LA RINASCITA AFRICANA

XXI Secolo (2009)

La rinascita africana

Jean-Léonard Touadi

Il nuovo secolo si è aperto per il continente africano all’insegna dell’African renaissance, la rinascita africana promossa dal presidente sudafricano Thabo Mbeki durante le assisi dell’African renaissance conference di Johannesburg nel 1998. Questo slogan ‘mobilitante’ – ribadito dallo stesso Mbeki in occasione della nascita dell’Unione Africana (UA) nel luglio del 2002 – riassume lo stato d’animo di un continente che chiude il Novecento con la fine del sistema di segregazione razziale in Sudafrica, il cosiddetto apartheid (in lingua afrikaans dei boeri olandesi) o anche ‘sviluppo separato’, e l’ascesa al potere di Nelson Mandela (1994).

L’inizio del 21° sec. ha significato così, principalmente, il ritorno del Sudafrica in Africa con un ruolo da protagonista. In effetti l’apartheid, introdotto nel 1948 in Sudafrica, aveva emarginato dalla vita politica, sociale, economica e culturale la maggioranza nera e tutte le popolazioni di colore. Una pesante discriminazione e una sistematica violazione dei diritti umani e democratici che portò alla creazione dei movimenti politici di lotta. Tra i più famosi spiccava per consenso e incisività d’azione l’ANC (African Nation-al Congress), dichiarato fuorilegge dal regime negli anni Sessanta e guidato nella fase finale della lotta contro l’apartheid da Mandela, incarcerato per 27 anni e liberato nel 1990. La ricomparsa sulla scena politica sudafricana del grande leader dell’ANC avviò una fase negoziale tra il regime sudafricano e la maggioranza nera, mentre le elezioni libere del 1994 (svoltesi finalmente secondo il principio one man, one vote), vinte a schiacciante maggioranza dal partito di Mandela, misero fine al regime segregazionista con la promulgazione di una nuova Costituzione.

Mandela incarna, così, lo spartiacque storico per tutto il continente tra la colonizzazione e la piena e totale indipendenza. La sua statura e la sua azione si pongono al centro di un passaggio epocale. Da un lato, la lunga e prolungata ‘notte coloniale’, iniziata nel 1870 con l’epoca delle grandi esplorazioni a nome e per conto delle potenze europee e culminate con la spartizione dell’Africa avvenuta durante la Conferenza di Berlino del 1884-85; dall’altro, l’anelito alla libertà e all’autodeterminazione, concretizzatosi formalmente negli anni Sessanta con le indipendenze della maggior parte dei Paesi africani, poi perfezionata nei decenni successivi con la liberazione dei Paesi sotto dominio portoghese nel 1975, dell’ex Rhodesia del Sud (Zimbabwe) nel 1980, della Namibia nel 1990 e dell’Eritrea nel 1993. La fine dell’apartheid (1994) conclude così il ciclo delle lotte di liberazione e sancisce l’avvento definitivo del ‘sole dell’indipendenza’ dopo il lungo periodo coloniale. La colonizzazione, intesa come usurpazione dello spazio e del tempo africani, cessa per lasciare lo spazio alla storia vissuta dai popoli africani da sé e per sé. La vittoria di Mandela e del suo partito rinnova l’ebbrezza degli anni dell’indipendenza e risveglia l’ideale panafricano basato sulla parola d’ordine del back to Africa dei padri storici del panafricanismo militante. Il ritorno all’Africa come potente movimento culturale e politico e humus ideologico della lotta per l’emancipazione aveva perso slancio e vigore alla prova concreta della gestione politica ed economica successiva all’indipendenza. Mandela rilancia e rianima il sogno dei padri dell’indipendenza africana: egli si presenta come il traghettatore che restituisce ai popoli del continente e alla diaspora nera in generale la dimensione dell’utopia, della tensione mobilitante. Grazie alla sua azione, il destino dei popoli africani è ricollocato nella prospettiva progettuale originaria, quattro decenni dopo il clamoroso fallimento delle indipendenze.

In effetti, un bilancio delle indipendenze africane sarebbe, sotto il profilo storico, certamente prematuro e incompleto. Ma circa cinquant’anni dopo è possibile, tuttavia, fare un inventario delle scelte compiute e delle conseguenze di queste sulla vita reale dei popoli del continente e sul ruolo dell’Africa nel contesto internazionale. L’Africa postindipendenza ha tradito le ambizioni dei padri della lotta di liberazione anticoloniale smarrendo la stella dell’emancipazione politica e mancando l’obiettivo di costituire, a partire da strutture statuali ereditate dalla colonizzazione, delle nazioni coese. La libertà agognata non si è tramutata in responsabilità e capacità di creare istituzioni in grado di dare forma e sostanza all’irruzione della modernità occidentale dentro le società africane, tenendo in debita considerazione le peculiarità socioantropologiche e le stratificazioni etniche ivi presenti. Il mimetismo ‘artificiale’ attuato dalle leadership africane è tutto il contrario del mimetismo ‘razionale’, che è il processo dialettico attraverso il quale un popolo si appropria di alcuni elementi della visione del mondo di un altro popolo con lo scopo di massimizzarne l’utilità e la convenienza a proprio favore. Si tratta di un lavoro d’integrazione che richiede un’indagine razionale del sistema dei bisogni locali e un discernimento per identificare quegli elementi provenienti da fuori in grado di assicurarne la soddisfazione. Invece, la scelta del mimetismo ‘artificiale’ ha divaricato durevolmente il sistema dei bisogni africani e gli strumenti adatti a soddisfarli. La frattura così perpetuata tra élite e popolo, tra economia e vita reale dei cittadini, tra risorse locali e sfruttamento straniero, tra mondo rurale e ceti urbani, oggi si direbbe tra flussi globali e località, costituisce una delle chiavi di lettura dell’attuale disastro continentale. I sistemi politici africani hanno proceduto con il mimetismo istituzionale e costituzionale senza discernimento e senza capacità di integrare nelle peculiarità locali le forme politiche importate. Quel peccato originale delle indipendenze africane si ripropone oggi, quando i nuovi processi di democratizzazione rischiano di perdere un altro appuntamento con la necessità storica di declinare localmente in termini di istituzioni e di costituzioni le esigenze delle nuove aperture politiche.

