La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Le arti meccaniche

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Le arti meccaniche

Robert Halleux
Emmanuel Poulle
Christian Meyer
Baudouin van den Abeele

Le arti meccaniche

Le conoscenze tecniche e la scienza dal XII al XV secolo

di Robert Halleux

La tesi secondo cui il Medioevo ha segnato una profonda evoluzione nella storia della tecnologia occidentale è stata formulata per la prima volta da Oswald Spengler. Seguendo le sue tracce, Bertrand Gille e Lynn White hanno approfondito l'analisi di questa evoluzione, mentre Jean Gimpel non ha esitato a parlare di "rivoluzione industriale del Medioevo", a costo di istituire una serie di analogie un po' forzate con la Rivoluzione industriale del XIX secolo.

Tra l'anno Mille e la Grande Peste del 1348 si definì a poco a poco un nuovo sistema tecnico, vale a dire un diverso insieme organico costituito da forme di energia, meccanismi di trasformazione e materiali. L'Antichità aveva sfruttato l'energia degli uomini e degli animali, i metalli non ferrosi e il ferro ottenuto con il procedimento diretto, oltre a iniziare a utilizzare la forza dell'acqua. Sin dall'Alto Medioevo, il ferro da cavallo, il collare da tiro e poi le staffe avevano permesso un'utilizzazione ottimale della forza dei cavalli per usi civili e militari. Nel XII sec. i carpentieri navali delle Fiandre, dell'Inghilterra e del Nord della Francia riuscirono a sfruttare la forza del vento anche sulla terraferma, costruendo i mulini a vento; in questo periodo, tuttavia, si sviluppò soprattutto l'uso dell'energia idraulica, grazie all'impiego generalizzato dei meccanismi ereditati dalla Tarda Antichità. L'autore del famoso Domesday book, redatto tra il 1080 e il 1086, censì in Inghilterra ben 5.624 mulini ad acqua. Trasformando il moto rotativo in moto alternativo, il meccanismo della camma, a sua volta ereditato dall'Antichità, consentì di azionare mediante ruote idrauliche frantoi, gualchiere, mulini per fabbricare la carta e più tardi martinetti di ferro e mantici dei forni. Una descrizione poetica del monastero di Clairvaux (PL, v. CLXXXV, coll. 170-171), redatta nel XIII sec., evoca le molteplici funzioni svolte dall'acqua in un complesso cistercense. Il fiume irrigava i campi e rinnovava l'acqua dei vivai, poi era deviato verso le botteghe e passava attraverso il mulino, la fabbrica di birra, l'officina di gualcatura, la conceria e altri laboratori non meglio specificati, prima di portare via con sé le immondizie.

Grazie all'applicazione dell'energia idraulica alla soffieria dei forni per il ferro, sperimentata per la prima volta nel XII sec. in Scandinavia, si ottenne un aumento della capacità dei mantici e si giunse alla costruzione di forni più grandi, che determinò il passaggio dai forni a bassa temperatura agli altiforni. In epoche diverse a seconda delle regioni, l'aumento della temperatura negli altiforni permise di fondere il ferro (che sino ad allora si otteneva con il procedimento diretto, cioè a bassa temperatura, sotto la forma di una massa spugnosa che bisognava faticosamente martellare); la fusione si prestava a essere impiegata per i lavori di modellatura e, a partire dal XIV sec., si diffuse l'uso di oggetti fusi a stampo, ma tale operazione risultava faticosa e richiedeva di essere perfezionata attraverso diversi processi di decarburazione.

Il sistema tecnico così costituito conobbe una grande espansione nel XVI e nel XVII sec., raggiunse l'apice del suo sviluppo nel XVIII e fu sostituito nel XIX sec., quando le macchine a vapore rimpiazzarono l'energia idraulica e la fusione a coke sostituì quella a legna. Il funzionamento di questo sistema medievale non presupponeva l'impiego di vaste conoscenze scientifiche; il suo sviluppo, tuttavia, spinse i dotti a nobilitare in una certa misura le arti meccaniche, a tentare di ordinarle registrandole in un corpus di testi, e a enunciarne razionalmente i principî. D'altra parte, un certo numero di realizzazioni tecniche isolate indussero la filosofia ad affrontare nuovi problemi, costringendola in alcune occasioni a rivedere certe posizioni. Le arti meccaniche, per esempio, svolsero un ruolo decisivo nella nascita della scientia experimentalis di Ruggero Bacone.

Ambiguità sociale e razionalità

Tra il 1106 e il 1120-1125, un monaco benedettino che si dedicava all'oreficeria, Ruggero di Helmarshausen (un'abbazia situata nella Bassa Sassonia) redasse sotto lo pseudonimo di Teofilo presbyter una Diversarum artium schedula divisa in tre libri, in cui espose in forma sintetica i principî dell'arte della pittura e della miniatura, dell'arte vetraria e dell'oreficeria, basandosi su vecchie raccolte di ricette e sull'esperienza pratica da lui acquisita nella bottega del monastero. Tutti i libri che compongono quest'opera sono preceduti da una lunga prefazione teologica in cui l'autore esalta il lavoro manuale; le conoscenze tecniche derivano dall'intelligenza che Adamo ha ricevuto in dono da Dio, ed essendosi arricchite nel corso delle generazioni, esse costituiscono una preziosa eredità che bisogna incrementare:

è giusto quindi che la sollecita devozione dei fedeli non lasci perire nell'oblio il tesoro trasmesso alla nostra epoca dalla sapiente previdenza dei nostri predecessori: è necessario che gli uomini accettino con tutto l'ardore del proprio cuore l'eredità che Dio gli ha trasmesso e si sforzino di appropriarsene. Colui che riesce a entrarne in possesso non se ne vanti, perché non è una conquista, ma un dono; se ne compiaccia, al contrario, umilmente con il Signore, da cui e attraverso cui discendono tutte le cose, senza cui non vi è niente; non circondi questo beneficio di un silenzio geloso, non lo nasconda nei recessi di un cuore avaro, ma evitando di cadere nella presunzione, lo condivida con coloro che ne vanno in cerca; ricordi con timore il giudizio pronunciato nel Vangelo contro quell'amministratore che, non avendo restituito con gli interessi la somma di denaro che gli era stata affidata, fu privato di ogni ricompensa e bollato dal suo stesso padrone con l'epiteto infamante di cattivo servitore. (Diversarum artium schedula, Praefactio, pp. 5 e 6)

Dio si compiace ‒ afferma Ruggero di Helmarshausen ‒ degli uomini umili e tranquilli che lavorano in silenzio nel nome del Signore e rispettano il precetto di san Paolo: "lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità" (Efesini, 4, 28). Ogni aspetto delle arti che può essere oggetto di studio, comprensione o meditazione, richiede l'impiego dei sette doni dello Spirito Santo: saggezza, intelligenza, prudenza, forza, scienza, pietà e timor di Dio. Johan van Engen ha notato in queste prefazioni l'influenza di Ruperto (fine XI sec.-1135/1136), monaco di Saint-Laurent di Liegi e poi abate di Deutz, presso Colonia. Ma questo punto di vista era già stato adottato da Odorannus di Sens (m. dopo il 1045), cronachista, canonista e teologo, che usava volentieri le mani per costruire un pozzo, o per fabbricare crocifissi e sedie, così come da Eilmer di Malmesbury.

I cistercensi, monaci artigiani per eccellenza e protagonisti di questa 'rivoluzione industriale', accordavano una grande importanza al lavoro manuale. Nel Dialogus inter Cluniacensem et Cisterciensem, redatto tra il 1137 e il 1165, un cistercense rimprovera a un cluniacense l'interesse dei monaci del suo ordine per l'artigianato di lusso e, in particolare, per la miniatura in lettere d'oro (inutile et otiosum opus) e l'astensione dal lavoro manuale: "Vi sbagliate, quindi, voi che pensate di essere dei contemplativi perché non svolgete alcun lavoro con le mani. L'uso delle mani non è nocivo, ma utile ai contemplativi".

Si è già osservato (v. cap. XI) come Ugo di San Vittore avesse integrato le arti meccaniche nella filosofia richiamandosi ai filosofi dell'Antichità. La classificazione elaborata nella stessa epoca da Domenico Gundisalvi, nel De divisione philosophiae (redatto verso il 1150), invece, fu ispirata dallo scienziato arabo al-Fārābī. Secondo Domenico Gundisalvi, lo scopo della filosofia è quello di giungere alla comprensione di tutto ciò che esiste. Questa scienza si divide in due parti, una teorica, cioè incentrata sulla conoscenza, e l'altra pratica, cioè incentrata sull'azione. La scienza teorica include la scienza naturale, la matematica e la teologia. La scienza naturale universale comprende a sua volta otto scienze particolari: Scientia de medicina, scientia de iudiciis, scientia de nigromantia secundum physicam, scientia de ymaginibus, scientia de agricultura, scientia de nauigacione, scientia de speculis, scientia de alquimia, que est scientia de conversione rerum in alias species; et haec octo sunt species naturalis scientiae (De divisione philosophiae, ed. Baur, p. 20). Anche la scienza matematica, che ha come oggetto la quantità, è universale in quanto comprende sette artes, vale a dire: arismetica, geometria, musica, astrologia, scientia de aspectibus, scientia de ponderibus, scientia de ingeniis.

Tutte le arti, sia pratiche che teoriche, sia liberali che artigianali (tam liberali quam fabrili), sono basate su regole di carattere generale. La medicina non è annoverata tra le sette arti liberali perché le utilizza tutte, ed è in qualche modo una seconda filosofia che rivendica la conoscenza dell'uomo in tutti i suoi aspetti. La geometria è esercitata da due categorie di pratici: i geometri e gli artigiani. I geometri misurano le altezze, le profondità e le superfici. "Gli artigiani (fabri) sono coloro che faticano (desudant) lavorando sulla materia o nelle arti meccaniche, come, per esempio, il carpentiere con il legno, il fabbro (ferraius) con il ferro, il muratore (cementarius) con i mattoni e le pietre, e tutti coloro che praticano le arti meccaniche in base ai principî della geometria pratica" (ibidem, p. 109). La scienza dei pesi (scientia de ponderibus) ha come oggetto i pesi e i loro spostamenti, e quindi i principî degli strumenti di sollevamento e di trasporto. La scienza de ingeniis si propone lo scopo di accordare (convenire) alla realtà fisica i principî matematici che le altre scienze trattano separatamente dai corpi materiali. Le scienze delle invenzioni ingegnose (scientiae ingeniorum) insegnano come immaginare e individuare i modi in cui i corpi naturali si adattano secondo i numeri all'uso che desideriamo farne attraverso un qualsiasi artificio. È il caso, per esempio, della scienza dei numeri che chiamiamo algebra e mucabala, e di altre discipline analoghe.

Sono riconducibili a questa categoria numerosi ingenia geometrica, come l'architettura (ars cementariorum) e la misurazione. Vi è un ingenium degli strumenti di sollevamento, degli strumenti musicali e degli strumenti impiegati in molte arti, tra cui, per esempio, le armi. Vi è un ingenium aspectuale secundum artem, che dirige la vista consentendoci di vedere le cose da lontano, e un ingenium degli specchi che riflettono, rifrangono e concentrano i raggi per accendere il fuoco. La scientia ingeniorum, quindi, enuncia i principî delle arti pratiche civili che hanno come oggetto i corpi, le figure, l'ordine, la posizione e la misura, come l'arte della costruzione e la carpenteria. Il testo di Gundisalvi, che deve molto alla tradizione dell'ingegneria araba, promuove e integra le arti meccaniche nella filosofia basandosi su due criteri connessi tra loro: l'enunciazione dei principî matematici su cui è basata la pratica, e la loro applicazione attraverso procedure ingegnose (gli ingenia) alle arti.

Nell'opera di Ugo di San Vittore, così come in quella di Gundisalvi, l'integrazione delle arti meccaniche nella filosofia è una logica conseguenza delle pretese universaliste di questa disciplina, poiché essa si definisce come lo studio di tutte le cose. Nella visione spiritualista di Teofilo (Ruggero di Helmarshausen) le arti sono prodotti dell'intelligenza, mentre per Gundisalvi esse sono dotate di razionalità; alla scientia de ingeniis spetta il compito di collegare la pura razionalità delle matematiche alle sue applicazioni pratiche. La posizione occupata dalle arti meccaniche è quindi fondamentalmente ambigua, infatti, anche se fondate sulla ragione, esse sono legate alla materia e sono praticate da persone di basso rango. Secondo un trattato anonimo del XII sec. le arti meccaniche sono definite adulterine sia perché imitano alcune arti liberali, sia perché sono coltivate da studenti meno dotati o meno progrediti negli studi, sia perché in esse si rifugiano avventurieri o adulteri. Riccardo di San Vittore, nel suo Liber exceptionum, osserva che la meccanica fa parte della filosofia in virtù della sua ratio (secundum rationem sui), ma non per quanto riguarda la pratica (non secundum administrationem); la ratio dell'agricoltura, per esempio, riguarda i filosofi, mentre la sua pratica spetta ai contadini. La distinzione tra teoria e applicazione pratica, tra ratio e applicatio, era già stata operata da Ugo (Didascalicon, I, 5).

Ritroviamo la stessa ambiguità negli scolastici. Le arti meccaniche hanno come oggetto la materia. Secondo Alberto Magno, esse costringono l'anima a distrarsi da sé stessa, a esteriorizzarsi nel mondo sensibile, rendendola in un certo senso adultera: artes mechanicae animam quae gignit eas adulterantes et ad materiam trahentes (De natura et origine animae, I, 1). Secondo Tommaso (Commentarium in I Metaphisicae, 3), colui che si dedica al sapere teorico può essere propriamente considerato un uomo libero, dato che è al servizio solamente di sé stesso; il servitore, invece, appartiene a un padrone e lavora e produce non per sé stesso ma per il suo padrone. Discende da questa considerazione la consuetudine di chiamare 'liberali' le arti che riguardano il sapere, e 'meccaniche', cioè servili, le arti che hanno come fine l'utilità pratica e la produzione.

I mestieri si basano sull'esercizio del corpo, cioè di quella parte dell'essere umano a causa della quale egli non è libero, ed è per questo che non possono essere chiamati liberali: quia huiusmodi actus sunt hominis ex parte illa qua non est liber, scilicet ex parte corporis (Super Boetium De Trinitate, quaest. 5, art. 1). È questa la ragione per cui i teologi li assimilano spesso alle opere servili, opera servilia, vietate nei giorni consacrati al Signore, al lavoro di quelli che non sono liberi né nello spirito né nel corpo, che priva della libertà di spirito necessaria al culto: Ars mechanica quae, quia quodam modo servilis est et degenerat a cognitione philosophia, recte potest dici (Bonaventura, De reductione artium ad theologiam, 2). Secondo Tommaso le arti meccaniche sono subalterne alla fisica, come del resto la medicina, l'agricoltura e l'alchimia (Super Boetium De Trinitate, quaest. 5, art. 1). La stereometria‒ scienza della misurazione dei corpi ‒ ha come disciplina subalterna la machinatura, id est scientia de faciendis machinis.

Le arti meccaniche più matematiche rientrano nella categoria delle scientiae mediae. Queste scienze sono più matematiche che fisiche e non pretendono di spiegare le cose da tutti i punti vista, ma soltanto da quello della quantità; in questo campo limitato, tuttavia, esse conseguono risultati più certi di quelli della fisica pura, e meno certi di quelli della matematica pura. È il caso dell'astrologia, della musica e della prospettiva. Le dimostrazioni della geometria possono applicarsi alle scienze inferiori, alle arti meccaniche in cui si utilizza la misurazione, o alle scienze speculative, come quelle che studiano la vista, o alla prospettiva e alle scienze visive; lo stesso vale per i rapporti che legano l'aritmetica all'harmonica, cioè alla musica.

Applicazioni pratiche di una forma svalutata della ragione, le tecniche non possono influenzare la scienza; possono illustrare le teorie, attraverso una prodigiosa quantità di esempi, come in Aristotele, ma non possono contraddirle. Nel De mineralibus, per esempio, Alberto Magno riporta l'opinione dell'alchimista spagnolo Gilgil (Ibn Ǧulǧul) che vedeva nei metalli una parte di cenere e una parte di liscivia, della natura di quelli con cui si fabbricava il vetro; subito dopo, tuttavia, il 'Dottore Universale' sminuisce l'importanza di questa analogia tecnica, perché Gilgil in fin dei conti è un mechanicus e non un philosophus.

La separazione tra scienza e arti meccaniche non era rigida. Alcuni praticanti della meccanica cercarono nella filosofia i fondamenti razionali della loro arte, e certe acquisizioni tecniche varcarono le soglie della scienza sollevando nuovi problemi. Tuttavia, nonostante le numerose interferenze tra teoria e pratica (sottilmente analizzate da Guy Beaujouan) la struttura universitaria del sapere seguitò a relegare la tecnica in una posizione di inferiorità. La mancata integrazione dello studio dell'alchimia nelle università e le diverse posizioni sociali occupate dai medici e dai chirurghi sono due esempi che spiegano bene questo atteggiamento. Durante la cerimonia del dottorato, il candidato doveva porgere alla commissione un paio di guanti, simbolo di un mestiere in cui non bisognava sporcarsi le mani. Dotti e artigiani appartenevano a due mondi separati, ai quali il corpo degli ingegneri, ancora poco conosciuto, assicurava occasionalmente una possibilità di comunicazione. Inoltre, l'ambigua valutazione delle conoscenze tecniche fu accompagnata dall'approfondimento dei loro fondamenti teorici, tanto da parte dei dotti quanto da parte degli stessi pratici, come dimostrano, per esempio, i casi dell'agricoltura, della chimica pratica e dell'arte degli ingegneri.

Le conoscenze agricole

Nel corso degli ultimi decenni lo studio delle conoscenze agricole nel Medioevo ha registrato un progresso decisivo. Dalle ricostruzioni storiche emerge un forte contrasto tra l'inattività di molte regioni e il dinamismo agricolo delle Fiandre e dell'Inghilterra, dove si registrarono migliori rendimenti, un certo aumento della produttività e il ricorso alla diversificazione delle colture, che presupponevano arature più profonde, sarchiature e scerbature più accurate, concimazioni più abbondanti ed efficaci, la coltivazione di piante miglioratrici e l'uso di letame di qualità; in queste regioni, inoltre, furono perfezionate le tecniche di allevamento, grazie alla coltivazione delle piante da foraggio, e alla manutenzione di terreni erbosi permanenti e di praterie artificiali.

