La rottura liberale: i cattolico-liberali nell'Italia del Risorgimento

Cristiani d'Italia (2011)

La rottura liberale: i cattolico-liberali nell'Italia del Risorgimento

Francesco Traniello

Non un movimento, ma una costellazione

Sebbene l’attribuzione della qualifica di ‘liberale’ a personalità e gruppi professanti la religione cattolica sia attestata, in Italia, sin dai primi anni della Restaurazione e con maggiore frequenza nel corso degli anni Quaranta del secolo XIX, l’uso della locuzione ‘cattolicesimo liberale’ come concetto generale, inteso a circoscrivere un fenomeno storicamente determinato e come tale suscettibile di una verifica e di una narrazione complessiva, risulta molto più tardivo, generalmente accolto con significati difformi e soggetto a ricorrenti tentativi di ridefinizione. Il primo ostacolo in cui ci si imbatte nel condurre qualsiasi discorso sul cattolicesimo liberale riguarda dunque la difficoltà di includere sotto un’unica denominazione astratta un complesso differenziato di personalità e di ambienti che non esprimevano, in origine, un senso di appartenenza a un’area omogenea e ancor meno a un unico movimento, per quanto, in molti casi, collegati da relazioni personali e mossi da una serie di impulsi e di aspirazioni relativamente convergenti. Tale considerazione vale, anzitutto, sul piano internazionale, come dimostra il fatto che tutti i tentativi di tracciare il profilo generale di un cattolicesimo liberale a scala europea hanno finito col metterne in luce non meno i fattori di differenziazione che i fattori di omogeneità (per cui si è parlato a ragion veduta di «focolai cattolici liberali» piuttosto che di un «cattolicesimo liberale»)1; oppure sono ricorsi a criteri talmente estensivi da risultare scarsamente utili ai fini di una stringente classificazione tipologica2. Ma un’osservazione analoga può essere fatta, a maggior ragione, per la situazione italiana, di cui ci occuperemo.

La causa principale della relativa fluidità della categoria di ‘cattolicesimo liberale’ applicata all’ambito nazionale, consiste nella difficoltà di precisare il senso di entrambi i termini che la compongono e dunque la portata della loro correlazione. Ciò dipende sia dall’accezione polisemica assunta, nell’Italia del primo Ottocento, dalla qualifica di ‘liberale’, sia, per altro verso, dalla non agevole fissazione di criteri in base ai quali stabilire la pertinenza del riferimento al cattolicesimo, se non si voglia assumere come canone identificativo o la semplice affermazione soggettiva di adesione al credo cattolico o il solo riferimento a un’ortodossia cattolica come definita dall’autorità della Chiesa. A tal proposito, è infatti da considerare che proprio la delimitazione del campo in cui la Chiesa istituzionale era legittimata a far valere la propria autorità chiedendone ai fedeli il rispetto incondizionato in quanto custode dell’ortodossia fu uno dei problemi più avvertiti dagli ambienti cattolico-liberali, fu, se vogliamo, il nocciolo del conflitto endocattolico che li vide progressivamente emarginati; ciò avvenne in coincidenza con il prevalere di un cattolicesimo integrale o (come anche si disse) senza aggettivi, per il quale la qualificazione di cattolico implicava la conformazione vincolante a un magistero ecclesiastico in fase di estensione, e una conseguente contrazione dei margini di opinabilità ed eventualmente di dissenso lasciati alla coscienza dei fedeli. Importa dunque rilevare sin d’ora come nel confronto tra cattolici detti liberali e cattolici integrali si giocasse una partita che, riguardando il ruolo del cattolicesimo e della Chiesa cattolica in un contesto di modernizzazione come quello italiano del  secolo XIX, toccava radici profonde della sua costituzione dottrinale, del suo impianto culturale e della sua forma istituzionale, che anche in seguito a quel confronto furono in certa misura ridefiniti.

D’altra parte, la circolazione di istanze liberali in ambienti cattolici – comprensivi di settori non irrilevanti dell’ordine ecclesiastico – e la loro rielaborazione in modi ritenuti coerenti con il sistema di verità espresso dalla dottrina e dalla tradizione cattoliche non mancarono d’incidere sull’intero spettro della cultura liberale italiana, conferendole taluni tratti peculiari rimasti lungamente operanti, sovente in modo sotterraneo. Se è dunque vero che il concetto di cattolicesimo liberale esige molte precisazioni per non trasformarsi in vago indicatore di esperienze, idee e progetti difformi, è altresì vero che, se lo si utilizza come formula sintetica alludente all’emergere di istanze liberali nel cattolicesimo italiano (e viceversa), esso può servire a designare un fenomeno tanto complesso quanto, tuttavia, nevralgico nella storia religiosa, culturale e politica nazionale. L’immagine che meglio si addice a rendere l’idea di cattolicesimo liberale è forse quella di costellazione, implicante la delimitazione di uno spazio ideale facendo salve tuttavia la pluralità e la specificità dei soggetti che vi gravitavano. Di questa immagine ci serviremo nelle pagine che seguono.

La situazione religiosa della Restaurazione

La cornice in cui vennero emergendo nel cattolicesimo della Restaurazione personalità e circoli intellettuali consapevoli del fatto che l’onda lunga della Rivoluzione francese e poi del predominio napoleonico in Italia avevano accelerato i processi di trasformazione della vita e della cultura religiosa iniziati all’epoca delle riforme dei principi ‘illuminati’, richiede alcune note preliminari. Per rilevare in primo luogo che il breve, quanto traumatico, impatto delle repubbliche dette giacobine tra il 1796 e il 1799, ma soprattutto il successivo, più durevole innesto di modelli istituzionali e legislativi napoleonici nella penisola, pur incidendo meno marcatamente che in Francia sulla situazione religiosa italiana, avevano nondimeno sgretolato più a fondo e più estesamente delle riforme settecentesche molte istituzioni ecclesiastiche, a cominciare dagli ordini, dalle congregazioni e dalle confraternite religiose e dal fitto tessuto delle diocesi italiane (molte delle quali in epoca napoleonica erano state abolite); avevano realizzato un certo grado di laicizzazione degli ordinamenti giuridici, aprendo tra l’altro l’accesso delle minoranze religiose ai diritti civili; avevano generato crisi e divisioni nel clero cattolico, che si erano anche tradotte in una sua considerevole riduzione numerica e in una caduta verticale nelle vocazioni religiose3. Da ultimo, l’instabile equilibrio raggiunto tra il potere napoleonico e la Chiesa cattolica era stato definitivamente infranto nel 1809 con l’occupazione francese di Roma, la cancellazione del potere temporale dei papi (già per breve tempo abbattuto dalla Repubblica romana del 1798) e la deportazione del pontefice Pio VII. In direzione opposta, ad eccezione dei domini austriaci del Lombardo-Veneto, si erano mossi i sovrani restaurati, tra i quali si annoverava a pieno titolo il sommo pontefice, ritornato in possesso del proprio Stato territoriale, che da circa un millennio gli consentiva di assommare sulla sua persona le prerogative di vertice gerarchico della Chiesa cattolica e di sovrano temporale4. Il segno dominante della Restaurazione era stato – se vogliamo impiegare una formula d’uso – l’alleanza fra trono e altare, che aveva chiuso, anche simbolicamente, l’epoca delle riforme iniziata alla metà del Settecento: molti dei sovrani restaurati (come i Borboni nel Regno delle Due Sicilie e i Savoia nel Regno di Sardegna) avevano stipulato con la Santa Sede nuovi concordati o accordi di varia natura, avevano riammesso sul loro territorio gli ordini religiosi (tra cui la Compagnia di Gesù, ricostituita dal papato nel 1814 dopo la soppressione avvenuta nel 1773) affidando loro compiti nevralgici nel campo dell’istruzione e dell’assistenza pubblica, avevano restituito alla Chiesa posizioni di controllo e di privilegio nel sistema normativo e giurisdizionale (censura ecclesiastica sulla stampa, diritto del clero a essere giudicato da propri tribunali, immunità fiscale delle proprietà ecclesiastiche, abolizione dei diritti già riconosciuti alle minoranze religiose, e così via). La compenetrazione dei poteri e degli ordinamenti degli Stati assolutistici della Restaurazione con quelli della Chiesa cattolica – a cui contribuiva la conferma ai sovrani restaurati del potere di designazione dei vescovi nei loro Stati come pure l’attribuzione di funzioni pubbliche a esponenti del clero – celava tuttavia elementi critici su entrambi i fronti. Dal lato dei sovrani confermava l’avvenuta erosione delle basi della loro legittimità, che li spingeva ad affidarsi al sostegno della Chiesa sotto il profilo istituzionale e della religione sotto quello ideologico, per trarne garanzia di stabilità dei loro troni. Dal lato della Chiesa, accentuava i fattori di solidarietà – non privi di ricadute sul tono della vita religiosa – con regimi politici e sistemi di governo arcaici (nonostante qualche timido tentativo riformistico), precocemente messi in difficoltà dal manifestarsi di spinte sociali, culturali e politiche antagonistiche. Non faceva eccezione in questo panorama lo Stato pontificio, ultimo Stato ecclesiastico sopravvissuto nel panorama europeo, le cui sorti risultavano sempre più dipendenti dalle garanzie diplomatiche e dagli interventi militari di potenze esterne (primo fra tutti l’impero austriaco) che dalle proprie risorse e dall’efficienza dei propri apparati di governo. Inoltre la commistione di funzioni e di giurisdizioni civili ed ecclesiastiche, propria di quasi tutti gli altri Stati italiani, si era qui tradotta in fusione totale, con una legislazione interamente plasmata sul diritto canonico e tutte le principali cariche pubbliche ricoperte da personale ecclesiastico di alto rango. L’intreccio quasi inestricabile tra gli organismi e le funzioni di governo della Chiesa universale, facente capo al sommo pontefice come suo vertice, e gli organi di governo e di amministrazione dello Stato pontificio, oltre a riflettersi sulla complessa struttura della Curia romana ricostituita e potenziata nella Restaurazione, aveva favorito l’enfatizzazione del potere temporale dei papi come condizione di esercizio del loro potere spirituale. Che questo particolare assetto del governo apicale della Chiesa di Roma presentasse considerevoli inconvenienti sia sotto il profilo della vita religiosa sia in relazione allo sviluppo civile ed economico delle popolazioni appartenenti allo Stato pontificio, era un fatto avvertito già al momento della Restaurazione nella stessa Curia romana e nel collegio cardinalizio, dove si erano profilati progetti di riforma5, rimasti però senza alcun seguito.

Lo scenario sin qui delineato risulterebbe tuttavia ampiamente lacunoso se non si accennasse ad altre sue componenti che segnalavano una situazione religiosa ed ecclesiastica in movimento, facendone emergere marcati tratti di novità rispetto al recente passato. Due aspetti di diversa natura, ma in qualche misura intersecati, meritano particolare attenzione.

Il primo concerne il potenziamento istituzionale e simbolico del primato pontificio nella e sulla Chiesa, che faceva stridente contrasto con la relativa precarietà del potere temporale esercitato dai papi sul loro Stato territoriale. Uno dei principali effetti delle vicende che avevano investito la cattolicità europea nell’epoca rivoluzionaria e napoleonica fu la crisi delle Chiese nazionali, a cominciare da quella gallicana6. In diverse aree cattoliche erano sorti, per contrasto, movimenti d’opinione, generalmente denominati ‘ultramontani’, che guardavano a Roma, alla sede di Pietro, come punto di riferimento privilegiato o esclusivo, ben oltre la tradizionale centralità del papato – consolidata dalla Controriforma – nella costituzione e nella dottrina ecclesiastica. Possiamo dire che in presenza dei processi di secolarizzazione innescati con violenza dalla Rivoluzione, e continuati, seppure in forme più attenuate, nell’età napoleonica, la cattolicità fu percorsa da un moto centripeto, che guardava al sommo pontefice – in ragione dei carismi e dei poteri conferitigli dalle sue prerogative di ‘vicario di Cristo’, di successore di Pietro e di supremo custode della fede – come al cuore propulsivo dell’intero corpo ecclesiastico, come alla roccia che, sola, poteva garantirgli unità e indipendenza nei confronti del potere degli Stati. L’alone mitico diffuso intorno alla resistenza opposta da Pio VII alla tirannide napoleonica entrava a far parte costitutiva dell’immaginario simbolico dell’‘ultramontanesimo’. Questo poteva anche avvalersi di un rinnovato dispiegamento della dottrina teologica e canonistica7 a sostegno delle prerogative primaziali del pontefice consolidate dall’attributo dell’infallibilità (più tardi elevata a principio dogmatico dal concilio ecumenico Vaticano I), oltre a generare effetti imponenti nella sfera devozionale e a portare nuova linfa al movimento in senso romano-centrico del governo della Chiesa universale. Tutti questi fenomeni acquistavano maggiore intensità in Italia, dove, accantonata quasi ovunque la politica di supremazia sulle Chiese locali avviata dai sovrani settecenteschi e proseguita in età francese, i tradizionali legami di dipendenza dalla Santa Sede degli episcopati e in genere delle istituzioni religiose territoriali si erano ristabiliti e sotto molti riguardi rinsaldati. Il primato del vescovo di Roma insediato nel cuore dell’Italia, eletto da secoli tra i vescovi italiani, com’era di origini italiane la maggior parte dei suoi collaboratori, tornava a imprimere una dominante connotazione pontificia allo spazio ecclesiastico della penisola, ove peraltro, anche a motivo della persistente frammentazione politico-territoriale, non aveva mai preso forma una Chiesa nazionale paragonabile a quella gallicana o austriaca.

Va infine notato che il principio della supremazia e dell’infallibilità pontificia era stato utilizzato da una parte consistente della cultura cattolica dell’età della Restaurazione come fulcro di una teorica controrivoluzionaria, cioè come segno e formula non solo di un ordine ecclesiastico e religioso da ricostituire dopo gli sconvolgimenti e le lacerazioni dell’epoca trascorsa, ma pure di un ordine politico e civile alternativo a quello profilato dai princìpi dell’Ottantanove: un ordine secondo cui la natura assolutistica della sovranità politica poteva essere temperata soltanto dalla sua sottomissione a una superiore autorità religiosa come quella del pontefice, oltre che dal rispetto delle tradizioni nazionali radicate a loro volta nella religione. Il manifesto della nuova cultura controrivoluzionaria – giunta a una considerevole diffusione in ambienti dell’aristocrazia e del clero cattolico in molti Stati italiani (nel Regno sabaudo, nel Ducato di Modena, nel Regno delle Due Sicilie), animatrice di inedite esperienze associative, come le Amicizie cattoliche piemontesi, e di pubblicazioni periodiche, come L’Amico cattolico di Torino, Le memorie di religione, di morale e di letteratura di Modena, L’enciclopedia ecclesiastica e morale di Napoli – apparve a Lione in lingua francese nel 1819 (e in italiano nel 1821) con il titolo programmatico di Du Pape. Ne era autore Joseph De Maistre un nobile savoiardo dalla vita movimentata, già rappresentante del Regno di Sardegna presso la corte degli zar. L’importanza dell’opera stava anche nell’aver divulgato un’immagine della Rivoluzione francese, già messa a fuoco durante il suo corso e poi destinata a straordinaria e durevole fortuna, come ultimo effetto dell’anarchia generata nella sfera religiosa dalla Riforma protestante con il suo rifiuto della ‘costituzione monarchica’ della Chiesa imperniata sul papato e con l’adozione del principio del ‘libero esame’ della Scrittura, poi riverberatosi a cascata in campo intellettuale con l’Illuminismo e in campo sociale e politico con la dirompente ondata rivoluzionaria. L’esaltazione del primato pontificio assumeva in questo quadro il significato più generale di una restaurazione a tutto sesto del principio di autorità di origine sovrannaturale in opposizione a un ordine ‘moderno’ giudicato preda delle pulsioni anarchiche di un individualismo senza legge, che, in nome di una sedicente libertà, aveva corroso, insieme con la religione cattolica, le fondamenta della morale pubblica e privata e scardinato i tradizionali vincoli sociali8. Analoghi registri, volti a dimostrare gli effetti distruttivi sulla vita associata generati dall’individualismo in campo religioso attribuito alla Riforma, erano stati toccati da altri autori cattolici della Restaurazione, come l’abate Félicité-Robert de Lamennais, autore di un Essai sur l’indifference en matière de religion pubblicato in Francia tra il 1817 e il 1823 e largamente conosciuto e discusso anche in Italia9.

