correttezza e non venalità degli esercenti pubblici funzioni: davvero poca cosa, a fronte di una pena addirittura doppia (nell’ipotesi di cui al secondo comma) rispetto a quella prevista per il traffico di influenze illecite.

Il secondo comma del nuovo art. 346 bis c.p. prevede che la pena stabilita dal primo comma si applichi a chi dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale: e dunque al privato che si avvale dell’illecita intermediazione. La punibilità del privato segna dunque un’altra rilevante differenza rispetto al millantato credito, dove il privato è concepito quale vittima di un raggiro pure avente una causale illecita, e per tale motivo risulta non punibile.

Il terzo e il quarto comma contemplano poi due circostanze aggravanti speciali a effetto comune – soggette come tali al consueto bilanciamento ex art. 69 c.p. con eventuali attenuanti – rispettivamente per l’ipotesi particolare in cui l’intermediario sia egli stesso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, nonché per quella in cui il fatto sia commesso «in relazione all’esercizio di attività giudiziarie», e dunque si concreti in un’attività preparatoria rispetto al delitto di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p. L’ultimo comma prevede, infine, una circostanza attenuante a effetto comune per i fatti di particolare tenuità.

Dal punto di vista del diritto intertemporale, l’incriminazione del traffico di influenze illecite rappresenta senza dubbio una nuova incriminazione, con gli effetti di cui all’art. 2, co. 1, c.p. Una continuità normativa – con gli effetti di cui all’art. 2, co. 4, c.p., e conseguente applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui al nuovo art. 346 bis c.p. – potrebbe tuttavia sostenersi rispetto alle condotte dell’intermediario che riceve la dazione o la promessa di denaro o altra utilità, in presenza di tutti i requisiti posti dalla nuova norma, nella misura in cui si ritenga che tali condotte fossero già abbracciate dalla fattispecie di millantato credito, che una parte almeno della dottrina e della giurisprudenza pre-riforma ritenevano estensibile anche alle ipotesi in cui l’agente si facesse dare o promettere denaro o altra utilità non già prospettando falsamente di avere relazioni con pubblici funzionari, bensì vantando (e dunque avvalendosi di) proprie relazioni reali con pubblici funzionari13.

2.4 La riformulazione del delitto di corruzione tra privati

Quarto e ultimo aspetto di rilievo della riforma concerne il delitto di cui all’art. 2635 c.c., di cui muta anzitutto la rubrica: da Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità a quella, assai più espressiva e sintetica, di Corruzione tra privati.

A questo cambio di etichette, che avrebbe dovuto preannunciare un’omologazione della struttura della fattispecie a quelle di corruzione di pubblici funzionari, non corrispondono però modificazioni altrettanto radicali della struttura della vecchia fattispecie. L’ipotesi base di cui al primo comma – che incrimina, oggi come ieri, il fatto di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società – resta sostanzialmente inalterata, a parte qualche precisazione di scarso impatto pratico: la dazione o la promessa di utilità possono essere accettate «per sé o per altri» dai soggetti attivi, e il compimento od omissione dell’atto può avvenire, oltre che in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, anche dei loro «obblighi di fedeltà».

Una novità concerne invece i soggetti attivi, il nuovo secondo comma prevedendo un diverso e più mite quadro edittale allorché il fatto sia commesso «da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma».

Resta confermata, rispetto al testo previgente, l’estensione della punibilità anche a chi dà o promette l’utilità; così come viene reiterata la circostanza aggravante a effetto speciale, che determina il raddoppio della pena base, se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea, o diffusi tra il pubblico in maniera rilevante ai sensi dell’art. 116 d.lgs. 24.2.1998, n. 58 e successive modificazioni.

E resta infine confermata – per effetto di un emendamento governativo dell’ultima ora14 – la regola, contenuta al quinto e ultimo comma, della perseguibilità a querela della persona offesa, che il primo emendamento governativo dell’aprile 2012 aveva invece inteso abolire; regola alla quale si deroga, in favore della procedibilità d’ufficio, nella sola ipotesi in cui «dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi».