Benché fosse classificata tra le arti meccaniche, l'agricoltura era legata alla filosofia da un duplice rapporto; come principale fonte di approvvigionamento, questa disciplina svolgeva infatti un ruolo fondamentale nell'economia e, allo stesso tempo, come attività che ha per oggetto la materia vivente, consentiva di comprendere i modi di operare dell'anima vegetativa, degli umori e degli elementi, chiamando in causa in molte questioni il concetto di specie. Il riflesso di questa dualità è individuabile nei Libri X e XI dello Speculum naturale (de cultura agrorum et hortorum; de agris de arte mechanica) e nel Libro VI dello Speculum doctrinale, un testo dedicato all'ars economica, di Vincenzo di Beauvais, dove l'autore riprende la definizione di Isidoro secondo cui oeconomica sive dispensativa est ars vel scientia qua domesticarum rerum sapienter ordo disponitur (cap. 1, col. 481). Tutta la letteratura agronomica è caratterizzata dalla tendenza ad andare oltre le considerazioni tecniche per affrontare tutti gli aspetti dell'arte di vivere in campagna, amministrando terreni, animali e persone. In questi testi, infatti, viene dato spazio anche ai temi della contabilità, della misurazione dei terreni, dell'arte veterinaria, della cucina e della medicina domestica. Questa tendenza è riscontrabile sia in Catone che in Olivier de Serres, sia nella Maison rustique di Estienne che nel Dictionnaire économique di Chomel.

L'aspetto gestionale e contabile è preso in esame soprattutto in un genere particolare di trattati redatti nel XIII sec. nell'area anglo-normanna: nei Rules di Roberto Grossatesta, in due trattati anonimi, Senechaucy e Husbandry, nell'opera di Walter de Henley e nella Fleta. In questi testi, dedicati alla gestione amministrativa e destinati ai siniscalchi o agli amministratori dei grandi possedimenti, sono descritti i compiti dei dipendenti, del balivo, del prevosto e del camparo, così come l'organizzazione del personale, il calcolo delle giornate di lavoro e i rendimenti, soprattutto in riferimento alla coltivazione dei cereali e all'allevamento. Questi trattati non si richiamano in alcun modo alla tradizione antica e la loro diffusione al di fuori dell'Inghilterra fu molto limitata.

In compenso, sulla scia di Alberto Magno si sviluppò una tradizione più attenta ai problemi teorici, rappresentata da Pietro de' Crescenzi e dai suoi epigoni italiani. Verso il 1260, nel redigere il suo De vegetalibus, Alberto Magno si trovò ad affrontare gli stessi problemi incontrati nella stesura del De mineralibus. Quello che si proponeva di commentare era un modello aristotelico lacunoso, lo pseudoaristotelico De plantis di Nicola di Damasco (II sec.) basato su alcune note del Liceo, e tradotto dal siriaco all'arabo e poi dall'arabo in latino da Alfredo di Sareshel (Alfredo l'Inglese). Seguendo un procedimento analogo a quello adottato per il De mineralibus, che lo aveva portato a cercare chiarimenti presso minatori, fonditori e alchimisti, Alberto per il De plantis consultò erboristi e agronomi. Il Libro VI del De vegetalibus è un imponente erbario ordinato alfabeticamente in cui Avicenna è completato da Plateario, mentre il Libro VII è un vero e proprio trattato di agricoltura. Lungi dall'essere una semplice digressione, questo testo è dedicato ai fondamenti razionali delle conoscenze agricole, all'intervento dell'uomo sulla Natura: qualiter videlicet habitudinem vitae mutat de statu quando de silvestri fit domestica sive hortensis, et de hortensi fit silvestris (VII, 1, 1, p. 269). Alberto riordinò la sua fonte, l'opera di Palladio, in funzione di questo intento.

La questione dell'addomesticamento delle piante, per esempio, non riguarda soltanto coloro che desiderano conoscere la Natura, ma anche la vita privata e pubblica (ad vitam et civitatum permanentiam): benché sia il solo principio delle cose naturali, come tutte le cose le cui sostanze sono trasmutabili, la Natura può ricevere un grande aiuto dall'arte e dalla cultura (multum iuvatur arte et cultu). I fattori che consentono l'addomesticamento sono quattro, cibus, aratio et fossio, seminatio e insitio. Il nutrimento (cibus) è il concime (stercorizatio laetamen) di cui l'autore spiega l'azione attraverso i quattro elementi. L'aratura o vangatura (aratio o fossio) ha quattro funzioni: l'apertura della terra (terrae apertios), il suo livellamento (eiusdem adaequatio), il suo mescolamento (agri commistio) e il suo sbriciolamento (comminutio). L'autore distingue diverse categorie di campi: sativi (sativi), consiti (piantati), compascui (da pascolo), novales (incolti); egli descrive i modi per migliorare il suolo affinché divenga sativus. Il termine seminatio indica la semina. Dell'insitio o innesto, invece, Alberto studia i meccanismi fisiologici (De vegetalibus, V, 1, 4).

La descrizione degli innesti conduce l'autore a dedicare un capitolo alla coltura dell'ager compascuus, cioè ai pascoli e alla loro irrigazione e fienagione, come pure alla coltivazione delle graminacee e alla creazione dei frutteti. Il secondo trattato dello stesso libro è intitolato De plantis in speciali, quae usibus hominum domesticantur, i tipi di piante cioè che nascono in agro sativo, vale a dire nei campi seminati e negli orti, e in agro consito, cioè nei frutteti e nelle vigne. Alberto spiega l'addomesticamento con la teoria dei quattro elementi: tra tutti gli organismi viventi, le piante sono le più vicine agli elementi; il lavoro dell'uomo riesce a modificare la qualità del terreno e dell'umidità (et ideo quod mutat qualitatem terrae et humoris, in qua sita est planta, multum mutat naturam plantae). Tutte le piante che non sono curate diventano selvatiche e il loro sapore cambia perché cambia la loro alimentazione (ibidem, I, 2, 6). Le piante cambiano a seconda dei luoghi in cui crescono. Come ha osservato Jean-Louis Gaulin, Alberto combina tra loro con grande abilità le tecniche e i terreni, basandosi su una classificazione ripresa, attraverso la mediazione di Isidoro, dalla tradizione latina (ager sativus, ager consitus, ager compascuus, prata, viridarium). Più in generale, il contributo di Alberto riguarda lo studio dei principî teorici della crescita dei vegetali.

Alla parte teorica dell'opera di Alberto è ispirato il Ruralium commodorum opus, redatto tra il 1304 e il 1306 da un erudito bolognese, Pietro de' Crescenzi. Dopo aver studiato all'università la logica, la medicina, la filosofia della Natura e il diritto, Pietro mise a frutto le sue conoscenze giuridiche come assessore del podestà, e successivamente si ritirò nella sua tenuta, la Villa dell'Olmo, per dedicarsi alla stesura della sua opera. Pietro de' Crescenzi si situa al punto di incontro tra la tradizione gestionale e la tradizione scientifica di Alberto; è in effetti dal Libro VII del De vegetalibus che l'autore riprende il piano del suo trattato e i principî teorici di fisiologia vegetale che spiegano il passaggio delle piante dallo stato selvatico a quello domestico.

I Ruralia commoda sono composti da dodici libri. Il primo è dedicato all'aria, ai venti, ai luoghi, alla scelta di luoghi appropriati per costruire strade e case, ai pozzi, alle fontane, agli acquedotti, al ruolo dell'amministratore e del padre di famiglia; il secondo, che deve molto ad Alberto, descrive la natura delle piante e gli aspetti comuni all'agricoltura in tutti i tipi di terreno; nel terzo sono presi in esame i campi coltivati e, in particolare, quelli di cereali e leguminose; il quarto è consacrato alle vigne, il quinto agli alberi da frutto e non, e ai loro usi medicinali così come erano stati descritti da Avicenna e Isaac Israeli (Isḥāq al-Isrā᾽īlī ben Salomon); il sesto tratta dei giardini e delle virtù delle erbe, sia coltivate che selvatiche, già analizzate dal medico salernitano Matteo Plateario e dalla tradizione latina delle Dietae di Isaac Israeli; il settimo descrive i pascoli e i boschi, l'ottavo i giardini ornamentali, il nono gli animali, incluse le api e gli animali da cortile, enunciando alcune nozioni di medicina veterinaria; il decimo è dedicato alla caccia; l'undicesimo è una ricapitolazione dei precedenti libri in forma di precetti e il dodicesimo enumera i lavori dei dodici mesi dell'anno richiamandosi al modello di Palladio.

Crescenzi è un autore di vaste letture, antiche e contemporanee. Per esempio, il Libro IV, che ha come oggetto anche il vino, è basato sul Liber vindemie o Liber de vindemiis, cioè sulla versione latina, eseguita da Burgundio di Pisa fra 1136 e 1193, della sezione dedicata alla vendemmia e alla vinificazione dei Geoponica, un vasto trattato bizantino di economia rurale la cui compilazione risale al regno di Costantino VII Porfirogeneta (905-959). I Geoponica sono costituiti da stratificazioni successive. Verso il IV-V sec. d.C., Vindanio Anatolio di Beirut aveva compilato una raccolta di testi di nove agronomi. Tra la fine del VI e l'inizio del VII sec. Cassiano Basso amalgamò la sua opera con la compilazione di Didimo di Alessandria (IV-V sec.), a sua volta costituita da una raccolta di testi di sette autori; nel X sec. questo insieme di testi fu raccolto e diviso in venti libri da un autore non identificato; in seguito, Burgundio tradusse un testo del secondo strato. Crescenzi quindi mescolò elementi del VII sec. ed elementi della sua epoca; come ha osservato Jean-Louis Gaulin, Crescenzi ha ritenuto opportuno aggiungere alla descrizione delle tecniche che vedeva praticare alcune indicazioni trovate nei libri. Il suo intento non è tanto quello di fornire una giustapposizione di testi e una dualità di tecniche, quanto di confrontarli e fonderli, di compilare una raccolta di risposte alternative agli stessi problemi. La sezione dedicata al vino dei Ruralia commoda deve essere considerata un tutto organico, facendo attenzione a non perdere di vista i diversi strati dai quali è composta.

Crescenzi si riferiva costantemente alla filosofia della Natura: per esempio, quando spiegando la trasformazione del vino in aceto attraverso gli umori affermava che questo processo ha luogo quando nel vino il caldo e l'umido cedono il passo al freddo e al secco, proprietà che caratterizzano l'aceto. La sua opera riscosse un considerevole successo e fu frequentemente copiata. In Italia ispirò la Divina villa (1410) del possidente perugino Corniolo della Cornia. In Francia, fu tradotta per la prima volta nel 1373 su richiesta di Carlo V con il titolo di Livre des prouffitz champestres et ruraux. Un'altra versione del testo di Crescenzi, intitolata il Rustican, le bon mesnage, conobbe quindici edizioni tra il 1486 e il 1540. Con l'invenzione della stampa ‒ che diede un impulso decisivo all'organizzazione e alla diffusione delle conoscenze agricole, come, del resto, di tutte le altre conoscenze tecniche ‒ le edizioni e le traduzioni in volgare dell'opera di Crescenzi si moltiplicarono, insieme a quelle dei testi di Palladio e di Columella nei Geoponica.

La chimica pratica

Gli alchimisti, i pittori, gli orefici e i miniatori lavoravano con le stesse sostanze che compravano dallo speciarius, il farmacista, al quale si rivolgevano anche i medici, ed eseguivano le stesse operazioni di setacciatura, vaglio e filtraggio. La storiografia ha diviso in segmenti questa comunità tecnica, laddove uno studio dedicato unitariamente a questo tema sarebbe invece estremamente fruttuoso, perché consentirebbe di descrivere l'impatto delle forze produttive sullo sviluppo della scienza chimica. Tra le tecniche esercitate dagli artigiani specializzati due, in particolare, meritano di essere studiate per i loro rapporti con la scienza, ossia quelle dei distillatori e quelle dei saggiatori. Si è spesso affermato che furono gli alchimisti a mettere a punto la pratica della distillazione, che in seguito si sarebbe diffusa progressivamente tra altre categorie di fruitori; in realtà, le più antiche testimonianze, piuttosto rare, dimostrano che questa pratica ebbe origine all'interno di una comunità tecnica molto complessa.

Gli autori dell'Antichità avevano spesso osservato che nel corso delle libagioni di vino in onore degli dèi, i vapori di questo liquido si infiammavano, ma, poiché non disponevano di un'efficace apparecchiatura di condensazione, non erano riusciti a isolare il principio combustibile in atto. In effetti, nell'Antichità si riusciva a distillare la pece e a dissalare l'acqua del mare solamente strizzando i velli o le stoffe con cui si coprivano i paioli nei quali le sostanze menzionate erano messe a bollire.

Nel I sec. l'enciclopedista Plinio il Vecchio e il farmacista Dioscuride avevano descritto l'estrazione del mercurio dal cinabro: si scaldava il cinabro dopo averlo posto in una conchiglia di ferro, che a sua volta poggiava su una scodella coperta da una coppa conica, una sorta di capitello improvvisato sul quale si condensavano i vapori mercuriali. I Greci avevano attribuito a questo genere di coppa il nome di ambix. Con le ricerche di due alchimisti greci, Maria l'Ebrea (I sec.) e Zosimo (IV sec.), l'ambix si perfeziona, il capitello è posto in posizione sopraelevata sulla cucurbita per evitare la fuoriuscita dell'acqua ed è dotato di due o tre tubi di scarico (dibicos, tribicos); per raffreddare il capitello si ricorreva all'impiego di spugne. Questo apparato non era utilizzato solamente dagli alchimisti; infatti nella stessa epoca, secondo l'oftalmologo Demostene, l'ambix, dotato di un tubo di scarico, era impiegato dai profumieri per estrarre i succhi delle piante odorifere. In questa forma l'ambix si trasmise ai Bizantini e poi agli Arabi che lo usarono per distillare gli oli essenziali, le acque delle piante, le componenti leggere del petrolio e gli estratti dei minerali. La farmacopea, la profumeria e la tecnologia arabe abbondano di distillazioni. Questa trafila tecnica avrebbe avuto un duplice impatto sulla scienza della materia attraverso l'alcol e gli acidi minerali.

Nel Medioevo, il termine di origine araba 'alcol' designava la polvere di antimonio (il kohl); il primo autore che lo usò nella sua accezione moderna fu Paracelso, ma già nel XII sec. si avevano diverse ricette di distillazione del vino per ottenere una sostanza misteriosa, che veniva chiamata 'acqua di fuoco' (aqua ardens), oppure 'acqua di vite' (aqua vitis) o, ancora, 'acqua di vita' (aqua vitae). Un trattato di alchimia, incluso nel ms. Phillipps Corning della Mappae clavicula (XII sec.), contiene una ricetta cifrata di distillazione del vino con l'aggiunta di sale in un recipiente appropriato; l''acqua' così ottenuta bruciava lasciando inalterato il suo supporto. Ritroviamo la stessa ricetta in una farmacopea, il Compendium magistri Salerni (databile alla metà del XIII sec.), in cui questo prodotto è designato con il nome di aqua ardens e, in una forma molto più complessa, anche nella Chirurgia di Ruggero di Salerno (XII sec.). Gli autori delle ricette consigliavano spesso di distillare il vino 'alla maniera dell'acqua di rose' (ad modum aquae rosatae). Per distillare le acque delle piante i medici di Salerno utilizzavano prevalentemente l'alambicco; l'uso di questo apparecchio è infatti attestato nella loro farmacopea, il De simplici medicina di Plateario.

Nel XIII sec. l'aqua ardens era comunemente utilizzata nella comunità tecnica: un trattato di pirotecnica militare, i Libri dei fuochi di Marco il Greco, ne contiene una ricetta molto vicina alle formule salernitane; una raccolta di 'segreti' magico-tecnici, gli Experimenta attribuiti ad Alberto Magno, ne fornisce un'altra. L'Ars alchemiae, redatta verso il 1230 da Michele Scoto, descrive la distillazione dell'aqua ardens a partire dalla trementina; nel De mineralibus, lo stesso Alberto Magno accenna a questo procedimento.

L'uso dell'alcol era diffuso anche tra i medici, come dimostrano i casi di Pietro Ispano (1210-1277), Teodorico di Cervia (1205-1298) e Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.). È del resto in un testo del medico Taddeo Alderotti (1215/1223-1295) che troviamo la prima attestazione dell'uso della serpentina. In ogni caso, è interessante notare che l'uso dell'alambicco rimase piuttosto limitato tra gli alchimisti, che gli preferirono sempre il vecchio dispositivo a raffreddamento naturale. Utilizzata sia nel campo della medicina che in quello dell'alchimia, l'acqua di fuoco si ricollegava all'antica idea orientale dell''elisir di lunga vita'; l'alchimista Giovanni di Rupescissa la combinò al concetto aristotelico di quinta essentia per designare il principio attivo delle sostanze medicamentose. D'altra parte, una lunga tradizione di Distillirbücher (trattati sulla distillazione) aprì la strada alla riforma medico-chimica di Paracelso.

Anche l'uso dell''acqua forte' e, più in generale, degli acidi minerali, rimane avvolto nell'oscurità. La scoperta di questa sostanza fu attribuita agli alchimisti dagli esperti nella lavorazione del metallo. Nel 1533 Christian Egenolph diede alle stampe il Bergwerck und Probirbüchlein, in cui figurava la versione tedesca di un opuscolo dell'alchimista Gilbertus Cardinalis sulla fusione e sulla separazione dei vari metalli (Von Solveiren und Scheydungen aller Metall). Non è facile determinare la data di composizione di questa curiosa opera; copiata nei manoscritti con il titolo di Libro del maestro Gilberto Cardinalis sull'acqua che penetra, descrive la produzione di un acido attraverso la distillazione di una miscela di allume di piuma, vetriolo e salnitro, l'estrazione dell'oro e del rame e una practica trasmutatoria basata sulla soluzione del mercurio e dell'argento nell'acido. La somiglianza con il procedimento descritto da Paul Eck di Sulzbach induce a supporre che questo tipo di practica sia stata elaborata nel XV sec., anche se un'opera di Gilbertus Cardinalis ‒ però non chiaramente identificabile con questo trattato ‒ è citata in un'enciclopedia redatta nel XIII sec., lo Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais.

