La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Le scienze della Terra

Storia della Scienza (2002)

La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Le scienze della Terra

Nicoletta Morello

Le scienze della Terra

Nei secc. XV e XVI la scienza ha assunto una configurazione notevolmente diversa dal passato. Accanto a discipline di tradizione antica come la medicina, la matematica e l'astronomia ‒ rinnovate in grado diverso ‒ nuovi saperi hanno via via acquistato autonomia di contenuti e di metodi, dando luogo alla comparsa di scienze nuove tra le quali quelle che attualmente confluiscono nelle cosiddette 'scienze della Terra'. Esse costituiscono attualmente un insieme che, nel tempo, ha accorpato ‒ più per i contenuti e le finalità che per il metodo ‒ ambiti assai vari ma convergenti nello studio della Terra, nel tentativo di ricostruirne anche la storia evolutiva a partire dai primordi. Questa finalità, peculiare della geologia, che nel XVII sec. era ancora una disciplina in fase embrionale e variamente orientata, non è mai stata condivisa dalla geografia, dalla cartografia e dalla topografia seicentesche, il cui intento principale era piuttosto la descrizione letteraria, il rilevamento e la rappresentazione grafica ‒ con mezzi matematici e apparati strumentali ‒ di porzioni più o meno ampie di terre e di mari o dell'intera superficie terrestre. Sebbene lo stimolo allo sviluppo di queste scienze tra il XVI e il XVII sec. debba essere ricondotto a fattori di diversa natura (traffici, navigazione oceanica, espansione economica, politica e religiosa, ecc.), i dati da esse rilevati s'innestano anche nelle descrizioni esplicative fornite dalla geologia, così come i problemi e le soluzioni della cartografia sfociano in ricerche che intersecano direttamente la fisica, quali la geodesia, la gravimetria e la geofisica della tarda Età moderna.

Lo sviluppo delle scienze in questione non è stato né lineare né sincrono: in molti casi esse neppure risalgono a una radice culturale comune, essendo legate a una realtà polimorfa che, ancora nel Seicento, convogliava da tradizioni differenti, dai contenuti a volte contrastanti, le conoscenze e le spiegazioni con cui si cercava di svelare gli arcana della Natura. D'altronde, nemmeno gli effetti della Rivoluzione scientifica sono stati rapidi e immediati: l'affermazione della scienza moderna, infatti, è stata il risultato di sforzi notevoli e tentativi ripetuti che lentamente hanno portato all'abbandono della scienza dell'Età classica. L'emergere delle nuove forme e dei nuovi contenuti del sapere, comunque, era radicato anche in un tessuto connettivo, sociale e culturale, che nei secoli precedenti si era formato insieme alla città, alla sua vita politica, ai suoi abitanti, ai mestieri che in essa si svolgevano, ai traffici in cui era coinvolta; tutti elementi dai quali la città traeva la propria ricchezza economica e culturale. Basti ricordare che nel corso del Trecento, mentre l'aristotelismo, dopo un'operazione massiccia di cristianizzazione, si era affermato nelle università, fuori di esse si stavano sviluppando altri tipi di sapere e altre sedi di apprendimento. Le matematiche, per esempio, erano insegnate, in volgare, nelle scuole d'abaco insieme a nozioni di merceologia, di tecnica bancaria, di pratica commerciale, di metrologia e di determinazione della posizione geografica su mare e su terra. A differenza di quanto accadeva nelle università, di queste discipline non si apprendevano i presupposti teorici (o i percorsi dimostrativi) ma gli esiti finali, di immediata applicazione alle diverse esigenze dei vari mestieri (donde anche il primo sviluppo dell'algebra). In questo modo si attuava l'istruzione professionale di mercanti, pittori, scultori, ingegneri, architetti, tecnici metallurgici e così via.

Nelle corti principesche e nei cenacoli letterari, d'altronde, s'incontravano medici, artisti e pratici con conoscenze e competenze differenti, acquisite nelle università ma anche nelle botteghe, oppure maturate all'interno del movimento umanistico che, in larga misura ostile alla Scolastica, si poneva criticamente nei confronti dei contenuti e dei metodi dell'istruzione universitaria. In questo contesto, nel corso del Cinquecento, le informazioni che provenivano da mestieri svolti a contatto con gli oggetti naturali erano riconosciute e valorizzate come strumenti complementari alle fatiche filologiche degli umanisti che affrontavano la revisione delle opere scientifiche dell'Età classica e che, in ottemperanza alle norme dell'esegesi testuale, dovevano comprendere i contenuti del testo e avere, quindi, competenza in materia. Ultimo termine della comparatio filologica erano perciò le res naturales. Questo confronto, che in molti campi del sapere rendeva evidente la limitatezza delle conoscenze degli Antichi, lasciava intravedere, per contro, la grande varietà dei prodotti della Natura, anche inorganica, e stimolava la realizzazione di opere originali nelle quali si fondevano atteggiamenti critici verso le fonti antiche insieme alle novità attinte da fonti nuove (osservazioni personali, conoscenze dei pratici e così via).

Nel XVII sec. la revisione dei contenuti dell'aristotelismo, nelle sue numerose varianti e successive contaminazioni, era ancora un momento centrale della riflessione scientifica. Ciò non significa che non si prendessero in considerazione altri orientamenti filosofici, tra i quali il platonismo e l'atomismo lucreziano, ma la cosmologia aristotelica rimaneva un edificio teorico imponente, i cui principî metafisici appagavano l'esigenza di una spiegazione razionale dell'Universo sensibile nella sua totalità: dal cielo delle stelle fisse fino all'interno del corpo terrestre. Nel corso di tale revisione, si approfondì in modo nuovo lo studio dei fenomeni che lo stesso aristotelismo aveva già indagato: in primo luogo quelli del mondo inorganico, la conoscenza dei quali si basava, fin dall'Antichità e con continuità di trasmissione, sui Meteorologica di Aristotele più ancora che sulle sintesi della Naturalis historia di Plinio, modello delle enciclopedie latine medievali.

Mondo inorganico e aristotelismo

Oggetto dell'indagine di Aristotele nei Meteorologica sono i fenomeni e i corpi del mondo sublunare. Entrambi sono considerati effetti di potenzialità generali della Natura, riconducibili all'azione degli elementi, delle qualità e soprattutto dell''esalazione secca' (fuoco potenziale o pneuma) e dell''esalazione umida' (vapore) a essi associate. Aristotele riteneva che queste esalazioni fossero particolarmente attive nel mondo inorganico, nel quale agivano in modo differenziato e non casuale dando luogo a due tipologie di fenomeni e di corpi. L'esalazione secca era considerata responsabile dei venti, dei terremoti, della salinità del mare, dei fulmini, dei turbini e della maggior parte dei fossilia, termine con il quale si comprendeva un'ampia e generica categoria di corpi come cristalli, rocce, minerali, pietre e fossili veri e propri. Si riteneva che questa esalazione, per raggiungere il suo luogo naturale che era la sfera dell'aria, battesse violentemente contro le volte e le pareti delle cavità terrestri nelle quali era racchiusa. La superficie del pianeta, fragile in corrispondenza delle caverne e delle gallerie sotterranee che la attraversavano, si sollevava e si rompeva per le sollecitazioni dell'aria che, uscendo con violenza, spesso s'incendiava. In questo modo avevano origine le eruzioni e ogni altra attività vulcanica, che quindi erano concepite come effetti collaterali dei terremoti e ricondotte all'azione dell'aria sotto forma di fuoco potenziale.

L'esalazione umida, invece, generava le nubi, la pioggia e la neve, le acque sorgive, la brina, la rugiada, i grandi mutamenti di rapporto tra terre emerse e mari ‒ cui gli Antichi attribuivano le modificazioni lente e graduali della superficie terrestre ‒ nonché i metalli, differenti dagli altri corpi inorganici in quanto fusibili dal calore.

Le due esalazioni intervenivano anche nella circolazione delle acque, superficiali e sotterranee. Diversamente dai suoi predecessori, Aristotele riconduceva la questione dell'origine delle acque dolci e della salinità delle acque marine a due gruppi diversi di fenomeni, così come diverse erano considerate le acque continentali da quelle dei mari e dell'oceano: dolci, sorgive, correnti e prodotte di continuo dall'esalazione umida le prime; stagnanti, prive di un'origine e rese salate dall'esalazione secca le seconde, collocate nella successione delle sfere a occupare il posto dell'acqua, ancorché dell'acqua esse non fossero affatto il 'principio'. Data la definizione di sorgente come "punto in cui confluisce l'acqua che di continuo si genera e si raccoglie" (Meteorologica, II, I, 353b20), Aristotele reputava che le acque correnti, tutte sorgive, non potessero avere origine né da depositi né da un abisso interno alla Terra e nemmeno dal mare, filtrando attraverso meati sotterranei. I fiumi avevano origine dalle sorgenti che scaturivano ai piedi dei monti, cioè dai luoghi nei quali si raccoglieva l'acqua che si formava continuamente per raffreddamento e condensazione del vapore d'acqua all'interno della Terra e che poi percolava lentamente (acque sotterranee). Quest'acqua si aggiungeva a quella di origine atmosferica che seguiva il ciclo idrologico. Il mare ‒ cioè l'insieme delle acque salate ‒ era ciò che rimaneva dopo che la parte più leggera dell'acqua, 'potabile e dolce', più volatile, per così dire, dell'acqua salata, si sollevava verso l'alto in forma di vapore, secondo un processo continuo. Il raffreddamento, che condensava l'umido in gocce, la riportava in basso sotto forma di pioggia, in un ciclo perenne. Un ulteriore apporto derivava sia dalle acque assorbite dai monti come da una spugna, raccolte e poi ridistribuite a valle, sia da quelle derivate dall'aria ascendente lungo un rilievo.