Risulta del tutto evidente che i fattori del disastro continentale sono concause non riducibili al solo fattore del mimetismo artificiale. Un’analisi completa dovrebbe tenere conto anche delle cause remote, quali la tratta degli schiavi con i suoi sconvolgimenti demografici, economici, sociali e culturali, e la colonizzazione intesa come un regime di dominio e di sfruttamento attuato sotto il faro ideologico della ‘missione civilizzatrice’ o dell’occidentalizzazione forzata dell’Africa. Due eventi storici che hanno unificato sotto la bandiera del ‘dominio degli altri’ regioni intere a sud del deserto del Sahara, regioni che non avevano sperimentato prima di allora una reale e documentata unità culturale, trattandosi di zone collocate in ambienti geoclimatici assai diversificati con ancoraggi relazionali distanti (i Paesi del Golfo di Guinea e dei bacini dei fiumi Senegal e Niger a contatto con l’area dell’Africa del Nord e quella del Golfo di Aden attraverso le rotte transahariane; la regione della foresta equatoriale ostile e relativamente chiusa a contatti con l’esterno a eccezione della zona costiera dell’Atlantico; le regioni dell’Africa orientale e del Corno d’Africa a contatto con il mondo indiano, cinese e mediorientale attraverso l’Oceano indiano). L’Africa è dunque una costruzione storica. I popoli del continente, che sono stati tragicamente investiti dall’occupazione e dalla dominazione, sperimentano l’unità come comunanza di destino storico.

Quella che oggi chiamiamo Africa nasce, da un lato, dalla doppia esperienza di resistenza alla tratta e alla colonizzazione, dall’altro, dalla lenta maturazione delle condizioni culturali e sociali per una riappropriazione della soggettività storica. Ciò che costituisce l’Africa è la coscienza di appartenere a un mondo terzo, da comprendere come elemento terzo, appunto, che non è più l’Africa precoloniale né tanto meno gli elementi edulcorati della forzata occidentalizzazione. Sotto questo punto di vista l’Africa è un processo, un dover essere che vive dialetticamente tra un passato offeso, umiliato – ma che vive e resiste attraverso mille metamorfosi – e una modernità occidentale invadente, seducente ma non completamente assorbita dentro una sintesi africana. L’irruzione dell’altro nel vissuto collettivo dei popoli africani ha avuto, dunque, effetti decisivi nella vicenda storica continentale. Lo spazio materiale è stato occupato e sconvolto; quello simbolico è stato aggredito con tentativi di assimilazione. Cinque secoli di schiavitù e di colonizzazione rappresentano un macigno storico che ha lasciato un segno duraturo, ma che rende possibile oggi un’identità africana ricca, complessa, un divenire interessante per l’Africa e per il mondo avviato all’impollinazione trans-culturale. Le scorie della storia sono visibili in Africa: a) nelle conformazioni demografiche e nelle strutture antropologiche destabilizzate e ‘inferiorizzate’; b) nella subalternizzazione delle economie africane attraverso il gioco perverso dell’inclusione-esclusione nell’economia-mondo a partire dal commercio triangolare nel 16° sec. e fino alla globalizzazione; c) nella gestione del consenso politico e nella strutturazione delle gerarchie di potere con la forzata coesistenza tra legittimità moderna, incarnata dall’apparato coloniale con i suoi funzionari, e la legittimità tradizionale che sopravviveva con la linea di potere tribale o clanica.

Mandela assume e supera questa eredità. Egli si proietta sulla scena africana e scuote l’immobilismo politico e la stagnazione socioeconomica dei decenni perduti dell’Africa (1960-1990). Ancora in carcere, il leader nero aveva maturato la convinzione di dover lottare non solo per l’emancipazione della maggioranza nera, ma anche per liberare dalle catene dell’odio la minoranza bianca prigioniera dei propri pregiudizi. Il vecchio leader era convinto che il futuro del Sudafrica non stesse nella ricerca della rivincita storica dei neri contro i bianchi. Insieme all’arcivescovo anglicano Desmond Tutu – altro storico leader anti-apartheid e premio Nobel per la pace nel 1984 – Mandela aveva forgiato la visione del Sudafrica come di una nazione arcobaleno. Si trattava di una visione che mirava a riconciliare il Paese con sé stesso, con il suo passato di sopraffazione e di sangue, con il suo presente di profonde e pericolose contraddizioni economiche e sociali, con il pluralismo etnico, linguistico e religioso. Mandela aveva intravisto l’orizzonte di un Paese e di un continente riconciliati e pacificati che non potevano prescindere dall’esigenza etica e politica di fare i conti con il passato. L’esigenza di trascinare, cioè, una nazione intera nella più grande e importante operazione di ecologia della memoria che la storia avesse mai sperimentato attraverso il varo della Commissione per la verità e la riconciliazione. Tale iniziativa non si configurava solo come una gigantesca e inedita operazione di catarsi collettiva, ma si presentava al contempo come una brillante soluzione giuridica e politica che assicurò una transizione pacifica dall’apartheid alla democrazia.

La Commissione per la verità e la riconciliazione fu il frutto di un vasto consenso tra i partiti politici sudafricani i quali accettarono la scommessa di guardarsi allo specchio e di progettare, a partire da quello sguardo, il proprio futuro. Essa nacque principalmente intorno a tre pilastri fondamentali: un comitato dell’amnistia incaricato di registrare tutte le richieste in materia; un comitato dei diritti umani, dinanzi al quale le vittime avrebbero potuto presentarsi e raccontare le proprie vicende; un comitato di riabilitazione e di riparazione, incaricato di redigere alcune raccomandazioni per la trasformazione delle istituzioni civili sudafricane, nonché assicurare un congruo indennizzo delle vittime.

I membri della Commissione (400), nominati supervisori dei tre comitati, furono scelti tra personalità rappresentative della società sudafricana (sette neri, sei bianchi, due meticci e due indiani). Il presidente della Commissione fu l’arcivescovo Desmond Tutu. Con un budget di circa 9 milioni di dollari all’anno per una durata di tre anni, i membri della Commissione girarono tutto il Paese raccogliendo testimonianze da circa 20.000 persone. Una lunga sequela di fatti grandi e piccoli, di tragedie personali o collettive, di soprusi e di crimini fu portata alla luce in un clima di grande tensione nazionale. Ai responsabili dei crimini fu chiesta la verità in cambio dell’amnistia; e alle vittime la Commissione chiese di perdonare per offrire una prospettiva di pace al Paese e per avviare il processo di guarigione attraverso la parola proferita e ascoltata sui fatti accaduti.