Il delitto di corruzione tra privati si conferma, così, come un’incriminazione strutturata attorno ad un’oggettività giuridica schiettamente privatistica, imperniata sulla tutela del patrimonio sociale: è la società la “persona offesa” titolare del diritto di querela, in quanto soggetto danneggiato dall’atto infedele del proprio soggetto apicale o subordinato (per riprendere la terminologia ormai invalsa nell’uso comune a proposito di responsabilità dell’ente da reato). Conseguentemente, il legislatore continua a non accontentarsi – ai fini della consumazione del delitto – della dazione o della promessa di utilità, ma richiede altresì il compimento o l’omissione di un atto contrario ai doveri dell’ufficio o del generico obbligo di fedeltà da parte del soggetto attivo, il quale a sua volta deve cagionare un preciso nocumento alla società, che si conferma così come l’evento costitutivo del reato.

Parzialmente distonica rispetto a questa ratio appare, allora, l’eccezione alla regola della perseguibilità a querela rappresentata dalla «distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi», che è accadimento estraneo rispetto ai requisiti costitutivi del reato, ma che dovrà evidentemente essere oggetto di prova ogniqualvolta la pubblica accusa intenda procedere in assenza della querela della società. Un accadimento che allude, si noti, a una proiezione offensiva di natura pubblicistica della condotta – la sua efficacia distorsiva rispetto alla libera concorrenza tra le imprese –, la cui prova tuttavia dovrà affiancarsi, senza poterla sostituire, a quella dell’evento costitutivo del nocumento alla società.

Il quadro sanzionatorio è solo lievemente inasprito rispetto alla formulazione previgente, essendo ora previsto per l’ipotesi base – a parità di massimo edittale: tre anni di reclusione – il minimo di un anno. Nell’ipotesi invece in cui il fatto sia commesso da un soggetto “subordinato”, la pena è della reclusione fino a un anno e sei mesi, senza determinazione del minimo. Nessuna misura cautelare personale potrà dunque essere disposta, né potranno essere attivate intercettazioni per questo reato, per il quale è però prevista per la prima volta – in forza del novellato art. 25 ter, co. 1, d.lgs. 8.6.2001, n. 231 – la responsabilità amministrativa da reato a carico dell’ente, limitatamente all’ipotesi di corruzione attiva: ossia per il reato commesso dall’autore della dazione o della promessa. Coerente con la logica “privatistica” fondamentalmente conservata dall’incriminazione è, invece, l’esclusione della responsabilità dell’ente nel caso di corruzione passiva, che per costituire reato deve, come abbiamo visto, danneggiare la stessa società: di talché non potrà mai affermarsi che tale reato sia commesso «nell’interesse o a vantaggio» dell’ente, come richiesto invece dall’art. 5 d.lgs. n. 231/2011.

Dal punto di vista del diritto intertemporale, vi è sostanziale continuità tra la vecchia e la nuova fattispecie (con conseguente applicabilità del più favorevole regime previgente, ex art. 2, co. 4, c.p.), eccezion fatta che per l’ipotesi – ora prevista dal secondo comma – del fatto commesso da un soggetto “subordinato”, che è oggetto di una nuova incriminazione applicabile evidentemente soltanto per il futuro.

2.5 Cenni sulle ulteriori modifiche

A parte una serie di interventi di mero coordinamento delle norme preesistenti con quelle novellate o introdotte ex novo dalla riforma, vale la pena ancora di segnalare l’innalzamento dei quadri edittali del delitto di peculato di cui all’art. 314 c.p. (il cui minimo passa da tre a quattro anni di reclusione) e del delitto di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p., nonché – soprattutto – la modifica dell’art. 322 ter, co. 1, c.p. in tema di confisca per equivalente, in cui viene inserita la menzione esplicita del profitto accanto a quella preesistente del prezzo del reato. La mancata menzione del profitto del reato era stata il frutto di un’evidente svista del legislatore del 2000, che aveva previsto la confisca per equivalente del prezzo del reato pensando all’ipotesi paradigmatica della corruzione passiva, senza avvedersi però che rispetto ad altri reati menzionati nel primo comma (segnatamente il peculato e la concussione) l’autore ricava dal reato non un prezzo ma un profitto. La modifica colma dunque questa lacuna, alla quale giustamente le Sezioni Unite avevano ritenuto di non poter porre rimedio in via ermeneutica, stante lo sbarramento imposto dal principio di legalità delle pene15.