Per Aristotele, in sintesi, le acque fluviali e quelle marine presentavano una sola rilevante differenza: le prime erano correnti e le seconde stagnanti. In ragione di questa definizione, il mare non solo non aveva sorgenti, ma non poteva neppure essere considerato l'origine delle acque dolci di cui era, pertanto, solo il termine. Nei Meteorologica ‒ la cui influenza si mantenne per secoli ‒ Aristotele delineava dunque l'immagine della Terra permeata dall'azione disgiunta delle due esalazioni che differenziavano la natura dei fenomeni e dei corpi inorganici. La morfologia della superficie terrestre poteva essere modificata da eventi occasionali e catastrofici dovuti all'azione del pneuma, e poteva essere trasformata, ma in questo caso lentamente e gradualmente, dagli effetti dell'esalazione umida. Sulla superficie terrestre operava anche l'azione erosiva e costruttiva della circolazione dei corsi d'acqua dolce che, pur fondendosi infine con quella salata del mare, manteneva tuttavia la propria individualità che le proveniva dall'esalazione umida. All'interno del corpo terrestre ‒ solido ma forato da caverne e attraversato da meati nei quali dominava l'esalazione secca sotto forma di fuoco potenziale ‒ si trovavano tutti i fossilia, anch'essi distinti in due gruppi da caratteri geneticamente connessi all'esalazione produttrice.

Quando, con l'assorbimento della cultura araba, l'Occidente latino venne a diretto contatto con le opere dei Greci (attraverso le traduzioni latine dei testi già tradotti e commentati in arabo), le conoscenze ‒ e le scienze ‒ che derivarono da quest'incontro furono fortemente influenzate da una visione della Natura magica e razionale al tempo stesso (basti pensare all'astrologia). Le operazioni del microcosmo ‒ che riguardavano l'uomo e il mondo sublunare ‒ avvenivano secondo i principî della fisica, della biologia e della meteorologia aristoteliche e, al tempo stesso, sotto l'influenza delle sfere celesti che ne connotavano, quindi, anche le caratteristiche, le funzioni e le finalità.

I corpi inorganici, noti da secoli attraverso la tradizione non scritta dell'uso (arti, mestieri, preparazione di farmaci e così via), erano inventariati e descritti nei lapidari con le loro proprietà magiche e terapeutiche e con i significati simbolici di cui erano stati rivestiti. Ogni oggetto presente nei lapidari ‒ gemme, pietre, minerali, fossili ‒ aveva la sua identità e la sua storia. Le proprietà e la morfologia peculiari di ogni tipo di fossilia erano ricondotte alle particolari condizioni della loro formazione e le teorie chiamate in causa per spiegarne l'origine fondevano ipotesi differenti (le segnature, le influenze celesti, l'azione della vis lapidifica e così via) in una comune matrice teorica che si richiamava ancora e soprattutto ad Aristotele e ai Meteorologica.

A partire dal Tardo Medioevo, all'influenza dei cieli sulle vicende della Terra, dei suoi fenomeni e dei suoi corpi, non raramente si sostituì, in una rilettura di chiara impostazione cristiana, l'azione diretta di un santo. In tal modo, trovava conferma negli scritti agiografici il potere di alcuni oggetti inorganici come le glossopetre, che erano pietre 'figurate' cui si attribuivano proprietà terapeutiche, usate come farmaci e successivamente riconosciute come fossili. Anche per contrastare i fenomeni naturali, soprattutto se parossistici come terremoti ed eruzioni vulcaniche, ci si rivolgeva al patrono locale, per esempio san Gennaro a Napoli e sant'Agata a Catania, in quanto protettore da invocare a tutela della vita e per la cessazione del disastro.

Nella pagina sacra ‒ ma anche nella letteratura latina, fonte culta profana ‒ il Diluvio universale è inteso come uno degli eventi portanti della storia dell'umanità. A testimonianza della coincidenza di una verità naturale e di una verità di fede vi erano, sparse sulle terre emerse, le conchiglie fossili di animali marini, le uniche, tra le pietre 'figurate', alle quali fosse riconosciuta la virtus di documenti o prove del Diluvio biblico. Questo fenomeno, esclusivamente acqueo, poneva agli esegeti, e più tardi anche agli studiosi della Natura, il problema della provenienza delle acque diluviali, celesti ma anche 'terrestri', come recita la Genesi. Per risolvere questa difficoltà, anche a partire da un'altra suggestione naturalistica di derivazione biblica ‒ "tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro meta, i fiumi riprendono (revertunt) la loro marcia" (Ecclesiaste, I, 7) ‒ si costruiva a tavolino una Terra in cui esistevano collegamenti sotterranei tra fondo marino e corsi d'acqua, oppure un grande abisso che occupava il centro del pianeta. Un secondo modello terrestre si associava, dunque, a quello di derivazione aristotelica.

Intanto, nei secc. XVI e XVII, si andavano costituendo, anche con statuti autonomi, le istituzioni alternative alle università, nelle quali si affrontava l'indagine della Natura con finalità descrittive e sistematiche vagliate anche attraverso un approccio di tipo empirico. È questa la caratteristica più evidente delle attività che si svolgevano in seno ai musei naturalistici (e ad alcune accademie), attrezzati come i laboratori odierni e dotati di cospicue biblioteche dove si studiavano le pietre, i fossili, le piante e gli animali e dove si apprendeva il mestiere del naturalista.

I fossili

Nel corso del XVII sec. si sono delineati, come specifici oggetti d'indagine del mondo inorganico, molti degli argomenti che, come s'è detto, nei Meteorologica costituivano insiemi di fenomeni distinti in base alla teoria delle due esalazioni. Accanto a essi, comunque, sono affiorati problemi 'moderni' come la questione dell'origine dei fossili e del Diluvio universale, sui quali era incentrato il nucleo principale degli argomenti della paleontologia e della geologia nascenti.

Nella ricca letteratura seicentesca a stampa si riscontra una continuità tematica ‒ che si tramanda al secolo successivo ‒ rivolta alla spiegazione dell'origine delle grandi strutture geologiche (montagne, bacini marini, crosta superficiale e assetto geofisico), delle loro principali fisiologie (percorso delle acque marine e di quelle superficiali, sismicità e vulcanismo), della loro forma e dimensione, nonché di fenomeni, come il Diluvio e la litificazione dei resti organici, che si presumeva avessero scandito i principali momenti della storia della Terra.

Gli accorpamenti tra argomenti diversi e la loro trattazione non presentavano sempre una demarcazione analoga a quella che si riscontra nelle discipline attuali. Per esempio, le ricerche in campo mineralogico e cristallografico erano ben distinte le une dalle altre e perseguivano finalità differenti: la mineralogia aveva uno scopo pratico, applicativo e intenti sistematici; la cristallografia, invece, nasceva prevalentemente nell'ambito dell'ottica ‒ che cercava di spiegare il comportamento della luce nei cristalli e i loro diversi colori ‒, della geometria ‒ che indagava l'assunzione della forma angolata e la costanza degli elementi caratteristici ‒ e infine delle ricerche, anche empiriche, sulla struttura della materia. Per esempio, si tentava di ricavare cristalli per accorpamento di materiale da soluzioni sature, cercando di individuare le leggi che presiedevano alla formazione dei corpi cristallini, anche in polemica con l'antica ipotesi della genesi dei cristalli dall'acqua. Solo successivamente ‒ soprattutto nel tardo XVIII sec. ‒ queste discipline interagirono con le scienze della Terra. L'associazione all'ambiente umido dell'assunzione della forma cristallina rimane, per esempio, uno dei capisaldi della mineralogia di Abraham Gottlob Werner (1750-1817), soprattutto nella spiegazione della forma poligonale dei basalti colonnari.

La specificità degli argomenti trattati, tuttavia, non deve indurre a credere che gli studiosi della Natura fossero 'specializzati' nel senso attuale del termine, né che le scienze naturali avessero già la stessa coerenza interna e il rigore di metodo che acquisiranno in fasi più mature della loro storia. L'adozione di una sola chiave di lettura per indagare lo sviluppo delle conoscenze del mondo inorganico nel XVII sec. difficilmente permette di cogliere l'articolazione e la varietà di atteggiamenti che, in merito ai principali argomenti fin qui considerati, potevano convivere in questo periodo storico. Ciò, inoltre, non agevola la comprensione delle trasformazioni che sono avvenute gradualmente, non solo per i contenuti ma anche per le sedi e gli uomini che contribuirono alla costruzione di queste scienze. Nuovo e noto mantengono spesso lo stesso valore; esiste, piuttosto, un intreccio di domande e risposte attorno alle varie e numerose 'questioni' sollevate ripetutamente nel corso del Seicento: questione geomorfologica, geodetica, paleontologica, orogenetica, diluviale e così via.