La filosofia di fondo che ispirò lo spirito e la forma dei lavori della Commissione derivava dal concetto tradizionale dell’ubuntu. L’ubuntu è una nozione centrale dell’antropologia tradizionale africana, segnatamente nella grande area linguistico-culturale dei popoli bantu (bantu è il plurale di muntu nell’accezione di essere umano). L’ubuntu insegna, infatti, a tutti, grandi o piccoli, la consapevolezza che «io sono perché voi siete» in una circolarità relazionale e un’interdipendenza che fondano la comunità. Essere muntu significa non soltanto stabilire relazioni molteplici, naturali e sovrannaturali, ma vuole dire più di ogni altra cosa concepirsi solo ed esclusivamente attraverso la dinamica circolazione d’energia e d’empatia costitutiva della forza vitale che lega tutti gli esseri viventi. Antropologia di comunione, l’ubuntu opera costantemente per mantenere l’equilibrio tra gli esseri, per accrescere la forza vitale e respingere le energie disgregatrici. La Commissione per la verità e la riconciliazione non è stata una semplice operazione di archeologia antropologica: essa ha operato non un ritorno, ma un ricorso a elementi della tradizione applicati ai problemi del presente. La tradizione intesa come memoria vigile che attinge al passato per cercare di sciogliere i nodi dell’oggi.

L’intelligenza politica e culturale di Mandela e di Tutu è stata proprio quella di non accontentarsi di un tribunale secondo i canoni consolidati della giurisprudenza internazionale (Tribunale penale internazionale). La forza e l’efficacia dell’operazione stava nella ricerca di una soluzione tipicamente locale, obbediente cioè alla intrinseca com-prensione della società sudafricana. In questo modo il Sudafrica realizzava pacificamente la sua transizione verso la democrazia in un contesto africano dilaniato dalle nuove guerre culminate nel tragico genocidio ruandese dell’aprile del 1994. Si discute e si continuerà a discutere ancora sulle responsabilità e le cause del più importante genocidio di fine Novecento: responsabilità intraruandesi (degli estremisti hutu e delle loro milizie Interahamwe, che seminarono morte e desolazione per tre mesi tra l’aprile e il luglio del 1994); responsabilità esterne al Ruanda (del governo francese, degli organismi multilaterali, l’ONU in primis), come pure dell’impotenza degli organismi panafricani.

Il genocidio ruandese è un momento traumatico nella vicenda storica africana contemporanea che mette gli africani dinanzi alla possibilità concreta della loro scomparsa collettiva come popoli e come culture. Esso diventa l’orizzonte ineludibile di ogni memoria passata, di ogni tentativo di leggere il presente e il futuro del continente e di ogni proiezione verso il futuro. Tutti sono chiamati in causa dai fatti estremi del Ruanda: uomini politici, società civile, mondo ecclesiale, artisti, pensatori e letterati, organismi non governativi. Gli interrogativi per tutti sono gli stessi: qual è l’identità africana dopo il genocidio? Quale progetto comune inventare per gli uomini e le donne d’Africa? E, soprattutto, da dove attingere i nuovi orizzonti di senso antropologico per conferire consistenza alla rinnovata visione del mondo che s’impone?

L’Africa scopre con il genocidio ruandese, dopo i decenni delle declamazioni retoriche sulla violenza del padre (il colonizzatore=Occidente) sul figlio (il colonizzato=Africa), la violenza più incomprensibile del fratello sul fratello. Le pulsioni di morte delle guerre d’Africa esigono l’avvento di una nuova politica della vita, lontana dai miti resi obsoleti sull’Africa che canta la vita, capace di scongiurare la logica fratricida e instaurare su basi sociali e politiche realistiche una pace possibile tra fratelli. In altri termini, l’Africa deve smettere di sentirsi sempre come l’oggetto esposto alla violenza del padre (ossia le forze esterne diversamente nominate: imperialismo, colonialismo e così via). L’affrancamento dal padre pone agli africani l’urgenza etica e politica di interrogarsi sul modo migliore di rendere conto del sangue del proprio fratello per evitare di versarlo in abbondanza come è successo negli ultimi decenni.

L’era Mandela inaugura in questo contesto i cantieri del nuovo secolo africano: il cantiere della democratizzazione e della pacificazione; quello della ricerca della via africana allo sviluppo; quello dell’UA; infine, quello della collocazione del continente nei nuovi scenari della globalizzazione.

Democratizzazione e pacificazione

Il ‘sole dell’indipendenza’ non ha portato la libertà politica che i popoli africani si aspettavano dopo la fine del regime coloniale violento e totalitario. La riappropriazione del proprio destino collettivo da parte degli abitanti del continente non ha coinciso con una maggiore libertà politica, di espressione e di partecipazione. Al di là di poche eccezioni – il Senegal del poeta e fondatore del movimento letterario della negritudine Léopold Sédar Senghor – tutti i Paesi africani hanno sperimentato l’autoritarismo politico e, in molti casi, hanno vissuto sotto feroci dittature guidate da tiranni autocrati e cleptocrati. Qualunque siano state le opzioni politiche delle élites africane – socialismi senza rivoluzioni oppure capitalismi senza capitali né borghesia – il regime del partito unico e la non alternanza al potere hanno rappresentato la norma di governo, corredati dal culto della personalità dei padri fondatori, che concentravano nella loro persona o nella cerchia ristretta di fedelissimi (scelti spesso su basi esclusivamente etniche) i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. Instabilità politica, colpi di Stato ciclici, guerre intestine per la conquista o la conservazione del potere tra le diverse bande etniche rivali, conflitti d’influenza tra i due blocchi della guerra fredda o conflitti regionali in vista delle nuove ricomposizioni geopolitiche dopo la caduta del muro di Berlino hanno conseguentemente informato drammaticamente la vicenda politica africana, avviluppandola in una violenza strutturale durante tre lunghi decenni. Se il compito della politica è quello di essere uno strumento di pace, un mezzo per ricomporre armonicamente dentro la polis, senza ricorso alla forza fisica, gli interessi e i gruppi contrapposti esistenti dentro una collettività, è possibile affermare che le società africane postindipendenza hanno operato dentro un contesto che possiamo definire prepolitico. È evidente in questo meccanismo una drammatica continuità tra regime coloniale e spazio politico neocoloniale. La continuità, cioè, della strumentalizzazione dell’etnicità come fattore disgregante e polemico (da polemos=guerra) nelle dinamiche sociali e politiche. L’esasperazione del fattore etnico e la sua esaltazione come polo unico ed esclusivo dell’organizzazione dello spazio politico creano le condizioni per una guerra tra le etnie per la conquista e la conservazione del monopolio politico –che diventa inevitabilmente anche monopolio sociale ed economico – in assenza di una volontà generale negoziata e condivisa dentro Stati artificiali e arbitrari ereditati dalla colonizzazione. Questo è l’humus sociale e di subcultura pseudoantropologica dove sono prosperate le dittature neocoloniali africane, causa oppure conseguenza del fallimento del progetto nazionale nato con l’indipendenza e dell’incapacità di assicurare a tutti i bisogni primari su basi di cittadinanza e non di clientelismo interetnico o interclanico.