La distillazione dell''acqua forte' a partire da una soluzione di vetriolo (solfato di ferro e di rame), di salnitro e di allume è menzionata in un celebre editto sulle monete promulgato nel 1343 da Filippo VI di Valois. Nel XIV sec., sia nella letteratura alchemica che in quella tecnica si accenna a questa sostanza. Nel primo caso la troviamo menzionata in due appendici tarde della Summa perfectionis, il De investigatione e il Liber fornacum (inizio del XIV sec.), nei testi di Philippe Elephant e nel Manuale chimicum della Biblioteca Vaticana (terzo quarto del XIV sec.). Nella letteratura chimica delle raccolte di ricette, invece, l'uso dell''acqua forte' è consigliato per decapare il ferro prima della doratura o per praticare incisioni su quest'ultima. In realtà, il ricorso alle definizioni moderne (acido cloridrico, nitrico o solforico) si rivela inadatto allo studio di quest'antica procedura tecnica. Alcuni degli ingredienti menzionati in queste pratiche ‒ vale a dire l'allume, il vetriolo e il sale ‒ erano utilizzati già molto prima di questo periodo in diverse soluzioni corrosive, insieme ad altre sostanze. Queste soluzioni erano distillate o bollite nell'aceto, il solo acido conosciuto dagli Antichi, per ottenere acidi deboli con cui si decapavano o si coloravano i metalli.

Nei testi alchemici l'acqua forte è oggetto di una vasta letteratura sulle aquae acutae. I numerosi trattati latini sulle 'dodici acque' che si basavano su opere arabe e, in particolare, il Liber duodecim aquarum ex libro Emmanuel, redatto a partire da un testo di Avicenna e annesso al De perfecto magisterio, il Liber Archelai e l'appendice al De aluminibus et salibus, descrivono composizioni complesse, non sempre efficaci, in cui entrano in gioco anche alcuni acidi vegetali e alcune liscivie alcaline (questa letteratura sconfina nel campo della medicina, dal momento che le acque erano utilizzate anche per lavare alcuni tipi di ferite). Per quanto riguarda il decapaggio del ferro, nei ricettari dell'Alto Medioevo sono abitualmente menzionati ingredienti a base di vetriolo, sale, allume e aceto; in questa situazione, ogni questione di priorità si rivela illusoria, dal momento che alla procedura tecnologica degli acidi minerali ricorrevano tanto gli artigiani quanto gli alchimisti.

Allo stesso modo, la distillazione del sangue umano, ideata nel XIV sec. nella cornice della generalizzazione delle pratiche distillatorie, ispirò sia alcuni medici, come Guy de Chauliac, Enrico di Mondeville, Teodorico di Cervia e lo Pseudo-Arnaldo da Villanova, sia alcuni alchimisti, e, in particolare, Riccardo Anglico, Rupescissa e Guglielmo Sedacer. Infine, nel Liber servitoris, o manuale dell'apprendista farmacista di Abulcasis (Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī), tradotto da Simone da Genova, troviamo la descrizione di molte operazioni menzionate anche nelle opere di Paracelso: il lavaggio e l'arrostimento dell'antimonio, la sublimazione del mercurio e dell'orpimento, la produzione del cinabro, dello zafferano di ferro e dell'olio di mattone. Si può quindi affermare che già molto prima dell'organizzazione del sapere chimico definitasi nel XVII sec. esisteva un fondo comune di sostanze, strumenti e procedimenti ai quali medici, alchimisti e filosofi delle università attingevano per alimentare le loro problematiche specifiche.

L'arte della saggiatura

Si possono fare le stesse considerazioni per quanto riguarda l'arte dei saggiatori, la cui influenza sulla nascita della sperimentazione fu considerevole. Lo scopo dell''arte della saggiatura' (ted. Probierkunst, ingl. assaying) è quello di valutare la purezza di una sostanza e di determinare la natura e la quantità dei costituenti di un composto. Nel campo della metallurgia, la saggiatura è impiegata per determinare la composizione e la ricchezza di un minerale o la qualità di una lega. La figura del saggiatore, indicato con il nome di ebbum, 'il proboviro', 'l'uomo di fiducia' a cui era affidato il compito di controllare le materie prime, è menzionata per la prima volta nel II millennio a.C., nei documenti degli archivi reali di Mari insieme alla prova del fuoco. I naturalisti antichi accennano spesso a questa figura.

Nel Medioevo occidentale i metodi di questa pratica furono frequentemente descritti nei testi dedicati alle monete, come, per esempio, il Dialogus de scaccario (XII sec.) e il Red book of the exchequer (la cui stesura fu intrapresa nel XIII sec.), nei manuali dedicati al commercio, come, per esempio, la Practica della mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, e soprattutto nella Rezeptliteratur (raccolte di ricette) e nelle raccolte di 'segreti'. Con la diffusione della stampa, apparvero i primi manuali dedicati alla saggiatura, i Kunstbücher e i Probierbücher. Costituiti originariamente da semplici raccolte di ricette piuttosto confuse, questi testi assunsero in seguito la forma di veri e propri trattati e, a partire dal XVI sec., i grandi esperti della lavorazione del metallo dedicarono alla saggiatura vaste sezioni dei loro trattati. I primi manuali esaurienti di docimastica (l'insieme dei metodi per saggiare i materiali) apparvero nel XVII sec.; quella della saggiatura è quindi una tradizione coerente, descritta in numerosi documenti, anche se ancora poco studiata.

La metodologia della saggiatura si proponeva lo scopo di giungere a una valutazione accurata attraverso una combinazione di vari metodi, tutti forzatamente approssimativi in misura diversa; se una prova isolata lasciava un certo margine di errore, differenti metodi di verifica combinati tra loro costituivano una rete molto stretta dalle cui maglie non sarebbe sfuggito il contenuto di oro alchemico.

Il metodo della pietra di paragone, descritto da Teofrasto e da Plinio il Vecchio, consisteva nel rigare il metallo con una pietra ruvida e nel raffrontare la scalfittura così prodotta a quella praticata su un esemplare di cui si conosceva già il titolo (stella di paragone); invece di ricorrere alla chimica, ci si basava dunque sul confronto materiale tra il metallo in esame o la stella di paragone e la pietra. Tale confronto dipendeva dalla durezza dei due materiali in questione, dalla ruvidezza della pietra, dal coefficiente di sfregamento, e dalla pressione esercitata ed era quindi basato sull'esperienza e sulle capacità di osservazione. Il metodo dei pesi specifici, basato sulla determinazione del peso specifico del materiale in esame, e messo a punto da Archimede, era stato oggetto di ricerche estremamente accurate dal punto di vista matematico, la sua applicazione pratica tuttavia si rivelò problematica. I testi in cui è descritta la bilancia idrostatica si limitavano a fornire valutazioni molto approssimative per le leghe di oro e d'argento. Alcuni frammenti di testi sui pesi specifici, riconducibili alla tradizione della docimastica, furono integrati in diversi trattati dedicati ai pesi. Molto più affidabili erano comunque metodi di tipo 'distruttivo', e precisamente quelli basati sul cemento (cementazione), sulla coppella (coppellazione), sull'acqua forte e sull'antimonio.

La cementazione, impiegata a partire dal VI sec. a.C. per la saggiatura dell'oro, era basata sul riscaldamento della lega aurifera, sottoposta alla prova in forma di granuli o di fogli sottili, insieme a una preparazione che attaccava i metalli associati all'oro e, in particolare, l'argento; a tale scopo si usavano cementi che contenevano cloruri (sale da cucina, sale di ammoniaca), zolfo e diversi solfati ‒ che nel Medioevo erano chiamati allumi, vetrioli o atramenti ‒, ai quali in generale si aggiungeva polvere di mattone.

La coppellazione, messa a punto nel II millennio nel campo della metallurgia del piombo argentifero, è un metodo fondato sulla fusione ossidante in un recipiente poroso, in generale una coppella ottenuta dalla cenere polverizzata e calcinata, designata per questo nel Medioevo con il nome di cineritium. Alla lega da saggiare si aggiungeva piombo; questo si ossidava divenendo litargirio, che si legava agli ossidi degli altri metalli ed era poi assorbito dalla coppella, o fuoriusciva cadendo nel forno, o ancora era estratto dalla coppella con attizzatoi di ferro, lasciando inalterati l'oro e l'argento. La coppella era uno strumento molto apprezzato nelle botteghe, e Biringuccio afferma che nessun fabbricante di monete poteva farne a meno.

Alla fine del Medioevo, altri due metodi, basati rispettivamente sull'acqua forte e sull'antimonio, vennero a completare l'armamentario del saggiatore. L'acqua forte dissolveva i metalli legati all'oro, lasciando inalterato quest'ultimo; la saggiatura con la stibina (solfuro di antimonio) si basava sul fatto che l'argento presenta una maggiore affinità con lo zolfo che con l'antimonio.

Benché si conoscano a fondo i loro procedimenti, non è facile ricostruire i presupposti teorici e la mentalità dei chimici pratici; siamo infatti in presenza di una tradizione artigianale, all'interno della quale i manuali servivano soprattutto da promemoria. Le idee fondamentali a cui era ispirata la loro pratica sembrano tuttavia essere molto diverse da quelle degli alchimisti; tra queste idee occorre ricordare la nozione di 'corpo puro', che non è ancora quella di 'corpo semplice', ma corrisponde piuttosto all'idea di un limite della decomposizione, nel senso che un materiale progressivamente depurato da vari dei suoi componenti mediante appropriate manipolazioni è pervenuto nella condizione di corpo puro quando ulteriori manipolazioni volte a decomporre ulteriori eventuali componenti non sortiscono alcun effetto. Il Libro rosso, per esempio, raccomanda ai saggiatori di impiegare nella coppellazione del piombo sterile, che doveva essere a sua volta saggiato e riconosciuto esente da oro e argento, o il ricorso alla quantificazione, imposto da esigenze di carattere economico e monetario; il loro concetto di procedura sperimentale risulta quindi alquanto vicino a quello adottato dalla metodologia moderna.

La saggiatura era chiamata examen, probatio, ma anche experimentum. Nel campo dell'alchimia e della medicina medievali questo termine indicava semplicemente il riconoscimento del fatto che una volta un certo procedimento aveva condotto a un certo risultato; tra i saggiatori, invece, il termine experimentum contiene la nozione di 'vedere cosa succede se'; associata alla combinazione dei metodi e alla moltiplicazione dei prelievi, questa concezione si avvicina molto all'idea moderna di 'esperimento'. La lingua conserva le tracce di questa evoluzione; non è un caso se il termine 'coppella', diminutivo di 'coppa', era sentito equivalente al latino testa (per la somiglianza di forma), il che ha dato origine al termine inglese test ('prova di saggiatura', 'controllo'), e se al termine 'cemento' ‒ come 'materiale per saggiare' e poi, estensivamente, inteso anch'esso come 'saggio', 'esperimento' ‒ si ispirò la prima accademia dedicata alle scienze sperimentali, l'Accademia del Cimento.

Gli ingegneri e gli architetti

Il termine ingeniator fu usato per la prima volta nel 1086 in un censimento inglese intitolato Domesday book (Il libro del giudizio finale) in riferimento a un costruttore di ingenia, cioè di macchine da guerra. Dal XII al XVIII sec. la figura dell'ingeniator fu frequentemente associata a quella dell'architectus, secondo una tradizione che risaliva all'Antichità. Nel corso del XII sec. l'arte dell'ingegnere-architetto subì profonde trasformazioni: tra il 1135 e il 1190 iniziò ad affermarsi lo stile gotico, tra il 1190 e il 1230 si costruirono le grandi cattedrali e tra il 1230 e il 1380 fiorì il gotico ornato. Oltre alla conoscenza delle masse e delle forze su cui si basavano le tecniche di costruzione, questo stile architettonico richiedeva una grande competenza nella costruzione degli strumenti di sollevamento e delle impalcature. Nel campo dell'arte della guerra, l'artiglieria nervoballistica degli Antichi fu sostituita nel XII sec. da potenti armi basate su meccanismi di ribaltamento: mangani, catapulte a cinghia, petriere e trabocchetti. La scientia de ponderibus era la scienza dei contrappesi che studiava le nuove macchine.

Nel corso di tutta la sua storia, l'ingegneria si è basata su due componenti fondamentali: la geometria e il disegno.

Per quanto riguarda la geometria, la questione relativa al livello di conoscenza della matematica dei costruttori di cattedrali è stata oggetto di lunghe controversie. In realtà, Guy Beaujouan, Lon Shelby e Pierre du Colombier hanno dimostrato che questi ultimi si limitarono a combinare tra loro, peraltro con grande virtuosismo, un piccolo numero di formule matematiche già conosciute, come, per esempio, π=22/7. Nel 1391 la commissione che presiedeva alla costruzione del Duomo di Milano dovette pronunciarsi sulla soluzione meno costosa per completare la volta dell'edificio, scegliendo tra due formule alternative: quella ad quadratum, vale a dire in forma di triangolo inscritto in un quadrato il cui lato era uguale alla larghezza della chiesa, e quella ad triangulum, vale a dire sotto forma di un triangolo equilatero formato da lati corrispondenti alla stessa misura. Bisognava quindi limitarsi a calcolare l'altezza del triangolo equilatero. La commissione finì per scegliere la formula ad triangulum, basandosi sulla relazione di quattordici ingeniatores, i quali avevano semplicemente tenuto conto della costante empirica secondo cui l'altezza del triangolo equilatero corrisponde ai 13/15 del suo lato. Ci troviamo in questo caso in presenza di un tipico esempio del genere di conoscenze che si trasmettevano nel campo della geometria pratica, nei manoscritti e successivamente nei libri a stampa, in cui antichissime formule, ereditate dagli agrimensori romani, si combinavano alla volgarizzazione più o meno riuscita di opere di geometria teorica. Nel 1525 Albrecht Dürer sottolineò le scarse conoscenze matematiche dei tecnici del suo tempo, dedicando il suo Unterweysung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheyt agli architetti, ai pittori, così come agli orefici, ai tagliatori di pietre e agli ebanisti.

L'altro fondamento dell'arte degli ingegneri è il disegno. I manoscritti di ingegneria che ci sono pervenuti sono costituiti da raccolte di modelli accompagnati da didascalie. Per quanto riguarda le macchine, ogni elemento di un insieme tecnico è rappresentato dal punto di vista più esplicito, a prescindere da ogni criterio realistico. Con il passare del tempo, la tecnica di disegno si fa più raffinata e la prospettiva diviene sempre più importante nell'arte degli ingegneri. Le ricerche pionieristiche di Bertrand Gille e, in seguito, quelle di A.R. Hall, Jean Gimpel, Paolo Galluzzi ed Eberhard Knobloch hanno messo in luce le scuole e i protagonisti di questa disciplina, tra cui si distinsero, nel XIII sec., Pierre de Montreuil, che si insignì di uno pseudotitolo universitario, doctor latomorum (dottore nello sfruttamento delle cave), Villard de Honnecourt (attivo verso il 1225-1250) e Pietro di Maricourt, autore della Epistula de magnete (1269), il trattato manoscritto nel quale si riconosce l'inizio del magnetismo scientifico e sul quale si tornerà più avanti.

Non sappiamo molto di questi personaggi e non conosciamo a fondo le influenze che alimentarono le loro riflessioni e, in particolare, la tradizione greco-araba. Alcuni frammenti di Filone di Bisanzio furono tradotti dall'arabo in latino con il titolo di Liber Philonis de ingeniis spiritualibus et de conductibus aquarum e pubblicati da Valentin Rose negli Anecdota graeca et graeco-latina (II). Alla fine della versione interpolata dall'arabo della Mappae clavicula del ms. Phillipps Corning è trascritto un testo enigmatico costituito da didascalie di figure di automi oggi perdute. Non sappiamo se l'arte degli ingegneri subì l'influenza dei grandi meccanici arabi, come, per esempio, i Banū Mūsa (attivi sotto al-Ma᾽mūn, 813-833), al-Ḫwārazmī (m. 847) o ῾Alī ibn Riḍwān (m. 1068 ca.).

La bussola magnetica

La storia della bussola magnetica ‒ introdotta in Occidente nel XII sec. ‒ può essere considerata il locus classicus di questo problema di trasmissione della scienza. Questo strumento non era il risultato di ricerche teoriche, dal momento che i navigatori l'avevano utilizzato empiricamente molto prima che gli eruditi tentassero di spiegarne il funzionamento, del resto in modo inadeguato. È su una bussola funzionante che gli ingegneri e poi i filosofi studieranno le proprietà direzionali di un piccolo magnete lineare (ago magnetico), per giungere all'identificazione delle nozioni relative ai magneti e, in particolare, al campo magnetico terrestre.

Sembra che in Cina sin dall'inizio della nostra era fosse diffuso l'uso del cosiddetto 'cucchiaio geomantico': un cucchiaio di ferro magnetizzato per sfregamento su una roccia magnetica (probabilmente, ematite), che, appoggiato su una tavola liscia, si girava indicando con il manico il sud. In Cina inoltre si iniziò a utilizzare, a partire dal IV sec., l'ago magnetico a perno e, a partire dall'XI sec., l'ago galleggiante. Quest'ultimo era un ago di ferro che era stato magnetizzato per sfregamento, e poi conficcato in un fuscello di paglia che si lasciava galleggiare sulla superficie dell'acqua; nelle vere e proprie bussole l'ago era incorporato in un piccolo galleggiante di legno, spesso configurato a forma di piccolo vascello oppure in altre forme fantastiche (per es., a forma di drago), vincolato in modo da poter soltanto rotare al centro di un recipiente contenente acqua. Questo strumento è menzionato nel XII sec. nel De lapidibus (un apocrifo di Aristotele) e nell'opera dell'enciclopedista Alessandro Neckam (verso il 1200), mentre sembra che nei testi arabi anteriori al XIII sec. non vi sia alcun riferimento a esso.

Nel XIII sec. l'uso di questo strumento si diffuse tra i marinai del Levante, almeno secondo Guiot de Provins e Jacques de Vitry, che soggiornarono in questa regione, e secondo gli enciclopedisti Vincenzo di Beauvais e Tommaso di Cantimpré. Verso lo stesso periodo si diffuse l'uso della bussola a perno, l'attuale bussola magnetica. Le vie di trasmissione di questa innovazione sono ancora sconosciute. Joseph Needham ha tentato di risolvere la questione introducendo la nozione di stimulus diffusion, secondo cui un oggetto con cui si viene a contatto attraverso il commercio o descritto per sentito dire stimola l'immaginazione degli uomini spingendoli a fabbricarne uno identico. Quello che è certo è il destarsi negli ambienti colti europei di una viva curiosità scientifica sul costante dirigersi dell'ago magnetico verso il nord geografico, con ampie discussioni sulle prime ipotesi che furono da più parti avanzate a tale riguardo.