Durante il XVII sec., comunque, i temi della tradizione antica si sono rinnovati nella loro impostazione teorica, convalidata da numerosi e nuovi dati di osservazione e da conoscenze empiriche tratte, per esempio, dalle applicazioni pratiche nel mondo del lavoro. L'attenzione verso singole categorie di fenomeni o verso uno solo di essi, ma emblematico, si è accentuata all'interno del contesto teorico in cui è maturata la Rivoluzione scientifica. Il congedo da alcuni capisaldi dell'aristotelismo imperante, con l'abbandono, nel processo della conoscenza scientifica, delle 'qualità' e del ricorso a principî metafisici nella ricerca delle cause, modifica profondamente l'indagine della Natura, i cui fenomeni possono essere colti nella loro individualità e contingenza, interpretati attraverso ripetute 'esperienze' e dimostrati deduttivamente, more geometrico. È in questo contesto che si coglie la nuova funzione assunta dall'informazione geografica e dall'esplorazione del territorio, sia esso lo spazio aperto della conquista politica, commerciale e religiosa ‒ i cui dati confluiscono nel disegno della morfologia terrestre ‒ sia, invece, quello circoscritto entro limiti locali.

Almeno nella prima metà del XVII sec., la geologia e la paleontologia erano strettamente connesse. La questione dei fossili si sviluppava in combinazione con ipotesi sulla formazione degli strati di seppellimento e, quindi, sulla genesi della crosta terrestre. In merito al Diluvio, che cominciava a essere spiegato in termini razionali come un fenomeno naturale, si andavano diffondendo altre ipotesi ‒ trasgressioni marine e inversione totale tra terre emerse e sommerse ‒ che soddisfacevano alcuni dati di osservazione e alcuni presupposti teorici ma valutavano in modo diverso, e talora opposto, dati di più difficile e ambigua lettura.

Il Diluvio universale, nella versione biblica, era un evento globale della durata totale di un anno. La rapidità e la globalità dell'evento, tuttavia, non spiegavano necessariamente alcuni fenomeni riscontrabili nella Natura vivente: l'origine organica e la contemporaneità della formazione dell'attuale morfologia terrestre, la disomogenea distribuzione geografica dei fossili e l'eterogeneità delle specie associate. L'osservazione del fatto che alcuni fossili fossero tipici di determinati terreni non conduceva alla formulazione di concetti o di metodi stratigrafici, ma era funzionale all'ipotesi delle trasgressioni o delle teorie petrografiche che vincolavano a un particolare tipo di terreno la produzione di un certo tipo di pietra 'figurata'.

Le trasgressioni del mare, ripetute nel tempo e di estensione locale, davano ragione dei ritrovamenti peninsulari e insulari dei fossili, ma non della loro presenza nelle rocce diagenizzate e in aree epicontinentali. Inoltre quest'ipotesi generalmente era molto vaga (aliis saeculis aliis locis) e incompatibile con il calendario di una storia che lasciava intravedere tempi lunghi. La difficoltà di accettarla non consisteva tanto nel contrasto con la storia biblica, quanto nella sua incapacità di sostituire la certezza della cronologia biblica con una cronologia naturale altrettanto certa.

Una variante all'ipotesi del Diluvio e delle trasgressioni era data dalla supposizione che, durante questi eventi, si fosse verificata una totale inversione dei fondi marini con le terre emerse prediluviali. In tal modo si sarebbero spiegate agevolmente sia le associazioni caotiche dei fossili sia la distribuzione particolare di alcuni di essi, purché sparsi sul terreno. Questa ipotesi non spiegava, invece, l'inclusione in rocce compatte, a meno che non fosse associata alla supposizione di un totale scioglimento della crosta terrestre sotto le acque del Diluvio. Ciò avrebbe comportato, però, la dissoluzione delle catene di montagne che, invece, secondo il dettato biblico non solo erano state create da Dio, ma erano sopravvissute alla furia del Diluvio, dato che, come racconta il libro della Genesi (VIII, 4), sulla cima di una di esse si arenò l'arca di Noè.

Già nel Cinquecento la questione dell'origine dei fossili aveva contrapposto i petrografi ‒ che ritenevano i fossili pietre, ancorché di forme speciali ‒ e gli zoografi che, riconoscendo nei tratti morfologici gli animali di appartenenza, ne sostenevano invece l'origine organica. Tale contrapposizione poteva anche, ma non necessariamente, corrispondere a due diversi percorsi dell'istruzione naturalistica: quello universitario, dotto, di impianto aristotelico-scolastico, che collocava i fossili tra i fossilia, e quello acquisito presso le istituzioni alternative alle università, più sensibili all'indagine diretta della Natura. Una delle prime risposte seicentesche al problema dell'origine dei fossili fu avanzata da Fabio Colonna (1567-1640). Laureato in utroque iure, figlio di un umanista e membro della cesiana Accademia dei Lincei di Napoli, Colonna si interessò alla botanica e per compiere il suo 'apprendistato' frequentò, sempre a Napoli, le stanze del museo di Ferrante Imperato, famoso come speziale e per il suo museo naturalistico. Colonna fu così introdotto agli studi zoologici e mineralogici ai quali dedicò numerose osservazioni ed esperienze, condotte con appositi apparati (acquari, fornetti) e strumenti. Nel 1616 pubblicò, in appendice a un trattato sulla flora dell'Italia meridionale, alcuni scritti zoologici e la De glossopetris dissertatio, operetta nella quale affronta la dimostrazione dell'origine organica delle glossopetre, la cui fama terapeutica era legata a diverse tradizioni, ma soprattutto alla vita di san Paolo e alla qualità del terreno di Malta, dove si trovavano in abbondanza. Secondo la lezione più diffusa, san Paolo, rifugiatosi sull'isola dopo un naufragio e morso da un serpente, avrebbe punito tutto il genere di quegli animali privandolo dei denti (o della lingua) e avrebbe conferito alla terra melitense la proprietà di produrre 'denti' dotati di virtù terapeutiche. Questa spiegazione, soddisfacente per i petrografi, non trovava però consenso tra gli zoografi a causa della forte somiglianza delle glossopetre con i denti degli squalidi.

La dimostrazione di Colonna poggiava sul rigore argomentativo e sul metodo di ricerca che caratterizzava la nuova scienza, e si articolava in due dimostrazioni che si implicavano vicendevolmente. Una era diretta a confutare l'idea dell'origine inorganica (le glossopetre non sono pietre) e l'altra era a favore dell'origine organica (le glossopetre sono denti di squalo pietrificati e quindi resti di organismi viventi). La comparazione tra forma esterna e struttura interna di denti recenti e fossili, tra le differenze anatomiche dei denti di una stessa bocca, tra le dissomiglianze strutturali di glossopetre e pietre, unitamente a una concessione ai principî aristotelici della dipendenza della forma dalla funzione e del finalismo della Natura ‒ "nihil frustra Natura facit" (De glossopetris dissertatio, p. 32) ‒, erano gli argomenti specifici, biologici, e i supporti teorici della dimostrazione di Colonna. Essa si concludeva con il riscontro dell'identità tra glossopetre e denti di squalo, come caso più semplice di fossilizzazione di cui Colonna individuava anche altri tipi più complessi (modelli interni, impronte, ecc.). Di qui l'estensione dell'origine organica a tutte quelle 'pietre' la cui forma esterna suggerisse, al primo colpo d'occhio, una morfologia animale.

I soli argomenti trattati marginalmente erano la modalità e il tempo del seppellimento dei resti organici. Senza fare ricorso al Diluvio universale, Colonna ricollocava i fossili nel regno originario di appartenenza, cioè il mondo vivente. Suggeriva l'ipotesi di trasgressioni marine, pur limitatandosi a un breve accenno che certo non rispecchia il dibattito che si andava svolgendo a riguardo.

L'ampia diffusione dell'opera di Colonna non porterà alla soluzione della questione circa la natura e l'origine dei fossili. Il dibattito si allargherà, piuttosto, all'Italia e all'estero, assumendo una nuova fisionomia: da un lato, esso stimolerà la creazione di più forti legami con la zoologia per l'individuazione dell'analogo vivente delle 'pietre' (per collocare nella giusta posizione sistematica ogni fossile), d'altro lato, le diverse modalità di reperimento dei fossili riproporranno il problema, non risolto da Colonna, del loro seppellimento.

Il corpo terrestre e la questione delle fontane

Indipendentemente dai fossili l'interesse rivolto alla Terra come corpo errante si trasferì anche al pianeta come corpo terrestre, sede di dinamismi propri che divennero oggetto di indagine specifica. I suoi fenomeni e i suoi corpi inorganici attirarono una rinnovata attenzione da parte sia dei cosmologi sia di coloro che, secondo l'insegnamento di Galilei, indagavano la Natura in modo analitico e ne descrivevano i fenomeni more geometrico riconducendoli a comportamenti fisici che ne consentissero anche una valutazione quantitativa.

Alla tradizione degli scritti di cosmologia appartengono i Principia philosophiae (1644) di René Descartes. Nella quarta parte dell'opera, dedicata alla Terra, l'autore tratta dei fenomeni che aveva escluso da Les météores (1637) e da Le monde (composto tra il 1629 e il 1632) ‒ le comete, i minerali e i terremoti ‒ nell'operazione di ridefinizione della meteorologia tradizionale, soprattutto scolastica.