Le tesi di De Maistre profilavano le coordinate ideologiche di un ordine sociale e politico in cui l’istituzione ecclesiastica imperniata sulla monarchia pontificia era messa al centro della scena come unica depositaria di un sistema di valori incernierato sul principio di autorità, desunto dalla rivelazione e dalla tradizione. Il messaggio conteneva elementi di forza e di debolezza. Il suo principale elemento di forza consisteva nella capacità di offrire un’immagine lineare delle origini e dei successivi sviluppi del mondo moderno, stabilendo un rapporto diretto tra Riforma e Rivoluzione: situare nella Riforma il punto di lacerazione onde era scaturita una cultura pervasiva che aveva sovvertito l’ordine naturale e divino delle cose in nome di un falso principio di autodeterminazione umana, sfociato ineluttabilmente nelle aberrazioni rivoluzionarie, significava affidare la tutela di quel medesimo ordine alla sola Chiesa cattolica, estendendone la potestà sull’intero spettro della vita associata. Un fattore di debolezza stava nella scarsa considerazione dei processi reali che avevano costituito il propellente del mondo moderno. Ma va pure osservato che la cultura cattolica controrivoluzionaria, assurta nei suoi tratti essenziali a cultura diffusa, sebbene non esclusiva, nei gangli della gerarchia cattolica, prospettava una soluzione esasperatamente autoritaria e ierocratica a una questione più generale, che aveva preso forma nell’età napoleonica ed era esplosa nel clima della Restaurazione. È questo il secondo rilevante aspetto di novità che occorre qui prendere in esame.

Cristianesimo nell’età romantica

Nel panorama europeo del primo Ottocento si erano delineati importanti fenomeni di rinascita religiosa, che nelle aree protestanti avevano generalmente preso il nome di Réveil («Risveglio»), mentre nelle aree cattoliche, tra cui l’Italia, avevano assunto modalità più varie e con molte differenze territoriali: la proliferazione di nuove congregazioni maschili e femminili di vita attiva o contemplativa, un miglioramento nei costumi del clero, maggior cura dedicata alla catechesi e alla vita delle parrocchie, e così via10. Ma un rilievo del tutto particolare aveva assunto il riproporsi delle questioni religiose nella considerazione dei ceti colti e dell’attività intellettuale, quando il segno prevalente della cultura europea era stato impresso dal romanticismo. La forza d’attrazione del ‘religioso’ come oggetto di riflessione, di indagine e di critica, ma pure come esigenza di natura più intima e personale (evidenziata dai frequenti ritorni di uomini di cultura alle fedi tradizionali e specialmente al cattolicesimo, come nei casi di Alessandro Manzoni, di Silvio Pellico, di Ludovico di Breme per citare solo alcuni esempi italiani), era determinata da moventi e impulsi molteplici. Vi esercitava comunque un peso determinante il rinnovato consenso guadagnato dall’idea che la legge e la vita morale potessero trovare solide fondamenta soltanto radicandosi in una sfera religiosa trascendente, e che, d’altra parte, la qualità della morale privata e pubblica dipendesse dalla conformazione della religione da cui promanava.

In tanto dibattere di religione, la sfera del religioso si estendeva a dismisura, valicando di molto i confini delle confessioni e delle Chiese cristiane, anzi assumendo di frequente curvature aconfessionali, adogmatiche, antiecclesiastiche11: si parlava di un ‘sentimento religioso’ originario e incoercibile iscritto nell’animo umano e antecedente a qualsiasi credo positivo; si era ripreso il tema della ‘religione civile’ messo in circolazione da Rousseau; si erano profilate dottrine religiose a carattere umanitario, come il ‘nuovo cristianesimo’ di Saint-Simon o la religione mazziniana, senza che tramontassero le tipologie religiose d’impronta massonica, deistica, naturalistica e così via. Nondimeno il nocciolo predominante del discorso religioso continuava a concernere il cristianesimo o, per meglio dire, la sua attitudine ad alimentare una morale privata e pubblica confacente alle esigenze etiche di ceti sociali, di sistemi economici e di ordinamenti politici in fase di trasformazione più o meno accelerata. Senza entrare nel merito dell’ampio spettro di risposte fornite a una questione che investiva i progetti e le utopie di società divenute più dinamiche, ci limiteremo a rilevare che il variegato orizzonte religioso dell’età romantica tendeva a polarizzarsi, a grandi linee, su una lettura del cristianesimo come religione fondata, per sua natura, sulla libera adesione della coscienza individuale alle verità della fede (dunque guardando alla religione come a un fatto incoercibile di coscienza), oppure considerata come l’insieme di valori che nel corso dei secoli avevano permeato la vita collettiva delle comunità cristiane, traducendosi in senso comune e in legame sociale (dunque guardando alla religione come a un fatto comunitario e principio associativo). Non necessariamente i due assi di richiamo al cristianesimo si escludevano – pur producendo effetti teorici e pratici di diverso segno –, talora anzi si integravano, anche perché avevano in comune almeno due tratti essenziali. Anzitutto presentavano la sfera religiosa nelle fattezze di un limite invalicabile da parte del potere politico – e in questo senso alimentavano in diversa misura l’alveo liberale – conferendo allo Stato il compito preminente, non d’intervenire in materia religiosa o di conformarsi alle prescrizioni delle Chiese, bensì di garantire la libertà religiosa e di culto (ma pur sempre all’interno di un comune universo religioso), e la libertà delle comunità religiose, istituite in Chiese, di autodeterminarsi. Non quindi le molteplici e drammatiche forzature prodotte dalla Rivoluzione francese in campo religioso bensì la costituzione americana e l’incompetenza ivi sancita del potere federale in materia religiosa, cui aveva corrisposto una grande vitalità dei gruppi religiosi nel tessuto sociale e civile, offrivano al cristianesimo di venature liberali un possibile esempio cui attingere, veicolato con incomparabile efficacia dalla pubblicazione, avvenuta a Parigi in due parti uscite nel 1835 e nel 1840, della Démocratie en Amérique di Alexis de Tocqueville, largamente circolata anche in Italia.

In secondo luogo, il cristianesimo di coscienza come il cristianesimo di associazione portavano iscritta una profonda e talora radicale rivisitazione della storia e della dottrina cristiana, in cui risultavano prevalenti i richiami diretti alla Sacra Scrittura e al cristianesimo delle origini, con l’intento di selezionarvi prescrizioni d’indole morale piuttosto che dogmatica o teologica. Se ne ricavava un complesso di doveri e di diritti non lontani e talora formalmente identici a quelli dell’Ottantanove (libertà, uguaglianza e fraternità) riletti sub specie cristiana, e privilegiando il volto beneficamente operoso del precetto cristiano della carità, intesa come adempimento di un obbligo di coscienza che imponeva la partecipazione attiva al progresso della vita associata e dei suoi ordinamenti, l’impegno all’elevazione delle condizioni materiali e morali delle classi popolari, l’attenzione ai problemi dello sviluppo economico. Si trattava, nell’insieme, di un codice morale adeguato alle preferenze etiche di élites sociali e culturali in ascesa, includenti frazioni dell’aristocrazia, e coincidente con la loro propensione politica per gli ordinamenti costituzionali, purché non promananti dal principio, considerato pericolosamente sovversivo, della sovranità popolare.

In coincidenza con l’enfasi posta sulle matrici religiose della morale individuale e sociale si era profilata una considerazione del rapporto tra cristianesimo e civiltà profondamente difforme da quella prevalente nella cultura illuministica, specialmente d’area e di lingua francese. L’accento non cadeva più su un’idea di civiltà (civilisation) intesa come liberazione, condotta in nome della ragione, dalle falsità, dalle aberrazioni e dalle mitologie irrazionali e terrificanti veicolate dalla religione tradizionale e in modo specifico dalla Chiesa cattolica, bensì sull’impulso impresso precisamente dalla fede e dalle istituzioni religiose nel plasmare una civiltà europea, vale a dire forme di cultura, costumi e norme di vita associata, sgorgante da comuni radici cristiane. L’approccio romantico al concetto di civiltà cristiana consentiva, tra l’altro, un ripensamento dell’età medievale – epoca di oscurantismo nella visione prevalente nell’Illuminismo e assurta invece a protagonista della storiografia, della letteratura e dell’arte romantica – ora avvertita come l’alveo originario da cui erano scaturite la civiltà moderna e buona parte delle sue istituzioni12. Non per questo passava in seconda linea la cesura segnata dalla Riforma, riproposta, specie nel contesto del protestantesimo liberale, come passaggio nevralgico nella storia della coscienza moderna (valutazione coincidente, ma con segno rovesciato, con quella che abbiamo visto prevalere nella Chiesa cattolica); nondimeno il concetto di ‘civiltà cristiana’ utilizzato dalla cultura romantica tendeva a inglobare l’età medievale e l’età moderna in un’unica grande epoca della storia umana contrassegnata dall’influsso civile del cristianesimo. In questo quadro poteva anche inserirsi una rappresentazione selettiva della Rivoluzione francese, che disgiungeva i suoi aspetti terroristici e sanguinari dai suoi originari moventi, identificando in questi ultimi la proiezione di istanze civili e politiche promananti dal fondo comune di quella civiltà cristiana.

Questione nazionale e questione religiosa in Italia

Il fitto intreccio di esigenze morali e di ripensamenti storici che, su scala europea, avevano fatto guardare al cristianesimo con gli occhi della cultura romantica, assumeva in Italia un’incidenza (e una venatura) particolare saldandosi con un movimento nazionale in ascesa e, più precisamente, investendo il suo rapporto con la religione cattolica professata dalla quasi totalità delle popolazioni italiane. Anche per questo aspetto la scena era mutata dopo la fine del predominio napoleonico. Integrare il cattolicesimo degli italiani nella questione nazionale significava misurarsi con una nuova situazione ecclesiastica e principalmente – per le ragioni già dette – con un papato ristabilito saldamente alla guida della Chiesa e rientrato in possesso del potere temporale esercitato su uno Stato della penisola. Ma il rapporto tra questione nazionale e religione degli italiani veniva reso ancora più complesso dalla progressiva traslazione dell’idea di nazione in ‘principio di nazionalità’, che individuava nella nazione (pur variamente rappresentata) la fonte di legittimità di un’ancora ipotetica entità politica, lo Stato nazionale, mai in precedenza costituitasi in Italia. Se un certo qual sentimento nazionale, fondato su ragioni storiche, linguistiche e religiose poteva trovare favorevole accoglimento anche in ambito ecclesiastico, l’attribuire alla nazione un valore fondativo e legittimante, che scavalcava o sostituiva quello di cui godevano i sovrani restaurati, poneva per la Chiesa cattolica ardui problemi di teologia politica, come meglio vedremo, oltre a coinvolgere necessariamente le sorti dello Stato pontificio. La questione nazionale italiana presentava dunque molte peculiarità sotto il profilo religioso nei confronti di altri movimenti nazionali coevi.

È da considerare, in questo quadro, la consistenza di una tradizione di pensiero, risalente a Nicolò Machiavelli e rilanciata sotto diverse angolature nel Settecento (per esempio da Pietro Giannone) e nel primo Ottocento, secondo cui l’Italia non aveva potuto conformarsi al modello dei grandi Stati nazionali europei, indipendenti e sovrani, per responsabilità precipua del papato, insediato al centro della penisola, e della educazione impartita agli italiani dalla Chiesa cattolica: il papato, per garantirsi il controllo di un proprio Stato territoriale, aveva aperto il suolo italiano alle invasioni e alle ingerenze straniere; il cattolicesimo aveva infiacchito e corroso la fibra morale degli italiani, facendone un popolo ‘senza religione’, cioè incapace di esercitare quella ‘virtù’, che Machiavelli aveva visto risplendere nell’antica Roma repubblicana e in altri popoli europei a lui contemporanei. La lezione di Machiavelli, rielaborata e rilanciata in senso repubblicano13, aveva lasciato una forte impronta sulla cultura antipapale e anticattolica. Il tema della inconsistenza morale degli italiani, che si traduceva in passività, in subordinazione agli stranieri, in attitudine oziosa, in mancanza di coscienza civica, era rimasto vivo all’epoca dellaRestaurazione. Fu ripreso, tra gli altri, dall’economista protestante ginevrino, ma stabilitosi in Toscana, Simonde de Sismondi, nell’ampio trattato dedicato alla Storia delle repubbliche italiane del Medioevo, pubblicato in vari volumi tra il 1807 e il 1818: dove i guasti generati nella coscienza morale degli italiani dalla loro prevalente educazione cattolica erano addebitati prevalentemente all’opera della Controriforma. Sismondi vi opponeva la morale civile, il patriottismo, il senso d’indipendenza delle comunità cittadine medievali. L’azione della Chiesa controriformistica aveva fatto degli italiani un popolo cattolico più che cristiano, aveva asserito Sismondi, riprendendo un’immagine già utilizzata daUgo Foscolo e da altri prima di lui. L’opera di Sismondi s’inseriva, con alcune varianti, nel solco di quelle correnti di pensiero che sin dal secolo XVIII avevano fatto dipendere la decadenza dell’Italia in età moderna principalmente da fattori d’indole morale, subordinando ogni sua possibile rinascita a una riforma di natura etico-religiosa14. La questione morale, dipendente dalla religione professata dagli italiani, era così entrata a far parte costitutiva della questione nazionale.

La consistenza e la continuità di una tradizione che aveva informato modi di pensare diffusi nel tessuto della cultura anticlericale aprivano un vasto campo di riflessione e di intervento per quelle personalità e circoli cattolici che ne contestavano le ragioni, ma, nel contempo, avvertendone la portata, sentivano l’urgenza di aprire altri orizzonti nel discorso e nella vita religiosa, prendendo le distanze dai modelli privilegiati dalla cultura controrivoluzionaria della Restaurazione.

La riconsiderazione, sulla base di nuovi paradigmi, del ruolo del papato e della Chiesa nella storia d’Italia, e il riesame delle condizioni che potevano conferire alla religione cattolica il senso di una risorsa positiva, anziché di un vincolo negativo, per l’educazione morale degli italiani, in rapporto con la formazione di una coscienza nazionale non circoscritta alle élites della cultura, delineavano pertanto uno spazio ideale in cui quelle personalità e ambienti cattolici, prima che si profilasse in termini concreti l’edificazione di uno Stato nazionale e, in certa misura, indipendentemente da tale obiettivo, ebbero qualcosa di originale da dire e da proporre.