Per capire le pratiche e i metodi di riflessione degli ingeniatores nei confronti delle innovazioni, disponiamo di due documenti, il taccuino di Villard de Honnecourt e la Epistula de magnete di Pietro di Maricourt, nominata precedentemente. Benché provenissero dallo stesso ambiente (Honnecourt e Maricourt sono infatti due villaggi della Piccardia), questi personaggi non sono mai stati posti in relazione tra loro dagli studiosi.

Villard de Honnecourt

Il ms. fr. 19.093 della Bibliothèque Nationale di Parigi corrisponde al taccuino o portfolio (impropriamente chiamato album) compilato da Villard de Honnecourt verso il 1225-1235 e arricchito non molto dopo dall'anonimo Magister II. Come ha osservato Carl Barnes, non vi è alcuna prova che Villard de Honnecourt abbia praticato l'architettura; probabilmente, come molti altri raccoglitori di experimenta di tutte le arti e i mestieri, egli era completamente estraneo a questa professione. La maggior parte dei disegni raccolti in questo taccuino è rappresentata da modelli di architettura e di scultura; tuttavia, qui l'architettura appare connessa ad altre tecniche: la geodesia, la misurazione e la costruzione di congegni di sollevamento, di macchine da guerra e di automi.

Vi è una sorprendente concordanza tra il contenuto della 'sintassi meccanica', descritta nel II sec. a.C. da Filone di Bisanzio, e quella delineata da Villard nel suo taccuino. Anche qui, infatti, troviamo degli automi, tra cui, per esempio, lo scaldamani a giunto cardanico, l'orologio (f. 6v), la cannella idraulica (f. 9), l'angelo meccanico e l'aquila mobile, la sega automatica (f. 22v) e la rappresentazione di diversi tipi di moto perpetuo (f. 5); armi da guerra, come l'arco automatico (f. 22v) e il trabocchetto (f. 30); alcuni apparecchi di sollevamento (ff. 22v-23); misurazioni con "figure tratte dalla geometria" (f. 20); un certo numero di ricette relative a materiali, rimedi e colori (ff. 21v, 33).

Jean Adhémar ha dimostrato che Villard conosceva bene il trattato di Vitruvio, ma molti brani del suo taccuino presentano evidenti analogie con altri testi. La ricetta della malta per le otturazioni (maltha, f. 21v), per esempio, è ripresa da Palladio (I, 40). La cannella (f. 9) corrisponde alla fontana intermittente delle didascalie 2, 3 e 4 della Mappae clavicula, già descritta da Erone nella Pneumatica; lo scaldino a giunto cardanico (f. 9) ricorda la didascalia 9 della Mappae clavicula (par. XX). Le tecniche di misurazione descritte nei fogli 20-21 derivano dalla geometria pratica; la fabbricazione dei colori con petali di fiori e gesso corrisponde alla prima ricetta descritta da Eraclio, ed è contenuta anche nel ricettario di Jean le Bègue.

Anche a voler supporre l'esistenza di un riscontro scritto per ogni elemento del taccuino, rimarrebbe ancora da spiegare la loro coesistenza e la loro riunione in quello che non si può non chiamare un corpus dottrinale. Il taccuino di Villard non è un manuale di precetti tecnologici, né una raccolta di experimenta. Alcuni elementi di questo testo, destinato, secondo un'opinione molto diffusa, a rispecchiare la pratica architettonica del tempo, sono sorprendenti e suggeriscono un'altra spiegazione; tra questi elementi è la macchina del moto perpetuo, che, come qualsiasi falegname avrebbe immediatamente capito, non poteva assolutamente funzionare. La didascalia del foglio 5 è laconica: "In numerose occasioni, gli eruditi hanno discusso su come far girare una ruota da sola; qui vedete come ci si può riuscire con dei mazzuoli in numero dispari o del mercurio". Nel relativo disegno è rappresentata una ruota con quattro raggi, il cui cerchione è dotato di sette mazzuoli che a turno si ribaltano. Non vi è nulla, invece, che evochi il mercurio. Lynn White ha accostato questo disegno alla descrizione di un apparecchio analogo, a una ruota cioè divisa in scomparti in cui scorreva il mercurio, offerta nell'XI sec. dal matematico indiano Bhaskara, sottolineando così ancora una volta il problema della trasmissione del sapere; soprattutto, è importante osservare che la concezione stessa del moto perpetuo presuppone una riflessione sui principî delle macchine allora in uso, che sono estrapolati per essere applicati a nuovi usi.

Pietro di Maricourt

La descrizione del moto perpetuo si trova anche nell'Epistula de magnete di Pietro di Maricourt, detto anche Pietro Peregrino (Petrus Peregrinus), ingegnere di Carlo d'Angiò durante l'assedio di Luceria. La lettera fu dedicata l'8 agosto del 1269 da Pietro di Maricourt a un suo collega, Siger de Fauconcourt; in essa la descrizione del moto perpetuo è integrata in una ricerca, questa volta esplicita, sui fondamenti teorici dell'oggetto tecnico. Come gli altri ingegneri, l'autore indagava sui principî razionali delle macchine per perfezionarle. Fu Maricourt, infatti, a inserire la bussola a perno in una scatola di vetro e a dividere la superficie della coppella in quattro quadranti di 90°, separati dalle linee N-S ed E-O.

Maricourt condusse una serie di probationes sugli aghi magnetici e sulla proprietà della bussola magnetica servendosi di una 'pietra magnetica', cioè di un frammento di roccia magnetizzata naturalmente ‒ presumibilmente magnetite ‒ lavorata a forma di sfera, che chiamò 'Terrella' (piccola Terra); infatti, egli partiva dal principio che il comportamento dell'ago della bussola derivasse dal fatto che la Terra fosse un enorme magnete che attirava l'ago medesimo (per notizie sulle idee che gli scienziati si erano formate a tale riguardo). Maricourt fonda le sue descrizioni e le sue interpretazioni sulla nozione di 'polarità'. Seguendo gli orientamenti assunti dagli aghi di ferro disposti sulla Terrella o avvicinati a essa, Maricourt traccia su questo magnete sferico molte circonferenze, ciascuna delle quali divide in due la pietra; i due punti in cui queste linee si intersecano corrispondono ai due poli. Si giunge allo stesso risultato lasciando cadere sulla Terrella alcuni pezzetti di ferro; questi ultimi cadono infatti più frequentemente nel punto corrispondente al polo, dove essi si dispongono perpendicolarmente alla pietra. I poli sono quindi centri opposti di attrazione: quello orientato in direzione del nord astrale, vicino alla Stella Polare, è convenzionalmente definito 'polo nord', mentre l'altro è il 'polo sud'. Pietro studia poi l'attrazione esercitata da un magnete su un altro magnete, osservando che i poli di segno opposto si attraggono e i poli di segno uguale si respingono. La parte del ferro che è entrata in contatto con il polo sud della Terrella si orienta verso il nord astrale, e viceversa. Egli realizza, infine, un vero e proprio esperimento cruciale; tagliando in due la pietra, scopre che ognuna delle due parti alle quali quest'ultima dà luogo costituisce un magnete dotato di due poli.

Maricourt, infine, propone di utilizzare questa pietra magnetica per creare il moto perpetuo, risolvendo una questione molto dibattuta a quel tempo. Suggerisce, per esempio, di usare un magnete sferico e di montarlo in modo che possa girare senza attrito; parallela quindi all'asse celeste, la sfera avrebbe girato una volta al giorno, come il cielo, e avrebbe potuto servire da sfera armillare automatica. Nel presentare la questione, Pietro sostiene che i suoi contemporanei avevano a lungo cercato di risolverla; nel cap. 3 afferma infatti: "In questo capitolo, infine, ti spiegherò come costruire una ruota che gira continuamente grazie a un meraviglioso meccanismo. Ho visto molte persone errare e affaticarsi in molteplici lavori per ottenere un tale risultato, senza accorgersi che era possibile giungere alla risoluzione della questione attraverso la virtù o il potere di questa pietra" (Epistula de magnete, II, 3, ed. Sturlese-Thomson, p. 107).

Anche i meccanici greci avevano costruito congegni totalmente o parzialmente improbabili, per esempio le molle di bronzo delle catapulte descritte da Filone di Bisanzio e i congegni attraverso i quali l'autore anonimo del De rebus bellicis, redatto nel IV sec., aveva proposto di modernizzare l'esercito romano. Ciò che più importa, tuttavia, è che queste macchine, semplici costruzioni intellettuali nate dall'estrapolazione di meccanismi conosciuti, consentono di ricostruire il modo di ragionare dei loro ideatori.

È lecito supporre che Pietro e Villard alludano a una riflessione su questo tema condotta a quel tempo in ambienti piccardi? Come abbiamo ricordato poco sopra, Maricourt e Honnecourt sono due villaggi piuttosto vicini tra loro, situati nei pressi di Cambrai, in Piccardia. Villard accenna a Pietro di Corbie, un altro piccardo, e Pietro di Maricourt cita Siger de Fauconcourt, a sua volta originario della Piccardia. Thorndike ha individuato nell'opera del medico Giovanni di Saint-Amand, canonico di Tournai, alcuni riferimenti molto precisi all'Epistula de magnete. Nel XIV sec. il parco del castello di Hesdin, situato nei pressi di Saint Omer, ospitava molti automi: macchine irroranti, scimmie meccaniche, statue animate, orologi e forse un labirinto (la casa dedalo). Questo complesso era stato costruito poco dopo il 1288 da Roberto II di Artois, già reggente del regno angioino di Napoli e nipote di Carlo d'Angiò, al servizio del quale Pietro Peregrino aveva lavorato come ingegnere militare nel 1269.

Se il misterioso Magister Petrus citato da Ruggero Bacone fosse Pietro di Maricourt, le audaci anticipazioni dell'Epistola de secretis operibus ‒ macchine automoventi, macchine volanti e specchi ustori ‒ acquisterebbero un nuovo significato, dal momento che potrebbero essere interpretate come riferimenti alle conoscenze dei meccanici del tempo e ai loro sogni. Il testo di Bacone merita di essere citato in extenso:

Parlerò ora innanzi tutto delle straordinarie opere dell'arte e della Natura, nelle quali non vi è nulla di magico, e quindi ne indicherò le cause e il modo di realizzarle, affinché si comprenda che ogni potere magico è inferiore e indegno rispetto a queste opere. Si possono costruire strumenti per navigare senza rematori in modo che le navi, sia per mare sia lungo i fiumi, siano condotte con la guida di un solo marinaio a una velocità maggiore che se fossero piene di rematori. Così pure si possono costruire carri che si muovono a una velocità straordinaria senza essere trainati da animali; di questo genere pensiamo dovessero essere i carri falcati con i quali combattevano gli antichi.

Si possono fare anche congegni per volare, in modo che un uomo seduto nel centro della macchina azioni un congegno per mezzo del quale delle ali costruite artificialmente battano l'aria, come se si trattasse di un uccello che vola.

Si può fare un attrezzo di piccole dimensioni, ma atto a sollevare o calare pesi pressoché smisurati, e in certe situazioni nulla sarebbe più utile di ciò. Infatti con un attrezzo non più grande di tre dita in altezza e altrettanto in larghezza un uomo potrebbe liberare sé stesso e i propri compagni dal pericolo di qualsiasi tipo di carcere facendosi sollevare o calare.

Si può fare con grande facilità anche uno strumento mediante il quale un solo uomo possa attrarre a sé mille uomini a forza contro la loro volontà, e allo stesso modo potrebbe attrarre qualsiasi altra cosa. Si possono pure fare strumenti per camminare sul fondo del mare o dei fiumi senza pericoli per la propria vita. Alessandro Magno era solito fare uso di questi strumenti per scrutare i segreti del mare, secondo quanto racconta l'astronomo Etico.

Queste cose sono state fatte in epoca antica e sono fatte anche ai nostri giorni. Sono tutte cose certe, a eccezione dello strumento per volare che non ho mai visto né ho conosciuto alcuno che lo abbia visto, ma conosco molto bene uno scienziato che ha progettato una macchina del genere. Ma si possono fare praticamente infinite altre cose e senza alcun altro sostegno, e macchine e congegni mai sentiti prima. (Opera quaedam ..., III, pp. 532-533)

La pratica degli ingegneri, e in particolare quella degli ingegneri piccardi, ha esercitato una profonda influenza sulla formazione del concetto di scientia experimentalis di Bacone. Quest'ultima aveva lo scopo di conoscere e sfruttare i segreti della Natura e dell'arte, vale a dire gli experimenta, 'espedienti efficaci' che derivavano la loro legittimità dall'efficacia e le cui cause non erano necessariamente conosciute. Molti experimenta di Bacone derivano dall'ottica e dall'alchimia; tuttavia, l'autore esprime una grande ammirazione per Petrus de Maharicuria Picardus e diversi storici hanno creduto di riconoscere l'ingegnere piccardo nel dominus experimentorum entusiasticamente descritto nel cap. XIII dell'Opus tertium:

Conosco un solo uomo che meriti di essere elogiato per il lavoro svolto in questa scienza; egli, infatti, non si cura dei discorsi e dei conflitti di parole, ma ricerca le opere della saggezza, nelle quali trova il suo ristoro. Ciò che gli altri si sforzano di cercare a tentoni, come il pipistrello la luce del Sole al crepuscolo, lui lo contempla in piena luce, perché è il maestro delle esperienze; conosce le cose naturali per esperienza, la medicina, l'alchimia e sia le cose celesti che quelle terrene; si mostra pieno di rispetto quando un profano, una vecchia donna, un soldato o un contadino sanno qualcosa che lui ignora; ha osservato a fondo tutti i lavori dei fonditori, ciò che si fabbrica con l'oro e l'argento, con altri metalli e con tutti i minerali; conosce personalmente tutto ciò che concerne la vita militare e le armi e i diversi metodi di caccia; ha esaminato tutto ciò che concerne l'agricoltura, la misurazione dei terreni e i lavori dei contadini; ha esaminato i rimedi efficaci delle donne anziane, i sortilegi, i loro incantesimi e tutte le arti magiche, così come i trucchi e le astuzie degli illusionisti; affinché niente di quanto si deve sapere gli sfugga e per confutarli nella misura in cui sono falsi e magici. (I, pp. 46-47)

Di questo eccezionale personaggio Bacone dice che non vuole andare a Parigi: "Da tre anni a questa parte, lavora a uno specchio che brucia a una certa distanza e con la grazia di Dio ne verrà a capo" (ibidem).

L'orologio meccanico a peso

Oltre alla bussola magnetica, anche l'orologio meccanico a peso costituiva una possibilità di comunicazione tra l'arte degli ingegneri e la scienza dell'astronomia. I presupposti dell'ideazione di questo strumento vanno ricercati nelle indagini dei meccanici arabi, per esempio al-ǧazarī, e in particolare nello studio degli ingranaggi che a poco a poco condussero al perfezionamento della clessidra. Sappiamo che, alla fine del XIII sec., Alfonso X il Saggio possedeva un orologio in cui la discesa del peso era regolata da un flusso di mercurio. I primi orologi si diffusero alla fine del XIII sec., nell'Anglia orientale, a Londra (1286), a Canterbury (1292) e a Parigi (1300). Tra il 1327 e il 1335 Riccardo di Wallingford, abate di Saint Albans, costruì un orologio astronomico, in cui era possibile vedere il percorso del Sole, della Luna e delle stelle fisse, così come i movimenti della marea. Come ha osservato Jacques Le Goff, l'orologio meccanico si diffuse sotto la forma di orologio urbano nelle regioni ad alta concentrazione di 'industrie' tessili delle Fiandre e dell'Italia settentrionale. Nel 1359 Giovanni Dondi costruì a Padova il suo grande orologio astronomico, la cui descrizione si è conservata in alcuni manoscritti.

Altre macchine

Ci sono pervenuti circa centocinquanta manoscritti contenenti illustrazioni che corrispondono ad altrettanti 'portfolio di macchine' redatti nel corso dei due secoli che all'incirca separano Villard de Honnecourt da Leonardo da Vinci. I loro autori erano ingegneri-architetti, o persino medici, che avevano lavorato in Francia, come, per esempio, Guido da Vigevano (fine XIV sec.), in Germania, come Conrad Kyeser di Eichstätt (1366-m. dopo il 1405), e soprattutto in Italia, come Mariano di Jacopo detto Taccola (1382-1458 ca.), Roberto Valturio (m. 1475), Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), Leon Battista Alberti (1404-1472) e Filippo Brunelleschi (1377-1446).

Saranno gli intellettuali di corte, e in particolare i medici, che approfondiranno la riflessione sui principî razionali delle macchine. Nel 1335, Guido da Vigevano, medico di Filippo VI di Valois, dedicò al sovrano un Tesaurus regis Francie acquisicionis Terre Sancte de ultra mare nec non sanitatis corporis et vite ipsius prolongationis ac etiam cum custodia propter venenum (Tesoro del re di Francia dell'acquisizione della Terra Santa d'oltremare, e della salute del suo corpo e del prolungamento della sua vita, oltre che dei metodi attraverso cui proteggersi dai veleni). Si trattava, in effetti, del progetto di una crociata, un genere molto diffuso dopo il 1291, anno della caduta di San Giovanni d'Acri. La prima parte dell'opera è costituita da un regime medico, la seconda invece è dedicata a questioni militari. Secondo l'autore, per porre rimedio alla penuria di legname della Terra Santa, si dovevano costruire macchine che fossero smontabili e trasportabili a dorso di cavallo: ponti mobili, battelli azionati da girabacchini e ruote dotate di pale, boe gonfiabili per uomini e cavalli, carri d'assalto coperti mossi da uomini o da un mulino a vento; scale d'assalto; torri girevoli smontabili e così via. L'influenza del vecchio De rebus bellicis è evidente, come, del resto, il fatto che molte di queste macchine non potevano funzionare, ma ciò che più colpisce in questo testo è l'attenzione che Guido riserva ai dettagli della costruzione e del funzionamento delle macchine; la presenza di numerosi termini vernacolari dimostra che l'autore aveva ottenuto molte informazioni nelle botteghe.