La miscela esplosiva tra legittimità moderna e legittimità tradizionale che ha continuato a connotare lo spazio politico africano anche dopo l’imposizione delle strutture amministrative coloniali è stata fisiologicamente fautrice d’instabilità e di violenza. Le élites moderne hanno giocato sull’ambiguità tra le due legittimità adottando formalmente quella moderna, ma riempiendola strumentalmente di elementi sostanziali arcaici, pescati arbitrariamente dalla tradizione e giustificati con la necessità del ricorso all’autenticità africana. L’autenticità spesso folclorizzata, feticizzata e sclerotizzata è brandita come clava sulle altre e diverse tradizioni etniche presenti nel Paese. Lo spazio politico diventa, allora, spazio di lotta per la vita e la morte tra etnie e gruppi sociali rivali in una specie di homo homini lupus di sapore appunto prepolitico che ha contribuito notevolmente alla stagnazione economica e sociale del continente.

Alla fine degli anni Novanta la maggior parte dei Paesi africani erano impegnati in complessi ma irreversibili processi di democratizzazione. Processi che rappresentano una svolta epocale che taluni hanno etichettato come la seconda ondata delle indipendenze dopo l’immobilismo dei decenni 1960-1990. L’impressione di tutti gli osservatori era che la storia politica bloccata avesse ricominciato a correre verso una maggiore apertura e una più ampia partecipazione popolare. In altri termini, si è diffusa la convinzione che democrazia e buon governo fossero essenziali per l’Africa. E non si tratta solo di un processo determinato dalla caduta del muro di Berlino, la cui spinta al cambiamento ha contagiato i Paesi africani. Né possiamo attribuire l’inizio dei processi di democratizzazione esclusivamente alle pressioni dei Paesi occidentali dispensatori di aiuti economici o catalizzatori di investimenti. Sono, questi, fattori che hanno avuto il loro peso, soprattutto dopo il discorso pronunciato dall’allora capo dello Stato francese, François Mitterrand, al vertice franco-africano di La Baule (Francia) nel 1990. Una parte decisiva nello ‘scatto’ di democratizzazione è stata attribuita anche alla crisi del debito scoppiata negli anni Ottanta con la relativa imposizione da parte del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale delle drastiche misure economiche attraverso i Programmi di aggiustamento strutturale, i famigerati PAS che hanno messo in ginocchio le economie e le società africane.

Ma i processi di democratizzazione sono innanzitutto il frutto della lenta ma sicura maturazione di un’opinione pubblica interna sensibile ai diritti umani, alle libertà fondamentali, al multipartitismo, al superamento dell’etnocentrismo politico. Esiste ed è poco indagata dalle narrazioni giornalistiche una resistenza democratica africana fatta di piccole realtà contadine e cittadine che, con impegno e determinazione, hanno lentamente contribuito a modificare lo spazio, il tempo, l’immaginario sociale e l’ambiente socioeconomico dei territori e delle comunità africani.

Non si comprende nulla dei mutamenti africani d’inizio secolo senza uno sguardo approfondito alla galassia di quello che l’economista camerunese Célestin Monga chiama l’anthropologie de la colère (Anthropologie de la colère. Société civile et démocratie en Afrique noire, 1994). Movimenti di contestazione popolare, nuove frontiere sociali, reti di solidarietà che nascono tra giovani e donne, nuove mentalità e innovativi modi di vivere e di valorizzare i quartieri e i territori rurali permettono una lettura nuova del disagio e delle energie in atto, perché anche in situazioni disperate sia possibile il parto della speranza. Dentro il vortice democratico africano è nato un nuovo tipo di management sociale. Si tratta di gruppi informali i cui attori mutano e si diversificano costantemente, con una coscienza accresciuta dei loro diritti di cittadinanza, e che sono in grado di rivoluzionare l’ordine politico e sociale esistente. La capacità di modificare gli spazi narrativi e storici appartiene alla migliore e costante tradizione delle società africane, lungi dall’essere quelle società ‘fredde’ senza dinamismo, chiuse al cambiamento, evocate dall’etnologia coloniale che le contrapponeva alle società ‘calde’ occidentali. Afriques indociles – titolo di un’opera centrale (1988) dello storico e politologo camerunese Achille Mbembé per leggere la contemporaneità africana in chiave d’insubordinazione all’ordine stabilito – costituisce la trama segreta della resistenza e dell’innovazione africana.

Una parte importante di questa strategia della resistenza inizia e si esprime attraverso lo stravolgimento del campo simbolico dell’universo imposto dal potere e dai dominatori di turno. La dérision collective del potere, del suo campo semantico e della sua praxis accompagna e anticipa il momento della ribellione e del mutamento per colmare con la democrazia il deficit cronico di cittadinanza delle società africane post-indipendenza. La democrazia prenderà piede e si radicherà solo quando una élite politica attenta e in sintonia con i sommovimenti delle viscere profonde delle società si farà carico di trasformarli in progetto politico. Il nuovo protagonismo sociale africano necessita di essere riconosciuto, valorizzato e finalizzato all’edificazione dei nuovi assetti politici in via di definizione. Dal Benin alla Repubblica del Congo, passando per il Camerun, il Gabon, il Mali e il Burkina Faso, fino allo Zambia e al Kenya, ovunque abbiamo assistito alla transizione dall’autoritarismo alla democratizzazione. Adozione di costituzioni liberali con separazione dei poteri, meccanismi di alternanza al governo attraverso elezioni libere e trasparenti, istituzioni di organi di controllo e di garanzia come la Corte costituzionale, la Corte dei conti, i Consigli superiori delle comunicazioni con il compito di provvedere alla promozione dell’indipendenza della stampa, vari organi di tutela dei diritti umani. Una effervescenza libertaria senza precedenti nella storia del continente che ha rappresentato una vera e propria boccata d’ossigeno per le opinioni pubbliche dei Paesi africani spesso imbavagliate e costrette al silenzio. Una stagione caratterizzata dalla saldatura tra tempi della politica e ritmi di nascita, crescita e maturazione del nuovo lievito sociale. L’anthropologie de la colère e dell’insubordinazione popolare è non solo la forma, ma dovrà diventare la sostanza delle nuove aperture politiche del continente. Occorrerà tradurre nei linguaggi, ma anche nell’armamentario simbolico di popolazioni spesso analfabete, le nuove parole d’ordine politiche sostitutive di quelle coloniali e di quelle autoritarie e neototalitarie delle élites locali, responsabili di una rottura senza precedenti tra le istanze vive di una popolazione e di un territorio e le forme della rappresentazione politica e della gestione economica. Occorrerà conferire al demos africano una fisionomia riconoscibile dai suoi protagonisti e una parola sintonizzata sulle onde del vissuto quotidiano di popolazioni che, considerate le condizioni socioeconomiche di esistenza individuale e collettiva, prima ancora che per la democrazia lottano per il rispetto del primo e fondamentale diritto umano: il diritto alla vita o il diritto a non morire. Occorrerà accompagnare adeguatamente la democratizzazione con il rispetto dei diritti umani. Una democrazia senza diritti umani come nello Zimbabwe di Robert Mugabe, senza alternanza al potere come nelle democrazie bloccate del Camerun e dell’Angola con i rispettivi presidenti al potere da più di vent’anni, una democrazia senza una libera discussione è condannata a morire. Ecco perché una lettura della realtà contemporanea africana, che non si accontenti della superficiale fotografia sbiadita di un’Africa statica e condannata alla ciclica ripetizione dei gironi infernali delle guerre, delle carestie, delle pandemie e della stagnazione economica, dovrà fare i conti con la nascita e lo sviluppo del nuovo protagonismo sociale africano.