Secondo Descartes tutti gli effetti che si verificavano in Natura avevano come cause o principî le particelle e il moto che le agitava. Anche la formazione della crosta terrestre poteva essere ricondotta alle proprietà e al moto delle particelle che avevano diversificato, nel tempo, le tre diverse regioni sovrapposte in cui la crosta terrestre era considerata suddivisa. Esse erano pervie e attraversate, nei loro interstizi, da particelle più minute che appartenevano ad altre regioni. La luce, la gravità, il calore e la continua agitazione delle particelle celesti a contatto con quelle della terza e più esterna regione, costituivano le quattro 'azioni' che davano origine ai corpi terrestri. Luce e calore, poi, avevano prodotto un quarto corpo, più superficiale, solido e spesso, composto da strati sovrapposti, e che si era frantumato, ricadendo in seguito sulla regione solida sottostante, di diametro inferiore. Perduta in tal modo parzialmente l'orizzontalità, questa crosta superficiale aveva delineato la morfologia della superficie terrestre fatta di valli, montagne, bacini marini e dell'apparato sotterraneo di cavità e meati che contenevano soprattutto acqua e aria. Era in questa morfologia che, sempre secondo Descartes, erano radicati i principali fenomeni geologici.

Irradiazione solare, calore interno del pianeta ed esalazioni miste a succhi e terre, erano i responsabili, in vario grado, dei fenomeni sismici e vulcanici che avvenivano prevalentemente vicino o all'interno delle grandi montagne, le sole che potevano contenere le enormi cavità necessarie a raccogliere tutto il materiale che poi sarebbe fuoriuscito come fumo o colata. In altre cavità sotterranee era invece contenuta l'acqua che il calore del pianeta sollevava in continuazione verso le pianure e le cime dei monti da dove, trasformata in vapore, essa saliva a formare le nuvole. Le particelle meno dotate di movimento, non riuscendo a innalzarsi, si riunivano tra loro assumendo di nuovo la forma dell'acqua. Poiché non potevano ridiscendere per i pori da cui erano salite, a causa della dimensione maggiore che avevano assunto, percolavano nel sottosuolo e qui si radunavano; quando trovavano uno sbocco, formavano le fonti e i fiumi che scorrevano poi verso il mare.

Il sistema cartesiano, ancorché fornisse una delle prime rappresentazioni dello spaccato dell'emisfero terrestre e benché la sua spiegazione dell'origine delle fontane fosse ampiamente nota e dibattuta, non possedeva molti elementi di modernità. Vincolato a principî metafisici, Descartes trascurava quasi totalmente il dato empirico, senza neppure valersi, in questa circostanza, della quantità di informazioni geografiche di cui disponeva e di cui, per affrontare altri argomenti, si era servito.

Pur restando nell'ambito della cosmologia, il Mundus subterraneus (1664-1665) di Athanasius Kircher, gesuita del Collegio Romano, era frutto di una maggiore attenzione alla realtà dei fenomeni naturali che dilatava la trattazione geologica verso una dimensione 'geofisica' (in gran parte comunque immaginaria).

Proprio dalle osservazioni compiute durante un unico, breve ma movimentato, viaggio a Malta, con escursioni naturalistiche in Sicilia e a Napoli (1637-1638), riprese vita il desiderio giovanile di Kircher di scrivere un'opera sul mondo sotterraneo. La sosta siciliana avvenne in un momento in cui l'Etna e lo Stromboli non erano quiescenti e il ritorno verso Roma fu reso avventuroso da un violento terremoto (marzo 1638) che colpì la costa calabra proprio all'arrivo di Kircher. A Napoli, il Vesuvio manifestava un'attività che, pur non pericolosa, completava il quadro 'infernale' che il gesuita vide alla solfatara di Pozzuoli e ai Campi Flegrei.

Ritornato al Collegio Romano, tra i molti impegni che l'Ordine dei gesuiti e il museo gli imposero di assolvere, Kircher lavorò, nei successivi trent'anni, alla stesura del Mundus. Corredato da un considerevole apparato di illustrazioni e confortato da un consistente supporto di informazioni sulla geografia anche fisica del globo (le notizie che gli inviavano i confratelli erano la fonte primaria di Kircher), il Mundus è un trattato sulla struttura e sui fenomeni del pianeta terrestre (il 'geocosmo'). In esso Kircher illustrava il suo modello 'geofisico', costituito, in effetti, da tre modelli descritti distintamente ‒ uno per ogni elemento: fuoco, acqua e aria ‒ fusi insieme nella realtà fisica del pianeta.

Il geocosmo, creato e progettato da Dio come teatro della Redenzione, era posto, immobile, al centro dell'"universa corporei Mundi machina" (Mundus subterraneus, I, p. 1). Esso non era eterno ma non si sarebbe dissolto per cause intrinseche e naturali: sarebbe stato Dio a decretarne la fine. Nel frattempo, esso si sarebbe conservato immutabile nelle sue principali strutture geologiche: bacini marini, catene di montagne, piattaforme continentali e così via. Nella visione kircheriana rigorosamente finalistica e teologizzante, ancorata all'analogia tra microcosmo e macrocosmo, le grandi strutture erano la sede anatomica delle fisiologie terrestri (circolazione idrica, terremoti, eruzioni, venti), mai aggredite dal male del tempo e dagli eventi che poco o nulla potevano sulla morfologia della Terra: la fissità delle strutture garantiva, infatti, la perennità dei fenomeni. Le catene di montagne ‒ le 'ossa' della Terra ‒ erano state create per consolidare il pianeta durante il Diluvio; distribuite sull'intera superficie terrestre, erano, al contempo, l'organo di un'altra fisiologia: la circolazione delle acque dolci. Oggetto di una vexata quaestio, che vedeva discordi esegeti aristotelici e cartesiani, tale questione era spiegata da Kircher nei termini di una circolazione (analoga a quella sistemica) che non prevedeva, se non limitatamente, l'apporto d'acque meteoriche. Le acque del mare giungevano, attraverso canali sotterranei, ai piedi delle principali catene montuose, dove si raccoglievano in enormi caverne dette 'idrofilaci'. Da qui, private del sale per filtrazione meccanica o per una sorta di cottura, esse salivano in superficie e formavano le fontane e i fiumi che, scendendo lungo le pendici dei monti, infine ritornavano al mare.

Tutta la fisiologia superficiale del geocosmo era mossa dal calore solare ma i percorsi innaturali dei corpi 'pesanti', come l'acqua quando va dal sottosuolo verso il mondo subaereo, necessitavano di una fonte alternativa di movimento che, per Kircher, era il fuoco. Chiuso al centro della Terra, esso si ramificava, attraverso meati e canali, verso i 'pirofilaci', che erano cavità disposte a varia profondità dalla superficie terrestre. Alcuni di essi erano collegati all'aria libera attraverso i vulcani che funzionavano, quindi, da sfiatatoi, abbassando la tensione e l'eccesso di calore interno e impedendo che il globo terrestre esplodesse. Per questo i vulcani erano sparsi su tutta la Terra e la loro forma era immutabile nel tempo. Il geocosmo era dotato anche di caverne sotterranee piene d'aria, gli 'aerofilaci', sede dell'attività sismica provocata dai venti e dalle esalazioni che, per raggiungere il loro luogo naturale, ne scuotevano le volte e le pareti.

Sulla fissità delle strutture del geocosmo persino il Diluvio non aveva potuto agire molto. Solo nelle terre del Mediterraneo i sedimenti incoerenti di origine diluviale avevano costruito una morfologia nuova, postdiluviale, che si era inserita all'interno della precedente, sopravvissuta al Diluvio. Questa è la sola traccia di 'storia' che Kircher concede al geocosmo, almeno nell'edizione del 1678 del Mundus, avendo recepito e accolto una delle più importanti conclusioni della geologia seicentesca: la presenza, nella crosta terrestre, di due episodi orogenetici distinti. Ciononostante, non vi è storia nel geocosmo kircheriano e non c'è spazio concettuale per lo studio del fenomeno in sé, senza che esso presupponga a sua giustificazione e implichi come finalità ultima l'esaltazione della gloria di Dio. C'è, invece, una tensione continua verso la spiegazione analitica, quasi ossessiva, dei fenomeni attraverso le cause e i principî che li determinano, mediante esperienze artificiali (condotte anche con macchine apposite) e, infine, facendo ricorso all'informazione raccolta sui libri e sul campo, in un'ampia dimensione geografica.

Opera di grande fortuna, il Mundus trovò immediatamente i suoi detrattori. Non si trattava di attacchi diretti quanto piuttosto di opere dedicate alla revisione delle ipotesi più diffuse circa fenomeni specifici e che talvolta investivano anche i presupposti della trattazione kircheriana, che comunque appariva superata a quanti avevano aderito alla nuova scienza. Per questo alcuni quesiti, allora ancora insoluti, della geomorfologia, pur ricordati e affrontati da Kircher ‒ quali forma e dimensione reali della Terra, altezza dei monti, profondità del mare e via dicendo ‒, assumevano dimensione scientifica al di fuori del Mundus, nelle ricerche condotte nell'ambito delle accademie scientifiche nate in tutta Europa, soprattutto nella seconda metà del Seicento. Le accademie, infatti, si facevano portavoce di studi sulla natura inorganica orientati verso le novità concettuali e di metodo della nuova scienza ed erano sollecitate sia dai fenomeni stessi ‒ nel corso del secolo l'attività sismica e vulcanica divenne piuttosto rilevante ‒ sia dalla quantità di nuove informazioni che derivavano dalla ricerca di campagna.