Un altro medico, Conrad Kyeser di Eichstätt, dedicò verso il 1402 a Wenzel IV di Boemia un Bellifortis in esametri latini che, oltre alle macchine da guerra, prende in esame l'idraulica, l'astrologia, la magia come pure le tecniche domestiche. Di quest'opera si conoscono circa venti copie, complete oppure parziali, tutte illustrate da celebri artisti. Anche in questo caso si riscontra la stessa combinazione di antico e nuovo, cosicché, per esempio, la recente invenzione dell'artiglieria figura accanto alle macchine antiche. Così, l'opera di Kyeser sarà di frequente completata dal Feuerwerkbuch, un trattato sulla polvere da cannone e la costruzione dei cannoni.

Sarebbe necessario uno studio specifico per spiegare come l'arte meccanica della costruzione dei cannoni finì per mettere in discussione la concezione aristotelica della dinamica. Nel corso della generazione successiva, l'autore anonimo della Guerra ussita descrisse alcuni elementi di tecnologia civile, tra cui, per esempio, i mulini, facendo il punto sulla situazione tecnologica del periodo intorno al 1430. La traduzione iconografica del testo di Kyeser si basa sull'interpolazione del De re militari di Vegezio, che a quel tempo era molto letto e copiato, nonostante le scarse analogie esistenti tra l'esercito romano, basato sulla fanteria, e quello medievale, che aveva il suo punto di forza nella cavalleria. Le edizioni a stampa del testo di Vegezio contengono spesso xilografie in cui sono rappresentate diverse macchine del XV sec., reali o immaginarie, e in particolare cannoni.

Gli artisti ingegneri

In Italia iniziò a delinearsi un'altra tradizione. Giovanni Fontana (1395-1455), un altro medico, rivelò le sue doti di poligrafo tecnico dedicandosi alla stesura di testi su numerosi oggetti: sulla clessidra (1410), sull'orologio a polvere (1418), sullo specchio ustorio (Parigi, BN, lat. 9335), sugli strumenti di misurazione dei terreni (1440), sui labirinti, sulle fontane e sugli acquedotti, e sulla sfera solida. Il suo Bellicorum instrumentorum liber cum figuris et fictitiis litteris conscriptus è un testo crittografico piuttosto confuso, illustrato con schizzi a penna, composto nel periodo intorno al 1420. Fontana dà prova di una grande erudizione; cita Filone ed Erone oltre a diversi testi arabi e afferma che l'ingegnosità deriva dall'interpretazione della Natura, che assimila l'autore al mago.

Nell'umanista e ingegnere Fontana va ricercata dunque l'origine di una tradizione che si espresse nel Rinascimento italiano, quella dell''artista ingegnere'. I profili di queste figure sono molto simili tra loro; gli artisti ingegneri, infatti, erano consulenti di tecnologia che viaggiavano di corte in corte e di cantiere in cantiere, e che, grazie ai loro continui viaggi, divennero i vettori privilegiati della trasmissione della tecnologia. L'aspra concorrenza per la ricerca dei contratti li costringeva a impegnarsi per superare i rivali con opere sempre più ingegnose. Del resto, i sontuosi manoscritti che questi autori elaborarono per i prìncipi ricordano per certi versi i cataloghi industriali.

Gli artisti ingegneri non esitarono a proporre macchine semplicemente ipotetiche, come, per esempio, quelle del moto perpetuo, oltre tutto senza prendere in considerazione le difficoltà tecniche che le rendevano irrealizzabili. Nei loro manoscritti alcune macchine antiche completamente obsolete, come il carro falcato, figurano accanto ai primi esemplari di pezzi di artiglieria a ripetizione. Le loro preferenze si identificavano con quelle dei committenti: macchine da guerra, opere idrauliche (canalizzazioni, dighe, deviazioni dei corsi dei fiumi, chiuse), piani di ville, fontane e automi che avevano lo scopo di divertire. In effetti, le loro capacità di innovazione erano relativamente ridotte: gli artisti ingegneri, infatti, si limitavano a innovare all'interno di un sistema di cui combinavano costantemente tra loro gli elementi. È questa tendenza che li distingue da Leonardo da Vinci, che pure, sia dal punto di vista sociologico sia da quello intellettuale, apparteneva al loro ceppo e alla loro corporazione. Soltanto raffrontando Leonardo al mondo degli ingegneri si può risolvere il dilemma dell'identità di questo artista ingegnere, geniale autodidatta e, allo stesso tempo, grande erudito, proposto da Duhem.

Gli strumenti astronomici e la misurazione del tempo

di Emmanuel Poulle

Il Medioevo ha lasciato un'abbondante documentazione relativa alla strumentazione astronomica, in parte teorica ‒ con numerosi trattati sulla costruzione e sull'uso degli strumenti, di cui restano molte testimonianze manoscritte ‒, in parte archeologica. Tuttavia, per quanto ricca, questa documentazione è ben lungi dall'essere soddisfacente, tanto che per lungo tempo la storiografia su questo argomento è rimasta prigioniera di gravi equivoci.

Occorre prima di tutto porsi una questione preliminare: strumenti astronomici per fare che cosa? Certamente per osservare, ma sarebbe un grave errore applicare la concezione moderna dell'osservazione astronomica all'ambiente tecnico e culturale dell'epoca medievale. Lo scarto tra le due concezioni è evidente già a livello linguistico. Il latino medievale observare, quando è usato in un contesto astronomico, designa genericamente l'attività astronomica, ovvero il 'dedicarsi a una qualunque attività astronomica' nell'ampia gamma di situazioni possibili cui essa rinvia; può significare osservare gli astri nel senso in cui lo si intende oggi, ma anche, e molto più spesso, eseguire i calcoli per i quali sono state redatte delle tavole astronomiche, oppure redigere quelle stesse tavole, o ancora usare uno strumento seguendo le indicazioni sulle modalità d'uso. È ovvio che non tutte le attività astronomiche implicano l'utilizzazione di uno strumento, e, se così fosse, non per questo tale strumento sarebbe necessariamente di osservazione. Per questo, d'ora innanzi le parole 'osservare' e 'osservazione' saranno usate nella loro restrittiva accezione moderna, e non come traduzioni dei termini medievali observare e observatio.

Materiali di osservazione

Siamo male informati sulla natura e sulla diffusione del materiale utilizzato nel Medioevo per le osservazioni astronomiche. A dire il vero, l'esistenza stessa di osservazioni astronomiche in quest'epoca potrebbe essere, a buon diritto, messa in dubbio, tanto l'informazione è carente. Tuttavia, alcune rare testimonianze in cui il termine observare si riferisce inconfutabilmente a un'attività osservativa documentano che nel mondo latino medievale è stata praticata, in maniera molto marginale, qualche osservazione astronomica con materiale di cui o non sappiamo nulla, quando l'astronomo non precisa di quale materiale si sia servito ‒ ed è il caso più frequente ‒, o non sappiamo quasi nulla, per cui la sua ricostruzione è possibile soltanto per via congetturale. è generalmente ammesso che a partire dal XVII sec. scopo dell'osservazione astronomica sia stata la costante ricerca di una migliore visibilità degli astri: vedere meglio quelli che sono visibili a occhio nudo e, soprattutto, vedere quelli che l'occhio non è in grado di scoprire. La 'visibilità' di un astro è in realtà un dato secondario; quel che conta sul piano astronomico è la precisazione dell'apparenza di un astro (una stella, un pianeta) o la descrizione accurata delle manifestazioni di un fenomeno celeste (un'eclissi, il passaggio del Sole al meridiano), sia nello spazio ‒ ossia in rapporto alla sfera celeste fissa di riferimento ‒ sia nel tempo. La localizzazione nello spazio e nel tempo non sono che due aspetti di uno stesso problema; spazio e tempo sono infatti inscindibilmente legati, dato che ogni cronologia è fondata ‒ secondo le idee dell'epoca ‒ proprio sul calcolo dello spostamento apparente della volta celeste mobile dell'astro osservato rispetto a quella fissa di riferimento.

In mancanza di informazioni precise sulla morfologia del materiale utilizzabile, si può proporre un approccio tipologico tale da delimitare le possibilità tecnologiche, responsabili dei limiti stessi di questo materiale. Data l'assenza nell'epoca medievale di qualsiasi soluzione 'ottica' (lenti rifrangenti, specchi riflettenti) per aumentare le capacità percettive dell'occhio al fine di poter 'catturare' meglio fenomeni celesti, è opportuno prendere in considerazione solamente due tipi di strumenti di osservazione: lo gnomone e i traguardi.

Lo gnomone è costituito semplicemente da un'asta, e sfrutta la proprietà dell'ombra creata dal Sole di localizzare indirettamente l'astro; esso può essere fisso (perpendicolare od obliquo su un muro, oppure verticale od obliquo sul suolo) oppure mobile (su un'alidada). Lo studio dello gnomone fisso (o pseudofisso, come quello portatile, che è una variante dello gnomone fisso) rientrava nelle competenze della 'gnomonica', disciplina antica e sempre viva, che suscitava in realtà vere passioni, poiché la diversità delle possibili direzioni dello gnomone e delle superfici di ricezione della sua ombra creava una molteplicità di situazioni tali da solleticare la fantasia dei teorici della gnomonica. Sotto il profilo strettamente tecnico lo gnomone è uno strumento di sicura efficacia, dal momento che fissa con elevata precisione il passaggio del Sole al meridiano e le variazioni stagionali delle sue altezze meridiane.

Mentre lo gnomone serve soltanto per osservare la posizione del Sole, i traguardi sono adatti sia per il Sole sia per le stelle, essendo spesso dotati di due paia di forellini: l'uno per il Sole, e l'altro, con i fori un po' più larghi, per le stelle. Essi materializzano il raggio ottico che va dall'astro all'osservatore, sia che si miri l'astro attraverso i fori praticati in due traguardi paralleli, solidalmente fissati su di un supporto rigido e mobile (per es., un'alidada), sia (come nel caso del Sole) che si raccolga su uno di essi il raggio luminoso che attraversa l'altro.

Una volta 'catturato' l'astro, l'osservatore deve 'localizzarlo'. Nel Medioevo la localizzazione nel tempo non era possibile, se non in situazioni astronomiche particolari, come al mezzogiorno (l'istante dell'ombra più corta dello gnomone). I primi orologi meccanici ‒ per molti versi simili a quelli attuali, anche se privi di un efficace meccanismo autoregolatore ‒ fecero la loro comparsa già alla fine del XIII sec., ma la loro notevole imprecisione impedì ancora per lungo tempo la loro utilizzazione a fini scientifici, se non in maniera poco affidabile. Nella letteratura sugli strumenti astronomici medievali soltanto raramente si fa cenno a rilevazioni orarie a proposito di utilizzazioni particolari, ma si tratta di possibilità del tutto teoriche, la cui attuazione era ben lungi dal fornire i risultati promessi. Il caso più comune è quello della determinazione della differenza di longitudine tra due città a partire dallo scarto orario constatato durante un'eclissi lunare; a partire dal XII sec. i trattati sull'astrolabio fanno regolarmente riferimento a questa possibile utilizzazione che, sebbene valida in teoria, risultava, come è ben noto, inapplicabile. La sola possibilità di reperimento di una posizione celeste non particolare consisteva allora in un reperimento spaziale, sotto forma di lettura di questa posizione su una graduazione.

Nel caso dello gnomone fissato sul suolo o su un muro, la graduazione è costituita dai tracciati del quadrante solare, determinati in base all'esperienza ‒ che permette di rilevare la direzione dell'ombra minima che localizza il meridiano ‒ e a costruzioni geometriche proprie della gnomonica. In tutti gli altri casi, la graduazione è espressa in gradi, sia direttamente sia mediante delle linee trigonometriche.

Riguardo invece agli strumenti più antichi, che troviamo attestati nell'Almagesto, ossia i regoli di Tolomeo e la sfera armillare, non possediamo che tracce troppo esigue della loro sopravvivenza nel Medioevo. I regoli di Tolomeo sono costituiti da un'asta verticale fissa sulla quale si muovono due regoli, recanti l'uno due traguardi, l'altro una graduazione ove si legge la corda dell'arco complementare all'altezza osservata. Sono noti sia ad al-Battānī sia a Giovanni di Lignères, che ne hanno inserito una descrizione nei loro canoni di tavole astronomiche; Giovanni Bianchini (XV sec.) ne ha proposto, a sua volta, una versione fortemente modificata.

Quanto alla sfera armillare, essa riproduce i grandi circoli della sfera celeste fissa di riferimento sotto forma di anelli inseriti l'uno nell'altro, uno dei quali porta due traguardi. Tolomeo la chiama astrolabio, ma il Medioevo, che ha usato questo termine per altri strumenti, le ha dato quello di 'armilla', ed è sotto questa denominazione che è stata descritta dal re Alfonso di Castiglia. Lo strumento è particolarmente adatto per le osservazioni zodiacali, poiché il cerchio che rappresenta lo Zodiaco permette, se dotato di traguardi, di visualizzare quella parte dello spazio non direttamente visibile e di misurare lo scarto angolare tra i pianeti e una delle stelle localizzate sullo Zodiaco stesso (per es., Cor leonis). Per questo motivo l'armilla interessava soprattutto gli astronomi pratici; la tradizione vuole che la tavola delle stelle di Giovanni di Londra, del 1246, sia stata stabilita proprio con le armille, così come un'altra tavola stilata a Barcellona nel 1362 per conto del re d'Aragona, e che le armille siano state alla base delle osservazioni di Regiomontano e di Bernhard Walther.

Anche Copernico, avendo inserito nella sua opera descrizioni di questi due strumenti, non si è sottratto alla tradizione. Ma è abbastanza probabile che la ripresa dell'astronomia di osservazione avvenuta nel XV sec. ‒ cioè l'esecuzione sistematica di osservazioni in lunghe serie compiute da Regiomontano e Bernhard Walther ‒ sia frutto di uno strumento che ha soltanto una parentela molto lontana con quello di Tolomeo.

Gli altri strumenti di osservazione non sono meglio conosciuti. Una prima categoria comprende strumenti di osservazione in cui la posizione letta su una graduazione posta su un piano verticale è l'altezza sull'orizzonte. Tali strumenti sono designati in due modi diversi a seconda della loro forma e, in particolare, della graduazione. Nel primo caso lo strumento ha la forma di un cerchio di grandi dimensioni per migliorare la precisione della lettura sulla graduazione iscritta nella sua circonferenza; questo cerchio è sospeso verticalmente a un braccio di sostegno o a un cavalletto per mezzo di un'armilla di sospensione. Nella graduazione la posizione corretta dello zero, situato sul diametro orizzontale, è assicurata dalla gravità, e l'altezza sull'orizzonte si legge con un'alidada a traguardi o a gnomone che ruota attorno al centro della graduazione. Tale strumento è detto 'astrolabio', proprio come il noto strumento stereografico di cui si parlerà in seguito, poiché ne condivide la forma circolare; in realtà i due strumenti, avendo finalità scientifiche molto diverse, non vanno assolutamente confusi.

Il ricorso a questi grandi astrolabi è attestato da Giovanni de Muris nel 1337 (per osservare l'altezza del Sole durante un'eclissi; a Saint-Germain-de-Prés furono in dieci, in quell'occasione, ad adoperare dei 'grandi astrolabi') e forse nel 1344 (per misurare l'altezza meridiana del Sole all'equinozio mediante ‒ senz'altra precisazione ‒ 'un grande strumento'). Più tardi, nei viaggi di scoperta, da Bartolomeo Dias nel 1488, per misurare la latitudine del Capo di Buona Speranza, e da Vasco de Gama nel 1497; quest'ultimo usò, nella baia di Sant'Elena, un astrolabio di legno di tre palmi di diametro sospeso a un cavalletto.

Un altro modo di misurare l'altezza sull'orizzonte sfruttando la gravità per fornire il punto di partenza della graduazione è quello di utilizzare la verticale creata dalla gravità, e di misurare direttamente l'altezza secondo questa linea verticale e non secondo la sua perpendicolare (che è la traccia del piano orizzontale locale); è questa la caratteristica specifica del 'quadrante', strumento il cui nome deriva dalla forma in quarto di cerchio e che non ha nulla a che vedere ‒ se non per una vaga parentela nella graduazione ‒ con i quadranti di cui si tratterà in seguito. Il quarto di cerchio graduato del quadrante va tenuto dinanzi a un filo a piombo fissato al centro del cerchio, che materializza la verticale locale; su uno dei lati sono montati due traguardi. Sospeso anch'esso a un cavalletto o a un braccio di sostegno, il quadrante può essere sistemato come si vuole nel piano verticale contenente l'astro da osservare, e vi si legge l'angolo compreso tra il lato in cui sono i traguardi e il filo a piombo.

Un'altra categoria di quadranti fa a meno della gravità per localizzare l'inizio del computo dell'altezza sull'orizzonte e si serve di un buono stativo, orizzontale o verticale, a condizione che il piano della graduazione conservi, in rapporto alla perpendicolare al diametro orizzontale, la stessa mobilità che l'armilla di sospensione assicurava all'astrolabio. Lo strumento porta ancora il nome di quadrante poiché la graduazione è riportata su un quarto di cerchio; in generale, sebbene non sia indispensabile, questo quarto di cerchio è inscritto in un quadrato. Descrizioni di tali quadranti si trovano nei canoni di al-Battānī tradotti da Platone di Tivoli e nei canoni del 1322 di Giovanni di Lignères, senza però che le dimensioni vi siano precisate (cosa che dà adito a qualche dubbio sulla loro esatta finalità); essi avranno degli eredi prestigiosi negli strumenti costruiti da Tycho Brahe e descritti nella sua Astronomiae instauratae mechanica.