Ovunque, nelle campagne e nelle periferie degradate delle città, sono in fermento e in azione i nuclei di resistenza e d’innovazione. Essi si costituiscono nelle pieghe dell’informalità e si esprimono al di fuori e, a volte, contro l’ufficialità dei governi e degli organismi di volontariato. Sono i luoghi dove è possibile effettuare una lettura nuova della realtà sociale e politica africana, una radiografia che modifica sostanzialmente le analisi e gli approcci convenzionali e stereotipati incapaci di penetrare la vera essenza dell’altra Africa che esprime il vissuto vivo dei territori e delle comunità. È impossibile captare lo spirito dei tempi dell’Africa contemporanea senza rinnovare e affinare le griglie di lettura e la scelta dei soggetti protagonisti dell’Africa emergente, rintracciabile nelle Afriques indociles delle città e delle campagne.

Quindici anni dopo l’inizio dei processi di democratizzazione, Michael Bratton, docente di scienze politiche e studi africani, e condirettore di Afrobarometer (www.afrobarometer.org), un istituto di ricerca demoscopica che studia le tendenze sociali, politiche ed economiche di numerosi Paesi, compie un bilancio a tinte fosche sui processi di democratizzazione in Africa (Afrobarometro: la democrazia all’africana, in Africa. Il continente grigio, 2005, pp. 164-75). Un’indagine condotta su quattordici Paesi africani (cioè Mali, Lesotho, Ghana, Sudafrica, Malawi, Namibia, Uganda, Botswana, Nigeria, Tanzania, Mozambico, Capo Verde, Senegal, Kenya) dimostra che, anche in Africa, come in altre parti del mondo di recente approdo alla democrazia, la passione democratica di massa è lungi dall’essere permanente e scontata. Sembra, al contrario, affievolirsi con il passare del tempo il consenso popolare alla democrazia. La percentuale degli intervistati che esprime, a seconda dei Paesi considerati, una preferenza per la democrazia oscilla tra il 69% e il 64%. Resta abbastanza alta la percentuale di coloro che rifiutano in ogni caso un governo autoritario, una percentuale che ha subito un declino tra le due interviste (2003-2005), ma che resta alta, dall’82% al 77%. Bratton fa notare, tuttavia, che gli africani non accettano più i regimi militari e le dittature presidenziali. Il rifiuto di questi regimi è più diffuso che non il consenso per la democrazia. Passando dalla domanda all’offerta di democrazia, l’indagine osserva che la soddisfazione nei confronti del funzionamento dei regimi democratici nei Paesi interessati è in declino, scendendo dal 58% al 54%. Secondo Bratton, il grado di soddisfazione popolare diminuisce a mano a mano che la popolazione, dopo le iniziali aspettative ottimistiche, deve fare i conti con la dura realtà dei problemi post-transizione. Ovunque, sulla ‘quantità di democrazia percepita’, il giudizio rimane sospeso. Solo il 50% ritiene che nel proprio Paese la democrazia si sia pienamente realizzata. Bratton precisa che di fronte alle performances dei governi regolarmente eletti, l’opinione pubblica comincia a manifestare scetticismo rispetto al consolidamento della democrazia. Infine, l’indagine attribuisce una grande importanza all’alternanza elettorale nel radicamento della democrazia e nel relativo aumento della quantità di democrazia percepita. Il two turnover test del politologo statunitense Samuel Phillips Hungtington, secondo il quale le democrazie possono considerarsi consolidate se i governi vengono regolarmente cambiati per via elettorale almeno due volte, è stato applicato alle democrazie africane. L’alternanza, secondo Bratton, può contribuire a rilegittimare la democrazia. In effetti, l’indagine ha evidenziato un cambiamento di percezione della quantità di democrazia laddove si è riscontrato un avvicendamento dei partiti al governo tramite elezioni multipartitiche. L’alternanza elettorale, accompagnata da altri istituti di misurazione democratica, contribuisce alla maturazione di una cultura democratica. Tra alti e bassi, dunque, i processi di democratizzazione proseguono. Ma per evitare che le nascenti democrazie africane falliscano alla stregua delle indipendenze, occorre porre fine alle guerre e ai conflitti che insanguinano il continente e ne appesantiscono i progressi politici e gli eventuali successi in termini di crescita economica.

Il 20° sec. si è chiuso per l’Africa con la presenza di decine di tragiche situazioni belliche che hanno trasformato il continente della vita in uno scenario di morte, di distruzioni materiali, di sconvolgimenti sociali, di devastazioni ecologiche, di destrutturazioni antropologico-culturali irreversibili.