I profili problematici

Si impone qualche breve valutazione conclusiva sull’intera riforma.

3.1 Obblighi internazionali in materia di corruzione e risposta del legislatore

Come anticipato in sede introduttiva, uno degli obiettivi essenziali della riforma era quello di adeguare la disciplina penale vigente agli obblighi internazionali in materia di corruzione, e segnatamente agli obblighi discendenti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 2003 (cd. Convenzione di Merida, ratificata dall’Italia in forza della l. 3.8.2009, n. 116), nonché dalla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, recentemente ratificata in forza della l. 28.6.2012, n. 110.

Entrambe le convenzioni, per cominciare, impongono espressamente l’incriminazione del traffico di influenze, definito dall’art. 18 a) della Convenzione di Merida – dal lato attivo – come «il fatto di promettere, offrire o concedere a un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona», e – dal lato passivo – come il fatto di chi corrispondentemente sollecita o accetta, direttamente o indirettamente, l’indebito vantaggio nei termini descritti. Dal canto suo, l’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa obbliga gli Stati parte ad incriminare «il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui articoli 2, 4-6 e 9-11 [ossia dei titolari di pubbliche funzioni menzionati nelle norme precedenti], così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato».

Introducendo l’art. 346 bis c.p., il legislatore italiano ha dunque dato attuazione a tale obbligo internazionale, seppure in termini non del tutto coincidenti con il tenore degli obblighi internazionali rammentati. La limitazione dell’incriminazione agli atti prodromici della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio appare problematica, posto che quanto meno la Convenzione penale del Consiglio d’Europa impone di incriminare la promessa o la dazione di vantaggi indebiti a chiunque affermi o confermi «di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione» di un pubblico funzionario, indipendentemente dalla circostanza che tale decisione configuri o meno un atto contrario ai doveri d’ufficio; e distonica rispetto alle fonti internazionali appare altresì la limitazione di quello che la normativa internazionale definisce come «indebito vantaggio» al solo «denaro o altro vantaggio patrimoniale». Di per sé non in contrasto con gli obblighi in parola – e salve le incongruenze sistematiche e sanzionatorie su cui torneremo prima di concludere – è invece la scelta di confinare l’operatività della norma ai casi in cui il soggetto sfrutti relazioni esistenti con il pubblico funzionario, data la presenza nel nostro ordinamento di altra incriminazione (il millantato credito) in grado di conferire rilevanza penale alle condotte in cui il soggetto non disponga di tali relazioni.

Ben più lacunoso si presenta invece l’adeguamento ai numerosi obblighi internazionali in materia di corruzione tra privati, discendenti non solo dalle due convenzioni menzionate, ma anche dalla decisione quadro 2003/568/GAI dell’Unione europea, sulla cui base la Commissione europea potrà promuovere nei confronti dell’Italia una procedura di infrazione a partire dal 1 dicembre 2014, in forza dell’art. 10 del protocollo n. 36 al Trattato di Lisbona sulle disposizioni transitorie. L’art. 2 di tale decisione quadro impone agli Stati membri di criminalizzare il fatto di «promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia od ometta un atto in violazione di un dovere», e correlativamente il fatto di chi solleciti o riceva il vantaggio medesimo, o la promessa dello stesso. La norma – così come quelle corrispondenti delle Convenzioni di Merida e del Consiglio d’Europa – impone dunque agli Stati di introdurre un reato di mera condotta a dolo specifico e, quindi, a consumazione anticipata, strutturato sulla falsariga dei delitti di corruzione pubblica, senza subordinare la punibilità alla verificazione di alcun risultato lesivo a danno dell’ente né di altro interesse pubblico o privato.