I pochi resoconti di osservazioni realizzate con un quadrante non sono così espliciti da permettere di suddividerli secondo i due tipi di quadranti, quelli sospesi a un cavalletto e dotati di filo a piombo, o quelli saldamente fissati su uno stativo e dotati di alidada. Soltanto Giovanni de Muris, a proposito dell'osservazione dell'altezza meridiana del Sole eseguita il 13 marzo 1319 a Evreux, precisa di aver "elevato" nel piano del meridiano il suo "strumento" (uno strumento di grandi dimensioni, dato che aveva un diametro di 15 piedi, ossia di circa 4,5 m) su una pietra ben stabile; ciò significa che disponeva di un quadrante ad alidada. Riguardo poi ad altri resoconti di osservazioni realizzate con un quadrante, è probabile che essi si riferiscano a strumenti dotati di filo a piombo; Pietro di Limoges, per una osservazione fatta nel 1283 assieme a Francon (senza dubbio Francon de Pologne), parla di un 'grande quadrante', di cui precisa che era di legno, con il limbo d'ottone e con la graduazione ogni cinque minuti d'arco. Anche Hermann Zoest, all'inizio del XV sec., fa riferimento a un 'grande quadrante' di cui si è servito in occasione di un solstizio d'estate. Quanto a Diego Gomes, che nel 1462 misurò l'altezza della Stella Polare nelle isole di Capo Verde, dice soltanto di avere avuto a disposizione un quadrante con il quale poté ottenere un risultato migliore di quello segnato sulla sua carta.

Astrolabi e quadranti misurano dunque le altezze sull'orizzonte. Ma il quadrante ad alidada descritto da Giovanni di Lignères nei canoni del 1322 serviva anche a misurare gli angoli azimutali, cioè l'arco di orizzonte, verso est o verso ovest, compreso tra il piano verticale dell'astro osservato e il piano del meridiano. A tal fine, esso poteva ruotare attorno a un asse fissato verticalmente sullo stativo con una graduazione la cui origine era il piano del meridiano. Non si conosce alcun resoconto di osservazioni eseguite con un tale strumento, ma se ne trova l'eco negli strumenti descritti da Tycho Brahe.

A partire dalle altezze di due astri sull'orizzonte e dalle loro differenze azimutali, l'astronomo poteva ottenere gli angoli tra i due astri, per esempio tra due stelle; tale operazione risultava necessaria, in particolare, per controllare la preparazione di una carta delle costellazioni, per la quale erano indispensabili anche calcoli di trigonometria sferica. Così, all'inizio del XIV sec., Lēwī ben Gēršōn ideò uno strumento, il 'bastone di Giacobbe' (ballestriglia) per misurare direttamente la differenza angolare tra due astri. Si tratta di un semplice regolo graduato sul quale scorre un'asticella, anch'essa graduata, posta trasversalmente; mirando contemporaneamente le due stelle alle due estremità dell'asticella, l'astronomo crea un triangolo isoscele di cui l'occhio è il vertice, e il regolo, la cui graduazione fornisce direttamente la misura dell'angolo tra le due stelle, costituisce la bisettrice. Lo strumento è d'impiego universale; infatti, sostituendo una delle stelle con l'orizzonte, si può leggere l'altezza sull'orizzonte, senza però avere la garanzia della verticalità dell'arco misurato, che è propria degli strumenti basati sulla gravità. Il bastone di Giacobbe conobbe, a partire dal XVII sec., una notevole fortuna nella navigazione astronomica, nella quale, in una versione leggermente modificata, fu assai diffuso con il nome di 'ballestriglia'. Dalla fine del Medioevo vi sono poi testimonianze della sua utilizzazione nelle osservazioni; Bernhard Walther se ne servì, tra il 1475 e il 1488, per misurare in modo sistematico le differenze angolari tra stelle e pianeti, e il suo impiego è attestato a più riprese nel corso del XVI secolo.

Lēwī ben Gēršōn non ha soltanto affrancato l'osservazione astronomica dal riferimento al piano orizzontale, ma ha anche cercato di migliorare l'accuratezza della lettura delle graduazioni inventando un precursore del verniero; precisamente, tracciando alcune linee oblique divise in parti uguali ‒ oggi note come 'linee ticoniche', dal nome latinizzato Tycho dell'astronomo danese del XVI sec. Tyge Brahe che ne generalizzò poi l'uso ‒ tra quelle di una graduazione è possibile valutare più accuratamente le posizioni intermedie di un indice tra due graduazioni (Goldstein 1977). Non è dato sapere se tale sistemazione delle graduazioni abbia trovato realmente applicazione nell'uno o nell'altro degli strumenti usati per le osservazioni; in ogni caso, né Bernhard Walther né Tycho Brahe sembrano soddisfatti dell'accuratezza del bastone di Giacobbe.

Non si conoscono altre applicazioni di questo tipo di graduazione tranne che su un astrolabio stereografico della fine del XV sec. conservato a Firenze, uno strumento la cui capacità osservativa è certamente discutibile. Poiché si tratta di un astrolabio estremamente curato, forse siamo di fronte all'adattamento di questo strumento per un'attività cui non era originariamente destinato.

Strumenti pedagogici e di calcolo

L''astrolabio stereografico' (o, più semplicemente, l'astrolabio) appartiene a un'altra categoria di strumenti, la cui finalità è insieme pedagogica e di ausilio al calcolo, e nella quale il Medioevo ha particolarmente eccelso con una creatività e una diversità davvero degne di nota. In tale categoria si trovano, da un lato, strumenti che possiamo definire, riprendendo la terminologia corrente nel Medioevo, del primo mobile, in quanto volti alla rappresentazione o alla spiegazione dei fenomeni connessi al moto quotidiano della sfera celeste e, dall'altro lato, strumenti più sofisticati che riproducono o sfruttano i moti dei pianeti.

Questi ultimi strumenti, che portano il nome generale di 'equatori', sono così intimamente legati alla teoria dei pianeti da renderne inconcepibile la trattazione al di fuori di una esposizione più generale di tale teoria; se ne troverà dunque la presentazione nella parte che questo volume di Storia della Scienza dedica all'astronomia planetaria (v. cap. VII, par. 1 e cap. XX, parr. 1 e 2).

Le informazioni che possono essere raccolte sugli strumenti medievali del primo mobile provengono da una duplice documentazione: archeologica, con vari e numerosi strumenti conservati, e manoscritta, con una quantità di testi che descrivono la costruzione o l'uso dei vari strumenti. Da uno strumento all'altro, l'entità della parte relativa all'uno o all'altro tipo di documentazione risulta però sensibilmente differente. A seconda che il tipo di rappresentazione della sfera celeste sia senza 'artificio' oppure mediata da un procedimento matematico, si individuano due gruppi di strumenti del primo mobile. Del primo gruppo fanno parte il globo celeste, la sfera armillare e l'astrolabio sferico.

Il globo celeste riproduce in modo identico, su una superficie sferica, le posizioni relative delle stelle sulla volta celeste, facilitando la memorizzazione del loro raggruppamento nelle costellazioni; più che uno strumento di calcolo, esso, offrendo un'immagine suggestiva della sfera stellata, costituisce uno strumento prezioso per un approccio pedagogico all'astronomia. Si deve tuttavia rilevare che, se l'asse è correttamente inclinato e, meglio, se questa inclinazione è concepita come variabile, il globo ‒ girando all'interno di un anello che rappresenta l'orizzonte ‒ è in grado di mostrare il sorgere e il tramontare delle stelle e anche, a rigore, di fare conoscere dal confronto con la localizzazione del Sole nello Zodiaco la loro 'levata eliaca', ossia il loro sorgere contemporaneamente al Sole.

La rappresentazione della volta stellata su un globo ha radici molto antiche; senza risalire alle testimonianze iconografiche, o di altro tipo, lasciate dall'Antichità, il suo impiego è attestato da Gerberto di Aurillac, che secondo il suo biografo Richerio, illustrava concretamente il suo insegnamento con l'ausilio di una sfera piena, forse di legno, dove le stelle erano rese da chiodi e le costellazioni da fili tesi sui chiodi (Poulle 1985). Non risulta che il globo celeste sia stato oggetto di una letteratura tecnica, ma se ne conserva qualche bell'esemplare della fine del Medioevo. Fu uso costante rappresentare la volta celeste come vista dall'esterno; essa risulta dunque perfettamente rovesciata rispetto a quel che vediamo a occhio nudo; così, mentre sul globo le costellazioni dell'Ariete, del Toro, dei Gemelli, ecc. si succedono da sinistra a destra, in realtà esse in cielo ci appaiono da destra a sinistra.

Anche la sfera armillare vuole essere un'immagine fedele del mondo celeste, non più limitata alla sfera delle stelle ma all'insieme dei cerchi che definiscono la volta celeste (equatore, orizzonte, meridiano, eclittica, tropici), secondo la disposizione di anelli ‒ inseriti gli uni negli altri ‒ propria delle armille tolemaiche. In mancanza di esemplari di queste ultime, stabilire in che cosa le sfere armillari si differenziassero dalle armille di Tolomeo risulta difficile, dal momento che si deve assolutamente escludere che le prime, di cui possediamo diversi esemplari della fine del Medioevo, abbiano potuto in qualche modo servire alle osservazioni per le quali erano concepite le armille tolemaiche. Probabilmente la differenza principale erano le dimensioni; infatti, le armille tolemaiche sarebbero state di grandi dimensioni e lo scorrimento degli anelli gli uni sugli altri doveva essere curato secondo modalità tecniche che ancora ci sfuggono (per es., le ricostruzioni delle armille di Copernico non sono sufficienti a dare un'idea dei problemi tecnici superati per realizzarle). Le sfere armillari, invece, anche quando erano di costruzione accurata non erano destinate a essere strumenti di precisione, ma strumenti dimostrativi, a fini unicamente pedagogici. Ne esistevano due tipi, il primo dei quali, più rudimentale, era una sfera fissata su un manico con cui il magister la teneva orientandola, durante la dimostrazione, in tutte le direzioni utili a rendere più chiare le sue spiegazioni, mentre il secondo tipo, generalmente più grande, era collocato su una crociera posta su un tavolo.

L'astrolabio sferico può essere considerato come una sorta di sintesi tra il globo celeste e la sfera armillare (Poulle 1994). Il suo nome non deve trarre in inganno; esso, infatti, non ha niente a che vedere né con i grandi astrolabi per l'osservazione di cui si è trattato prima, né con l'astrolabio stereografico di cui si parlerà più avanti. Ciononostante, è da quest'ultimo che ha tratto il nome, in quanto come questo sovrappone una rappresentazione della sfera fissa di riferimento a quella della sfera celeste mobile. L'analogia, però, si ferma qui; la rappresentazione del mondo sull'astrolabio sferico è, come il nome stesso precisa, una rappresentazione in rilievo. Dato che le due sfere devono, per assolvere correttamente la loro funzione, ruotare in modo concentrico ‒ il che implica che la sfera esterna sia traforata o retiforme, così da lasciar leggere le indicazioni riportate sulla sfera interna ‒ esistono due modi per realizzare la rappresentazione del mondo sull'astrolabio sferico: collocare la sfera di riferimento all'interno e quella mobile all'esterno, oppure viceversa. Nel mondo arabo è generalmente prevalsa la prima soluzione; oltre a un'eco nei Libros del saber di Alfonso di Castiglia, la troviamo effettivamente applicata nei due astrolabi sferici arabi superstiti. D'altro lato, la scelta di Qusṭā ibn Lūqā di porre la sfera di riferimento all'esterno si è imposta nell'Occidente latino, grazie alla grande diffusione avuta dalla traduzione latina di Stephanus Arlandi agli inizi del XIV secolo. Sfortunatamente, nonostante esista una non trascurabile letteratura sull'astrolabio sferico, non resta alcun esemplare latino. La scarsità di almucantarat e di azimut sulla sfera fissa di riferimento, inevitabile quando la sfera di riferimento è posta all'esterno, attenua in tal caso la diversità tipologica tra l'astrolabio sferico, la cui sfera di riferimento è ridotta al minimo essenziale, e il globo celeste, dotato quanto meno di un meridiano e di un cerchio di elevazione.

La gamma degli strumenti astronomici medievali 'con artificio' è molto più ricca di quella degli strumenti che si limitano a riprodurre la situazione celeste, sia in termini numerici sia in termini di interessanti sviluppi e di indicazioni sull'inventiva scientifica e tecnologica del periodo considerato. La maggior parte di questi strumenti concerne in primo luogo il moto del Sole e secondariamente quello delle stelle; in quanto partecipe del moto quotidiano del Sole l'astrolabio che prendeva in considerazione solamente il moto delle stelle per indicare l'ora di notte aveva la denominazione di 'notturlabio'.

La volta celeste, compiendo un giro in un giorno, misura naturalmente il passare del tempo durante l'intero arco del giorno, sfruttando le posizioni esibite dai corpi celesti iscritti su essa. I quadranti degli orologi, oggi tanto familiari, non sono altro che la trasposizione, su un piano alzato verticalmente in direzione sud, della divisione in parti uguali del percorso seguito dal Sole; questa trasposizione ha tuttavia cessato di essere valida da quando il quadrante originario di ventiquattro ore dei primi orologi è stato sostituito dall'attuale, di dodici ore.

Quest'orologio naturale offerto dal moto quotidiano del Sole non è tuttavia consultabile se non di giorno; di notte, ci si deve contentare delle stelle. In realtà, esse possono svolgere la funzione di orologio naturale, tanto più facilmente in quanto ruotano intorno all'asse terrestre, reperibile senza difficoltà sulla volta celeste poiché materializzato dalla Stella Polare. La volta celeste ruota peraltro un po' più velocemente del Sole stesso; compie un giro in un giorno siderale più breve di 3 minuti e 56 secondi circa rispetto al giorno solare medio, sicché l'ora calcolata sulle stelle, detta 'ora siderale', è costantemente in anticipo sull'ora solare, fino ad arrivare, nell'arco di un anno, a una giornata. Il notturlabio ha precisamente la funzione di correggere l'ora siderale, così da poter leggere, nelle stelle, l'ora solare. La correzione è rudimentale e si realizza con un calendario graduato in quindicine, quindi, due unità di graduazione a mese. L'uso è molto semplice: si fa coincidere l'ago della graduazione con le Guardie dell'Orsa Maggiore, di cui è noto l'allineamento alla Stella Polare. Il notturlabio è dunque uno strumento che determina l'ora in maniera molto sommaria, tenuto conto della rozzezza con cui è costruita la graduazione del calendario. La sua origine è senza dubbio molto antica; riguardo a esso esiste una modesta letteratura, talvolta sotto l'ambigua denominazione di horologium; in particolare, una testimonianza risale probabilmente all'epoca di Gerberto e si conserva anche qualche notturlabio risalente alla fine del Medioevo.

Di tutti gli strumenti legati al moto del Sole, l'astrolabio è sicuramente il più emblematico dell'astronomia medievale (Michel 1947); ci si riferisce all''astrolabio stereografico', detto anche 'astrolabio piano' o semplicemente 'astrolabio' per antonomasia, diverso dall'astrolabio di osservazione e da quello sferico di cui si è parlato in precedenza. La sua invenzione è attribuita a Tolomeo, ma ciò suscita ancora qualche perplessità; il termine 'astrolabio', infatti, non appare nelle opere di Tolomeo se non per rinviare, il più delle volte, alla sfera armillare. Tolomeo è invece sicuramente l'autore di un trattato sulla teoria della proiezione stereografica, di cui resta una traduzione latina della traduzione araba dal testo greco. A quanto pare, la prima applicazione certa della proiezione stereografica non fu l'astrolabio, ma l''orologio anaforico', cioè una clessidra, descritto nel dettaglio da Vitruvio e di cui si hanno testimonianze scritte e archeologiche. Quel che è certo è che l'applicazione della proiezione stereografica nell'astrolabio propriamente detto ‒ sul quale abbiamo testi in greco (Giovanni Filopono, metà del VI sec.), in siriaco (Severo Sebokht, VII sec.) e naturalmente in arabo ‒ si sviluppò nel Mediterraneo orientale.

La storia dell'introduzione dell'astrolabio nell'Occidente latino è ancora oggetto di dibattito storiografico. Nel mondo latino, fu la Catalogna a conoscere per prima, nell'ultimo quarto del X sec., i testi arabi sull'astrolabio, allora tradotti in latino da Lupitus di Barcellona. In una lettera del 984 Gerberto, che aveva studiato in Catalogna verso la fine degli anni Sessanta ‒ troppo presto per venire a conoscenza di questo strumento ‒ scrive a Lupitus per chiedergli di inviargli il Liber de astrologia da lui tradotto; è probabile che questo titolo ambiguo designasse proprio un testo sull'astrolabio. In tal caso, e se la sua richiesta fu soddisfatta, il ruolo di Gerberto si sarebbe limitato a introdurre il testo di Lupitus tra i suoi discepoli e forse a redigere quelle prefazioni, molto retoriche, ritrovate nei manoscritti dell'XI-XII sec., dove l'interesse per il nuovo strumento è dichiarato senza che ciò ne implichi la conoscenza approfondita da parte dell'autore. Sembra però poco verosimile attribuire a Gerberto la paternità del trattato Quicumque astronomice, che cento anni dopo i copisti gli ascriveranno; esso, che risale senza dubbio alla prima metà e forse alla fine della prima metà dell'XI sec., fu unito a un trattato di costruzione redatto da Ermanno lo Storpio verso la metà dell'XI sec. e costituì il primo manuale latino di insegnamento dell'astrolabio; un manuale in realtà assai deludente, scritto male, poco chiaro, infarcito di termini arabi non spiegati. È soltanto a partire dal XII sec. che l'astrolabio conosce quella sorprendente fortuna che ne farà, nell'Occidente latino, lo strumento per eccellenza degli astronomi e degli astrologi, quando vede la luce tutta una serie di testi originali e di traduzioni dall'arabo, da cui attingerà l'insegnamento universitario per dotare gli studenti di manuali di qualità.

Il periodo universitario della storia dell'astrolabio è molto ben documentato da numerosi testi, molti manoscritti e un numero apprezzabile di strumenti conservati, risalenti per la maggior parte al XV sec. ma alcuni anche al XIV e al XIII. Prima del XIII sec. esiste soltanto l'astrolabio detto di Marcel Destombes, dal nome del collezionista che l'ha scoperto e pubblicato (Destombes 1962), la cui datazione precisa si rivela difficile da individuare.