Anche la ricerca di laboratorio, come le osservazioni biologiche condotte con l'ausilio del microscopio, ebbe una forte influenza sullo sviluppo della paleontologia, nei suoi aspetti sistematici e descrittivi, poiché in questa ricerca si affinava la conoscenza del vivente soprattutto nelle forme meno specializzate (invertebrati, zoofite, litofite) ‒ e della loro problematica identificazione e classificazione ‒, alle quali molti fossili devono la loro origine. Per questo motivo, nelle dimostrazioni dell'origine organica dei fossili, assunse grande rilievo il dibattito sulla generazione spontanea o per ovum degli animali 'inferiori'. L'uso dello strumento ottico, fondamentale negli studi astronomici e biologici, aveva in paleontologia e geologia, dove pure era ancora opzionale, esiti euristici. Per esempio, Robert Hooke (1635-1703), naturalista, astronomo e matematico inglese, proprio utilizzando il microscopio, che aveva perfezionato, individuò nel legno fossilizzato una piccola struttura anatomica che chiamò 'cellula'.

Alla rete di relazioni che legava gli studiosi di diversi paesi attraverso i contatti tra le accademie, i rapporti epistolari e la diffusione dei testi specialistici, si aggiungevano i viaggi (scientifici e di esplorazione) e le relazioni pubblicate. Iniziava anche, per tale via, la localizzazione di luoghi e percorsi scientifici preferenziali che diverranno, nel tempo, gli itinerari classici della geologia. Non si trattava sempre di grandi viaggi, più spesso l'interesse era rivolto a una singola area significativa come deposito di fossili e località di affioramento, per la presenza di grandi strutture geologiche o di fenomeni costanti che stavano acquistando un particolare valore euristico nella costruzione delle scienze della Terra. Non raramente alcune di queste località, che diventeranno sempre più numerose nel tempo, daranno poi il nome ai piani della scala geocronologica.

Le questioni dei fossili e delle montagne, della morfologia e del diluvio, dell'origine dei corpi 'angolati' (cristalli e minerali) e di altri enigmi dell'inorganico riappaiono in una dimensione completamente nuova nel De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669), più noto come Prodromus, di Niels Steensen (Stenone, 1638-1687), anatomista danese, chiamato a Firenze da Ferdinando II de' Medici e assiduo, se non membro, dell'Accademia del Cimento proprio negli ultimi anni di attività di questa istituzione.

Il Prodromus riprende l'operazione di riordinamento della materia già tentata da altri in precedenza, realizzandone piuttosto una razionalizzazione attraverso l'associazione di argomenti che trovano coerenza nella categoria "dei corpi solidi naturalmente inclusi in altri solidi" e nell'enunciato del problema portante del lavoro di Stenone: "Dato un corpo solido dotato di una certa forma, trovare nel corpo stesso gli argomenti che rivelino il luogo e il modo della sua produzione" (De solido, p. 5). La soluzione di questo problema derivava per via geometrico-deduttiva dai comportamenti costanti della Natura, riscontrati durante osservazioni sul terreno e prove empiriche, e fissati, per quanto riguarda i temi geologici e paleontologici, nel Canis Carchariae dissectum caput, pubblicato due anni prima (1667), dove si trova la spiegazione more geometrico della formazione sedimentaria della crosta terrestre.

All'interno della categoria di oggetti che Stenone così delimitava, rientrano due gruppi di fossilia ‒ i fossili e i corpi 'angolati' ‒ che, come peraltro aveva già ben dimostrato Colonna, non avevano alcun presupposto genetico comune. Vi rientrava però anche un nuovo tipo di oggetti, gli strata telluris, che erano gli elementi costitutivi dei rilievi della superficie terrestre. È, questa, una delle principali novità del Prodromus che spiegava, con la sovrapposizione degli strati depositatisi per sedimentazione in ambiente fluido, la formazione della crosta terrestre, poi deformata passivamente, in modo da assumere una morfologia varia.

Com'è noto, la sedimentologia stenoniana si fonde, nel commento alla tavola in appendice al testo, con l'ipotesi del Diluvio biblico. In tal modo Stenone scioglieva la questione dei fossili alla luce dell'ipotesi sedimentaria, sostenendo la loro origine organica attraverso le argomentazioni già espresse da Colonna, ma inserendole in un contesto prevalentemente geologico che attribuiva ai fossili un primo, riconosciuto valore cronologico. Essi erano considerati la traccia caratteristica delle rocce postdiluviali, che si erano depositate e sedimentate con i loro resti organici, incapsulandosi entro la primitiva morfologia terrestre, costituita da grandi montagne (non create ma a loro volta effetto di episodi di sedimentazione) di rocce azoiche, in quanto l'oceano originario era privo di vita. La seconda morfologia del pianeta, riconoscibile dalla dolcezza dei declivi composti da materiale rigenerato dall'erosione dei rilievi primari, s'innestava sulla morfologia prediluviale da cui si differenziava anche per la presenza di fossili marini. Nasceva così un'immagine rassicurante della Terra, il cui passato era animato da due episodi litogenetici e dalla cui storia futura si allontanava lo spettro dell'erosione che, appianando inesorabilmente ogni rilievo, l'avrebbe resa una sfera liscia sulla quale la vita sarebbe stata impossibile.

La storia della Terra (perché di storia si tratta) di Stenone non inizia dalla Creazione ‒ che pure è implicita ‒ ma dalla formazione dei sedimenti, dalla loro apparizione nel mondo subaereo seguita dalla diagenesi e dalla fratturazione che articolava in rilievi e valli, per ben due volte, la storia geologica. Eventi e successione erano quelli biblici, sebbene le modalità di accadimento e gli effetti del Diluvio stesso non avessero l'andamento catastrofico e punitivo che la Bibbia attribuiva loro. In tal modo, insieme al nuovo valore dei fossili, s'innovava pure il significato del Diluvio universale, evento naturale acqueo necessario al processo sedimentario. Non solo, ma la successione degli strati, non pervi come quelli cartesiani, scandiva nettamente una successione di microstorie ambientali di cui i sedimenti portavano i segni: eruzioni, allagamenti, ambiente palustre e così via.

Rimane come sfondo della geologia stenoniana, e più in generale della sedimentologia (per gran parte del Settecento), una concezione immobilista della geomorfologia: la sedimentazione si identificava con la litogenesi. Le grandi catene montuose, invece, si formavano passivamente, per incisione delle valli fluviali o per la verticalità acquisita da porzioni della crosta fratturata in conseguenza di crolli. L'ipotesi del sollevamento ‒ e cioè di un mobilismo eminentemente verticale della crosta, quindi di un dinamismo orogenetico ‒ si associava all'attività vulcanica o era ricondotta al divenire della Terra da globo incandescente a pianeta abitabile.

Sono note le immediate conseguenze della diffusione, anche nella traduzione in lingua inglese fatta dalla Royal Society, dell'opera stenoniana. La ripresa di cosmologie dai toni spesso foscamente distruttivi ‒ come le teorie della Terra di Thomas Burnet (1635-1715), John Woodward (1665-1728), William Whiston (1667-1752), per non citare che i più famosi, e le risposte italiane di Antonio Vallisnieri (1661-1730) e di Antonio Lazzaro Moro (1687-1764) ‒ si accompagnava alla nuova fortuna di opere di petrografia, dedicate specificamente alle rocce, e di scritti che sviluppavano la ricca messe di dati raccolti durante i frequenti lavori condotti sul terreno. Quindi, accanto a descrizioni del mondo con richiami a Kircher o a Stenone, rivisitato spesso alla sola luce dell'ipotesi diluviale, si sono sviluppate la paleontologia e la geologia (descrittive e sistematiche) che, nella seconda metà del Seicento, portarono a una notevole produzione di studi di carattere regionale e locale.

In Italia e all'estero la ricerca di campagna era sostenuta e potenziata anche da molte accademie letterarie e scientifiche, alla cui attività partecipavano non solo medici, matematici, fisici, ma anche una schiera nutrita e preparata di 'dilettanti', artisti, artigiani e collezionisti che trovavano in esse la sede che ne agevolava ricerche e pubblicazioni. Quanto sia rilevante il contributo che questi personaggi hanno apportato allo sviluppo delle scienze della Terra seicentesche può essere esemplificato dalla figura di Agostino Scilla (1629-1700), pittore, affiliato alla messinese Accademia della Fucina, che in uno scritto in forma di lettera, corredato da tavole scientifiche illustrate di sua mano, espose uno dei più significativi (e più noti del suo secolo) contributi allo studio della fauna fossile siciliana. La finezza delle osservazioni condusse Scilla all'analisi, assai più accurata delle precedenti, di alcuni fenomeni connessi al seppellimento e alla conservazione dei fossili, consentendogli di spiegare in termini di alloctonia casi di associazioni caotiche che, come si è detto, erano generalmente ricondotte all'episodio diluviale. Convinto sostenitore dell'ipotesi delle trasgressioni marine, Scilla prescindette dall'evento del Diluvio e liberò così dal vincolo di un'associazione necessaria a uno o più eventi geologici una spiegazione meramente paleontologica della fossilizzazione, considerando soprattutto i processi che operavano la trasformazione del resto organico in fossile e interpretando le sue deformazioni come effetto del consolidamento del terreno sedimentario. Travolto da eventi politici, Scilla fuggì dalla Sicilia e si rifugiò a Roma, dove vendette la sua collezione di fossili (illustrati nelle tavole de La vana speculazione) a Woodward, il quale la trasferì successivamente all'Ashmolean Museum di Oxford, che ne conserva ancora oggi alcuni esemplari.