Le scelte del legislatore italiano, come si è visto, sono andate in altra direzione. Anzitutto il reato – pur rubricato per la prima volta come Corruzione tra privati – continua ad essere collocato tra i reati societari, e ha come soggetti attivi, dal lato passivo, unicamente soggetti afferenti ad imprese strutturate in forma societaria, lasciando fuori così imprese individuali, fondazioni, enti non profit, etc. Inoltre, l’incriminazione vigente continua ad esigere da parte del soggetto “intraneo” – in contrasto con le citate fonti internazionali – il compimento o l’omissione di un atto in violazione dei doveri inerenti all’ufficio, per effetto dell’illecita dazione o promessa di utilità, esigendo in più anche la prova di un nocumento alla società. Infine, del tutto distonica rispetto alla ratio pubblicistica (di tutela, in particolare, della libera concorrenza tra le imprese) assegnata all’incriminazione in sede internazionale appare la regola, reintrodotta giusto in chiusura dei lavori parlamentari, della procedibilità a querela, salve come si è detto le ipotesi in cui la pubblica accusa riesca a provare – oltre al nocumento alla società – anche una effettiva distorsione della concorrenza per effetto della condotta.

Dove invece il legislatore ha tenuto nel debito conto le sollecitazioni internazionali è stato nella configurazione del nuovo delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319 quater c.p. In questo caso si trattava di sollecitazioni di soft law, che invitavano lo Stato italiano a rivedere la previgente incriminazione della concussione, ritenuta dagli organismi internazionali eccessivamente benevola verso il privato autore di un’illecita dazione o promessa di denaro o altro vantaggio al pubblico funzionario16. Coerente rispetto a tali sollecitazioni è stata dunque la scelta del legislatore di confinare la non punibilità del privato alle sole ipotesi di costrizione da parte del pubblico funzionario, che risultano oggi le uniche abbracciate dall’art. 317 c.p. in tema di concussione; e di prevedere invece la punibilità del privato (sia pur con un quadro edittale meno severo rispetto a quello previsto per la corruzione attiva) vittima di un abuso del pubblico funzionario che abbia avuto il mero effetto di indurlo al pagamento o alla promessa di denaro o altra utilità.

3.2 Le presumibili ricadute della riforma sull’effettività del contrasto alla corruzione

L’obiettivo principale della riforma era, peraltro, quello di assicurare una maggiore effettività al contrasto dei fenomeni corruttivi, anche mediante lo strumento del diritto penale. E su questo fronte – nonostante le molte critiche formulate negli ultimi mesi17 – ci pare che l’intervento di riforma nel suo complesso sia andato nella giusta direzione.

Anzitutto, il generale inasprimento dei quadri sanzionatori18, analiticamente illustrato nelle pagine precedenti, non solo ha come effetto quello di una maggiore deterrenza della prospettiva della pena in sé considerata e – soprattutto – dello spettro della misura cautelare coercitiva, ma consente altresì di attivare per quasi tutti i reati di corruzione (in senso lato) lo strumento investigativo delle intercettazioni, di fondamentale importanza pratica in indagini che possono fare ancora scarso affidamento sulle dichiarazioni accusatorie dei partecipi del pactum sceleris; strumento tanto più importante a fronte della scelta legislativa di non ricorrere a cause di non punibilità per i collaboratori di giustizia, a loro volta dense di effetti collaterali indesiderabili. Quanto poi alle presunte ricadute negative della riforma in tema di prescrizione, sul quale hanno insistito talune voci anche autorevoli19, un accorciamento dei termini attuali è confinato alla sola ipotesi di induzione indebita a dare o promettere utilità, “figlia” della vecchia concussione per induzione, ove il tetto massimo complessivo in presenza di atti interruttivi è comunque pari, oggi, a dieci anni: un termine non incongruo, in cui è ragionevole che lo Stato debba riuscire a definire il processo a carico dell’imputato.