L'astrolabio può essere definito dalla presenza di una rappresentazione stereografica delle due sfere ‒ quella fissa di riferimento e quella celeste mobile ‒, di un calendario zodiacale e di un sistema di mira, oltre che dai tracciati accessori, come il quadrato delle ombre o le 'ore disuguali'; queste ultime sono le ore, di durata variabile con la stagione, corrispondenti ‒ secondo un uso che si fa risalire agli antichi Egizi ‒ al dividere in 12 parti uguali il periodo di tempo dall'alba al tramonto del Sole. Il sistema di mira è costituito da una graduazione delle altezze iscritta su una delle facce dello strumento ‒ detta 'dorso' ‒, da un'armilla di sospensione, che introduce la gravità per garantire lo zero della graduazione altitudinale, e da un'alidada a traguardi per rilevare l'altezza dell'astro osservato. Il calendario zodiacale è una tavola di concordanze tra i giorni dell'anno e i gradi dello Zodiaco percorsi dal Sole durante il corso dell'anno. Esso è di norma iscritto sul dorso, all'interno della graduazione altitudinale, dov'è dunque trattato indipendentemente dalla graduazione zodiacale della rete al fine di non appesantirla con una graduazione in giorni, che sarebbe giustificata, ma non conforme alla tradizione. Tuttavia, su qualche grande astrolabio del XVI sec., in cui il dorso fu utilizzato per altri fini, il calendario zodiacale è iscritto sulla rete, fatto che conferma appieno come tale sistemazione non abbia in sé nulla di illogico. Quanto alla duplice proiezione stereografica delle due sfere ‒ elemento che costituisce lo specifico dell'astrolabio ‒ essa trasferisce su dischi piatti, posti l'uno sull'altro sull'altra faccia dello strumento ‒ detta 'faccia' vera e propria ‒, i cerchi e le graduazioni delle sfere. Ora, il tipo di proiezione stereografica adottato (proiezione secondo il polo nord dell'equatore sul piano dell'equatore) ha la proprietà di proiettare l'asse di rotazione del moto diurno sul centro della proiezione, di modo che la sovrapposizione delle due sfere sull'astrolabio riproduce molto fedelmente la rotazione della sfera mobile sulla sfera fissa di riferimento. La proiezione della sfera fissa costituisce il 'timpano' dell'astrolabio, in cui sono riportati l'equatore e i tropici, l'orizzonte, gli almucantarat e gli azimut di questo orizzonte, e le linee delle ore disuguali (che sono il luogo geometrico delle divisioni in dodici sezioni uguali degli archi di cerchio concentrici che vanno da una metà all'altra dell'orizzonte). Poiché l'orizzonte e le linee che vi dipendono sono proprie di una data latitudine, in un astrolabio sono presenti più timpani, ciascuno tracciato per una specifica latitudine. La proiezione della sfera mobile costituisce la 'rete' dell'astrolabio; si tratta di un disco ‒ traforato per poter leggere i tracciati riportati sul timpano sottostante ‒ sul quale è tracciata l'eclittica ed è iscritto un certo numero di stelle mediante un reticolo di linee e di curve che contribuisce largamente a fondare quel fascino così caratteristico di questo strumento.

L'astrolabio si presenta dunque come un piatto circolare di qualche millimetro di spessore, sul cui dorso sono posti il sistema di mira e il calendario zodiacale, e la cui faccia riceve la duplice proiezione stereografica; questa è completata sul limbo da una graduazione che è quella dell'equatore, comune a tutti i timpani e, sugli astrolabi della fine del Medioevo, dall'iscrizione, anch'essa comune a tutti i timpani, delle 'ore eguali', cioè le 24 parti uguali e indipendenti dalla stagione dell'anno in cui era diviso l'intervallo di tempo da un tramonto del Sole al successivo.

La presenza di un sistema di mira non deve trarre in inganno; esso, infatti, non trasforma l'astrolabio in uno strumento d'osservazione, non avendo altra funzione se non quella di ricordare che l'altezza di un astro sull'orizzonte fa parte dei tre parametri che intervengono nell'utilizzazione dell'astrolabio, insieme alla posizione del Sole nello Zodiaco e all'ora (uguale o inuguale, poco importa); quando un esperto conosce due di questi parametri, quali che essi siano, l'astrolabio gli fornisce il terzo. Esso quindi è soprattutto uno strumento di calcolo o, più precisamente, di risoluzione grafica di problemi, ma con dei limiti strutturali; a seconda dell'angolo sotto cui si incrociano il cerchio dello Zodiaco della rete e gli almucantarat ‒ che varia in funzione della stagione e dell'ora del giorno ‒ il risultato ottenuto sarà più o meno accurato. Come strumento di calcolo, l'astrolabio riflette più le preoccupazioni dell'astrologo che non quelle dell'astronomo, se si riconosce al primo un'attività di relazioni con un cliente e al secondo la risoluzione dotta di una data situazione astronomica.

La preminenza della finalità astrologica propria degli astrolabi può spiegare la prolungata permanenza su questi strumenti del tracciato delle ore disuguali, molto dopo che la diffusione degli orologi meccanici rese di uso comune le ore uguali, nella prima metà del XIV secolo. In effetti, una delle definizioni delle case celesti, e cioè la divisione della sfera fissa di riferimento in triangoli sferici, concepita per usi astrologici, fa coincidere la proiezione stereografica dei limiti delle case con le linee delle ore disuguali; sotto la tradizione anodina delle ore disuguali, l'astrolabio rivela in realtà una ben affermata vocazione astrologica.

Se come strumento di calcolo l'astrolabio appare del tutto mediocre, risulta per contro ineguagliabile sul piano pedagogico, per la possibilità che offre di mostrare immediatamente le conseguenze pratiche di una variazione nella latitudine del luogo, o nella successione delle stagioni, per esempio sulla durata dell'arco diurno o sulla localizzazione della levata e del tramonto del Sole. A partire dal XIII sec. l'astrolabio è pienamente inserito nella vita scientifica, tanto da trovarsi, alla fine dello stesso secolo, all'origine di innovazioni che attestano il progresso ormai raggiunto nella sua conoscenza.

Altri due strumenti astronomici derivano direttamente dall'astrolabio: il 'nuovo quadrante' e la saphaea (v. cap. XX, par. 1). Il 'nuovo quadrante' (Poulle 1964a; Dekker 1995) è un'invenzione di Ya᾽qōb ben Machir ibn Tibbōn (Profazio Giudeo), il quale, partendo dalle simmetrie che apparivano nei suoi tracciati, pensò di aumentare le dimensioni dell'astrolabio per ottenere una maggiore precisione delle graduazioni senza incidere sul peso. Immobilizzando la rete in modo da far coincidere i suoi assi di simmetria con quelli del timpano, e ribaltando due volte ciascuna metà dell'insieme ‒ timpano più rete ‒ sull'altra metà, lo strumento si riduce a uno dei suoi quarti, ottenendo così il cosiddetto 'quadrante nuovo', per distinguerlo dall'altro, designato come 'quadrante antico', di cui si dirà in seguito. Alla perdita di mobilità della rete, conseguenza di questa trasformazione, si supplisce facendo ruotare attorno alla sommità del quadrante un filo munito di una perla scorrevole che assolve, a richiesta, alle funzioni devolute ai punti importanti della rete, stelle o gradi dello Zodiaco che siano. In questo modo, se lo strumento perde in trasparenza per quanto attiene agli effetti dei moti celesti, permette però all'apprendista astronomo di approfondire le sue conoscenze del primo mobile, e di verificare di averne perfettamente assimilato i segreti. Quanto alla maggior precisione, che giustificava l'aumento di dimensioni di una graduazione, occorre dire che, se il miglioramento è evidente nella lettura di una graduazione, esso è ampiamente annullato dall'incertezza legata al ricorso al filo e alla perla scorrevole: assenza di rigidità e di elasticità del filo nel primo caso, empiricità della localizzazione della perla nel secondo.

Naturalmente, in uno strumento di osservazione il passaggio dal cerchio al quarto di cerchio implica la modificazione del sistema di mira; quello del nuovo quadrante è esattamente lo stesso dei quadranti di osservazione non stativi, e cioè due traguardi, fissati su uno dei lati, e un filo a piombo. Degli altri tracciati del dorso dell'astrolabio il nuovo quadrante ha conservato soltanto il calendario zodiacale, talvolta completato dal disco delle case lunari (una divisione dello Zodiaco analoga alla divisione in dodici segni elaborata per il moto del Sole, ma riferita al moto della Luna). Quanto al quadrato delle ombre e alle ore disuguali del dorso dell'astrolabio, presi in prestito dal quadrante antico dal XII sec., nel quadrante nuovo essi sono posti sulla faccia.

L'interesse più teorico che pratico riconosciuto al nuovo quadrante sembra confermato dalla situazione documentaria; esso infatti è spesso rappresentato in uno specifico corpus di testi per l'insegnamento dell'astronomia, a fronte di una quantità molto limitata di strumenti d'ottone. Di questi strumenti ne sono stati inventariati sette risalenti al Medioevo; le loro dimensioni, sviluppate su quattro quarti, non produrrebbero degli astrolabi particolarmente grandi, quasi a smentire la giustificazione che Profazio poneva alla base della creazione del nuovo quadrante e a conferma del fatto che il loro ruolo fu essenzialmente pedagogico.

Si deve a Profazio anche un altro contributo allo sviluppo della proiezione stereografica nell'Occidente latino: la traduzione in latino del libro sulla saphaea scritto in arabo da Arzachel nell'XI secolo. Anche la saphaea è un'applicazione della proiezione stereografica, ma secondo una diversa organizzazione delle funzioni proiettive (Poulle 1970); infatti, il polo di proiezione è il punto vernale e il piano di proiezione è il piano del coluro dei solstizi. Ne risulta che tutti i piani che contengono l'asse della proiezione, vale a dire il diametro dell'equatore che passa per il punto vernale, si proiettano secondo i raggi dello strumento: l'equatore, l'eclittica e tutti gli orizzonti. L'astrolabista riproduce così sulla saphaea l'equatore e l'eclittica con un unico sistema di almucantarat e di azimut (designati come paralleli e meridiani), quello dell'equatore; per rappresentare uno qualsiasi degli orizzonti si usa la posizione idonea ricavata da un regolo rotante, imperniato al centro dello strumento. Anche qui, come per il nuovo quadrante, l'abbandono dell'asse terrestre come asse della proiezione stereografica annulla i vantaggi offerti dalla rotazione della proiezione della sfera celeste, sostituita dai trasferimenti compiuti dal regolo mobile. Come contropartita, le operazioni di passaggio dall'uno all'altro dei tre sistemi di coordinate possibili (equatoriali, eclittiche, e orizzontali) risultano molto facilitate, e il principio stesso di questi differenti sistemi, e dei motivi che li giustificano, risulta chiaramente spiegato; la saphaea può essere considerata quindi tanto uno strumento pedagogico quanto uno strumento per il calcolo. Non a caso essa condivide la stessa situazione documentaria del nuovo quadrante; esistono pochi strumenti superstiti (di cui, sembra, uno soltanto medievale) e un numero non indifferente di testi e di manoscritti, sebbene essa non abbia fatto parte del corpus dell'insegnamento universitario, elemento che ha indubbiamente nuociuto alla sua diffusione. Di contro, essa ha conosciuto, nel XVI sec., un chiaro ritorno di interesse di cui non ha goduto il nuovo quadrante; parecchi costruttori, sull'esempio del celebre Arsenius, si sono occupati del trattato di Gemma Frisius che si proponeva di associare, su un unico strumento, un astrolabio e una saphaea; hanno in tale maniera prodotto oggetti belli e grandi, quanto di più sontuoso abbia realizzato la strumentazione astronomica medievale.

Analoga preoccupazione ‒ di passare comodamente dalle coordinate orizzontali, le sole osservabili, alle coordinate eclittiche ‒ sembra aver presieduto all'invenzione del torquetum. Un'invenzione cristiana ‒ ancorché attribuita al mondo orientale sulla scorta di un'etimologia fantasiosa ‒ che risale alla fine del XIII sec. e la cui paternità è assegnata a Francon de Pologne (lo stesso personaggio che si è detto compiere osservazioni in compagnia di Pietro di Limoges) o al francescano Bernardo di Verdun (Poulle 1964b). Caratteristica del torquetum è la sovrapposizione, in posizioni parallele rispetto a quelle che occupano nei cieli, dei differenti piani di riferimento della sfera fissa: orizzonte, equatore, eclittica, meridiano, verticale, considerati successivamente e non più simultaneamente come nella sfera armillare. Di qui una struttura di tavolette di ottone, di cui ciascuna, collegata alla precedente, è alzata perpendicolarmente a quella che la precede e ruota su essa. Lo strumento è portatile, nel senso che può essere spostato da un luogo all'altro, ma in ciascuna località deve essere sistemato per far coincidere la linea tracciata sulla tavoletta dell'orizzonte con il meridiano celeste. Partendo dai piani basilari di riferimento, costituiti dalla tavoletta dell'orizzonte e da un mezzo disco agganciato in modo tale da pendere costantemente in verticale, sul torquetum si possono leggere direttamente le coordinate eclittiche del corpo celeste.

Benché molto apprezzato, come ci testimonia più di un manoscritto, il torquetum non è riuscito ad affermarsi pienamente nella panoplia degli strumenti medievali, essendogli mancato l'inserimento nell'insegnamento universitario, garanzia di diffusione tra gli specialisti. Ci sono pervenuti due soli strumenti, realizzati da altrettanti celebri uomini di scienza: uno dal cardinale Niccolò Cusano, lasciato all'ospedale della sua città natale, e l'altro da Martin Bylica, della fine del XV sec., presso l'Università di Cracovia. Nel XVI sec., con lo sviluppo dei circoli di matematica, il torquetum ha goduto di una nuova fortuna, che ha prodotto ancora altri testi e alcuni pregevoli strumenti.

Come dall'astrolabio sono derivati il nuovo quadrante e la saphaea, così il torquetum ha dato vita a un altro strumento, il rectangulus (Michel 1944). Il principio su cui si fonda è ridurre i diversi piani che costituiscono il torquetum al solo diametro di origine della graduazione che essi riportano, trasformandoli in altrettanti regoli articolati gli uni sugli altri con l'ausilio di vari giunti sferici. È improbabile che esso sia mai concretamente sortito dalla mente del suo ideatore, Riccardo di Wallingford, dotto abate del monastero di Saint Albans nel primo quarto del XIV sec., che si è limitato a descriverne la costruzione e l'uso in un testo che ha avuto solamente un'eco limitata.

L'ultimo strumento del primo mobile che vale la pena di menzionare si distingue da tutti gli altri in quanto non pretende di fornire le sfere celesti di riferimento, ma si limita a produrre un abaco per la determinazione dell'ora inuguale. Esso viene designato con il nome di 'quadrante antico', e appare in Occidente nell'XI secolo. Per quanto riguarda la sua funzione, poiché l'ora disuguale indica la frazione dell'arco diurno già percorsa dal Sole e sta con il mezz'arco diurno in un rapporto simile a quello delle altezze del Sole all'ora ineguale in questione e a mezzogiorno, essa è quella di fornire, a partire dall'altezza meridiana del Sole nella data presa in considerazione ‒ letta direttamente sul quadrante senza aver bisogno d'osservarla ‒ e dall'altezza del Sole nell'ora considerata, un abaco di trasformazione del rapporto tra questi angoli in un rapporto degli archi orari corrispondenti. La lettura dell'altezza meridiana si effettua con un cursore, che è l'elemento caratteristico del quadrante antico; si tratta di un segmento d'arco, lungo quanto il doppio della declinazione dell'eclittica, che può scorrere lungo la graduazione del limbo del quadrante e che porta un calendario; mettendo il punto mediano del calendario, che corrisponde agli equinozi, sulla colatitudine del luogo ove si opera, tutte le date riportate sul calendario si troveranno di fronte alle altezze meridiane in tali date. Quanto all'altezza del Sole nell'ora considerata, essa è fornita dal sistema di mira comune a tutti i quadranti, nuovi o antichi.

Nel quadrans vetustissimus, l'abaco consisteva in una serie di linee perpendicolari a uno dei lati del quadrante, che fornivano una lettura concreta delle linee trigonometriche degli angoli rilevati sulla graduazione del limbo. Un tale abaco trigonometrico rientra in una tradizione molto forte nel Medioevo, attestata sul dorso di numerosi astrolabi orientali (mai su quelli occidentali), di cui si coglie ancora l'eco presso autori del XV o del XVI sec.: il sexagenarium di Johannes Bonie permette, a partire da questo abaco, di procedere alla risoluzione grafica di formule trigonometriche estremamente sofisticate relative all'astronomia planetaria, e il pregevolissimo 'quadrante universale' di Tobias Volkmer nel 1608 testimonia quanto questa tradizione fosse tenace. Tuttavia, nel caso del quadrante antico, tale tradizione fu abbandonata a partire dal XII sec., quando a queste linee trigonometriche si sostituirono alcuni archi di cerchio, che sono già di per sé delle ore disuguali. È stato dimostrato che da tale sostituzione risulta un'approssimazione, consistente nel sostituire un rapporto angolare con il rapporto tra i seni degli angoli a metà.

Questo tracciato delle linee delle ore disuguali, caratteristico del quadrante antico, incontrò un successo tale da essere applicato anche all'astrolabio ‒ a partire dal XII sec. è quasi sistematicamente iscritto sul dorso di tale strumento ‒ e al quadrante nuovo. Tuttavia, malgrado questo successo, la situazione documentaria del quadrante antico è analoga a quella degli altri strumenti del primo mobile, fatta eccezione per l'astrolabio; è presente un buon numero di testi, con vari trattati e numerosi manoscritti, ma sono rarissimi gli esemplari di ottone superstiti, probabile riflesso di quella che fu la diffusione effettiva di questi strumenti tra gli specialisti.

Questo dato fornisce un'interessante indicazione sul valore prevalentemente pedagogico riconosciuto alla strumentazione astronomica medievale, testimoniato da una letteratura tecnica, che favoriva i commenti e la memorizzazione delle procedure insegnate. La rarità del materiale pervenuto ridimensiona molto la funzione di strumentazione per il calcolo accordata a questi diversi oggetti; l'astrolabio era infatti sufficiente a coprire tali bisogni.

L'orologeria

Dato che gli esordi dell'orologeria restano tuttora oscuri, sulla sua cronologia sono fiorite le ipotesi più inverosimili. Facendo leva sull'ambiguità del vocabolario, che identifica con il termine horologium strumenti diversi ‒ come lo gnomone, il notturlabio, la clessidra, l'astrolabio ‒ il cui comune denominatore è la capacità di fornire un'ora, alcuni hanno pensato di far risalire molto indietro la nascita dell'orologeria meccanica indicando in Gerberto, alla fine del X sec., il suo inventore. Tale ipotesi evidentemente è da considerare del tutto infondata; a meno di non applicarle una definizione di comodo, l'orologeria non può essere fatta risalire a prima della fine del XIII sec., come attestano le prime testimonianze certe.