Guerra civile della durata di quattordici anni in Liberia, conclusasi con un accordo di pace nel 2003; dieci anni di guerra civile in Sierra Leone, finiti con un accordo di pace nel 2002; ‘prima guerra mondiale’ africana ancora in corso nella Repubblica Democratica del Congo; circa dieci anni di guerra civile nella Repubblica del Congo terminati nel 2002; scontri in Costa d’Avorio tra il Nord (controllato dai ribelli) e il Sud controllato dall’esercito governativo, con un accordo siglato nel 2007; instabilità politica e violenti incidenti di confine riguardo i diritti di accesso all’acqua e ai pascoli nella Repubblica Centrafricana; tensione permanente tra Eritrea ed Etiopia, nonostante i due Paesi del Corno d’Africa, dopo anni di guerra sanguinosa, abbiano finalmente stabilito una demarcazione dei confini; situazione di anarchia in Somalia, ormai sotto l’influenza dei signori della guerra locali, poiché il governo centrale si è rivelato incapace di esercitare un pieno controllo anche sulla capitale Mogadiscio, mentre due regioni, il Somaliland e il Puntland, hanno realizzato una secessione di fatto; feroce pulizia etnica nella regione del Dārfūr, in Sudan (con circa 300.000 morti, 1,5 milioni di senzatetto e 500.000 rifugiati nei campi del vicino Ciad); brutale campagna di rapimenti e uccisioni in Uganda da parte dei ribelli del cosiddetto Esercito di resistenza del Signore, che ha costretto 1,5 milioni di persone a lasciare le proprie case. Ancora: guerra civile e scontri sporadici in Burundi tra milizie etniche che varcano i confini nella regione dei Grandi Laghi verso il Ruanda e le regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo (Africa. Il continente grigio, 2005). Ora l’Africa, dopo gli accordi raggiunti a metà del 2000, sembra più pacificata. Oltre ai costi umani incalcolabili in termini di morti, mutilati, rifugiati e profughi, le guerre civili continuano a devastare le economie africane, con un costo elevatissimo in termini di produzione perduta e distruzione delle infrastrutture. Non si tratta di guerre etniche, espressione d’uso comune nel linguaggio giornalistico e nei saggi di divulgazione destinati al grande pubblico per designare le guerre d’Africa. In questo caso le parole etnia e tribù si equivalgono e, infatti, si parla anche di guerre tribali. Si tratta di un modo riduttivo, etnologico e anacronistico di indicare i fenomeni, al contrario complessi e riconducibili a cause sociopolitiche ed economiche ben definibili e perfettamente coerenti con la tipologia di altre crisi del nostro sistema-mondo (Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Caucaso). Applicata all’Africa l’espressione guerra etnica rimanda a un mondo di violenze e di barbarie ataviche legate a un patrimonio antico di popoli geneticamente violenti e di società strutturalmente assetate di sangue. La guerra etnica come un retaggio tramandato, un’attrazione fatale che si rinnova ciclicamente. In realtà, le guerre d’Africa sono in una drammatica conformità con la natura delle guerre del nostro tempo. Gli ingredienti sono gli stessi: crisi dello Stato centrale, implosione dei quadri nazionali, insorgenza di formazioni e gruppi armati, economie di guerra con sfruttamento delle risorse da parte delle bande armate.

Il genocidio ruandese del 1994, con l’uccisione di 800.000 Tutsi e Hutu; la ‘prima guerra mondiale africana’ combattuta nella Repubblica Democratica del Congo, con oltre tre milioni di morti in un territorio vasto quanto tutta l’Europa occidentale; l’attuale genocidio del Dārfūr nella parte occidentale del Sudan sono guerre locali con connessioni geoeconomiche (crescita e supremazia economica come nuovo parametro regolatore dell’ordine mondiale), geostrategiche e planetarie. Sono le nuove guerre della geopolitica del caos, frutto della caduta del muro di Berlino e del tramonto dei suoi equilibri, dove a contrapporsi non sono più due blocchi ideologici, ma corposi interessi economici e geostrategici di nuovi e vecchi attori globali. Accesso alle materie prime, strategia globale di lotta al terrorismo, conquista di zone d’influenza per il monopolio delle fonti energetiche globali, nuove ambizioni geopolitiche di potenze regionali intra-africane (Nigeria e Sudafrica) costituiscono anche in Africa fattori di conflitti e di destabilizzazione.

In realtà, le guerre d’Africa sono lo specchio dell’Occidente e dei processi di globalizzazione in atto. Quelle armi utilizzate nei conflitti africani fanno parte integrante delle economie dei Paesi maggiormente industrializzati. Quelle materie prime – dal petrolio del Golfo di Guinea e dell’Angola all’uranio del Niger, al coltan utile per le tecnologie informatiche e aerospaziali – foraggiano le strategie nucleari e alimentano la new economy. Quelle devastazioni ecologiche nel bacino del fiume Congo (secondo polmone del mondo dopo la foresta amazzonica) minacciano gli equilibri climatici globali. Quei profughi che vagano da un punto all’altro del continente finiscono per prendere la strada dell’Europa e dell’Italia attraverso le porte di Ceuta e Melilla (le due enclave spagnole in territorio marocchino) e tramite lo specchio di mare che separa le coste italiane dalla Libia.

La pacificazione dell’Africa è una posta in gioco non solo umanitaria, ma strategica per l’Europa e la sua stabilità. È parte fondamentale di quell’agenda per la pace redatta dall’ex segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali nel 1992 e che tarda a diventare realtà nello scenario africano e altrove.

L’Unità Africana e il nuovo piano per lo sviluppo

All’inizio del 21° sec. l’idea dell’unità africana è stata rilanciata come pilastro essenziale della rinascita del continente per aumentarne le opportunità e il peso nei mutati equilibri globali. Nuova capacità di govern-ance, democratizzazione, processo di unificazione e sviluppo economico rappresentano e costituiscono i grandi cantieri panafricani riassumibili nello slogan degli ‘Stati Uniti d’Africa’.

L’idea dell’unità africana appartiene alla storia del pensiero politico continentale dai tempi della lotta per l’emancipazione. Infatti, intorno allo slogan Africa must unit si riunì ad Accra, capitale dell’allora Gold coast britannica, la prima conferenza panafricana in terra d’Africa (1958). La piattaforma di queste assisi, che videro la presenza dei massimi leader nazionalisti africani, contemplava, oltre all’ovvia rivendicazione dell’indipendenza, l’urgenza e la necessità del superamento della balcanizzazione del continente compiuta dalle potenze coloniali alla Conferenza di Berlino (1884-85). Occorreva quindi superare le divisioni artificiali introdotte dalla spartizione a tavolino del continente, decise senza tenere conto delle compatibilità socioantropologiche e delle continuità storiche preesistenti. Nacque così nel 1963, agli albori dell’indipendenza africana, l’Organizzazione dell’unità africana (OUA), tenuta a battesimo dall’imperatore etiope Hailè Selassiè ad Addis Abeba, capitale dell’unica nazione africana ad aver resistito vittoriosamente alle truppe coloniali italiane del generale Oreste Baratieri nella storica battaglia di Adua (1896).