Deciso apprezzamento merita, a nostro avviso, anche la scelta di fondo che più caratterizza questa riforma, rappresentata dall’introduzione della nuova figura di corruzione per l’esercizio delle funzioni, di cui al novellato art. 318 c.p. Una scelta in sé non imposta dalle convenzioni internazionali, ma che può vantare importanti corrispondenze in altri ordinamenti a noi vicini, e che riconosce la solidità delle istanze politico-criminali che già avevano motivato la nostra giurisprudenza a prescindere – sia pure in esito a itinerari esegetici scarsamente compatibili con il principio di stretta legalità – dalla necessaria individuazione, nei processi per corruzione, di un preciso atto del pubblico funzionario oggetto dell’illecita pattuizione20. In effetti, l’indebita corresponsione di denaro o altra utilità ad un pubblico ufficiale in ragione dei vantaggi che il privato può attendersi dal pubblico ufficiale nell’esercizio futuro (e ancora indeterminato) delle sue funzioni, o anche solo in chiave remunerativa dell’“attenzione” riservata da quel pubblico ufficiale al privato, fa emergere un pericolo tangibile di asservimento della pubblica funzione ad interessi privati, contro il quale è opportuno che l’ordinamento penale reagisca attraverso un’apposita incriminazione, formulata in maniera tale da non porre a carico alla pubblica accusa l’onere di individuare con esattezza il singolo atto, o la singola condotta oggetto di illecito mercimonio; salva poi la possibilità di colpire con una sanzione più grave la pattuizione, allorché tale atto o condotta siano anche concretamente individuati, in tal caso il generico pericolo di asservimento della funzione concretizzandosi nel pericolo di una concreta e individuale distorsione dell’esercizio del potere.

D’altra parte, l’introduzione della nuova norma sulla corruzione per l’esercizio delle funzioni convoglia finalmente un messaggio chiaro per tutti i consociati: i pubblici funzionari non devono ricevere indebitamente denaro o altre utilità dai privati; e i privati devono astenersi dal corrispondere loro denaro o altra utilità – per qualunque ragione intendano farlo, foss’anche per ringraziarli di un favore ricevuto. Eventuali rischi di overcriminalization21 – in rapporto, magari, ai munuscula evocati dalla tradizione manualistica – dovranno oggi essere neutralizzati mediante una retta applicazione del principio di offensività come criterio ermeneutico22, anche sulla base dell’art. 49, co. 2, c.p. (come suggerito dalla stessa Corte costituzionale23) rispetto ai donativi d’uso di modico valore inidonei ad influenzare l’esercizio delle funzioni pubbliche da parte del beneficiario; e potranno in futuro essere ancor meglio neutralizzati dal proscioglimento per irrilevanza del fatto, oggetto di un disegno di legge attualmente all’esame delle camere.

Né vanno sottovalutate – sotto un diverso angolo visuale – le possibili ricadute garantistiche legate all’introduzione della nuova norma di cui all’art. 318 c.p., che potrebbe indurre lo stesso diritto pretorio a sottrarre all’alveo applicativo della corruzione per atto contrario al dovere d’ufficio le ipotesi in cui la pubblica accusa non sia riuscita a fornire la prova di un preciso atto o una precisa condotta oggetto di illecito mercimonio. In simili ipotesi dovrebbe essere, in futuro, ravvisata una mera corruzione per l’esercizio della funzione e non già, come oggi troppo spesso avviene, una corruzione “propria”.

Una delle scelta più discusse della riforma è stata, poi, quella relativa allo sdoppiamento della vecchia concussione. Come si è anticipato, la soluzione rappresenta la risposta alle numerose sollecitazioni internazionali volte a rimodulare il delitto di concussione, in modo da ridurre il più possibile gli spazi di non punibilità del privato autore della dazione o della promessa: risposta che non è consistita – come pure da tempo si era proposto, anche in Italia24 – nell’abolizione pura e semplice del delitto di concussione, con conseguente qualificabilità delle autentiche ipotesi di costrizione del privato da parte del pubblico funzionario quali estorsioni aggravate, e correlativa attrazione di ogni altra ipotesi nell’alveo applicativo dei reati di corruzione; ma piuttosto nella creazione della nuova figura delittuosa di cui all’art. 319 quater c.p., i cui peculiari quadri edittali danno ragione da un lato del maggior disvalore rispetto alle ordinarie ipotesi corruttive del pubblico funzionario che abusi della propria qualità o dei suoi poteri sfruttando la sua posizione di superiorità psicologica rispetto al privato, e dall’altro del minor disvalore della condotta del privato, che è in qualche modo vittima della prepotenza del pubblico funzionario, finendo però comunque per adeguarsi alle sue pretese per amore del quieto vivere, per vigliaccheria, ma spesso anche per un proprio preciso tornaconto.