C’era tuttavia un altro terreno sul quale quelle stesse personalità e circoli cattolici dovevano misurarsi più direttamente con l’autorità della Chiesa di cui si sentivano parte, ed era una questione di ordinamenti politici e civili. Come si è accennato, molti sintomi indicavano che l’assetto della penisola dopo la Restaurazione risultava altamente instabile. I moti del 1820-1821 e quelli del 1831 (che avevano investito anche lo Stato pontificio), la presenza di società segrete cui erano frequentemente affiliati membri del clero cattolico, la diffusione delle associazioni e della propaganda mazziniana accompagnata da tentativi insurrezionali, la proliferazione di centri, di attività editoriali e di iniziative culturali riformistiche non allineate con i regimi vigenti e di respiro europeo davano segnali visibili che il sistema della Restaurazione era entrato in una fase di deterioramento per due aspetti principali: la insostenibilità dei sistemi di governo e degli ordinamenti pubblici in atto nei diversi Stati italiani e il predominio esercitato sulla penisola da una grande potenza non italiana come l’Austria, che aveva sostituito l’egemonia francese. Indipendenza e libertà erano gli obiettivi intorno a cui si stava gradualmente polarizzando il movimento nazionale, sebbene i due termini (e l’ordine delle priorità cui alludevano) vi assumessero valenze non omogenee, come molto diversi erano gli itinerari preconizzati per conseguirli. Nondimeno, il timbro predominante che stava assumendo il movimento nazionale italiano era dato precisamente dalla convergenza tra l’idea di indipendenza della nazione da una sovranità esterna e l’idea di libertà che, nello specifico, voleva dire in primo luogo l’accesso a ordinamenti politici d’impianto costituzionale (realizzabile, secondo i più moderati, mediante la trasformazione consensuale di quelli vigenti o, secondo la linea indicata dai mazziniani e dai democratici, mediante una loro totale rifondazione). L’instaurazione degli ordinamenti costituzionali implicava – in diverso modo e misura a seconda dei modelli di costituzione e dei percorsi prescelti per realizzarli – la tutela normativa di diritti individuali considerati inviolabili e la messa in opera del sistema rappresentativo, vale a dire la creazione di organismi parlamentari elettivi dotati di potere legislativo. Entrambe le componenti – garanzia dei diritti e sistema rappresentativo – comportavano, in ogni caso, modifiche sostanziali degli equilibri politico-ecclesiastici dominanti nella Restaurazione e aprivano fronti di controversia sul piano religioso.

I segnali in tal senso si fecero più numerosi a cavallo degli anni Trenta. All’indomani dei moti del 1831, che avevano fatto seguito alla Rivoluzione francese dell’anno precedente, fu emanata dal papa regnante, Gregorio XVI, l’enciclica Mirari vos (agosto 1832). Vi erano esposte le ragioni dottrinali – in tutto coincidenti con la rappresentazione che dava la Chiesa della propria ‘divina costituzione’ e dei propri poteri – di una condanna senza appello di ordinamenti pubblici che tutelassero la libertà religiosa, di culto, di stampa, di opinione (complessivamente definite come «libertà moderne»). L’enciclica confermava un indirizzo del magistero pontificio già da tempo in vigore. Essa colpiva, pur senza farvi esplicito riferimento, le tesi sostenute dal movimento sorto in Francia intorno all’abate Lamennais (che aveva in parte rivisto le sue precedenti posizioni) e al periodico «L’Avenir», di tendenze cattolico-liberali: queste si sostanziavano nella pressante richiesta rivolta alla Chiesa francese di rescindere ogni legame con il potere dello Stato e di accettare con favore le condizioni di libertà che i moderni ordini costituzionali potevano garantirle. Le parole di condanna di papa Gregorio riguardavano particolarmente tre aspetti: il disegno di separare la Chiesa dallo Stato, il principio della libertà di coscienza e il concetto di libertà religiosa, secondo cui – asseriva il documento pontificio – sarebbero stati riconosciuti identici diritti legali alla verità posseduta e custodita dalla Chiesa cattolica, e all’errore seminato dalle altre confessioni o gruppi religiosi. Tale equiparazione altro non era, secondo l’enciclica, che la proiezione politica del principio d’indifferenza in materia religiosa divulgato dalla cultura moderna: la quale, riducendo la religione all’esclusiva sfera della coscienza individuale, privava l’ordine sociale e pubblico dei vincoli e degli obblighi morali (incluso quello di obbedienza e sottomissione ai sovrani legittimi) che solo la vera religione insegnata dalla Chiesa di Roma poteva compiutamente preservare. La condanna per ragioni rigorosamente dottrinali delle «libertà moderne» non investiva gli ordini costituzionali come forma di governo rappresentativo, ma li assoggettava a due rigide condizioni pregiudiziali. La prima concerneva il mantenimento negli Stati cattolici della esclusiva predominanza della Chiesa come istituzione e del cattolicesimo come religione, vincolando al suo rispetto, e dunque al consenso della Chiesa, anche le competenze dei corpi rappresentativi. La seconda poneva una questione essenziale di legittimità, subordinando l’adozione delle forme costituzionali o al consenso dei sovrani legittimi o all’instaurazione di un ordine superiore di giustizia (di cui la Chiesa si considerava depositaria e interprete) prevalente sui titoli tradizionali di legittimità dei sovrani.

Il caso si era presentato in quel torno di tempo con la nascita del nuovo Regno del Belgio, a maggioranza cattolica, avvenuta per distacco dal Regno dei Paesi Bassi, governato da un sovrano protestante, e sulla base di un accordo tra cattolici (sostenuti da alcuni vescovi) e liberali intorno a una costituzione che introduceva un certo grado di separazione tra lo Stato e la Chiesa15. Nonostante le considerevoli resistenze opposte da Roma agli orientamenti giudicati ‘liberali’ di una parte dell’episcopato locale, il caso belga aveva mandato un chiaro segnale che la teologia politica cattolica, sotto l’intransigenza dei princìpi, celava risorse non marginali di plasticità rispetto alle variabili circostanze storiche. L’esempio del Belgio ebbe larga e durevole risonanza in quegli ambienti cattolici italiani di cui stiamo discorrendo, sebbene i termini in cui si poneva in Italia la questione nazionale fossero totalmente diversi. Non ultimo, tra questi, il fatto che l’imperatore d’Austria (pur rimasto sostanzialmente fedele alle riforme ecclesiastiche del Settecento osteggiate da Roma) e i sovrani italiani (fra cui, ovviamente, il sommo pontefice) erano, per definizione, sovrani cattolici, e anche per tale motivo dotati di una legittimità per la Chiesa difficilmente contestabile.

Aree d’irradiazione e conformazione culturale dei cattolico-liberali

Abbiamo sin qui registrato, a grandi linee, la tela di fondo su cui prese forma e sviluppo la costellazione dei cattolico-liberali, accennando alle più scottanti questioni con cui ebbero a confrontarsi. Se restringiamo il campo e tentiamo di applicare al nostro soggetto criteri più analitici, s’impongono due possibili linee di lettura, in qualche misura interdipendenti, che potremmo definire ambientale e tematica. Una considerazione va tuttavia premessa a ogni altra. A imprimere una cifra comune alla costellazione cattolico-liberale c’era specialmente uno sguardo critico sullo stato reale della vita religiosa in Italia e conseguentemente sulla condizione morale degli italiani, per quanto puntato in prevalenza sui comportamenti delle élites, comprese quelle ecclesiastiche, piuttosto che sui ceti popolari, considerati in genere religiosamente e moralmente più affidabili16. Uno sguardo, si deve aggiungere, reso più severo dalla ferma convinzione, promanante in taluni da attese di rinnovamento religioso intrise di venature millenaristiche, che i tempi fossero, viceversa, propizi alla religione come non lo erano stati nel passato, e in particolare alla religione cattolica, purché sapesse rispondere alle domande di un mondo fattosi assai più esigente che nel passato sul piano intellettuale, dove si stavano imponendo nuovi attori sociali, dove si erano aperti più larghi spazi alla competizione e alla circolazione delle idee e delle fedi, dove, infine, stava acquistando peso crescente la potenza immateriale, ma ormai ben percepibile, dell’opinione pubblica.

Come ogni costellazione, quella cattolico-liberale ebbe i suoi centri d’irradiazione: che furono principalmente Milano e l’area lombarda con ramificazioni venete, Firenze e il suo retroterra toscano, Torino e alcune propaggini piemontesi. Ciò non significa che non si formassero nella penisola (in Emilia, nel Napoletano e altrove) altri focolai, anche significativi, o personalità, anche di rilievo pubblico, appartenenti ad analoghi circuiti culturali e religiosi, né che essi operassero in stato d’isolamento. Significa semplicemente che nelle aree menzionate la permeazione cattolico-liberale dell’ambiente circostante fu più rilevata che altrove, anche in rapporto al prestigio delle personalità che vi operavano. È superfluo osservare che quelle aree d’irradiazione avevano alle spalle storie diverse anche dal punto di vista religioso e culturale, che non mancarono d’incidere sulla configurazione ivi assunta dai cattolico-liberali. In proposito ci limiteremo a osservare che Milano e la Lombardia, cuore della tradizione ambrosiana (e poi borromaica) e di un antico spirito autonomistico, portavano ancora impressi i segni della cultura illuministica e della riforme ecclesiastiche asburgiche, che si erano variamente miscelate con il tardo giansenismo lombardo; a Firenze e nell’area toscana, in cui non si erano mai del tutto spenti gli echi delle libertà repubblicane e dove ancora aleggiava lo spirito ribelle del Savonarola, si coglievano gli estremi riflessi delle riforme leopoldine e dei fermenti culturali e religiosi (segnati anche questi da un’impronta giansenistica) che le avevano accompagnate; Torino, pur avvolta dalla coltre di un regime sabaudo che aveva concesso ampio spazio alla Chiesa e influenzato da un’aristocrazia alla Chiesa, in genere, devotissima, annoverava taluni corpi pubblici (magistrature, università) in cui esercitavano ancora peso considerevole i fautori di una legislazione di stile regalista o giurisdizionalista, basata, cioè, sul principio della supremazia dello Stato in materia ecclesiastica. Ma il radicamento di istanze cattolico-liberali nelle aree menzionate era dovuto, in misura considerevole, al fitto tessuto di relazioni che vi si intrattenevano con ambienti culturali e religiosi d’Oltralpe, al riverbero di atmosfere che avevano uno sfondo europeo, anche quando si coloravano, e volevano colorarsi, di una forte impronta nazionale. E non stiamo qui solo parlando delle relazioni intrattenute da molti dei personaggi gravitanti in quelle aree con la cultura di altri paesi europei con cui erano entrati a diretto contato in epoche diverse e per svariate ragioni biografiche (Manzoni, Balbo, Capponi, Tommaseo, Gioberti, ecc.), ma più precisamente di una disposizione mentale che risentiva dei tratti culturalmente cosmopolitici di Milano e Firenze (assai meno di Torino, collegata però tradizionalmente, anche per via di legami familiari, alla Francia e alla protestante Ginevra).

Siffatti fattori ambientali non erano neppure irrilevanti nella determinazione dei campi d’interesse più frequentati dalla variopinta costellazione dei cattolico-liberali.

Vi rientrava un modo peculiare di guardare alla storia, sia come fonte privilegiata di conoscenza a cui attingere per orientarsi nel presente, facendo convergere la lezione proto-storicistica di Giambattista Vico e la grande tradizione erudita di Ludovico Antonio Muratori, sia come pratica storiografica indirizzata a una ri-lettura della storia d’Italia che risentiva degli sviluppi della storiografia d’Oltralpe sulle origini e la formazione delle nazioni europee17. In tal genere storiografico, rientravano, a vario titolo, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia di Alessandro Manzoni, apparso in una prima edizione nel 1822 come introduzione storica alla tragedia Adelchi, la Storia d’Italia sotto i Barbari, pubblicato nel 1830 dal piemontese Cesare Balbo (poi autore, nel 1839, di una Vita di Dante, di un volume di Meditazioni storiche, del 1842, di un Sommario della storia d’Italia, apparso nel 1846), la Storia d’Italia nel Medioevo del napoletano Carlo Troya, il cui primo volume uscì nel 1839, le Lettere sulla dominazione dei Longobardi in Italia, pubblicate nel 1844 dal toscano Gino Capponi, la Storia della Lega lombarda, edita nel 1848, del benedettino napoletano Luigi Tosti, la multiforme e disuguale produzione storica del lombardo Cesare Cantù, insieme con una messe di altri volumi, ricerche, contributi di analoga ispirazione. Si trattava, nella maggioranza dei casi, di una storiografia di orientamento ‘guelfo’, che tendeva, cioè, a enfatizzare il ruolo del papato come difensore dei popoli italici e delle loro tradizioni storiche, tanto nella fase di disgregazione dell’impero di Roma e della costituzione dei ‘regni barbarici’ quanto nell’età comunale e dei conflitti con gli imperatori germanici. Ne risultava un’immagine della storia italiana specularmente rovesciata rispetto a quella offerta da Machiavelli, ma da cui ancora affiorava sottotraccia l’efficacia dei suoi capi d’accusa. Era un modo di accostarsi alla storia d’Italia, specialmente dell’Italia medievale, che sottostava altresì a molte opere d’impianto non storiografico, ma imbevute di riflessioni sulla storia nazionale, come i cinque libri Dell’Italia, editi a Parigi nel 1835 da Niccolò Tommaseo – che per farli circolare nella penisola vi mise il titolo fittizio di Opuscoli inediti di Girolamo Savonarola – e come il Primato morale e civile degli Italiani pubblicato nel 1843 da Vincenzo Gioberti, su cui torneremo.

Più complesso si fa il discorso se ci rivolgiamo ad altro campo su cui si focalizzò l’interesse dei cattolico-liberali, vale a dire la controversa tematica della morale cattolica in quanto generatrice di comportamenti privati e collettivi. A questo proposito, il tratto che più accomunava i cattolico-liberali, distanziandoli dalle versioni probabilistiche o casistiche della dottrina morale cattolica, consisteva in una visione rigorosa dell’ordine morale, in cui si sentiva la presenza della teologia agostiniana, talora filtrata dal giansenismo, e soprattutto dalle Lettere provinciali di Pascal. Vi si riverberava una predominante concezione della morale come legge iscritta da Dio nella coscienza umana, che la Chiesa aveva il compito di orientare e alimentare, ma rispettandone un’invalicabile sfera interiore. Ciò chiamava in causa i metodi, le procedure e la natura stessa dell’autorità della Chiesa nel diffondere e far valere come precetti le regole di una morale che, per dirsi cristiana, avrebbe dovuto attenersi allo spirito e alle parole del Vangelo (un richiamo in apparenza univoco, ma di fatto utilizzato anche dai cattolico-liberali in direzioni multiple). Il tema era stato affrontato di petto nelle Osservazioni sulla morale cattolica, pubblicate nel 1819 da Alessandro Manzoni, in risposta alle tesi di Sismondi (spostando però l’attenzione dal piano storico a cui il ginevrino si era attenuto), per divenire poi uno dei fulcri tematici dei Promessi sposi, pubblicati in prima edizione nel 1827 (poi in edizione definitiva nel 1840-1842), ed essere ancora sviluppato, sotto l’angolatura del conflitto tra legge non scritta della coscienza e pratiche legali consuetudinarie, nella Storia della colonna infame, del 1829. Ma il tema della morale cattolica, incrociando nevralgiche questioni teologiche (il rapporto tra Chiesa e Rivelazione, tra autorità e libero arbitrio, tra dottrine stabilite e legge della coscienza) e colorandosi per lo più di un giudizio critico sulla morale com’era insegnata dalla Chiesa – appuntandosi con particolare insistenza su quella diffusa da taluni ordini religiosi come la Compagnia di Gesù – finiva per coinvolgere questioni più generali attinenti alla professione della fede cristiana e al senso della partecipazione alla vita della Chiesa se intesa come comunità di credenti. L’esigenza di una ‘riforma morale’ poteva così prendere le più estese dimensioni e seguire i più complessi itinerari di una riforma religiosa interna al cattolicesimo, che investiva più o meno direttamente il corpo ecclesiastico e il modo di farne parte. Sul punto, tuttavia, le strade dei cattolico-liberali si divaricavano sensibilmente.