Conterraneo di Scilla, amico dei 'fucinanti', proveniente da Firenze dove aveva fatto parte dell'Accademia del Cimento, di cui era stato uno dei membri più attivi, Giovanni Alfonso Borelli pubblicò nel 1670, pochi mesi dopo l'eruzione etnea del 1669, una descrizione dell'evento che, a differenza di tante altre consimili, si trasformò nell'interpretazione del meccanismo eruttivo. Volutamente, in questa descrizione non c'è traccia della costruzione sotterranea kircheriana, rifiutata implicitamente nella scelta dell'oggetto da trattare, ovvero l'evento nella sua singolarità ‒ ancorché leggibile attraverso l'idrodinamica e la balistica, due scienze 'meccaniche' le cui leggi e i cui strumenti (sifoni, tubi, ecc.) erano quelli messi a punto e utilizzati nelle replicate esperienze che egli aveva compiuto nell'accademia fiorentina. Proprio il sifone era lo strumento mediante il quale veniva falsificata l'ipotesi (anche kircheriana) dell'esistenza di depositi stabili di fuoco al di sotto dell'edificio vulcanico. Il sifone, inoltre, e più in generale il moto dei liquidi, si prestavano a dimostrare la casualità e la non prevedibilità dell'evento eruttivo, mentre si riconosceva, in sintonia con la lezione geologica stenoniana, il legame tra storia geologica locale e vulcano, destinato, come le altre strutture del globo, a vivere "si tandiu facies huius orbis Terrae perdurabit" (Historia et meteorologia, p. 124).

In linea generale, la riduzione della dilatazione spaziale dei fenomeni geologici giocò a favore del loro approfondimento specifico. Anche nel caso dei fossili ‒ soprattutto quando associati al fenomeno diluviale ‒ le ricerche biologiche portarono, nel corso del secolo, a una maggiore conoscenza dell'anatomia e della fisiologia degli invertebrati e a una migliore definizione dei loro modi di vita, degli habitat e delle associazioni di specie in cui si trovavano in Natura. Questi dati di osservazione, inquadrati in una concezione della Natura vivente che si era quasi completamente liberata della credenza nella generazione spontanea di questi animali, trasferiti allo studio dei fossili (soprattutto se di forme di vita più tardi riconosciute estinte), conducevano alla formulazione di nuove supposizioni sulla tipologia degli eventi concomitanti al diluvio che avevano interferito con la loro persistenza nelle aree di vita prediluviale. Diffusa era l'ipotesi secondo cui il diluvio aveva causato la migrazione in zone di mare profondo di animali dei quali si trovano soltanto i resti fossili ma non gli analoghi viventi nei mari. Non di rado, però, le supposizioni consentite dalle nuove conoscenze erano tali da dover essere rigettate aprioristicamente ripiegando su posizioni non innovative, ma di maggiore coerenza apparente.

Verso la fine del secolo, il dibattito sull'origine dei fossili si riaccese in conseguenza di un nuovo 'enigma' posto dalla Natura. Si trattava del ritrovamento di fossili che non solo risultavano privi di analogo vivente ma la cui morfologia esulava da ogni schema di sistematica zoologica e che, pertanto, non potevano essere inseriti nella grande catena delle forme viventi allora nota. Martin Lister (1639-1712), medico inglese, anatomista zoologo studioso degli invertebrati, fu interpellato sulla specie di appartenenza di alcune strane pietrificazioni 'inglesi' senza analogo vivente ma comunque relative a invertebrati marini. Lister, non potendo accettare né l'idea di una loro migrazione in fondo all'oceano (dove non avrebbero potuto vivere essendo forme di acque basse), né della totale distruzione di tutte le specie acquatiche durante il Diluvio, né, infine, di una ricreazione dopo l'evento diluviale delle specie perite nella catastrofe, dopo un'accurata indagine morfologica ripiegò ragionevolmente sul temporaneo recupero dell'ipotesi inorganica della natura di questi fossili, che tornarono a essere figured stones, in attesa di ulteriori verifiche. La sua opzione trovava una conferma nella scoperta fatta da Edward Lhwyd (1660-1709), nei pressi di Llandeilo, nel Carmarthenshire, di altre figured stones affatto incomprensibili, le 'strane creature' che per quasi tutto il Settecento costituirono una vera e propria sfida tassonomica: i trilobiti (un phylum estinto). Mancava ancora, nel XVII sec., un collegamento tra fossili e sedimenti tale da suggerire il ricorso alla storia geologica locale; infatti le due discipline, non incontrandosi in modo nuovo al di fuori dell'ipotesi diluviale, si definivano sempre più nella delimitazione dei propri specifici argomenti e fini.

Nella seconda metà del secolo assunse nuovi contorni anche la 'questione delle fontane', quando i problemi relativi al moto dei liquidi (idrostatica e idrodinamica) furono affrontati, per esempio in Italia e in Francia, dai matematici e dagli idraulici (ingegneri, tecnici, fisici) e rientrarono nel più generale tentativo d'individuare il comportamento meccanico dei fluidi anche attraverso esperienze condotte in laboratorio. La questione trovò una soluzione soprattutto per opera di naturalisti geologi o interessati (come i militari) a studi geologici e ambientali, affiliati di accademie che, come si è detto, sviluppavano e organizzavano raccolte sistematiche di dati sul terreno e comparazioni ad ampio spettro geografico.

Alla fine del secolo, il medico Bernardino Ramazzini studiava le falde acquifere del modenese e ne risolveva la genesi ritenendo ‒ nel De fontium Mutiniensium (1691) ‒ che le acque di falda fossero prodotte per accumulo sotterraneo, in un 'idrofilacio' e su terreni impermeabili, di acqua infiltrata da soprastanti terreni permeabili. Nel 1715, per spiegare l'origine delle fontane Vallisnieri elaborò un sistema in grado di mettere in connessione più stretta fonti e acque piovane e contrastare la soluzione proposta da Descartes, da Kircher e, in generale, dagli autori di teorie della Terra. Egli riproduceva nel sottosuolo lo stesso tipo di scorrimento che avveniva in superficie, trasformando gli strati impermeabili della geologia sedimentaria in alvei sotterranei. Ciononostante, anche dopo Vallisnieri si mantenne il ricorso all'analogia con la circolazione sistemica del corpo animale per spiegare i percorsi delle acque dolci, forse a causa della difficile comprensione del fenomeno naturale per altre vie concettuali.

Cartografia e geografia

Come si è accennato più volte, una fonte significativa di informazioni sull'assetto locale e globale del pianeta terrestre e sulle sue strutture morfologiche, preziosa per gli studiosi seicenteschi di scienze della Terra, era costituita dai dati raccolti sul terreno da viaggiatori, mercanti, missionari ed esploratori, organizzati, in qualche caso, in rigorose relazioni di viaggio e illustrati in carte geografiche di nuova stesura. Lo sviluppo della geografia, quindi, è connesso a molteplici fattori che ebbero valenza diversa nel corso del tempo.

Tra i secc. XIV e XV, per esempio, l'opera di conquista e di esplorazione che caratterizzò la politica portoghese fu dettata dalla volontà di 'riconquista' dei territori dominati dagli Arabi e di ricerca di nuove e più sicure vie commerciali per l'Oriente. Tra i secc. XV e XVI, poi, più che la scoperta dell'America o la circumnavigazione del globo, episodi certo straordinari, fu la navigazione oceanica nel suo complesso a rappresentare la più significativa conseguenza e sintesi delle innovazioni tecniche, delle novità concettuali e della spinta espansionistica degli Stati europei (incluso lo Stato della Chiesa), fattori che porteranno a ridisegnare i confini e i percorsi della terraferma e del mare.

La descrizione e la raffigurazione della superficie del globo ‒ con le sue vie di terra e d'acqua per l'esplorazione, per i traffici, per i pellegrinaggi, ecc. ‒ furono costruite, almeno fino a tutto il Trecento, su conoscenze acquisite da mercanti e da narrazioni di viaggiatori occasionali e trasferite in carte che mantenevano una netta distinzione tra itinerari terrestri e rotte marine. Pertanto ciascun tipo di carta privilegiava insiemi distinti di notizie e di dati empirici a uso esclusivo del marinaio o del viaggiatore di terra, con la conseguente enfatizzazione grafica di alcune caratteristiche di una data area (come le coste nelle carte nautiche), mentre altre (come le informazioni sull'entroterra) potevano essere del tutto assenti.