L’idea di fondo sottostante alla nuova incriminazione, e alla inedita punibilità del privato che ne deriva, è insomma quella di spezzare la catena di più o meno interessati adeguamenti e connivenze rispetto a prassi devianti dei titolari dei pubblici uffici, senza consentire al privato di invocare – in assenza di atti riconducibili al paradigma “forte” della violenza o della minaccia – la propria difficile situazione economica, la necessità di “tirare avanti” o simili, per giustificare indebite corresponsioni di denaro o utilità. Un’idea di fondo che ci pare in toto condivisibile25.

Qualche perplessità nasce, semmai, dalla scelta di escludere l’incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi del delitto di concussione, riservato così ai soli pubblici ufficiali; mentre entrambe le categorie di funzionari potranno rispondere per il reato di indebita induzione a dare o promettere utilità. Il risultato è che, paradossalmente, l’incaricato di pubblico servizio che costringa il privato all’illecita dazione o promessa potrebbe essere condannato, quale autore di estorsione aggravata, a una pena più severa (dieci anni di reclusione nel massimo ai sensi dell’art. 629 c.p. più un terzo per effetto dell’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 11, c.p.) rispetto a quella prevista per il pubblico ufficiale (dodici anni nel massimo)26.

Quanto al nuovo delitto di traffico di influenze illecite, la sua introduzione non solo era – come abbiamo visto – imposta dalle norme internazionali, stante la palese insufficienza del delitto di millantato credito ad assicurare la necessaria tutela contro le ipotesi di illecita intermediazione finalizzata alla corruzione dei pubblici funzionari (anche interpretando estensivamente l’art. 346 c.p. sino a riferirlo alla prospettazione di reali relazioni con il pubblico funzionario, esso avrebbe comunque soltanto colpito la condotta del mediatore, e non quella del privato autore della dazione o della promessa); ma viene altresì a colmare una reale lacuna di tutela nel nostro paese, che a quanto pare pullula di “faccendieri” la cui principale attività sembra essere proprio quella di favorire accordi corruttivi tra privati e pubblici funzionari. Il traffico di influenze illecite dovrebbe dunque funzionare da avamposto della tutela penale della corruzione, colpendo condotte prodromiche rispetto alla conclusione di future corruzioni, che si realizzeranno una volta che il pubblico funzionario sia stato effettivamente contattato e coinvolto nell’illecita pattuizione con il privato grazie ai buoni uffici del mediatore.

Le incongruenze della riforma derivano qui piuttosto dal depotenziamento della norma realizzato in chiusura dei lavori parlamentari, conseguente all’imposizione alla pubblica accusa dell’onere di dimostrare che la dazione o promessa di denaro o altro vantaggio patrimoniale sia avvenuta in relazione al compimento di una specifica condotta contraria ai doveri d’ufficio di un pubblico funzionario; nonché dal suo troppo debole quadro edittale, che non permette l’attivazione di strumenti di indagine realmente efficaci (intercettazioni) né l’adozione di misure cautelari27. Un quadro edittale, d’altronde, che stride – come già si è rammentato – con quello assai più severo previsto per il millantato credito, che pure ha una carica offensiva inferiore, costituendo null’altro che una forma speciale di truffa a danno di un privato già di suo animato da intenzioni illecite.

Meglio avrebbe fatto, allora, il legislatore a unificare le due figure delittuose, conformandosi alle indicazioni contenute in questo senso dalle norme internazionali a suo tempo citate. Ciò avrebbe consentito di risparmiare alla giurisprudenza la fatica di stabilire caso per caso se le relazioni del mediatore fossero reali o solo vantate; e assieme di lanciare il chiaro e univoco messaggio ai consociati che dare o promettere denaro a chi assuma di poter condizionare l’operato di un pubblico funzionario costituisce sempre un fatto penalmente rilevante, anche nell’ipotesi in cui il “mediatore” in realtà non abbia, o non abbia ancora, precise relazioni con la sfera dei pubblici poteri: perché anche in tal caso la disponibilità di denaro “nero” da parte del “mediatore” crea comunque il pericolo che dei pubblici ufficiali possano essere realmente contattati, e possano essere realmente corrotti dalla prospettiva di un immediato guadagno, specie in contesti a corruzione diffusa come quelli in cui non è infrequente imbattersi anche nel nostro paese.