La questione di una riforma che non lasciasse esente l’apparato dogmatico, disciplinare, rituale del cattolicesimo e delle istituzioni ecclesiastiche fu posta con una certa maggiore intensità dal gruppo toscano che faceva capo a Raffaello Lambruschini, Gino Capponi, Bettino Ricasoli18 (a cui si collegava, ma su posizioni anche più radicali, Niccolò Tommaseo19). Sugli orientamenti culturali e religiosi di quel cenacolo cattolico-liberale non mancavano d’incidere l’eredità del riformismo illuministico, la lunga presenza di Sismondi nell’area toscana, gli stretti rapporti con un attivo nucleo di protestanti liberali come l’infaticabile promotore di imprese culturali Giampietro Vieusseux, gli echi attutiti delle dottrine socio-religiose di Saint-Simon20. Meno attratti da programmi di riforma religiosa, ma più portati a cogliere i presupposti religiosi di una riforma degli ordinamenti civili e politici erano i cattolico-liberali piemontesi, molti dei quali, come Cesare Balbo, già coinvolti nel moto costituzionale del 1821. Manzoni, per parte sua, diffondeva con le proprie opere un messaggio di riforma rivolto in prevalenza all’interiorità della coscienza, guidata per vie imperscrutabili dalla parola e dalla volontà di Dio. Sul mondo religioso di Manzoni ebbero poi un peso crescente i suoi rapporti, divenuti via via più assidui, con Antonio Rosmini, che usciva dalle tipologie riformatrici sin qui considerate, sino a rappresentare per molte ragioni un caso a parte.

Anzitutto Rosmini, ordinato sacerdote nel 1821, aveva fin dagli anni della giovinezza e della prima maturità trascorsi tra Rovereto, Padova e Milano, orientato il proprio impegno intellettuale alla speculazione filosofica, con il dichiarato intento di rifondare una «filosofia amica del cristianesimo», la quale, tenendo conto degli impervi itinerari seguiti dal pensiero moderno (fino a Kant e all’idealismo tedesco), fosse in grado di contrastarne gli esiti confliggenti con la dottrina e la dogmatica cattolica. Anche Rosmini avvertiva molti sintomi di malessere nel cattolicesimo e nella Chiesa del suo tempo, ma ne faceva risalire la matrice alla carenza di riferimenti teorici in grado di competere positivamente con il pensiero moderno tradottosi in mentalità diffusa. Era dunque, a suo avviso, un deficit culturale che andava colmato, ripartendo dai fondamenti del sapere, dall’annosa questione dell’origine delle idee (cui Rosmini dedicò la sua prima importante opera, pubblicata nel 1830), dai principi della coscienza morale, dalla filosofia del diritto e della politica, e facendo perno sulla struttura antropologica della persona umana. La preminenza accordata da Rosmini alla elaborazione di un nuovo sistema filosofico di ispirazione cristiano-cattolica lo distingueva sostanzialmente dalla costellazione cattolico-liberale, il cui retroterra filosofico era, viceversa, molto variegato e frastagliato, con una certa qual predilezione per l’eclettismo21, e connotato semmai da una comune avversione nei confronti della filosofia scolastica, che stava tornando in circolazione nelle scuole teologiche.

L’ambizioso progetto di Rosmini includeva invece la predisposizione di un’organica base filosofica – analoga a quella offerta per molti secoli dalla filosofia scolastica, ma tesa a superarne l’impianto speculativo – adeguata alle nuove esigenze formative del clero cattolico. Tale impronta aveva dato alla congregazione religiosa da lui fondata nel 1828 al Monte Calvario di Domodossola con il nome di Istituto della Carità, ma guardando a orizzonti più vasti, cioè alla multiforme realtà degli istituti, dei seminari e delle scuole cattoliche22. Proprio in questo reticolo Rosmini fece, a partire dagli anni Trenta, non pochi proseliti, specialmente in area lombardo-piemontese e senza escludere gli istituti educativi di taluni ordini religiosi come i Barnabiti o gli Oratoriani, contribuendo a imprimere tratti distintivi a segmenti del clero locale, col suscitarvi, tra l’altro, una particolare sensibilità per la questione nazionale; ma incappando assai presto in aggressioni polemiche, in cui si segnalarono alcuni padri della Compagnia di Gesù, che tacciarono il ‘rosminianesimo’ di giansenismo, di cedimento agli errori della filosofia moderna, di tendenze eterodosse (e crearono intorno a Rosmini un’atmosfera di sospetto nei vertici romani). L’opera di Rosmini non si era tuttavia limitata alla filosofia e alla teologia speculativa, perché, oltre a incorporare una spiccata dimensione ascetica e mistica, non trascurava i fondamenti teorici della politica (aprendosi a taluni selezionati aspetti del costituzionalismo moderno) e della pedagogia. Al principio degli anni Trenta le ragioni del suo malessere per la situazione della Chiesa del suo tempo si erano come coagulate in un trattato dedicato al clero cattolico, Le cinque piaghe della Santa Chiesa, rimasto allora inedito e quasi sconosciuto, ma destinato, quando fu pubblicato tre lustri più tardi, a suscitare consensi e polemiche. L’autore vi enucleava, sulla base di un’ardita rivisitazione della storia ecclesiastica, le più vistose criticità presenti, a suo giudizio, nella comunità religiosa (la separazione del clero dal popolo nella liturgia, la insufficiente cultura del clero, le divisioni tra l’episcopato, le ingerenze dei sovrani nella vita della Chiesa a cominciare dalla elezione dei vescovi, l’uso distorto dei beni ecclesiastici), suggerendo alcuni possibili rimedi: tra gli altri il ritorno alla pratica antica dell’elezione dei vescovi ‘a clero e popolo’. Nel caso di Rosmini si trattava dunque di un’intenzionalità di riforma tutta pensata dall’interno della Chiesa, a cui dichiarava la propria totale devozione dimostrandola poi in pratica, e nel rispetto rigoroso delle sue istituzioni imperniate sul papato, da lui considerato motore insostituibile dell’opera di rinnovamento.

L’attenzione di Rosmini alla formazione culturale e spirituale del clero (e dei fedeli) si avvaleva di una dottrina pedagogica intimamente connessa con la sua filosofia. Ma il tema dell’educazione, che si saldava con quello della formazione religiosa e morale, rappresentò un ulteriore campo sul quale i cattolico-liberali ebbero modo di impegnarsi a fondo. Oggetto della loro opera, teorica e pratica, fu principalmente l’educazione dell’infanzia (asili infantili, scuole primarie, scuole rurali) e l’educazione popolare, nella cornice di un più vasto movimento in atto negli anni Trenta e Quaranta in diverse regioni italiane, promosso da circoli aristocratico-borghesi o ecclesiastici, come pure, su tutt’altro versante, dal movimento mazziniano e democratico, sotto lo stimolo di nuovi metodi e idee pedagogiche provenienti dall’Inghilterra, dalla Svizzera, dalla Francia23. Anche per questo aspetto la presenza di gruppi cattolico-liberali fu più incisiva nelle tre aree sopra menzionate: dalla Lombardia si irradiarono, per esempio, gli asili d’infanzia e il metodo del mutuo insegnamento promossi dal sacerdote cremonese Ferrante Aporti, poi trapiantato a Torino; l’area piemontese fu attraversata da un’analoga ventata di riformismo pedagogico teorico e pratico, che si sostanziò nella costituzione di associazioni private dedite all’educazione dell’infanzia (come quelle promosse da Roberto d’Azeglio e altri24); in Toscana ebbero risalto i programmi pedagogici esposti da Raffaello Lambruschini nella «Guida dell’educatore», pubblicata dal 1836, e applicati nell’Istituto di S. Cerbone da lui fondato, come pure le scuole rurali promosse da Bettino Ricasoli nelle sue ampie proprietà agricole. Queste e altre attività intraprese dai cattolico-liberali rispondevano alla percezione, corroborata da molte evidenze come gli altissimi livelli d’analfabetismo, che le popolazioni italiane, a paragone di altri popoli europei, soffrissero di grave arretratezza in campo educativo e scolastico; e si fondavano sulla convinzione che un innalzamento della formazione di base, guidato e controllato dalle classi colte e socialmente più elevate, si sarebbe riflesso positivamente, oltre che sul complesso delle condizioni sociali, sulla qualità della vita cristiana, liberandola da secolari componenti magiche, superstiziose, paganeggianti.

Da quanto abbiamo sin qui detto appare come le questioni attinenti agli ordinamenti e alle forme istituzionali dello Stato non stessero originariamente in cima all’ordine delle priorità dei cattolico-liberali. Pur attivamente partecipi alla diffusione a largo raggio di una coscienza nazionale imperniata su fattori linguistici, culturali e religiosi, essi non coltivarono un programma né tanto meno una strategia politica specificamente orientata alla creazione in tempi rapidi di uno Stato nazionale. Del resto, le loro visioni in argomento non collimavano: Manzoni, per esempio, guardava e guardò sempre con favore a un assetto unitario dello Stato nazionale, e non manifestò alcuna simpatia per il federalismo professato dai neoguelfi, di cui parleremo. I loro obiettivi erano semmai quelli di predisporre le condizioni di uno sviluppo in senso ‘nazionale’ delle diverse realtà in cui operavano, col renderle più omogenee tra loro e convergenti verso talune istanze, ritenute indilazionabili, di graduale e controllato ammodernamento civile, culturale e religioso. In questa cornice rientrava anche l’idea di un’evoluzione dall’interno degli ordinamenti degli Stati italiani per via di riforme, che erodessero gli istituti dell’assolutismo, estendendo a una nuova classe politica la partecipazione al governo degli Stati e la sfera dei diritti dei cittadini, sino a giungere, possibilmente per iniziativa degli stessi sovrani sottoposti alla pressione dell’opinione pubblica, all’instaurazione di ordinamenti costituzionali, pensati di preferenza secondo i modelli del costituzionalismo britannico. Il punto sul quale i cattolico-liberali esercitarono una critica più corrosiva nei riguardi dei regimi assolutistici della Restaurazione riguardava la loro legittimazione religiosa, e la commistione di potere temporale e potere spirituale che ne stava alla base. Gli effetti perniciosi di una «religione puntellata dalla forza de’ principi»25 e di un clero predicante «una cieca indefinita sottomissione ai governi» erano a loro evidenti. Li accomunava una profonda ostilità verso l’uso di strumenti coercitivi in campo religioso, così come aborrivano l’intromissione dei poteri dello Stato nella vita ecclesiastica. Su queste basi propugnavano il riconoscimento dei diritti civili alle minoranze religiose, pur differenziandosi considerevolmente in materia di libertà di culto. Le loro concezioni circa i rapporti tra Stato e Chiesa erano generalmente orientate in senso ‘distinzionista’ piuttosto che rigorosamente ‘separatista’, anche perché attribuivano un valore comunque positivo all’unità religiosa del popolo italiano, né credevano che lo Stato potesse restare indifferente alla religione dei sudditi. Persino i più convinti propugnatori della libertà religiosa, come Raffaello Lambruschini, non potevano ammettere che lo Stato acconsentisse alla diffusione dell’ateismo o di una «religione immorale», pena la distruzione della stessa compagine sociale26. Vi era tuttavia un crinale più sottile che attraversava la costellazione dei cattolico-liberali, concernente non tanto i rapporti istituzionali tra Stato e Chiesa quanto la definizione dei confini tra religione e politica. Manzoni, riferendosi ai sistemi assolutistici della Restaurazione, aveva denunciato gli aspetti negativi di ogni ‘religione politica’, cioè posta a sostegno dei principi o condizionata al raggiungimento di obiettivi politici; Rosmini aveva obiettato a Tommaseo, propenso a leggere nel cristianesimo un messaggio di democrazia sociale, che «il Vangelo basta a se stesso, e appunto perciò non conviene sopraccaricarlo»: intendendo dire che non vi si trovavano i principi fondativi di un ordine politico (sebbene poi includesse la determinazione di tali principi negli obiettivi della propria filosofia «amica del cristianesimo»); analoghe critiche erano mosse dal Capponi al Lambruschini invitandolo a non chiamare la religione a definire «alcuna questione sociale, alcun sistema politico, alcun interesse materiale». Manzoni, Rosmini, Capponi arretravano specialmente di fronte al pericolo di ridurre le ragioni del credere religioso alla sua utilità sociale o politica, seppur giustificata con le più elevate intenzioni. Nondimeno il problema dell’interconnessione tra la ‘religione nazionale’ degli italiani e un nuovo ordine politico commisurato a una nazione religiosamente connotata restava latente nella costellazione cattolico-liberale, e venne sollevato in termini più stringenti nel corso degli anni Quaranta.

Un passaggio nevralgico: il neoguelfismo

Nel 1843 fu pubblicato a Bruxelles Il primato morale e civile degli Italiani dell’abate piemontese Vincenzo Gioberti, espulso dieci anni prima dagli Stati sardi per sospetti collegamenti con la trama mazziniana. In meno di cinque anni ne furono tirate più di dieci edizioni e molte ristampe per un totale di forse 80.000 copie. Fu una delle opere più lette e più discusse di tutto il periodo risorgimentale27. Essa ebbe notevole circolazione anche in ambienti ecclesiastici, suscitando consensi persino tra i padri della Compagnia di Gesù che di lì a poco sarebbero diventati i grandi avversari di Gioberti.

L’idea fondativa dell’opera giobertiana stava nell’asserzione, molto diffusamente argomentata, che la presenza in Italia della sede pontificia, centro d’irradiazione del cristianesimo e della Chiesa universale, aveva impresso un carattere indelebile di eccezionalità all’intera nazione italiana, conferendole un particolare primato in campo morale e civile, comprovato peraltro dalla sua storia iniziata, nella visione diGioberti, da tempi immemorabili. Ne era derivata per l’Italia una missione civilizzatrice, che, già adempiuta a più riprese nel corso dei secoli, avrebbe dovuto tornare a riverberarsi sull’Europa e sul mondo, in parallelo, ma senza confondersi, con la missione evangelizzatrice della Chiesa. Nelle pagine di Gioberti la conformazione cattolica dell’Italia cessava pertanto di essere semplicemente una peculiarità distintiva della nazione, per trasformarsi in sua forza propulsiva, che le imprimeva una direzione di marcia, un finalismo storico, una funzione trainante nell’orizzonte della civiltà europea. L’opera era imbevuta di riferimenti biblici al popolo d’Israele, guardato come prototipo delle nazioni, e intessuta di un complesso apparato teorico in cui si riflettevano precedenti lavori di argomento filosofico e teologico di Gioberti (che lo avevano tra l’altro messo in conflitto con Rosmini, da lui guardato inizialmente come a un proprio maestro). Essa era costruita intorno a un asse dominante che riguardava, per l’appunto, il rapporto di derivazione ma anche di progressiva tendenziale differenziazione di ambiti tra religione e civiltà, che postulava un’interrelazione dialettica tra i due termini.