Unità del continente, rafforzamento della cooperazione, emancipazione totale dei territori sotto dominio coloniale, sviluppo economico, ma l’OUA sanciva anche, paradossalmente, l’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione. L’organizzazione diventava così un sindacato di Stati sovrani che presto si sarebbe trasformato in sindacato di capi di Stato paralizzato da divergenze interne dovute in parte alle logiche della guerra fredda, incapace di assicurare la pacificazione e la democratizzazione del continente, impotente di fronte alle sfide dello sviluppo economico, muto e irrilevante nello scacchiere mondiale. Era, pertanto, necessario dichiarare la fine dell’OUA e pensare a una nuova organizzazione in grado di rilevare la sfida dell’unificazione del continente.

La nascita dell’UA, sorta dalle ceneri dell’OUA, fu proclamata ufficialmente nel 2002 a Durban, in Sudafrica. L’anno successivo, durante i lavori del vertice di Maputo, l’organizzazione venne perfezionata con l’istituzione della Commissione, del Parlamento africano e del Consiglio per la pace e la sicurezza, del Consiglio economico, sociale e culturale, della Corte di giustizia e della Corte africana dei diritti umani. Composta da 53 Paesi membri, con l’eccezione del Marocco, l’UA ha come obiettivi principali: operare per la promozione della democrazia, dei diritti umani e dello sviluppo di tutto il continente; favorire l’aumento degli investimenti esteri nelle fragili economie locali; la pace e la democrazia come conditio sine qua non per uno sviluppo sostenuto e sostenibile. Fondamentale è stata, in questi anni, l’azione del Consiglio per la pace e la sicurezza, intervenuto nella crisi scoppiata in Togo nel 2005 e nelle violenze in Burundi e nella Repubblica Centrafricana. Un ruolo più importante potrebbe giocare in futuro, in stretta collaborazione con il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con l’Unione Europea, soprattutto nel potenziamento della dotazione logistica e nel know-how delle operazioni di peacekeeping (mantenimento della pace), di peacebuilding (consolidamento della pace) e di peace-enforcing (imposizione della pace).

La creazione dell’UA era, alla luce dei risultati conseguiti dalla vecchia OUA, una necessità storica. Eppure alcuni osservatori africani fanno notare che anche questa rischia di essere un’operazione di vertice maturata tra leader senza tenere in debita considerazione i vissuti dei territori e delle comunità. L’UA dovrebbe essere la risultante di processi regionali avanzati, nei quali i singoli Stati avranno già compiuto delle significative cessioni di sovranità in termini di libera circolazione dei beni e delle persone, in materie fiscali o riguardanti i codici degli investimenti, in politiche comuni per la tutela di aree ecologiche particolari come l’immenso bacino del fiume Congo o nella lotta contro la desertificazione nelle zone del Sahel. Occorre che l’organizzazione sia la ‘presa d’atto’ dei progressi compiuti dagli organismi regionali già esistenti e soprattutto del progresso dell’idea d’unità nel vissuto delle popolazioni, con tangibili e verificabili vantaggi nella loro vita sociale, economica e negli scambi culturali. Passare dalle operazioni di vertice al momento corale, anticipato dalla praxis collettiva delle popolazioni, rappresenta la grande sfida, tutta da accertare, del nuovo organismo.

L’altro pilastro complementare del nuovo edificio panafricano costituito dalla nascita dell’UA è l’ormai famoso NEPAD (New Partnership for Africa’s Devel­opment). Il ghetto economico, nel quale l’attuale processo di globalizzazione ha relegato il continente africano, ha portato alcuni leader a concepire uno strumento in grado di offrire una chance alle economie africane in agonia. Il NEPAD è nato dalla fusione del MAP (Millenium partnership for the African recov-ery Programme) – promosso dai presidenti Mbeki (Sudafrica), Abdelaziz Bouteflika (῾Abd al-῾Azīz Bū Taflīka, Algeria) e Olusegun Obasanjo (Nigeria) – con l’Omega plan promosso dal presidente del Senegal Abdoulaye Wade. Varato durante il vertice di Lusaka nel luglio del 2001, il piano definisce una strategia economica basata sul finanziamento di quattro settori prioritari: le infrastrutture, l’agricoltura, l’educazione e la salute. Il finanziamento del piano ricade, tuttavia, sulla comunità internazionale e sugli investitori diretti stranieri. Il piano è stato presentato una prima volta al vertice del G8 (G7 + Russia) di Genova nel 2001. La distratta platea di capi di Stato più ricchi accordò poco più che un interesse di cortesia diplomatica agli interlocutori africani. In occasione del vertice di Kananaskis in Canada (2002), invece, il piano è stato nuovamente esaminato e la decisione dei cosiddetti grandi della Terra è stata quella di destinare all’Africa la metà, o qualcosa di più, dell’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo promesso ai Paesi poveri nel marzo del 2002 durante la conferenza delle Nazioni Unite a Monterrey. Per il periodo dal 2002 al 2006, almeno 6 miliardi di dollari dovevano essere destinati allo sviluppo del continente africano. Fondi accompagnati da un’ulteriore riduzione del debito pubblico dei Paesi del continente, ossia una cifra di più di un miliardo di dollari. Il piano, nato con i migliori auspici, si è arenato ed è andato soggetto a numerose critiche, soprattutto interne. I suoi detrattori stigmatizzano alcuni elementi: in primo luogo, si tratta di un piano non solo dipendente interamente dalla buona volontà dei donatori pubblici e privati, ma anche foriero di un’aumentata dipendenza del continente e di subalternizzazione ulteriore delle sue economie al mondo occidentale. Il NEPAD non aiuterebbe a superare il dramma africano dell’inclusione-esclusione dal sistema-mondo, con le sue polarizzazioni tra economie egemoni – detentrici dei monopoli dei flussi di capitali, delle materie prime, dell’energia, della comunicazione e delle armi di distruzione di massa – ed economie subalterne. Ancora una volta l’Africa chiederebbe l’elemosina anziché equità nelle relazioni economiche e commerciali. In secondo luogo, il NEPAD si muove interamente dentro la matrice economica del neoliberalismo imposto all’Africa attraverso i Piani di aggiustamento strutturale dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Non accennerebbe minimamente alla critica concettuale e pratica al cosiddetto Consenso di Washington (1989), la politica di aggiustamento strutturale che introdusse nelle economie del Sud del mondo dosi massicce di privatizzazione e di liberalizzazione che hanno contribuito all’indebolimento degli Stati centrali e alla svendita a capitali esteri di interi settori delle economie locali. Inoltre, il NEPAD rimuoverebbe completamente il nodo legato all’ingente debito dell’Africa e alle sue modalità di pagamento che determinano il taglio generalizzato delle spese sociali (scuola e sanità) e impediscono qualunque possibilità di rilancio. La questione del debito, per questi critici, è conditio sine qua non di ogni trattativa per il rilancio dei rapporti economico-finanziari tra Paesi ricchi e poveri. Infine, il NEPAD ignorerebbe del tutto l’economia informale africana, che costituisce il 70% dell’intera economia continentale. L’altra Africa degli uomini e delle donne che attuano modalità alternative di produzione e riproduzione della ricchezza costituisce la leva senza la quale ogni rilancio economico sarebbe fondato su basi precarie. L’economia informale africana ha palesato un dinamismo, una capacità di resistenza alla stagnazione dell’economia ufficiale – con il corollario dell’implosione della questione urbana e dell’esodo rurale soprattutto dei giovani –, un’attitudine all’innovazione che meritano attenzione per ogni processo di rilancio e di ridefinizione dell’economia del continente.