Decisamente deludenti sono, infine, le scelte conservatrici della riforma rispetto al delitto di corruzione tra privati: che resta assai lontano, per le ragioni già evidenziate, dal modello configurato dalle norme internazionali, e che proprio in ragione della quantità di oneri probatori imposti sulla pubblica accusa – a fronte per di più di quadri edittali che non consentono le intercettazioni – rischia di restare una norma soltanto cartacea, come già oggi accade a fronte dell’attuale formulazione dell’art. 2635 c.c.

3.3 Rilievi conclusivi

Al di là delle sue imperfezioni, la riforma rappresenta comunque – ripetiamo – un passo avanti nella giusta direzione di un contrasto più effettivo ai fenomeni corruttivi purtroppo dilaganti nel nostro paese, segnando per la prima volta – dopo almeno dieci anni – una inversione di tendenza rispetto ad una prassi legislativa mirante a spuntare le armi agli strumenti penalistici nei confronti della criminalità dei colletti bianchi.

Molto resta ancora da fare, beninteso: non solo sul fronte già segnalato della corruzione privata, ma anche sul fronte del contrasto a condotte prodromiche ai reati di corruzione – in primo luogo alle false comunicazioni sociali, drasticamente depotenziate dalla riforma del 2002 e oggetto anch’esse di obblighi di incriminazioni di fonte internazionale –, nonché all’abuso d’ufficio, i cui requisiti dovrebbero essere rimodulati in modo da rendere meno ardui gli oneri probatori attualmente incombenti sulla pubblica accusa, che paralizzano l’applicazione di un’incriminazione sussidiaria, il cui ruolo è cruciale ogniqualvolta emerga l’evidenza di una palese distorsione della discrezionalità amministrativa a beneficio di un privato, ma non si riesca a provare la corresponsione o la promessa di un corrispettivo al pubblico ufficiale.

E, infine, occorrerà al più presto ripensare al nodo più generale della prescrizione del reato, che condiziona pesantemente oggi l’efficienza del sistema penale nel suo complesso, con effetti particolarmente negativi in tipici reati dei “colletti bianchi” come quelli di corruzione, i quali richiedono di regola complesse attività di accertamento. Ma questa, come si dice, è un’altra storia, che la nuova legislatura dovrà al più presto affrontare.

Note

1 Il presente contributo si basa in larga parte sulle riflessioni già svolte in un lavoro a quattro mani pubblicato durante i lavori parlamentari (Dolcini, E.-Viganò, F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. contemp., 2012, n. 1, 232 ss.), qui ulteriormente rielaborate alla luce delle modifiche che il progetto originario ha subito nel corso della sua travagliata gestazione. Sul progetto di riforma, cfr. anche Palazzo, F., Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, ibidem, 227 ss.; Forti, G., Sulle riforme necessarie del sistema penale italiano: superare la centralità della risposta carceraria, in www.penalecontemporaneo.it, 16.9.2012; Balbi, G., Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, ibidem, 15.10.2012; Seminara, S., La riforma dei reati di corruzione e concussione come problema giuridico e culturale, in Dir. pen. e processo, 2012, n. 10, 1235 ss.

2 Cfr. http://documenti.camera.it/leg16/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2012/04/17/0102.pdf.

3 Cass. pen., S.U., 26.3.2003, n. 25887.

4 Così anche Palazzo, F., op. cit., 229.

5 Così giustamente lo stesso Palazzo, F., ult. loc. cit.

6 Sulla difficoltà – perpetuata dalla riforma – di fissare precise linee di demarcazione in questo campo, cfr. Seminara, S., op. cit., 1242 ss.

7 Per una rassegna di simili ipotesi nei repertori giurisprudenziali, cfr. per tutti Benussi, C., Art. 317, in Dolcini, E.-Marinucci, G., a cura di, Codice penale commentato, III ed., 2011, vol. II, 3004 ss.