Agli inizi del Quattrocento, uno stimolo allo sviluppo di una cartografia più adeguata alle necessità del momento venne dalla riscoperta e dalla traduzione della Geografia di Claudio Tolomeo (II sec. d.C.), un trattato di geografia accompagnato dal supporto matematico necessario alla stesura di carte terrestri, noto agli Arabi ma sconosciuto agli occidentali. La prima traduzione del codice bizantino corredato di carte ridisegnate, le ripetute edizioni a stampa pubblicate nel 1475 (senza le carte), nel 1477 e nel 1478 (con le carte antiche cui si aggiunsero carte moderne), e la pubblicazione delle carte 'tolemaiche' disgiunte dal testo, che si diffuse nel XVI sec., diedero un forte impulso alla produzione di carte geografiche che riflettevano lo stato delle conoscenze in materia ed erano redatte secondo i principî matematici e le coordinate di riferimento indicate nell'opera tolemaica (come nel caso delle carte celesti). Al contempo, esse ispiravano la preparazione di volumi monografici di descrizioni del mondo ‒ gli atlanti ‒ nei quali la parte descrittiva era ridotta, la trattazione matematica era pressoché assente e dominavano le carte geografiche. La realizzazione di queste opere e delle singole carte, la cui ampia diffusione era agevolata dalla stampa, si faceva più raffinata e precisa grazie al laminatoio, in uso a partire dalla metà del XV sec., che per l'incisione di illustrazioni preparava lastre metalliche di rame sottili e compatte che consentivano tratti più fini e più morbidi di quelli ottenuti con la tecnica xilografica.

L'intersezione tra illustrazione geografica e problemi cartografici, tra aggiornamento continuo del lavoro del geografo, in conseguenza della mole di notizie provenienti dall'esplorazione, e la richiesta, da parte di viaggiatori e mercanti, di carte che dessero sempre maggior sicurezza agli itinerari di terra e di mare, soprattutto transoceanici, costituiva un ulteriore stimolo allo studio di una 'geografia della Terra' sia a due sia a tre dimensioni. La ricerca di una soluzione matematica per raccordare la carta al territorio e le diverse carte tra di loro, cioè per tradurre uniformemente nell'illustrazione geografica il passaggio da una superficie sferica a una piana, fu ripetutamente tentata dai cartografi del XVI sec., tra i quali Gerardo Mercatore, Abraham Ortel (Ortelius) e Willem Janszoon Blaeu (Blavius).

Mercatore, in particolare, elaborò un tipo di proiezione (detta 'proiezione conforme di Mercatore') in cui meridiani e paralleli erano rappresentati da un reticolo di rette parallele. Mentre i meridiani erano equidistanti tra loro, i paralleli si distanziavano gli uni dagli altri man mano che si allontanavano dall'equatore. Questo tipo di proiezione consentiva di rappresentare con segmenti di retta ogni lossodromia, cioè la linea che tagliava i meridiani sotto uno stesso angolo. Poiché, in tal modo, si manteneva sempre la stessa direzione rispetto ai punti cardinali, la proiezione di Mercatore si rivelava utile per fissare e mantenere agevolmente la rotta in mare e fu perciò immediatamente utilizzata (come avviene ancora oggi) nella costruzione di carte nautiche.

Dopo l'apogeo dell'esplorazione per mare nel Quattrocento e nel Cinquecento ‒ che si chiuse con la ricerca, fallimentare, di un passaggio a Nord-ovest e a Nord-est, attraverso rotte polari, per i mari della Cina ‒ il XVII sec. appare, ed è generalmente considerato, un periodo di stasi della geografia. In realtà, mentre le esplorazioni e i viaggi per mare sono stati meno intensi rispetto ai secoli precedenti, la fondazione delle compagnie commerciali, da parte soprattutto dell'Olanda, della Francia e dell'Inghilterra, e la forte concorrenza tra queste nazioni (e anche altre come la Russia), non rallentò la corsa alla conquista di nuovi mercati e di vie più rapide per il trasporto delle merci.

In questo periodo assunse una funzione rilevante per gli studi geografici la penetrazione per via di terra, con conseguente esplorazione e insediamento, in paesi sia noti da tempo, ma mai attentamente osservati, sia di recente conquista. Religiosi (soprattutto domenicani, francescani e gesuiti), mercanti colti e viaggiatori naturalisti intrapresero difficili viaggi di esplorazione al fine di conoscere le caratteristiche naturali di un paese ma anche le usanze, i costumi, le tradizioni e la storia delle popolazioni locali. Era questa una penetrazione più sottile e profonda nel tessuto sociale e culturale di popoli fino ad allora poco noti, e spesso associata a intenti evangelizzatori.

Già dalla fine del Cinquecento i gesuiti erano stanziati con sedi missionarie in America Meridionale, Africa e Asia dove svolgevano anche individualmente, quasi come i pionieri, una capillare operazione di ricognizione del territorio e di divulgazione geografica, talvolta più rilevante ‒ per qualità e quantità di informazioni ‒ di quella, peraltro notevole, di mercanti e viaggiatori. La mole del lavoro svolto dai confratelli e la convergenza alla casa madre di Roma dei dati raccolti sul terreno consentirono, per esempio nel caso della Cina, di produrre, nella seconda metà del Seicento, opere di grande sintesi, come la stampa del Novus atlas Sinensis (1655) di Martino Martini e della China monumentis [...] illustrata (1667) di Kircher, sebbene questi non avesse mai visitato il paese.

Si spinsero verso l'Oriente anche personaggi come Pietro Della Valle (1586-1652), Melchisédech Thévenot (1620-1692), Jean-Baptiste Tavernier (1605-1689) ‒ per non ricordarne che alcuni ‒ le cui diverse motivazioni all'esplorazione confluirono in relazioni di viaggio fedeli e preziose per l'acume dell'osservazione. Le informazioni di carattere geografico offrivano un ricco e dettagliato materiale per la stesura di carte geografiche regionali e, come nel caso del Mundus di Kircher o di altre opere di geografia generale, per la costruzione grafica e concettuale della carta del mondo e per lo studio della distribuzione delle strutture morfologiche della superficie terrestre. Inoltre, insieme a lettere e relazioni di viaggio, nei paesi europei giunsero gli oggetti naturali e 'artificiali' di queste terre lontane. Se essi, in un primo momento, entrarono insieme a far parte dei musei naturalistici, formarono poi sezioni a sé stanti e, nel tempo, divennero collezioni autonome e distinte, ridisegnando in tal modo la fisionomia di molti musei. Le sezioni naturalistiche si aprirono ulteriormente all'esposizione e alla comparazione scientifica delle forme naturali della Terra, mentre le sezioni etnografiche si configurarono come raccolte di manufatti che erano espressione delle culture dei diversi popoli.

Nel XVII sec., una fase originale di elaborazione e riflessione sulla geografia, che ne segnò lo sviluppo e una migliore definizione, si deve a Varenio (Bernhardt Varen), geografo tedesco noto per i suoi scritti sul Giappone. Nella Geographia generalis (1650), la sua opera più nota, egli compì non solo una revisione critica delle conoscenze del tempo ma definì metodi, contenuti e scopi della geografia generale, distinta chiaramente da quella regionale e umana. La geografia generale, a detta di Varenio, deve rispondere a criteri matematici (geometrici, aritmetici e trigonometrici), secondo i principî e le leggi dell'astronomia e in base all'esperienza. Questi presupposti si riflettono nell'organizzazione stessa dello scritto, che risulta diviso in tre blocchi di argomenti. La prima parte riguarda i temi relativi alla Terra che sono oggetto di trattazione matematica e valutazione quantitativa, tra i quali la forma, la dimensione e i moti. Segue l'esposizione di argomenti meteorologici relativi all'influenza dei corpi e dei fenomeni celesti (Sole, stelle, clima e successione delle stagioni) sulla Terra. Infine sono trattati gli aspetti descrittivi che riguardano la morfologia della superficie della Terra, soprattutto la geografia delle acque e dei continenti, con qualche accenno alla natura dei rilievi e alla distribuzione dei climi. Ma Varenio espose, in questa terza parte, soprattutto i principî generali cui si doveva informare la geografia regionale. L'apparato descrittivo contiene informazioni relative alla natura del terreno e alla fertilità del suolo, fornisce le principali coordinate geografiche e astronomiche dei luoghi citati (distanze dai poli, durata locale del giorno e della notte) e termina, infine, con un'accurata raccolta di notizie che riguardano gli stanziamenti umani e gli usi e costumi delle diverse popolazioni.

Funzione della Geographia generalis era fornire un quadro complessivo della superficie terrestre intesa come insieme di fenomeni fisici e di comunità umane che, pur distribuiti in differenti aree geografiche e diversificati localmente, gli uni dalla Natura le altre dal divenire delle culture, dovevano essere considerati parti costitutive di un'unica scienza geografica. I supporti concettuali e applicativi della geografia di Varenio provenivano dalla matematica e dalla cartografia che egli considerava fondamentali per la costruzione e lo sviluppo della geografia generale ma che, già durante il XVII sec., si sviluppavano secondo percorsi indipendenti, rimanendo a latere del suo divenire. L'opera di Varenio ebbe ampia diffusione in Europa; Isaac Newton ne curò un'edizione riveduta da lui stesso e pubblicata nel 1672, ma non è ancora noto quanto abbia influito sulla geografia coeva e del secolo successivo, nei decenni in cui si verificò una ripresa dell'esplorazione geografica.