Nonostante queste critiche condivisibili, la grande novità del NEPAD è il fatto che sono gli africani stessi a doversi persuadere di essere in grado di incidere sulla loro condizione. Nella convinzione della forza morale del continente e dell’abbondanza e diversità delle sue risorse, il documento introduttivo al NEPAD traccia la mappa dei compiti che attendono i dirigenti africani nei prossimi decenni: rafforzare i meccanismi della prevenzione dei conflitti, soprattutto a livello regionale; promuovere e proteggere la democrazia e i diritti umani nelle rispettive aree regionali attraverso standard accettabili di credibilità, trasparenza e condivisione del potere, sia all’interno del Paese sia nelle divisioni territoriali inferiori; garantire la stabilità macroeconomica con adeguate politiche monetarie e fiscali; sostenere trasparenza e legalità nei mercati finanziari e nella gestione delle imprese pubbliche e private; rivitalizzare ed estendere l’educazione e la formazione tecnica; facilitare l’accesso al credito; valorizzare il ruolo delle donne consolidando la loro capacità nei settori dell’educazione e della formazione, dell’accesso al credito, della partecipazione; rafforzare i quadri giuridici e legislativi in grado di assicurare il rispetto della legalità e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

E domani l’Africa

Al di là della spinta visionaria della African renaissance, possiamo domandarci a che punto è il continente nelle sue trasformazioni interne e nel suo posizionamento globale. Metodologicamente è possibile affermare – considerando la situazione economica, geopolitica e la stabilità interna agli Stati – che gli scenari africani si presentano in modo variegato. Dobbiamo sempre abituarci a considerare le Afriche, dissipando in questo modo l’idea di Africa come di un gigantesco mare magnum dei perdenti della globalizzazione. In altri termini, se è lecito identificare situazioni e problematiche comuni ai quarantasette Stati che compongono l’arcipelago africano a sud del Sahara, bisogna immediatamente ricordare che le Afriche sono diverse. Sembra scontato, ma non è sempre così. Abituandoci a considerare le Afriche invece dell’Africa, ci sono ragioni, cifre e dati che inducono a superare l’afropessimismo di comodo propenso a dipingere sempre e comunque lo show down imminente dell’intero continente. È suggestiva, pertanto, l’indicazione dello studio monografico dell’Aspen Institute: «Il continente nero non è solo tale. Alle cifre spaventose che tutti noi conosciamo – sulla povertà, l’AIDS, le guerre – si aggiungono cifre diverse, che però non vediamo. È l’altro volto dell’Africa, il volto buono che trascuriamo: una crescita economica media del 5%, anche se la regione subsahariana resta l’unica a essersi impoverita in senso assoluto negli ultimi due decenni; progressi democratici in una serie di Paesi, dal Kenya alla Nigeria; la diminuzione del numero di conflitti, nonostante i Grandi Laghi e il Dārfūr. Secondo la Banca mondiale, soltanto il 15% della popolazione dell’Africa subsahariana godrà effettivamente di questi sviluppi nel prossimo decennio. […] Il continente nero sta diventando un continente grigio» (Africa. Il continente grigio, 2005, p. 5).

Anche dal punto di vista geopolitico, l’Africa è destinata a contare ancora. La sua marginalità spesso evocata alla fine della guerra fredda è, in realtà, solo apparente. Il nuovo gioco geopolitico per l’accaparramento delle risorse energetiche tra la potenza attuale (Stati Uniti) e le potenze emergenti (Cina e India) ha di fatto rimesso al centro della competizione il continente africano e le sue riserve in petrolio, gas, materie prime di ogni genere e prodotti strategici come il rame, l’uranio e il coltan. In questa nuova spartizione, la Cina sta correndo più degli altri. La sua presenza capillare in tutto il continente, dall’Angola al Sudan, e in tutti i settori chiave delle economie e della finanza africane, rappresenta la grande novità geopolitica del momento. Il colosso asiatico trae dall’Africa un terzo del suo fabbisogno energetico e il commercio Cina-Africa ha subito un aumento del 36% nel 2005 sfiorando i 40 miliardi di dollari.

A contrastare questo protagonismo cinese sono gli Stati Uniti, tornati a essere protagonisti in Africa per gli stessi motivi della Cina (15% delle importazioni americane di petrolio, che si prevede aumenti fino al 25% nel 2015), ma anche per contrastare la penetrazione integralista e terroristica nel continente, soprattutto nel Corno d’Africa, in Nigeria e nel Maghreb. Recentemente l’amministrazione americana, sotto l’impulso delle chiese evangeliche e dei gruppi di pressione afroamericani, ha cominciato a impegnarsi sul terreno del contenimento delle pandemie e della pacificazione dei territori devastati dalle guerre.

Resta da capire se l’Europa riuscirà a mantenere la sua presenza in un continente con il quale intrattiene relazioni storiche, culturali, politiche ed economiche da più di cinque secoli. L’Africa, continente in bilico tra pace e guerra, tra povertà e sviluppo, tra totalitarismi e democrazia, tra identità e alienazione, interroga e aspetta il suo dirimpettaio, l’Europa. Negli scenari globali in pieno mutamento, lo spazio eurafricano è una necessità e un interesse comune alle due sponde del Mediterraneo. Il presente e il futuro dell’Africa, in termini di processi di democratizzazione, crescita economica, pacificazione e conservazione di un’identità ferita ma viva, designano l’Europa quale interlocutore obbligato. Sotto questo profilo l’Africa è non solo lo specchio del passato dell’Europa, ma è il riflesso della sua contemporaneità. Com-prendere l’Africa è un esercizio che impedisce all’Europa di vivere della sola preservazione di sé per aprirsi all’altra parte di sé stessa, ossia la terra incognita, l’Africa di ieri e di sempre, l’Africa di oggi.

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