8 Cfr. sul punto infra, § 3.1.

9 Sulla problematica, cfr. ancora la perspicua analisi di Benussi, C., op. ult. cit., 2973 ss.

10 Cfr. ancora Benussi, C., op. ult. cit., 2967 ss.

11 Balbi, G., op. cit., 9.

12 Cfr. http://documenti.camera.it/leg16/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2012/04/17/0102.pdf.

13 Per una completa ricostruzione del dibattito sul punto, nella giurisprudenza e nella dottrina anteriori alla riforma, cfr., per tutti, Benussi, C., Art. 346, in Dolcini, E.-Marinucci, G., Codice penale commentato, cit., 3539 s.

14 Cfr. Viganò, F., Gli emendamenti governativi al ddl sulla riforma della corruzione, in www.penalecontemporaneo.it, 8.10.2012.

15 Cass. pen., S.U., 25.6.2009, n. 38691.

16 Su tali raccomandazioni, cfr. ampiamente Montanari, N., La normativa italiana al vaglio delle istituzioni internazionali, in www.penalecontemporaneo.it, 1.7.2012, e ivi per tutti i riferimenti puntuali.

17 In senso complessivamente critico sulla riforma si esprime, ad es., Balbi, G., op. cit., 9 s.

18 Salvo che, come si è visto, per il delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità, il cui quadro edittale è inferiore rispetto a quello già previsto per la concussione. La scelta del legislatore su questo specifico profilo è stata criticata da una parte della dottrina (in particolare da Palazzo, F., op. cit., 230) e dal Consiglio Superiore della Magistratura nel proprio parere approvato il 24 ottobre 2012 (cfr. http://www.csm.it/PDFDinamici/121024_6.pdf); ma è coerente con l’indubbio minor disvalore della condotta meramente induttiva rispetto a quella costrittiva, che continua ad essere abbracciata dall’art. 317 c.p., la cui pena è stata invece innalzata rispetto ai livelli previgenti.

19 Così, in particolare, il parere appena citato del Consiglio Superiore della Magistratura.

20 Sulla problematica, cfr. per tutti Benussi, C., Art. 318, in Dolcini, E.-Marinucci, G., Codice penale commentato, cit., 3024 ss.

21 Sui quali pongono l’accento Seminara, S., op. cit., 1237 e Balbi, G., op. cit., 5.

22 Cfr., ad es., C. cost., 11.7.1991, n. 333.

23 Cfr. C. cost., 26.3.1986, n. 62.

24 In particolare dal cd. progetto di Cernobbio (pubblicato unitamente alle note illustrative in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 1024 ss.).

25 Così anche – seppur senza sottacere qualche perplessità – Seminara, S., op. cit., 1245. Critici invece sulla punibilità del privato, in relazione al rischio per la pubblica accusa di non poter contare sulla sua collaborazione processuale, Palazzo, F., op. cit., 230 e il parere citato del Consiglio Superiore della Magistratura. L’obiezione a nostro avviso non convince: ciò che ci veniva insistentemente sollecitato dagli organismi internazionali era proprio un intervento volto a impedire l’uso improprio, da parte delle prassi degli organi inquirenti, del delitto di concussione in ipotesi corruttive, allo scopo per l’appunto di assicurarsi la collaborazione del privato con la promessa di una sua impunità. Altra questione è, naturalmente, quella di valutare l’opportunità di introdurre una speciale causa di non punibilità per il privato “collaborante” in questi casi, e in generale nei delitti di corruzione (si vedano però, sul punto, i seri rilievi critici formulati contro questa ipotesi – pur raccomandata dalla dottrina sopra citata e dallo stesso CSM – da parte di Seminara, S., op. cit., 1240). In senso critico sulla nuova norma di cui all’art. 319 quater c.p. è anche Forti, G., op. cit., 6 s.

26 Così anche il citato parere del Consiglio Superiore della Magistratura, nonché Seminara, S., op. cit., 1242.

27 Analogamente il parere citato del Consiglio Superiore della Magistratura.

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