Il Primato non era in senso stretto un’opera politica, e lasciava alquanto indeterminate le problematiche riguardanti gli ordinamenti e le istituzioni pubbliche. Vi si attribuiva al pontefice il ruolo di «capo civile d’Italia», ma vi si esponeva l’idea che uno dei portati irreversibili dello sviluppo della civiltà consistesse nella distinzione tra una potestà morale connessa a tale «signoria civile» e un potere di giurisdizione dotato di forza coercitiva proprio delle istituzioni politiche, che il «genio del secolo» voleva riservato alle competenze e responsabilità dei laici (termine utilizzato da Gioberti nel senso di non-appartenenti all’ordine sacerdotale). Nel Primato era dunque adombrata l’idea che il potere temporale dei papi, in quanto potere di governo su un proprio Stato, necessario e benefico nel passato, non avesse più senso nell’epoca che si era dischiusa, e fosse destinato a riconvertirsi in potestà civile e morale esercitata sull’intera nazione, affiancandosi, senza identificarvisi, al potere spirituale riservato al capo della Chiesa.

Il discorso giobertiano sul rapporto tra religione e civiltà era integrato da un ampio apparato argomentativo riguardante le componenti nazionali della civiltà europea. Gioberti vi sosteneva che le nazioni moderne erano, nello stesso tempo, il prodotto e le attrici di una comune civiltà cristiana, e che solo il cristianesimo cattolico disponeva di una dottrina in grado di collocare il sentimento nazionale e l’amore di patria tra l’universalismo religioso della Chiesa (da lui definito «cosmopolitismo») e il particolarismo esclusivistico di un nazionalismo a sfondo pagano, portato a negare l’individualità e la stessa sussistenza delle altre nazioni. D’altra parte, l’integrazione del cattolicesimo nello stadio moderno della civiltà esigeva una sua «riforma intellettuale e morale» – ispirata al criterio, tratto ancora una volta da Machiavelli, del ritorno ai princìpi – al fine di renderlo competitivo con la cultura moderna, da cui si era estraniato. Nel Primato convivevano pertanto, in un difficile equilibrio, la massima esaltazione delle tesi già elaborate dalla storiografia e dalla cultura di tendenza guelfa, tanto da essere considerato il trampolino di lancio del ‘neoguelfismo’, e la loro trascrizione in una linea riformatrice, che, riallacciando i fili con le riforme del Settecento, si confrontava criticamente con i recenti sviluppi della cultura cattolica e della costituzione ecclesiastica. In una lettera a Massari del 24 aprile 1844 Gioberti confrontava il Primato con il Du Pape, osservando che «il De Maistre […] fa del Papa uno strumento di barbarie e di servaggio, e io mi sforzo di farne uno strumento di libertà e di cultura, e rigettando il gallicanismo, non ammetto però le esagerazioni che i francesi chiamano oltremontane». Molti passaggi dell’opera erano avvolti da una voluta ambiguità, che rispondeva al proposito, dichiarato privatamente dall’autore, di non incorrere nella censura dei governi né in quella ecclesiastica, per poter «giungere facilmente nelle mani di tutti, e principalmente nelle mani de’ giovani studiosi e dei chierici»: infatti l’opera ebbe libera circolazione negli Stati italiani, esclusi i domini austriaci e un divieto di smercio, agevolmente aggirato, nello Stato pontificio. Quanto alla questione nazionale, se ne prospettava a grandi linee una soluzione federativa, che riservasse al papato un «potere arbitrale» e caratterizzata dall’accordo tra i sovrani e i loro popoli, mediante un sistema coordinato di «monarchie consultative», cui non era neppure richiesto di abbracciare a breve termine gli ordinamenti costituzionali. Non vi si faceva cenno alla questione del predominio austriaco in Italia.

Alcune delle ambiguità presenti nel Primato furono sciolte da Gioberti nell’ampia introduzione destinata alla seconda edizione dell’opera e pubblicata nel 1845 come volume a parte, intitolato Prolegomeni del Primato. Gioberti vi prendeva partito per la costituzionalizzazione dei regimi monarchici, includendovi le libertà moderne, di religione, di culto, di stampa, già soggette agli anatemi pontifici; per di più sferrava un primo virulento attacco alla Compagnia di Gesù – a cui il Primato non aveva lesinato le lodi – introducendo la categoria di «gesuitismo» come espressione di tutto un modo di concepire e di praticare il cattolicesimo, che ne impediva precisamente quella riforma intellettuale e morale indicata nel Primato come indilazionabile. Perduto il sostegno dei padri gesuiti già favorevoli al Primato, come Carlo Curci (che divenne il suo più agguerrito avversario) e Luigi Taparelli d’Azeglio (che non era insensibile a una conciliazione tra cattolicesimo e patriottismo), Gioberti portò al calor bianco la propria polemica contro la Compagnia, facendo eco alla rinnovata ondata antigesuitica a scala europea degli anni Quaranta, connessa anche alla vicenda della guerra del Sonderbund nella Confederazione elvetica. Il nuovo passo fu compiuto da Gioberti con la pubblicazione a Losanna, nel 1846-1847, dei cinque tomi de Il gesuita moderno, opera ridondante e farraginosa, ma per molti versi sintomatica. La principale imputazione rivolta da Gioberti al gesuitismo era quella di aver estraniato il cattolicesimo dalla vita civile e dalla vita pubblica, ponendolo sotto il segno del ‘misticismo’, cioè ignorando le sue intrinseche attinenze con la dimensione storica e terrena della civiltà: donde erano derivati il «divorzio degli spiriti cattolici dal vivere comune»28, il restringersi della religione alla vita privata, e la separazione tra morale privata ed etica pubblica, che aveva lasciato libero campo a una politica totalmente svincolata dal precetto evangelico dell’amore per il prossimo. In tal modo il gesuitismo, permeando di sé il corpo ecclesiastico, aveva sostituito all’ «influenza civile delle idee religiose» l’ingerenza del sacerdozio negli affari politici, usurpando un ruolo riservato ai laici. Al gesuitismo Gioberti opponeva l’idea di un cristianesimo vissuto e pensato sotto la prevalente, se non esclusiva, angolatura del progresso civile, che si appellava, tra l’altro, a una reinterpretazione in senso antiescatologico della pericope evangelica «il mio regno non è di questo mondo» (Giov. 18, 36), letta come se le parole di Gesù si riferissero esclusivamente al mondo pagano e non al «mondo nuovo»: dal che era fatta discendere un’arrischiata identificazione tra «il regno temporale di Cristo sulla terra espresso coll’allegoria del millennio» e la «civiltà moderna partorita dal Cristianesimo»29.

L’operazione messa in atto da Gioberti consisteva dunque nel far propria la sostanza delle tesi di Machiavelli, ma imputando i nefasti effetti morali generati da una religione esclusivamente rivolta all’aldilà, non al cattolicesimo, bensì alla sua adulterazione gesuitica: solo il gesuitismo aveva separato, contrapponendole, «la patria e l’anima», così come, «interpretando la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù» (Machiavelli, Discorsi, II, 2), aveva resi incompatibili «i doveri del cristiano con quelli del cittadino». L’ultimo passo della sua polemica antigesuitica Gioberti l’aveva compiuto proprio su questo terreno rispondendo nel quinto volume del Gesuita moderno, uscito nel 1847, a uno scritto di padre Luigi Taparelli d’Azeglio, Della nazionalità, ispirato a un’idea relativistica e condizionata della nazione, subordinata al rispetto dei diritti di sovranità, anche straniera, se legittimamente conseguita ed esercitata30. Nell’occasione Gioberti, riformulando la propria teoria della nazione come persona morale dotata di «vera unità sostanziale, di centro e di vita», la poneva in diretta connessione con i suoi «ordini governativi», asserendo per la prima volta in maniera esplicita essere la nazione l’unica fonte ammissibile in epoca moderna di legittimità del potere sovrano. Con questoGioberti poneva in termini ultimativi il problema dell’indipendenza nazionale quale condizione prioritaria di un ordine politico rispondente a supremi criteri di giustizia, che i cittadini erano chiamati a promuovere anzitutto come dovere morale. Nella polemica con padre Taparelli, Gioberti compiva il gran balzo dall’idea di nazione al ‘principio di nazionalità’; indicava nella nazione, caricandola di una sua propria rilevanza religiosa, la scaturigine di un’etica pubblica e politica coerente con la morale cristiana; e faceva infine della nazione italiana il soggetto designato a porre in essere la convergenza tra la morale cristiana e quei valori etici – come l’amore di patria – generati dall’emergere della coscienza nazionale. Nell’eticità della nazione Gioberti fissava il punto di sutura tra la coscienza morale dell’italiano in quanto cattolico e la sua coscienza morale in quanto membro di un corpo nazionale, destinato, per sussistere, ad assumere la forma dello Stato: insomma, tra l’etica universalistica del cristiano e l’etica più circoscritta, ma non meno vincolante, della cittadinanza.

Nel volgere di pochi anni i messaggi lanciati da Gioberti si erano dunque radicalizzati, lacerando l’involucro di cautele conciliative che almeno formalmente aveva avvolto il Primato; e aprendo fronti di conflitto con la Chiesa che fuoriuscivano per molti aspetti dai confini, anche latamente intesi, entro cui si era tenuta la costellazione cattolico-liberale. Se però ci limitiamo al Primato, non si può fare a meno di osservare che l’opera giobertiana venne, da un lato, a inscriversi nel più ampio movimento di riforme dibattute e in parte promosse da una classe dirigente di tendenze liberali moderate emergente all’epoca in diversi Stati italiani; e dall’altro, servì ad alimentare e a consolidare, in quella stessa area d’opinione, l’ipotesi di una soluzione della questione nazionale su basi confederali.

Di fatto, con il Primato si aprì una nuova fase della questione nazionale, nella misura in cui l’opera rendeva più stringente la relazione tra riforme interne agli Stati italiani e un orizzonte nazionale; prefigurava una via d’uscita per la questione nevralgica del potere temporale pontificio; contribuiva a diffondere e legittimare in una parte considerevole del clero cattolico, non esclusi alti gradi della gerarchia ecclesiastica, la prospettiva di uno Stato a conformazione nazionale e dotato d’indipendenza. Dopo il Primato, e in relazione alle idee ivi espresse o solo abbozzate, la discussione intorno alla via italiana verso lo Stato nazionale si estese considerevolmente, coinvolgendo nuovi settori dell’opinione pubblica, ostili in modo particolare all’unitarismo repubblicano, e suscitando controversie, alle quali parteciparono non pochi dei cattolico-liberali. Tra questi Cesare Balbo con le sue Speranze d’Italia, del 1844, che avanzava forti dubbi sul concetto di primato italiano e poneva in prima fila nell’ordine della priorità quella dell’indipendenza dall’Austria, assegnando al Regno sardo la leadership del movimento nazionale.

L’effetto più consistente provocato dal neoguelfismo si ebbe però sul piano del sentimento collettivo, quando, nel 1846, venne eletto al soglio pontificio il vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX. Egli avviò il suo pontificato lasciando trasparire il proprio personale attaccamento alla nazionalità italiana e alle sorti dell’Italia, e attuando una serie di provvedimenti riguardanti lo Stato della Chiesa (amnistia per i detenuti politici, istituzione di una guardia civica, parziale libertà di stampa, avvio di trattative per una lega doganale con gli altri Stati italiani) che andavano nella direzione del più vasto movimento riformatore ormai in corso, crearono forti tensioni con il governo austriaco, suscitarono consensi e speranze in un’area d’opinione considerevolmente estesa, e vennero infine interpretati, assai impropriamente, come se il nuovo pontefice si accingesse, secondo la ‘profezia’ giobertiana (ma depurata dai suoi risvolti più critici), a prendere la testa del movimento nazionale. Il nome di Pio IX risuonò sulla bocca e negli scritti di molti patrioti, e la sua figura assunse in breve tempo i contorni, non desiderati, di papa liberale.

Una lunga e autorevole tradizione storiografica, ripresa e sintetizzata da Benedetto Croce, ha ritenuto di poter identificare neoguelfi e cattolico-liberali31, individuando nel neoguelfismo lo sbocco storico più coerente e significativo del cattolicesimo liberale italiano. Tale punto di vista presuppone che il predominante criterio di valutazione dei cattolico-liberali sia dettato dal loro apporto al movimento nazionale, posto sotto il segno del liberalismo; che tutti o gran parte dei cattolico-liberali si riconoscessero nel movimento neoguelfo; e infine che il neoguelfismo includesse esclusivamente o quasi dei cattolico-liberali. Il progredire degli studi – iniziati in realtà da molto tempo – sulle figure e i gruppi cattolico-liberali ha sfumato di molto o negato del tutto questa sorta di identificazione32, individuando nel neoguelfismo un crogiolo composito, in cui convissero per qualche tempo istanze liberali e non liberali; a cui una parte dei cattolico-liberali aderì provvisoriamente e per ragioni diverse; e che comunque non esaurì il senso del cattolicesimo liberale. Questa seconda linea interpretativa, cui qui si aderisce, tende a conferire più ampio respiro e maggiore poliedricità alla costellazione cattolico-liberale, guardandola piuttosto sotto l’angolatura delle dinamiche che pervasero il cattolicesimo in un contesto di graduale modernizzazione e secolarizzazione, di cui il movimento nazionale era solo un aspetto, per quanto di singolare rilevanza.

Ciò non toglie che il neoguelfismo e il «mito di Pio IX», che almeno in parte ne conseguì, costituissero un punto di coagulo di intenzionalità diverse, talora addirittura confliggenti, e pur senza essere, in se stessi, veicoli di liberalismo, esercitarono una funzione di allargamento del consenso alla causa nazionale. In questo senso si può ben convenire con la definizione crociana del Primato giobertiano come di un «libro galeotto». A parte l’adesione o meno al neoguelfismo, il moto per le riforme legislative, educative, amministrative, a cui i cattolico-liberali avevano contribuito in misura significativa, assunse col trascorrere degli anni, movenze più pressanti, avendo sullo sfondo una richiesta di maggiore libertà anche nella sfera religiosa, che non lasciava indifferente quella parte del clero, generalmente urbano, formatosi nel nuovo clima culturale e collegato a uomini e ceti sociali di tendenze liberali moderate. Un segnale in tal senso venne per esempio dalla considerevole adesione di ecclesiastici piemontesi alla petizione – cui non erano estranee le recenti prese di posizione di Gioberti – promossa nel 1847 dal cattolico-liberale Roberto d’Azeglio per l’attribuzione dei diritti civili e politici ai valdesi e agli ebrei, che preparò e anticipò di pochi mesi gli editti di emancipazione emanati da Carlo Alberto il 17 febbraio 1848 per i valdesi e il 29 marzo dello stesso anno per gli israeliti.