Le stesse tecniche nautiche e di costruzione navale risposero velocemente alle esigenze della navigazione in mare aperto. L'adeguamento delle caratteristiche architettoniche e veliche portò alla costruzione della caravella spagnola e poi al vascello da guerra e alla nave mercantile, perfezionati nei cantieri olandesi fino ad assumere le caratteristiche che conservavano ancora nel XIX secolo. Le tecniche nautiche privilegiavano la navigazione lossodromica, che consentiva di mantenere una rotta costante, valendosi, come s'è detto, della cartografia isogonica di Gerardo Mercatore. La navigazione era facilitata dalle migliori conoscenze geografiche che avevano portato a una rappresentazione sempre più fedele delle coste, dei mari, dei venti e delle correnti; dall'uso degli strumenti tradizionali dell'astronomia ‒ astrolabio, quadrante e balestriglia ‒ modificati in qualche dettaglio ma soprattutto migliorati nei materiali di costruzione e quindi in grado di fornire misure più precise; dall'adozione di effemeridi perfezionate che facilitavano la determinazione del punto-nave. Restavano insoluti alcuni problemi cruciali per la navigazione in mare aperto tra i quali il calcolo della longitudine, la cui soluzione definitiva si ottenne nel XVIII sec. con l'adozione del cronometro da marina, costruito e perfezionato dall'orologiaio inglese John Harrison.

Con il rarefarsi delle esplorazioni per mare, che erano state sostenute con entusiasmo dai monarchi portoghesi e dall'Olanda, la stessa cantieristica navale si volse a soddisfare esigenze militari e commerciali piuttosto che a promuovere la progettazione e la costruzione di navi che rispondessero alle necessità dei viaggi di spedizioni scientifiche. L'esplorazione geografica trovava nell'organizzazione statale ed ecclesiastica una fonte di incoraggiamento e di finanziamento sollecitata da motivi di ordine commerciale e di proselitismo religioso. E, come si è visto, fu soprattutto l'esplorazione approfondita di terre conosciute a fornire il materiale alla descrizione geografica, morfologica, culturale ed etnologica della superficie terrestre e dei popoli che l'abitavano.

Nel Seicento il percorso storico della cartografia non era ancora disgiunto dai risultati ottenuti nel secolo precedente, quando si chiedeva ai cartografi, come conseguenza delle grandi esplorazioni di terra e di mare, la rappresentazione integrale della superficie terrestre su un piano. Una prima soluzione era stata data nel 1533 da Rainer Gemma Frisius che aveva rilevato parte dei Paesi Bassi adottando come metodo di costruzione del reticolo la triangolazione, rendendo più precisa la definizione del triangolo di base (con un compasso orientato sul planimetro) e individuando nella misura di un suo lato la scala della carta. Il reticolo era poi completato a tavolino con un metodo di calcolo trigonometrico, sviluppatosi soprattutto con gli studi matematici di Regiomontano (Johann Müller, 1436-1476), che consentiva di coprire, per contiguità dei lati e dei punti di vertice, tutta l'estensione da rilevare. Successivamente questo sistema fu sviluppato dall'olandese Willebrord Snell (Snellius, 1580-1626) che al triangolo di base sostituì il poligono rendendo più spedita l'operazione cartografica.

Se, come s'è detto, già alla fine del Quattrocento la navigazione d'alto mare rappresentava un risultato considerevole delle precedenti innovazioni tecniche apportate agli strumenti e alla cartografia, essa, al contempo, suscitava nuove questioni per la scienza e richiedeva risposte sollecite e sicure. L'osservazione della declinazione magnetica (rilevata con la bussola da Cristoforo Colombo nel 1492) e il variare con la latitudine della lunghezza reale del grado di parallelo sollevavano certamente problemi specifici degli itinerari in mare aperto (orientamento, mantenimento della rotta, determinazione della longitudine, della latitudine e delle distanze), ma anche problemi molto antichi come quello della forma della Terra, ossia la cosiddetta 'questione geodetica'. Questi argomenti si svilupparono nel corso del XVII sec. secondo coordinate concettuali di tipo matematico (geometria e trigonometria) e fisico (moto del pendolo e gravitazione universale), che implicavano contiguità con la fisica, l'astronomia e con le rispettive strumentazioni, opportunamente rinnovate. Un ruolo determinante in queste ricerche e nell'organizzazione di spedizioni finalizzate al lavoro sul terreno fu svolto dalle più prestigiose istituzioni scientifiche del Seicento europeo: la Royal Society (1660) a Londra, il Royal Observatory (1675) a Greenwich, l'Académie des Sciences (1666) e l'Observatoire (1667) a Parigi.

Con l'approvazione regia e i pochi finanziamenti dello Stato, le istituzioni di questi paesi affrontarono gli aspetti tecnici e la soluzione pratica della questione geodetica per per redigere le carte del territorio nazionale. Per la Francia l'operazione fu sostenuta dall'amministrazione e affidata dal ministro Jean-Baptiste Colbert a Jean Picard, che la iniziò nel 1668 con la misurazione di un grado dell'arco di meridiano di Parigi. Come supporto matematico, Picard aveva a disposizione il metodo di triangolazione di Snell ma, comprendendo che a causa dell'inadeguatezza degli strumenti e del loro uso l'imprecisione nel rilevamento dei dati sul terreno (orientamento, ampiezza degli angoli e lunghezza della base) era l'ostacolo principale alla determinazione di misure reali, modificò l'attrezzatura di cui disponeva. Sostituì l'alidada del quadrante con un cannocchiale dotato di un micrometro per ottenere misure angolari più raffinate e collegò il quadrante così trasformato a un supporto verticale rispetto al quale esso oscillava di un'ampiezza di cui poi quantificava la variazione. Per la misura del tempo si valse di un pendolo che batteva i secondi, come d'uso.

La misura del grado di meridiano realizzata da Picard si aggiunse, senza convergere, ad altre misure che erano anch'esse discordanti tra loro, effettuate in Inghilterra da Richard Norwood nel 1633 e in Italia da Giovanni Battista Riccioli, Francesco Maria Grimaldi nel 1645 e da Ruggero Giuseppe Boscovich nel 1775. Tale discordanza nei risultati poteva allora essere spiegata solo pensando ad un errore fortuito. Durante una spedizione alla Caienna (1672), organizzata dall'Académie des Sciences per compiere osservazioni astronomiche, Jean Richer misurò la parallasse di Marte e dal confronto con le misurazioni ottenute a Parigi definì più correttamente la distanza tra la Terra e il Sole. Nel corso di questi rilevamenti e di quelli successivi (1682), Richer notò che il pendolo ritardava e che per ribattere il secondo doveva essere accorciato di una lunghezza definita. Al momento la sua osservazione rimase senza spiegazione finché nel 1687 Newton, nei Philosophiae naturalis principia mathematica, spiegò la forma della Terra ‒ uno sferoide dilatato all'equatore e appiattito ai poli ‒ come risultante della rotazione e della sua densità media, collocando l'isocronia del pendolo tra gli effetti della gravitazione universale.

Una spiegazione più precisa venne poi da Christiaan Huygens che nella Dissertatio de causa gravitatis (1690) ricondusse il moto pendolare all'azione combinata della gravità (che diminuisce dai poli all'equatore) e della forza centrifuga, effetto della rotazione (che ai poli si azzera e all'equatore è massima). Furono in tal modo chiarite, nella comune radice fisica, le anomalie del pendolo e le divergenze tra le misure del grado di meridiano e di quello di latitudine; si comprese anche che il pendolo è un apparecchio dinamico che consente di determinare il campo della gravità terrestre (gravimetria), il quale, a sua volta, definisce la superficie del geoide che è il sistema di riferimento per ogni rilevamento e rappresentazione della superficie terrestre.

Gli enunciati newtoniani, che negano l'ipotesi della simmetria sferica della Terra, non chiusero affatto la questione geodetica. Da un lato c'era chi, applicando il puro ragionamento geometrico alla ricostruzione della sezione ipotetica del globo, che aveva come forma di riferimento l'ellissoide, e basandosi sui dati di rilevamento per i quali all'aumento della latitudine corrispondeva l'allungamento del grado di meridiano, era certo che l'asse maggiore del pianeta sarebbe dovuto passare per i poli. Dall'altro lato c'era chi, invece, considerava preminenti nella dimostrazione le misurazioni sul terreno, ritenendo che, se le verticali degli estremi degli archi misurati davano luogo a una ellissi, i prolungamenti delle verticali non s'incontravano al centro ma in punti diversi: in questo caso, gli archi corrispondenti ad angoli uguali avevano una lunghezza maggiore quanto più si allontanavano dall'asse maggiore, cioè dall'asse equatoriale.

La diatriba sulla forma della Terra si trascinò ancora nei primi decenni del Settecento. La soluzione si ebbe con le spedizioni francesi in Perù (1735-1741) e in Lapponia (1736-1737), due episodi in cui la scienza, la tecnica e la partecipazione dello Stato confluirono in un'impresa scientifica i cui risultati avrebbero avuto una rapida ricaduta sullo sviluppo di queste ricerche in Europa.

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