Il Quarantotto e le sue conseguenze sul piano religioso

Il Quarantotto rappresentò, sotto il profilo politico, l’experimentum crucis dei cattolico-liberali, sottoponendoli a prove alle quali non erano preparati, e stringendoli in una morsa di eventi e di conflitti che non erano in grado di controllare, sebbene molti di loro fossero giunti, in quella fase, a svolgere ruoli politici di primissimo piano: o alla testa di governi costituzionali formatisi dopo la concessione degli statuti (Cesare Balbo e poi Vincenzo Gioberti in Piemonte, Gino Capponi in Toscana, Carlo Troya nel Regno delle Due Sicilie), o come membri di quegli stessi governi o addirittura di governi repubblicani (tale il caso di Niccolò Tommaseo, salito alla ribalta politica come animatore della Repubblica di S. Marco a Venezia), o ancora titolari di importanti missioni diplomatiche (come Antonio Rosmini inviato a Roma dal governo sardo). D’altra parte, il coinvolgimento dei cattolico-liberali nelle vicende del Quarantotto andò ben oltre l’esercizio di specifiche funzioni politiche o diplomatiche. La presenza e la diffusione di idee e programmi di matrice cattolico-liberale – seppur dislocati su un ampio spettro d’opinione che includeva ma non si limitava alla prospettiva neoguelfa –, con largo ricorso alla stampa quotidiana e periodica, alla pubblicazione di libri, al dibattito pubblico, persino alla predicazione religiosa, furono una delle componenti di maggior spicco di quella fase nevralgica. L’acquisita libertà di stampa consentì anche alle voci dei cattolico-liberali di risuonare più liberamente, differenziandosi da quella ufficiale dell’autorità ecclesiastica, ma sfuggendo ormai al suo controllo censorio. Gioberti, prima di rientrare in Italia per divenire uno dei protagonisti assoluti, quanto discussi, del Quarantotto, pubblicò l’Apologia del libro intitolato “Il Gesuita moderno”, dove, tra l’altro, indicava nella costituzionalizzazione del governo pontificio la via che, liberando il papato da responsabilità politiche dirette, preludeva a quella metamorfosi del potere temporale già abbozzata nel Primato, oltre poi a rilanciare il progetto di uno Stato nazionale a struttura confederale e costituzionale. Rosmini aveva tentato, tardivamente, di orientare secondo i propri principi costituzionali lo statuto dello Stato pontificio; quindi, poco dopo le Cinque giornate di Milano, aveva dato alle stampe, in forma anonima, Le cinque piaghe della Santa Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale. Si trattava, nel secondo caso, di uno schema compiuto di costituzione d’impianto sostanzialmente diverso dagli statuti già in vigore (secondo Rosmini totalmente tributari dei modelli costituzionali francesi), e, quel che più conta, collocato in una prospettiva nazionale, com’era confermato dal saggio, posto in appendice, sull’Unità d’Italia a impronta federalista e neoguelfa; più tardi, pubblicò sul giornale «Il Risorgimento» di Balbo e diCavour una serie di articoli sulla Costituente del Regno dell’Alta Italia prima che la sconfitta militare dell’esercito piemontese rendesse la questione inopinatamente obsoleta. Il padre teatino palermitano, Gioacchino Ventura, seguace italiano di Félicité de Lamennais e progressivamente approdato sulla sponda cattolico-liberale33 (ma ibridata da un democraticismo a sfondo teocratico), si era fatto, allo sbocciare del Quarantotto, animatore e propagandista della rivoluzione autonomistica e antiborbonica siciliana; quindi, trasferitosi a Roma, aveva pronunciato prediche e discorsi infuocati, dati anche alle stampe, contro i governi autoritari oppressori dei popoli, tra cui, prendendo spunto dalla repressione asburgica della rivoluzione viennese del 1848, l’orazione funebre Per i morti di Vienna. Fedele alla propria vena democratica a matrice religiosa, Ventura si sarebbe poi acclimatato nella Repubblica romana del 1849, proseguendovi l’attività di pubblicista e di trascinante oratore.

Si sono richiamati alcuni limitati esempi di circolazione di idee a matrice cattolico-liberale nel clima incandescente del Quarantotto, lasciando volutamente da parte, tra le innumerevoli testate giornalistiche proliferate come funghi, quelle che vi si ispirarono più o meno direttamente. Ma non occorre chiamare in causa i casi personali e neppure seguire in dettaglio la sedimentazione nell’opinione pubblica di istanze e spunti cattolico-liberali, per asserire che il Quarantotto rappresentò comunque uno spartiacque nella storia religiosa ed ecclesiastica italiana nella misura in cui, seppur per un tempo relativamente breve (a parte il caso dello stato Sardo su cui ritorneremo), incluse la Chiesa e il clero cattolico negli spazi di un discorso pubblico reso più libero, con molta cautela, dai nuovi regimi statutari (dibattiti pubblici e parlamentari, caduta della censura preventiva sulla stampa, riconoscimento di libertà di culto nonché di diritti politici alle minoranze religiose, movimenti popolari di vario genere e tendenza, ecc.), li costrinse ad affrontare il mare aperto di un’opinione pubblica in fermento, a fare i conti con un anticlericalismo diffuso e aggressivo venuto alla luce del sole; infranse l’immagine rassicurante di popolazioni italiane uniformemente fedeli al cattolicesimo e alla Chiesa; acuì l’ostilità contro i Gesuiti, che furono espulsi, sotto la pressione di moti popolari di piazza, da quasi tutti gli Stati italiani; sgretolò i legami di solidarietà tra le forze della Restaurazione; spinse una parte del clero, inclusi gli insegnanti e i chierici di diversi seminari, a schierarsi attivamente su posizioni patriottiche, a mobilitarsi in occasione della guerra all’Austria, a prendere parte ai moti insurrezionali delle città, a dividersi e confrontarsi in fatto di opinioni politiche. Ancorché sia d’obbligo interrogarsi sulla profondità e la latitudine di tali fenomeni (più diffusi nelle aree settentrionali e centrali che in quelle meridionali e nelle aree urbane che in quelle rurali), è giocoforza riconoscere che il profilo religioso ed ecclesiastico dell’Italia ne uscì considerevolmente riplasmato, sebbene, come diremo, in direzioni divergenti34.

I fattori che, al riguardo, ebbero più durevole incidenza furono di varia specie. Anzitutto la caduta di ogni prospettiva di coinvolgimento dei sovrani italiani nel movimento nazionale sotto l’egida del federalismo e del costituzionalismo aveva messo in crisi, in un’area di opinione molto più estesa del movimento repubblicano, la legittimità del loro potere tornato assoluto (con l’eccezione della monarchia sabauda). A maggior ragione tale crisi aveva interessato il governo ‘straniero’ del Lombardo-Veneto soggetto all’Austria, la potenza ancora egemone contro cui si era combattuta una guerra (finita disastrosamente) che aveva visto scendere in campo persino l’esercito pontificio. Tale crisi di legittimità, acuita dai modi in cui era avvenuta la ‘nuova restaurazione del 1849, oltre a creare problemi per la dottrina cattolica inculcante obbedienza e fedeltà ai ‘sovrani legittimi’, toccava il legame istituzionale della Chiesa con sistemi di governo incentrati sulla figura del ‘principe cristiano’, scoprendo, per così dire, il fianco politico della sua presenza in molte aree italiane. Un segno indiretto ma eloquente che la crisi fosse avvertita dai diretti interessati fu offerto all’indomani del Quarantotto dalla disponibilità dell’Austria e del granducato di Toscana a stipulare con la Santa Sede dei concordati, che, mettendo fine ad antiche tensioni in materia di politica ecclesiastica, avevano tra i loro obiettivi quello di rassodare, con il contributo della Chiesa e della religione, i regimi restaurati, senza tuttavia poter invertire un processo difficilmente arrestabile.

La crisi di legittimità investì in pieno, ma con riverberi assai più diretti sul piano religioso, il potere temporale del pontefice, cioè la sua sovranità sullo Stato della Chiesa, già oggetto di brucianti contestazioni anche in ambienti cattolico-liberali (Raffaello Lambruschini, Tommaseo, Gioberti), sia per ragioni di principio a sfondo religioso, sia per i suoi riflessi sulle condizioni civili e sociali dei suoi sudditi. La crisi di legittimità del potere temporale fu l’estrema conseguenza del precipitoso corso di eventi che aveva vanificato nel Quarantotto ogni ipotesi di partecipazione del papato al disegno neoguelfo di Stato nazionale, e inesorabilmente infranto il ‘mito di Pio IX’. Nel giro di pochi mesi tutti i presupposti su cui quel disegno si fondava si erano dissolti, per una somma di ragioni che non si possono qui analizzare dettagliatamente. Ci limiteremo a considerare la sequenza di eventi che riguardarono più da vicino il papato. In marzo Pio IX aveva ‘concesso’ (come i sovrani dei regni borbonico e sabaudo e il granduca di Toscana) uno statuto, che nonostante le sue molteplici limitazioni e anomalie35, garantiva alcune fondamentali libertà ai sudditi pontifici, introduceva un parlamento elettivo, apriva il governo dello Stato a personalità laiche; aveva quindi consentito alle truppe pontificie di intervenire nella guerra, impropriamente detta federale, dichiarata all’Austria dal Regno sardo, e inviato un proprio rappresentante speciale presso il re Carlo Alberto nella persona di mons. Corboli Bussi, favorevole alla causa italiana. Ma già il 29 aprile Pio IX aveva resa nota un’allocuzione, in cui, confermando il proprio attaccamento all’Italia, dichiarava non essere concesso al padre di tutti i fedeli, mosso da eguale affetto verso «tutti i popoli e tutte le nazioni» muovere guerra «contro i Germanici», sollecitando, peraltro, l’imperatore d’Austria, in un successivo indirizzo a lui personalmente rivolto, a non opporsi a una pacifica soluzione della questione nazionale italiana. Era seguita nello Stato pontificio una fase di grande turbolenza politica e sociale che aveva condotto, in novembre, all’assassinio del primo ministro pontificio, il giurista liberale Pellegrino Rossi, per mano di un estremista; in una situazione diventata alquanto caotica il pontefice aveva abbandonato il proprio Stato, rifugiandosi a Gaeta, in territorio borbonico, mentre a Roma prevalevano i repubblicani, che, nel febbraio del 1849 (quando in Toscana s’insediava al governo un triumvirato democratico), proclamarono la repubblica e dichiararono decaduta la sovranità temporale dei papi: era la terza volta che tale evento si verificava in appena mezzo secolo. Da Gaeta Pio IX aveva lanciato un appello agli Stati cattolici sollecitandoli a un intervento congiunto in difesa dei suoi diritti di sovrano e di capo della Chiesa, in seguito al quale un corpo di spedizione militare inviato dalla Repubblica francese aveva assediato e quindi preso Roma d’assalto, abbattuto la Repubblica romana, e consentito a Pio IX di rientrare, l’anno successivo, nel proprio Stato e di ristabilire le proprie prerogative di sovrano temporale. Ma già in precedenza, risiedendo ancora a Gaeta, il pontefice aveva proclamato l’assoluta incompatibilità degli ordinamenti costituzionali con il governo della Chiesa, includendovi, come sua parte integrante e condizione irrinunciabile, il potere temporale, e abrogando pertanto lo statuto del 1848 (a somiglianza di quanto accaduto in Toscana e nel Regno borbonico). Pio IX, in poche parole e senza entrare nel merito delle sue motivazioni36, era passato dallo statuto all’anticostituzionalismo, dall’ammesso intervento nella guerra alla sua smentita, da un appoggio condizionato al movimento nazionale a una impellente richiesta di soccorso rivolta a governi non italiani. Si deve aggiungere che alla fine di maggio del 1849 la Sacra Congregazione dell’Indice aveva condannato, con una procedura alquanto tortuosa37, La Costituzione secondo la giustizia sociale e le Cinque piaghe di Rosmini, Il Gesuita moderno di Gioberti e il discorso funebre di Ventura Per i morti di Vienna: il provvedimento dell’Indice fu seguito nel 1852 dalla condanna comminata dal Sant’Uffizio a tutte le opere di Gioberti (compreso dunque il Primato) e dall’avvio di un processo censorio sull’intera opera di Rosmini, concluso nel 1854 con una sentenza ambiguamente assolutoria, che non interruppe gli attacchi concentrici al ‘rosminianesimo’.

Una verifica dettagliata delle ricadute prodotte dagli eventi del 1848-1849 sulla situazione religiosa ed ecclesiastica in Italia supera i limiti del presente contributo, e non è comunque agevole. È però possibile indicare alcune linee di faglia che in seguito a quegli eventi s’aprirono o si allargarono nel cattolicesimo italiano e nello stesso corpo ecclesiastico, investendo anche la costellazione dei cattolico-liberali.

Tutti i protagonisti del Quarantotto avevano avvertito, più o meno lucidamente, che il movimento nazionale (benché apparentemente sconfitto anche per le sue interne contraddizioni) aveva ricevuto una potente accelerazione e, secondariamente, che il futuro Stato nazionale non era più pensabile se non in forma costituzionale. Dato, come aveva scritto per esempio Rosmini alla fine di maggio del 1848 (dunque dopo l’allocuzione pontificia del 29 aprile), che si trattava di un moto inarrestabile e di per sé benefico e giusto, che posto vi avrebbero avuto la Chiesa, il papato e il cattolicesimo? Stando sempre a Rosmini, non poteva «dubitarsi che una previdente e religiosa politica dovesse consigliare il Sommo Pontefice a secondare quest’esito [il costituirsi dell’Italia in un’unica nazione] che è indeclinabile e che in se stesso è supremamente vantaggioso alla nazione»38. Le questioni nevralgiche che si ponevano per i cattolico-liberali riguardavano, dunque, le modalità d’innesto del cattolicesimo degli italiani nella nuova cornice di uno Stato nazionale e costituzionale dato per certo, e nel contempo i modi di assicurare alla Chiesa cattolica, in quella cornice, le condizioni per espletare più proficuamente la propria missione (sebbene poi la definizione dei confini e delle forme di tale missione non trovasse concordi, se non a grandi linee, i cattolico-liberali, oltre a metterli in tensione con la Chiesa istituzionale). Tutti i cattolico-liberali erano convinti che l’inserimento in un quadro nazionale e costituzionale avrebbe giovato alla vita religiosa, svincolando la Chiesa dai lacci di regimi politici giudicati in conflitto con i valori cristiani e con il progresso civile, per di più entrati in una fase di inarrestabile sgretolamento. Anche per questo motivo avevano assecondato il movimento nazionale, condividendo l’idea, pur articolandola in modi diversi, che il ‘risorgimento della nazione’ fosse carico di valenze religiose, preludendo a una rinascita religiosa che avrebbe avuto il cattolicesimo al suo centro. Pensavano, viceversa, che un’eventuale divaricazione tra la religione degli italiani e il movimento nazionale avrebbe prodotto nefasti effetti laceranti nella coscienza collettiva e sulla stessa vita religiosa, tanto più se si fosse tradotto in una frattura tra la Chiesa e il preconizzato Stato nazionale. Le strade esperite o solo vagheggiate nel Quarantotto per dare un’iniziale risposta a questo genere di esigenze si erano tuttavia rivelate impercorribili. Due ostacoli principali, strettamente interconnessi, si erano frapposti.

Il primo aveva riguardato l’impossibilità di sciogliere consensualmente il nodo antico del potere temporale dei papi, di conciliare, cioè, la coesistenza di una doppia sovranità, temporale e spirituale, nella persona del pontefice, con la formazione di uno Stato nazionale che inglobasse, come inevitabile, il territorio e le popolazioni dello Stato della Chiesa. Da questo punto di vista il Quarantotto aveva cancellato le ipotesi di soluzioni intermedie e di compromesso (poi vanamente riprese, dieci anni più tardi, a livello diplomatico) per l’indisponibilità del papato a scindere, in qualunque modo, la sua doppia sovranità; ma rendendo, nel contempo, evidente che la propria sovranità sullo Stato della Chiesa (considerato intangibile nella sua interezza) era soggetta a vincoli particolari rispetto agli standard di sovranità degli altri Stati territoriali. Tant’è vero che dopo il Quarantotto prese forma una sostanziale rielaborazione della dottrina ecclesiastica concernente il potere temporale, sia in ordine ai titoli di legittimità e ai canoni giustificativi dello Stato della Chiesa sia in ordine al suo rapporto con il ruolo primaziale del papato nella Chiesa universale39.

Ma la doppia sovranità del pontefice aveva una dimensione, anche simbolica, che travalicava la conciliazione tra il potere temporale dei papi e il preconizzato Stato nazionale, perché investiva la questione più generale dei rapporti tra la sfera politica e la sfera religiosa, tra l’ordine e il potere dello Stato, la religione dei suoi cittadini e l’autorità della Chiesa in quanto portatrice di un ‘potere spirituale’. In altre parole, la doppia sovranità pontificia finiva per sintetizzare e simboleggiare al massimo grado l’immagine di un ordine politico subordinato e vincolato all’ordine ecclesiastico.

Qui si era eretto un secondo ostacolo a ostruire il cammino appena avviato nel Quarantotto, che riguardava il grado di accettabilità da parte della Chiesa degli ordinamenti costituzionali e le condizioni di inserimento della religione cattolica in sistemi normativi che, per il fatto stesso di tutelare alcuni fondamentali diritti individuali, aprivano, entro certi limiti, lo spazio pubblico alla libertà in materia religiosa, privando la Chiesa di alcuni degli strumenti di controllo sulla religione, non esclusi quelli di natura coercitiva, di cui aveva in precedenza usufruito, in misura diversa, nei vari Stati italiani. Anche sotto questo aspetto il Quarantotto aveva però precluso la ricerca di soluzioni intermedie. È da considerare infatti che gli ordinamenti costituzionali introdotti nel Quarantotto erano tutti basati su formule di compromesso tra la conservazione di uno status privilegiato per la religione cattolica e per la Chiesa, e il riconoscimento di alcuni basilari principi di libertà anche in materia religiosa. Lasciando da parte il caso dello statuto pontificio, decisamente squilibrato a vantaggio dei poteri e degli organismi ecclesiastici e del diritto canonico, gli altri statuti proclamavano formalmente la religione cattolica ‘religione dello Stato’ (formula criticata da Lambruschini e da Rosmini), qualificavano le minoranze religiose come religioni tollerate, non modificano gli articoli dei codici civili e penali che in vari modi sanzionavano il carattere confessionale degli ordinamenti statali. A queste condizioni gli statuti italiani evitavano di incorrere nelle preclusioni di principio sollevate da tempo contro le ‘libertà moderne’ dalla suprema autorità religiosa: potevano essere a buon diritto considerati degli statuti cattolici, concessi per di più da sovrani cattolici. Ciò aveva consentito a una parte dell’episcopato e del clero in cura d’anime, non necessariamente conquistato a idee cattolico-liberali, di aderire ai nuovi ordinamenti, spiegandone dai pulpiti e nelle lettere pastorali il senso e le ragioni (che facevano perno sulla natura confessionalistica dagli statuti), e sollecitando la partecipazione alle elezioni parlamentari dei fedeli dotati di diritto di voto (un’aliquota limitata dal suffragio ristretto e comprensiva di un certo numero di ecclesiastici). Ma nel corso del Quarantotto il processo di ‘conversione’ condizionata della Chiesa agli ordinamenti statutari era stato bruscamente interrotto, e l’innesto, senza lacerazioni, del cattolicesimo e della Chiesa stessa in una cornice costituzionale era fallito. Le dinamiche innescate dalle libertà statutarie, ma alimentate da movimenti sociali e politici ben più radicali, avevano valicato di molto le fragili barriere fissate dalla lettera degli statuti, confermando nelle loro tetre previsioni quei settori ecclesiastici, al centro e alla periferia, già da prima convinti che le costituzioni avrebbero prodotto effetti nefasti sulla religione e disarticolato la stessa istituzione ecclesiastica. Lo statuto pontificio, come quello napoletano e toscano, era stato, come detto, abrogato, e alcune delle più importanti voci del costituzionalismo cattolico solennemente censurate. Gli sviluppi politici, infine, alla cui origine stava il sistema costituzionale sabaudo, l’unico sopravvissuto al Quarantotto, erano entrati in rotta di collisione con le attese e gli indirizzi ormai prevalenti, senza contrasti, al vertice della Chiesa e trasmessi a cascata, non senza resistenze locali, alle chiese periferiche.

A fare le spese di una siffatta polarizzazione furono, tra gli altri, i cattolico-liberali, stretti come in una tenaglia. Da un canto, un movimento nazionale che si stava vieppiù laicizzando: non nel senso di indifferenza per la questione religiosa, che anzi le vicende del Quarantotto avevano contribuito a rilanciare in tutta la sua estensione, anche sotto la veste dell’anticlericalismo40; ma nel senso di una rigorosa presa di distanza dall’autorità ecclesiastica, a cominciare da quella pontificia, in campi unilateralmente definiti come politici, e come tali considerati estranei alle competenze della Chiesa. Dall’altro canto, un’istituzione irrigidita sotto ogni profilo nella difesa di quelli che riteneva e proclamava propri diritti, poteri giurisdizionali e prerogative inderogabili, da cui faceva dipendere direttamente e globalmente le sorti religiose dell’Italia. Già prima oggetto di pesante riprovazione da parte di una Chiesa per la quale ciò che sapeva di ‘liberale’ era da tempo oggetto di anatema, la tipologia cattolico-liberale conobbe dopo il Quarantotto una notevole dilatazione nel linguaggio ecclesiastico, venendo a comprendere ogni forma di adesione al nuovo corso del movimento nazionale, incluse quelle espresse dall’episcopato e del clero meno ligio agli orientamenti e, se vogliamo, alle ragioni di Roma. I cattolico-liberali, nell’accezione così allargata, divennero oggetto di sistematica demonizzazione come succubi del liberalismo e come nemici della Chiesa più pericolosi, perché più subdoli, dei liberali dichiarati o degli aperti miscredenti.

Metamorfosi dei cattolico-liberali

Le diverse anime che fin dalle origini convivevano nella costellazione cattolico-liberale si resero più evidenti dopo il Quarantotto. Sulla questione, fattasi più incombente e più ardua, del potere temporale dei papi, vi fu chi, come Tommaseo (in Rome et le monde, del 1851),Gioberti (in Del rinnovamento civile d’Italia, edito nello stesso anno, su cui torneremo), Lambruschini, già da tempo antitemporalista dichiarato, si pronunciò per la sua pura e semplice abolizione nella cornice di un futuro Stato nazionale; altri, come Rosmini o Capponi, pur convinti nell’intimo che lo Stato della Chiesa aveva, nella sua attuale configurazione, gli anni contati, si limitarono ad affidare le future sorti del potere temporale, se visto semplicemente come garanzia d’indipendenza del papato, alle vie imprevedibili della Provvidenza. Analoghe o maggiori distanze, le cui ragioni erano del resto percepibili ben prima del Quarantotto, vennero a distinguere i cattolico-liberali di fronte alle leggi di laicizzazione dello Stato Sardo, messe in atto dai governi di d’Azeglio e di Cavour: una linea di politica ecclesiastica che preludeva, per molti aspetti, a quella poi seguita dai primi governi del Regno d’Italia e che si dichiarava (ma lo era solo in parte) ispirata ai principi di separazione tra lo Stato e la Chiesa. In argomento le opinioni pubblicamente espresse da un Balbo, da un Rosmini o da un Gustavo di Cavour, fratello di Camillo, dalla maggior parte dei cattolico-liberali lombardi, come Achille Mauri, ostili in diverso grado a quelle specifiche misure e modalità di laicizzazione dello Stato41, avevano ben pochi punti di contatto con le opinioni, molto più favorevoli, di un Gioberti o di un Ricasoli, perché riflettevano, nella sostanza, una diversa concezione delle competenze statali in materia religiosa ed ecclesiastica e una diversa proiezione politica del principio di libertà religiosa.

Erano tutti sintomi che l’accelerazione e il tendenziale mutamento di segno dei processi politici, verificatisi dopo il Quarantotto, incidevano in modo contrastante sulla costellazione cattolico-liberale e ne provocavano, per forza di cose, una certa metamorfosi.

Un suo tratto rimarchevole fu il confluire di un’aliquota rilevante di cattolico-liberali (molti dei quali avevano aderito al neoguelfismo) nella classe politica liberale che, dopo il Quarantotto, prese nelle sue mani le redini del Regno sardo, facendone il motore egemonico del movimento nazionale, e che si stava dilatando su più ampia scala, prima e dopo l’unificazione. In relazione ai nuovi ruoli ricoperti, sembra più pertinente per tali soggetti la definizione di liberali cattolici, trattandosi ormai di personalità organicamente inserite nel movimento o partito liberale, i quali professavano la religione cattolica, senza soggiacere, appellandosi alla piena libertà di coscienza in campo politico (dovremmo dire: nel campo che essi definivano politico) agli indirizzi o agli anatemi ecclesiastici, e avvalendosi per lo più dell’assistenza religiosa di un clero non allineato con le prescrizioni della Santa Sede, probabilmente più numeroso di quanto Roma fosse disposta ad ammettere. Sebbene sia obiettivamente difficile tracciare un confine, se non altro per l’intreccio di relazioni personali e di moventi ideali che li connettevano, tra cattolico-liberali e liberali cattolici, tralasceremo di occuparci di questi, se non per rilevare, in termini generali, la parte considerevole da loro avuta nell’imprimere allo Stato liberale, prima nel Regno sardo e più tardi nel Regno d’Italia, alcuni dei suoi tratti specifici, per esempio in campo scolastico e educativo, nella sfera amministrativa, in fatto di politica estera e di politica ecclesiastica42.

È però opportuno rilevare che l’afflusso di personalità cattoliche (non solo in senso anagrafico) nella classe politica complessivamente definibile come ‘cavouriana’ poté trovare una sua giustificazione ideale nell’ultima opera di Gioberti, che assunse le movenze di una liquidazione definitiva del neoguelfismo e di una ricollocazione del cattolicesimo nella cornice di uno Stato nazionale connotato dalla «separazione assoluta delle due giurisdizioni» dello Stato e della Chiesa, e dal pieno dispiegamento sul piano normativo della libertà religiosa «tanto cara ai popoli civili». Del rinnovamento civile d’Italia, pubblicato nel 1851 da Gioberti a Parigi per l’editore torinese Bocca, era un’opera, come al solito, fluviale, attraversata da una certa acredine e da sprazzi visionari, ma illuminata da straordinari lampi d’intelligenza e di preveggenza politica. Gli autori più citati erano Dante, Machiavelli (sopra tutti), Sarpi, Alfieri, Leopardi. Non era fatta certo per piacere alla Chiesa. Essa riprendeva molti dei nuclei argomentativi sviluppati nelle precedenti opere; ma da un lato aggravava, sull’onda delle delusioni del Quarantotto, la diagnosi sullo stato reale della religione cattolica in Italia, mettendo in ancora maggior risalto la continua erosione «del suo imperio sugli animi e sugli intelletti» e la sua incapacità di far fronte al dilagare del razionalismo ateo; dall’altro radicalizzava la terapia, indicando più precisamente la causa prima del deprecato declino del cattolicesimo, nell’«unione del temporale collo spirituale»: per cui Roma non si era limitata ad allearsi con le «signorie assolute e dispotiche», ma si era addirittura appropriata di questa «forma di reggimento», il più alieno dallo spirito evangelico, trasferendolo nel governo della Chiesa e applicando le armi della coercizione anziché quelle della persuasione e del convincimento alla difesa della verità43. Il paravento, già adottato da Gioberti, del gesuitismo, senz’essere abbandonato, cedeva il campo alla cruda rappresentazione di una più imponente realtà che gli si era appieno rivelata nel Quarantotto. Neppure l’idea del primato italiano era abbandonata, ma riconvertita nel più ampio orizzonte di un «rinnovamento europeo»44, cui l’Italia avrebbe partecipato con una propria speciale missione di «riforma scientifica e cattolica delle dottrine religiose». A questa l’erigendo Stato nazionale avrebbe aperto la strada rimuovendo «le profane giurisdizioni del sacerdozio», il primo ostacolo che rendeva quella riforma impossibile: in questo modo la nazione, una volta costituitasi in Stato, irrompeva in primo piano sulla scena della riforma cattolica. Le sorti dell’intero panorama religioso europeo sarebbero, in definitiva, dipese dal costituirsi dell’Italia in Stato nazionale, accompagnato dalla nascita di una «nuova Roma», di una «Roma dell’avvenire»: in cui, abolito il potere temporale dei papi e fornite al papato una serie di garanzie d’indipendenza non territoriale, «lo spirituale e il temporale fioriranno liberamente a costa l’uno dell’altro, ma immisti e non confusi, concordi e non ripugnanti»45. Con il Rinnovamento, tanto più se integrato con le frammentarie riflessioni sull’idea di riforma e libertà cattolica, che l’autore si era tenuto gelosamente nel cassetto, e conosciute solo dopo la sua morte avvenuta nel 185246, una linea presente nella cultura cattolico-liberale era giunta al punto di rottura: tanto da sollevare fondatissimi dubbi, per non dire l’esplicito diniego della storiografia più autorevole47 circa il fatto che le condizioni poste da Gioberti per innestare la religione cattolica degli italiani nel corpo del futuro Stato nazionale, s’inquadrassero ancora in una cornice cattolico-liberale.

Cattolico-liberali e unificazione nazionale

Nelle pagine del Rinnovamento si trovava, tra l’altro, un’impegnativa apertura di credito nei confronti di Cavour, che non era neppure ancor giunto alla testa del governo piemontese. ECavour avrebbe restituito le parole di apprezzamento dieci anni dopo, in uno dei suoi discorsi parlamentari della primavera del 1861 dedicati alla questione di Roma capitale, includendo Gioberti, insieme a Manzoni e Rosmini, nel novero dei «grandi pensatori» che in Italia si erano affaticati «per conciliare lo spirito di libertà col sentimento religioso», consacrando tutta la loro vita «all’arduo lavoro di propugnare la conciliazione dei grandi principi sui quali posar deve la società moderna». Quel discorso cavouriano s’inquadrava perfettamente nella logica di una ricerca dell’appoggio dei cattolico-liberali alla propria strategia politica, nella fase in cui, proclamato il Regno d’Italia, il conflitto con la Chiesa e la Santa Sede era giunto al punto di non ritorno. Ma Cavour non pensava certamente solo ai grandi pensatori: aveva in mente ben altro, pensava a tutta un’area del cattolicesimo e del clero italiano che non voleva perdere, ritenendola parte integrante del processo di unificazione e canale indispensabile di consenso al nuovo Stato. Cavour sapeva anche, però, che Gioberti, di cui non aveva mai condiviso la vena democratica, e soprattutto l’ultimo Gioberti, che aveva ottenuto massima udienza tra gli anticlericali, non poteva essere, da solo, una buona carta da giocare nel senso da lui desiderato.

L’importanza di tenere dalla propria parte tutto il variegato, ma consistente mondo dei cattolico-liberali, a cominciare dal clero che in diversa misura vi faceva riferimento o ne era influenzato, era divenuta in lui più pressante dopo la vicenda della cosiddetta legge sui frati del 1855, che aveva rischiato di sbalzarlo dal governo nelle elezioni del 1857: quando aveva potuto misurare l’inaspettata efficienza del ‘partito clericale’ sostenuto da un clero ostile alla politica del suo governo nonché deluso dagli effetti degli ordinamenti statutari e del sistema parlamentare che ne era conseguito. Quando, nel vorticoso biennio 1859-1860, Cavour aveva guidato il processo di unificazione, inglobando nel nuovo Stato gran parte dello Stato della Chiesa e incorrendo, come gli altri protagonisti di quel processo, nella scomunica pontificia, il sostegno di ambienti e personalità cattolico-liberali, rimasti fedeli alla causa nazionale e agli ordinamenti costituzionali dopo il neoguelfismo, gli si era rivelato determinante come tramite di legittimazione dello Stato unitario, cui non si era voluto far mancare, nonostante l’opposizione della Santa Sede, lo stigma religioso di solenni Te Deum di ringraziamento. Fu anche grazie all’esistenza nel tessuto della nazione, almeno a certi livelli del corpo sociale e di opinione pubblica, di un substrato abbastanza solido e diffuso corrispondente a una tipologia cattolico-liberale, che il conflitto istituzionale tra lo Stato e la Chiesa non generò affatto i catastrofici effetti né le fratture irrimediabili sul piano religioso che i vertici ecclesiastici avevano pronosticato come inevitabili.

Un segno della considerevole cautela con cui Cavour affrontò, sotto il profilo ecclesiastico, l’arduo passaggio dell’unificazione, avvalendosi della stretta collaborazione di cattolico-liberali, fu il tentativo, intrapreso tra il 1860 e il 1861, di tradurre la formula «libera Chiesa in libero Stato», in sé aperta a letture divergenti, in un accordo generale con la Santa Sede che compensasse la sua volontaria e pacifica rinunzia al potere temporale con una profonda ristrutturazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, intesa a liberare la seconda dai vincoli e dalle intromissioni del potere statale (come la nomina dei vescovi, il controllo degli atti ecclesiastici, e così via). Il fatto stesso di proporre una trattativa diretta con Roma, e che alla sua base non ci fosse la pura e semplice riduzione della Chiesa cattolica al ‘diritto comune’ (com’era in teoria possibile senza nessun accordo e com’era richiesto dai separatisti radicali), corrispondeva alle attese di molti cattolico-liberali. E una particolare impronta cattolico-liberale, con marcati tratti rosminiani, fu impressa ai documenti preparatori dell’eventuale trattativa, dalla presenza in quel frangente, tra i collaboratori di Cavour, di Marco Minghetti, del teologo ex-gesuita Carlo Passaglia (approdato alla sponda dell’antitemporalismo dopo essere stato teologo di fiducia di Pio IX), di Gustavo di Cavour e del padre rosminiano Jacopo Molinari48. Le trattative non furono neppure ufficialmente avviate, perché il potere temporale non poteva essere oggetto di trattativa secondo la Santa Sede e troppo fresche erano le ferite infertele dalla nascita del Regno d’Italia; ma lasciarono intendere che una porzione non indifferente del cattolicesimo italiano era ormai pervasa da sentimenti antitemporalisti. Il che venne confermato, in quegli stessi mesi, dal sorgere di società ecclesiastiche in diverse città italiane (a Milano, a Torino, a Napoli) che raccoglievano, al di fuori delle istituzioni della Chiesa, un clero non allineato con Roma, dotato di propri organi di stampa, schierato su posizioni nazionali e liberali. E ancora, almeno implicitamente, fu confermato dalle oltre 9.000 firme di ecclesiastici (il 90% appartenenti al clero secolare) raccolte dall’indirizzo promosso nel 1862 da Carlo Passaglia, in cui si chiedeva al pontefice di consentire che Roma diventasse capitale d’Italia e che la Chiesa si riconciliasse con lo Stato nazionale. A tal genere d’iniziative la Santa Sede rispose ribadendo la piena condanna degli errori del liberalismo (con l’enciclica di Pio IX Maxima quidem, del 1862, che anticipò di poco la Quanta cura, corredata dal Sillabo degli errori moderni, del 1864), condannando le società del clero nazionale (con la successiva enciclica Quanto conficiamur moerore del 1863) e adottando provvedimenti disciplinari nei confronti dei firmatari dell’indirizzo Passaglia, molti dei quali furono indotti a ritrattare.

Ma se è vero che, nonostante tutto, l’unificazione non spaccò l’Italia dal punto di vista religioso, pur creando sostanziali problemi nella vita della Chiesa aggravati dalla successiva legislazione ecclesiastica, è anche vero che non fu il preludio di quella grande rinascita religiosa che molti dei cattolico-liberali avevano pronosticato. Alcuni di essi avevano caricato di significati palingenetici, già impliciti in quel termine ‘risorgimento’ che richiamava l’evento centrale del credo cristiano, la costituzione della nazione, conferendo alla sua ri-nascita un significato in se stesso religioso, che prendeva il valore di un modello universalistico, ma attribuendo allo Stato nazionale il compito di spianargli la strada. Altri, più prudenti, si erano accostati al movimento nazionale, in quanto pervaso da un’istanza basilare di libertà, come all’occasione storica in cui il cattolicesimo e la Chiesa cattolica sarebbero stati indotti a fare i conti con le esigenze religiose promananti dalla civiltà moderna, con l’emancipazione della coscienza individuale dalle coazioni esterne, con il bisogno di ritrovare in una religione liberamente professata, e per questo più autenticamente vissuta, la fonte di una legge morale individuale e collettiva adeguata alla costituzione interiore dell’uomo moderno. Tutti, o quasi tutti, erano convinti che quanto succedeva in Italia, in ragione della sua particolare storia e tradizione, per la presenza sul suo territorio del papato, centro della Chiesa universale, per la compattezza, almeno apparente, della religione dei suoi abitanti, non poteva non riverberarsi su un orizzonte molto più vasto, dando una risposta a questioni religiose che riguardavano l’intera civiltà europea. Sfuggivano ai cattolico-liberali, uomini di cultura appartenenti alle élites sociali e intellettuali, molti tratti delle condizioni reali della vita religiosa e della stessa presenza capillare della Chiesa nel tessuto della società italiana, che non smentivano, certo, il senso dei loro progetti e degli interrogativi da loro posti alla cristianità italiana, rimasti infatti ben visibili sullo sfondo di tutta la successiva storia nazionale, e continuamente riaffioranti, anche in altre forme, con immutata urgenza; ma rendevano molto più lungo e accidentato il cammino delle loro idee o delle loro speranze. Anche perché l’avvento dello Stato nazionale mutava bensì il quadro della vita religiosa, ma non proprio nel senso che i cattolico-liberali si erano attesi.

Note

1 V. Conzemius, Les foyers internationaux du catholicisme libéral hors de France au XIXe siècle: esquisse d’une géographie historique, in Les catholiques libéraux au XIXe siècle, Actes du Colloque international d’histoire religieuse (Grenoble 1971), avant-propos de J. Gadille, Grenoble 1974, pp. 15-51; R. Aubert, J.B. Duroselle, A.C. Jemolo, Le libéralisme religieux au XIXème siècle,  Atti del X Congresso internazionale di Scienze storiche (Roma 1955), Firenze 1955, pp. 305-383. I rinvii bibliografici del presente contributo saranno ridotti all’essenziale.

2 Un esempio in tal senso la definizione di Lord Acton, in V. Conzemius, Les foyers, cit., p 16.

3 G. Verucci, Chiesa e società nell’Italia della Restaurazione (1814-1830), in La Restaurazione in Italia. Strutture e ideologie, Atti del XLVII Congresso di storia del Risorgimento (Cosenza 1974), Roma 1976, pp. 173-211; F. Agostini, La riforma statale della Chiesa nell’età napoleonica, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, III, L’età contemporanea, Bari-Roma 1995, pp. 4-23.

4 P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, pp. 347-353.

5 A. Roveri, La Santa Sede tra rivoluzione francese e Restaurazione. Il Cardinale Consalvi. 1813-1815, Firenze 1974; A. Aquarone, La Restaurazione nello Stato pontificio e i suoi indirizzi legislativi, «Archivio della Società romana di storia patria», 78, 1955, pp. 119-135; L. Pásztor, Il secondo “Piano di Riforma” di G.A. Sala e Pio VII. La Congregazione della Riforma, «Clio», 20, 1984, pp. 59-77.

6 L. Salvatorelli, Chiesa e Stato dalla Rivoluzione Francese ad oggi, Firenze 19734, pp. 12-24.

7 G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo, Roma-Freiburg 1964, pp. 349-413.

8 D. Menozzi, Tra riforma e Restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al mito della cristianità medievale (1758-1848), in St.It.An-nali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, 1986, pp. 769-807.

9 G. Verucci, Per una storia del cattolicesimo intransigente in Italia dal 1815 al 1848, «Rassegna storica toscana», 4, 1958, pp. 251-285 (poi in Id., I cattolici e il liberalismo. Dalle “Amicizie cristiane” al modernismo. Ricerche e note critiche, Padova 1968); A.M. Battista, Aspetti del tradizionalismo italiano nell’età della Restaurazione, in La Restaurazione in Italia, cit., pp. 223-250.

10 G. Battelli, Clero secolare e società italiana tra decennio napoleonico e primo Novecento. Alcune ipotesi di lettura, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 43-123; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997, pp. 35-63.

11 P. Bénichou, Le temps des prophètes. Doctrines de l’âge romantique, Paris 1977.

12 G. Falco, La polemica sul Medio Evo, Torino 1933, pp. 363-410; E. Artifoni, Il Medioevo nel romanticismo. Forme della storiografia fra Sette e Ottocento, in G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, Lo spazio letterario del Medioevo, I, Il Medioevo latino, IV, L’attualizzazione del testo, Roma 1997, pp. 175-221.

13 M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni “repubblicane” di Machiavelli, Bari 1964; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, pp. 341-419.

14 F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976, in partic. pp. 237 segg.

15 A. Simon, L’Église catholique et les débuts de la Belgique indépendante, Wetteren 1949.

16 S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari 2010, pp. 16 segg.

17 B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 19473, pp. 120-160.

18 G. Gentile, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 19423.

19 Cfr. G. Sofri, Saggio introduttivo, in N. Tommaseo, Delle innovazioni religiose e politiche buone all’Italia. Lettere inedite a Raffaello Lambruschini (1831-1838), a cura di R. Ciampini, Brescia 1963.

20 G. Spini, Risorgimento e Protestanti, Napoli 1956, pp. 153-211; F. Pitocco, Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento. Il sansimonismo nella cultura toscana, Roma-Bari 1972.

21 S. Mastellone, Victor Cousin e il Risorgimento italiano, Firenze 1955, pp. 99 segg.

22 F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797- 1833), Brescia 2003, pp. 437-525.

23 L. Pazzaglia, Chiesa, società civile ed educazione nell’Italia post-napoleonica, in Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1994, pp. 35-65.

24 G. Chiosso, Educare e istruire il popolo a Torino nel primo Ottocento, in Chiesa e prospettive educative, a cura di L. Pazzaglia, cit., pp. 201-251, in partic. pp. 220-227.

25 E. Passerin d’Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Cecchi, N. Sapegno, VII, L’Ottocento, Milano 1969, pp. 201-413, in partic. p. 323.

26 A. Gambaro, Riforma religiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, 2 voll.,Torino 1924-1926: II, pp. 167-170.

27 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007, pp. 73-82; M. Musté, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli 2005, pp. 193-220.

28 V. Gioberti, Il Gesuita moderno, Napoli 18713, III, p. 328.

29 Ibidem, p. 319.

30 F. Traniello, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 43-62; D. Menozzi, I gesuiti, Pio IX e la nazione italiana, in St.It.Annali, XXII, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, 2007, pp. 451-478.

31 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Bari 196110, pp. 127-131.

32 E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa e il movimento neoguelfo in Italia, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, I, Milano, 1962, pp. 565-606.

33 M. d’Addio, Gioacchino Ventura dalla restaurazione alla rivoluzione, in Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, I, a cura di E. Guccione, Firenze 1991, pp. 14-38.

34 W. Maturi, L’aspetto religioso del 1848 e la storiografia italiana, in Il 1848 nella storia d’Europa, Roma 1949, pp. 257-280; E. Francia, “Il nuovo Cesare è la patria”. Clero e religione nel lungo Quarantotto italiano, in Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti, P. Ginsborg, cit., pp. 423-450.

35 G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 210-217.

36 Ibidem, pp. 240-254, 353-368.

37 L. Malusa, M. Letterio, Cristianesimo e modernità nel pensiero di Vincenzo Gioberti. Il “Gesuita moderno” al vaglio delle Congregazioni romane (1848-1852), Milano 2006; Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice. Il decreto del 30 maggio 1849, la sua genesi ed i suoi echi, a cura di L. Malusa, Stresa 1999.

38 F. Traniello, Religione cattolica, cit., p. 83.

39 P.G. Camaiani, Motivi e riflessi religiosi della questione romana, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), Relazioni II, Milano 1973, pp. 65-128.

40 G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876. Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari 19962, pp. 3-63.

41 E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale dopo il 1848, «Rassegna storica toscana», 4, 1958, pp. 287-307; Id., Gustavo di Cavour e le idee separatiste nel dibattito politico-religioso del 1850-52 in Piemonte, «Rassegna storica del Risorgimento», 48, 1961, pp. 646-662 (entrambi in Id., Religione e politica nell’Ottocento europeo, Roma 1993, pp. 288-309, 224-241); F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 136-237; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia 2002, pp. 35-61.

42 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Bari 19622, pp. 210-283; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 19905, pp. 175-267.

43 V. Gioberti, Del Rinnovamento civile d’Italia, a cura di L. Quattrocchi, 3 voll., Roma 1969: I, pp. 26-27; II, pp. 372-273.

44 M. Musté, La scienza ideale, cit., pp. 222-234.

45 V. Gioberti, Del Rinnovamento civile d’Italia, cit., II, p. 113.

46 V. Gioberti, Della riforma cattolica della Chiesa. Frammenti, a cura di G. Massari, Torino-Parigi 1856 (edizione molto scorretta); Id., Le postume religiose. Filosofia della rivelazione. Riforma cattolica. Libertà cattolica, a cura di G. Bonafede, Palermo 1967.

47 A.C. Jemolo, Il cattolicesimo liberale dal 1815 al 1848, «Rassegna storica toscana», 4, 1958, p. 247; E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale dopo il 1848, cit., p. 292.

48 E. Passerin d’Entrèves, Appunti sull’impostazione delle ultime trattative del governo cavouriano con la Santa Sede, per una soluzione della questione romana (novembre 1860-marzo 1861), in Chiesa e Stato nell’Ottocento. Miscellanea in onore di P. Pirri, Padova 1962, II, pp. 563-595; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista, cit., pp. 247-254.

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