Perché si possa parlare di orologeria, devono essere presenti tre elementi: un motore che assicuri all'orologio una certa autonomia, un regolatore che conferisca a questo motore un funzionamento omogeneo dall'inizio alla fine del suo periodo di autonomia e un ingranaggio che trasformi il movimento prodotto dal motore in una visualizzazione del tempo trascorso. Quest'ultimo componente ha senz'altro una tradizione molto antica; si è già ricordato che la proiezione stereografica aveva trovato una prima applicazione negli 'orologi anaforici', che producevano una visualizzazione oraria a partire da un motore facile da mettere in opera: il flusso di una certa quantità d'acqua. Il legame tra il motore e la visualizzazione implica un ingranaggio assai sofisticato, in quanto l'impiego della proiezione stereografica lascia pensare che negli orologi anaforici il tempo medio e il tempo siderale fossero considerati simultaneamente. La tradizione delle clessidre ad acqua dispone, per il Medioevo, di una documentazione esigua ma prestigiosa; ne fanno parte i meccanismi offerti da Hārūn al-Rašīd a Carlo Magno, e un testo, peraltro poco chiaro, che figura nei Libros del saber di Alfonso di Castiglia. Tra gli storici vi è accordo nell'ammettere che le clessidre abbiano alimentato una sorta di preorologeria, costituita da meccanismi che visualizzavano l'ora o mettevano in moto le campane destinate a scandire la vita monastica. Per quanto vero, si deve comunque riconoscere che la documentazione relativa a tali meccanismi è alquanto carente.

L'acqua è stata per lungo tempo un motore sufficiente per questo tipo di preorologeria. La sua sostituzione con un peso in caduta sembrava assai naturale, ma poneva il problema della frenatura per trasformare un movimento continuamente accelerato in un movimento uniforme. È la messa a punto di un sistema regolatore, la cui data non è stata ancora accertata, ad aver reso possibile l'orologeria. Si concorda nell'individuare la prima testimonianza di tale regolazione del sistema in un testo, sovente citato, di Roberto Anglico: un commento sulla Sphaera di Sacrobosco, databile al 1271, in cui l'orologio meccanico a discesa di peso sembra essere proposto come interessante alternativa ai vari modi di determinazione dell'ora. Tuttavia, il testo è poco preciso: "Desiderano, tuttavia, che i costruttori di orologi facciano un cerchio che si muova del tutto secondo il movimento del circolo equinoziale, ma non sono in grado di compiere completamente l'opera di quelli, e se potessero compierla, l'orologio sarebbe molto verace, e sarebbe più importante di un astrolabio per cogliere le ore. Il modo per costruire un simile orologio consisterebbe nel fabbricare un cerchio di eguale peso in tutte le sue parti per quanto è possibile, in un secondo momento si dovrebbe appendere un peso a piombo all'asse della stessa ruota, e che questo peso muova la ruota in modo tale che quel movimento si compia dal sorgere al sorgere del Sole" (Thorndike, 1947-48, p. 180). Per intendere esattamente questo testo, occorre ricordare che, a giudicare dalla testimonianza di Giovanni Dondi sull'orologio che fungeva da motore per la sua macchina planetaria (v. cap. XX, par. 1), i primi orologi visualizzavano l'ora mediante lo spostamento di un quadrante circolare (il circulum di Roberto Anglico) dinanzi a un indicatore fisso. Il testo ora riportato, in cui non compare alcun riferimento né alle ruote dentate né alla presenza di un regolatore, va considerato piuttosto come una promettente pista di ricerca che non come il resoconto di una invenzione già effettuata.

L'ultimo quarto del XIII sec. può in ogni caso ritenersi una data ragionevole per la nascita dell'orologeria, dato che, cinquant'anni dopo, Riccardo di Wallingford descrive un orologio astronomico la cui sofisticazione fa supporre una certa banalizzazione dell'orologeria ordinaria. Una volta risolto il problema del controllo della caduta del peso motore, questo ha conosciuto una fortuna duratura, tanto è vero che ancora oggi è usato negli orologi da muro a piede, o comtoises; fu tuttavia sostituito, a partire dalla metà del XV sec., da una molla, che rendeva possibile miniaturizzare e rendere portatili i meccanismi degli orologi.

Il primo regolatore, l'unico fino al XVII sec., fu il 'folletto' (foliot). Si tratta di una ruota o d'un braccio oscillante su un piano orizzontale; il suo asse verticale porta due palette che battono alternativamente, in numero dispari, sui denti di una corona che, trascinata dal peso motore, gira su un piano verticale lungo l'asse del 'folletto'. Ciascuna delle palette, a turno, è colpita prima dal dente più alto poi da quello più basso, di modo che la rotazione della corona è prima frenata e poi rilanciata. Sebbene questo sistema di regolazione sia altamente sicuro ed efficace, le prestazioni di tale meccanismo, considerate sotto il profilo della regolarità, sono molto mediocri; esso, infatti, può produrre scarti di orario fino a un quarto d'ora al giorno.

Il successo dell'orologeria rappresenta, fin dai suoi primi secoli, un importante fenomeno di civilizzazione. Ciononostante, è difficile farsene un'idea quantitativamente esatta, soprattutto perché, come documento archeologico, un meccanismo di orologeria si rivela particolarmente fragile. Trattati con disinvoltura come oggetti d'uso, gli orologi hanno risentito in un modo del tutto particolare degli incidenti di funzionamento che punteggiano la loro storia; riparazioni tali da renderli perfino irriconoscibili, ed eliminazioni, ci privano della possibilità di valutarne la diffusione, e l'inventario di quel che rimane è ancora da fare. Si può comunque tentare di proporre una classificazione su base tipologica.

Possono essere distinti tre livelli di orologeria in base sia alla visualizzazione delle informazioni fornite sia alla sofisticazione dei meccanismi. Il primo livello, il più elementare, è quello degli orologi che forniscono semplicemente l'ora (orologeria ordinaria); la visualizzazione primitiva si effettuava su un quadrante di ventiquattr'ore in cui il percorso compiuto da un indicatore o da una lancetta era l'esatta riproduzione di quello quotidianamente tracciato dal Sole, la cui sola parte visibile è, a sud, quella che sulla volta celeste corrisponde all'arco diurno. I quadranti di dodici ore e le lancette dei minuti furono introdotti molto più tardi, a opera dei fabbricanti dell'area germanica. Non di rado si aggiungeva un piccolo quadrante accessorio per indicare il giorno della settimana. Non sembra credibile l'ipotesi, sostenuta da alcuni, secondo cui i primi orologi non ebbero nemmeno il quadrante; in realtà, gli orologi privi di quadrante potrebbero più semplicemente averlo perso.

Il secondo livello d'orologeria è quello degli orologi astronomici. Precisamente, sono designati come 'astronomici' quegli orologi la cui visualizzazione è più elaborata di quella degli orologi normali, in quanto mostrano anche il moto annuale del Sole. Sul piano meccanico, essi tengono conto contemporaneamente dell'ora solare tropica e di quella siderale. Sul piano della visualizzazione, sono state realizzate numerose rappresentazioni, che possono essere ripartite in due tipi a seconda che i due tempi ‒ il tempo solare e il tempo siderale ‒ siano rappresentati da una oppure da due lancette. Nel primo caso lo Zodiaco si muove sotto la lancetta delle ore. Se esso è eccentrico rispetto al quadrante orario, si fa ricorso a una proiezione stereografica, e allora gli orologi astronomici si presentano come astrolabi meccanizzati; vi sono però anche Zodiaci concentrici rispetto al quadrante delle ore. Quando vi sono due lancette, una si muove secondo il tempo solare tropico sul quadrante orario e l'altra secondo il tempo siderale su un quadrante zodiacale fisso. Un'altra rappresentazione del moto siderale privilegia invece, rispetto al moto annuale del Sole, la riproduzione del moto delle stelle, e di conseguenza preferisce visualizzare la mobilità di una sfera celeste; questa rappresentazione si imporrà nei secc. XVI e XVII, pur senza eliminare completamente i quadranti astrolabici.

La visualizzazione del moto annuale del Sole è normalmente completata da quella del moto della Luna, le cui fasi sono rappresentate in modo suggestivo. Anche in questo caso, più tipi di rappresentazione entrano in concorrenza; si può mostrare la Luna come un disco del mese lunare, o come una palla, in parte nera e in parte bianca, che giri su un asse parallelo al quadrante; o ancora, visualizzare le fasi lunari mediante una lancetta che si muova davanti a una graduazione con 29 giorni, per cui lo spostamento di questa lancetta sullo Zodiaco mobile del moto annuale del Sole indichi anche la posizione della Luna nello Zodiaco. Queste diverse rappresentazioni possono anche essere associate, così da visualizzare contemporaneamente la forma della Luna (a falce, a semicerchio, a cerchio) e la sua posizione nello Zodiaco. Nell'orologeria astronomica si prende in considerazione il movimento regolare della Luna, il solo che intervenga nel calendario, e non il suo moto reale, che rientra invece nell'orologeria planetaria, della quale diremo subito dopo. Certi orologi astronomici, soprattutto in Inghilterra, limitano la visualizzazione astronomica alle fasi lunari. La tradizione dell'orologeria astronomica risale al XIV sec.; nel 1320 Riccardo di Wallingford costruì un orologio del genere per il monastero di Saint Albans, di cui era abate; di esso conosciamo unicamente la descrizione che lui stesso ha lasciato in un testo.

Il terzo livello dell'orologeria è quello degli orologi planetari. Sul piano teorico essi dovevano semplicemente estendere a tutti i pianeti quello che gli orologi astronomici realizzavano per il Sole e per la Luna. Nella pratica, i problemi tecnici da risolvere erano considerevoli, dato che una rappresentazione dei moti planetari avrebbe dovuto ‒ in linea di principio ‒ tenere conto delle eccentricità e degli epicicli indicati dalla teoria tolemaica. Non sorprende quindi che ciascun costruttore di orologi planetari abbia ideato alla fine una propria soluzione, distaccandosi ‒ se necessario ‒ dalle costrizioni imposte dalla teoria. Queste differenze non possono certo essere esaminate nel dettaglio; si possono distinguere comunque due grandi famiglie di orologi planetari: quelli che sistemano le rappresentazioni dei pianeti affiancandole le une alle altre, e quelli in cui le lancette relative a ciascun pianeta percorrono un unico quadrante zodiacale. I primi sono soliti rispettare i dettagli delle teorie planetarie, che i secondi tendono invece a eliminare. In effetti, ciascun orologio planetario rappresenta un caso a sé, degno di una monografia specifica. Risulta impossibile ricostruire un orologio planetario a partire dal testo di Riccardo di Wallingford, nonostante alcuni abbiano visto nel suo orologio astronomico il primo orologio planetario. In realtà, il primo orologio planetario realizzato sembra essere stato quello di Giovanni Dondi, noto grazie a una descrizione molto precisa redatta dall'autore stesso. Terminata nel 1381, ovvero circa un secolo dopo i primi orologi ordinari, l'opera di Dondi testimonia da una parte la mancata padronanza tecnica (l'orologio di Dondi sembra aver avuto molte difficoltà di funzionamento), dall'altra le ambizioni riversate nell'orologeria, in sole tre generazioni, da scienziati e da tecnici. È indicativo che nella sua esposizione Dondi non si attardi a descrivere 'l'orologio comune', motore centrale per tutti i meccanismi planetari, precisando che si tratta di un meccanismo banale e ben noto.

Senza aver conosciuto la diffusione degli orologi astronomici, gli orologi planetari furono meno rari di quanto non lasci credere la documentazione che ne rimane (Poulle 1980a). Meccanismi particolarmente fragili, per la cui manutenzione e riparazione pochi artigiani disponevano della necessaria competenza, gli orologi planetari sono stati le vittime predestinate della grande ristrettezza conosciuta dall'orologeria antica, vittime tanto più malaugurate in quanto il discredito abbattutosi sulle teorie tolemaiche, sulla cui base gli orologi planetari erano stati costruiti, ha giustificato la loro perdita.

Un'ultima questione vale la pena qui ricordare. Alcuni recenti lavori sulla concezione medievale del tempo hanno contribuito a rilanciare la ricerca sull'orologeria nel Medioevo. Tra le conseguenze sociologiche attribuite all'orologeria, si è volentieri citato il fatto che essa abbia fatto prevalere la divisione del giorno solare in ore uguali su quella antica in ore disuguali, determinando pure, in certi paesi europei, particolari usi orari; ne è un esempio l'introduzione e il lungo uso in Italia e, nel Rinascimento, anche in Europa, delle cosiddette 'ore italiane'. Non si può certo negare che la divisione uniforme del giorno solare abbia avuto un'influenza decisiva nell'imporsi dell'uso dell'ora uguale, ma non si può affermare che l'orologeria sia la responsabile della scomparsa della divisione del giorno in ore disuguali; si deve invece rilevare che una delle conseguenze più immediate dell'uso dei quadranti astrolabici negli orologi astronomici e negli orologi planetari è stata proprio quella di perpetuare le ore disuguali. Per giustificare la lunga permanenza di una modalità così obsoleta per il computo del tempo ‒ sia pure nell'ambito scientifico, dato che in quello della vita corrente era esclusivo l'uso delle ore uguali indicate dagli orologi pubblici, in genere provvisti di soneria a campane per segnalare le ore e i quarti d'ora ‒ si possono addurre almeno due spiegazioni: la familiarità con la pratica dell'astrolabio, in cui le ore uguali e le ore disuguali coesistevano in tutta naturalezza, e l'adozione, come modo di suddivisione della volta celeste in case astrologiche, di un sistema che faceva coincidere le linee delle case con le linee delle ore disuguali. Ciò significa che si deve riconoscere all'astrologia un ruolo non indifferente nel successo dell'orologeria astronomica, il quale avvalora la solidarietà tra le due discipline sorelle, vale a dire l'astronomia e l'astrologia, sino all'alba dei tempi moderni.

Aspetti tecnologici della musica

di Christian Meyer

La notazione musicale

La notazione musicale occidentale subisce, a partire dalla fine dell'età carolingia, un'evoluzione complessa. Per una sua ricostruzione storica è opportuno ricordare che i segni della notazione neumatica, utilizzati fin dai primi decenni del IX sec. per notare prevalentemente ‒ ma non esclusivamente ‒ i canti liturgici, indicano la ripetizione di uno stesso suono o un andamento melodico. L'origine di questi segni è controversa; secondo un'ipotesi accentuale, i neumi sarebbero derivati dagli accenti della grammatica (acuto, grave o circonflesso) e dai segni della punteggiatura. Secondo l'ipotesi cheironomica, che rimane ancora da verificare, la forma dei neumi richiamerebbe invece gli atteggiamenti della mano attraverso i quali era indicato l'andamento melodico; si tratterebbe quindi di un metodo molto antico, di cui è stata attestata l'utilizzazione nella Chiesa occidentale.

Questi segni, le cui forme grafiche differiscono considerevolmente a seconda delle aree geografiche, erano disposti al di sopra del testo letterario. Privi di qualsiasi riferimento alla scala dei suoni, essi non potevano indicare con precisione la natura degli intervalli tra i suoni. La loro funzione era soprattutto quella di coadiuvare la memoria del cantore. A queste notazioni pratiche vennero aggiunti i diversi sistemi di notazione ideati dai teorici, che si qualificavano innanzi tutto per il loro carattere di distinzione: le notazioni alfabetiche ideate sul modello di quella utilizzata da Boezio nel De institutione musica per designare gli aspetti della quarta, della quinta e dell'ottava del grande sistema perfetto (v. cap. XXI, par. 5) o anche le notazioni diagrammatiche che si eseguivano disponendo le sillabe di un canto, in funzione della loro altezza relativa, su diverse linee, ciascuna delle quali corrispondeva a un preciso grado della scala dei suoni.

Se l'uso di tutte queste notazioni rimase limitato alla redazione di esempi nei trattati di musica, le rappresentazioni diagrammatiche furono invece all'origine della notazione diastematica ideata da Guido d'Arezzo. Quest'ultima rivoluzionò la pratica e l'insegnamento della musica. L'ingegnosità del sistema costituito da molte linee consisteva nell'assegnare lo stesso valore semantico alla linea (che rappresentava un intervallo di tono o di semitono) e allo spazio compreso tra due linee consecutive. Il rigo musicale di quattro linee consentiva così di rappresentare sette gradi successivi.

Gli intervalli o le linee 'chiave' erano aperti da una lettera della notazione del monocordo, o evidenziati con un colore particolare in modo da stabilire una relazione univoca tra il tetragramma e la scala dei suoni prodotta dal monocordo. In questa concezione il tetragramma della notazione diastematica corrispondeva a una scala facilmente trasponibile all'insieme del sistema acustico.

Il rigo musicale e la diastematizzazione della notazione neumatica produssero importanti conseguenze; essi permisero non soltanto di collocare con precisione l'altezza di ogni nota in rapporto alla scala dei suoni definita sul monocordo, ma anche di leggere a vista una melodia sconosciuta e di ridurre considerevolmente il tempo necessario al suo apprendimento, rendendo la notazione musicale rigorosamente prescrittiva. Si noterà, a questo riguardo, che la notazione neumatica bizantina classica, in uso dalla fine del XII fino al XIX sec., designa ogni intervallo melodico, ascendente o discendente, con un segno distintivo.

Così, fino al XII sec. la notazione delle altezze dei suoni guadagnò in distinzione. In effetti, questi progressi furono indissolubilmente legati alle speculazioni sul sistema acustico che caratterizzarono così profondamente il pensiero musicale dell'Alto Medioevo. In compenso, all'inizio del X sec., la questione del tempo, del tutto assente nella teoria musicale, destò l'attenzione dei notatori. Le recenti ricerche paleografiche hanno dimostrato che certe configurazioni di neumi possono essere interpretate come indicatori ritmici. In alcuni centri, e in particolare a San Gallo, i notatori affiancavano alle notazioni musicali alcune lettere che precisavano non soltanto la natura dell'andamento melodico e, più in generale, il carattere dell'espressione vocale, ma anche il valore di durata dei suoni.

La precisione della notazione della durata, smarritasi nel corso dell'XI e del XII sec. con la progressiva acquisizione della leggibilità melodica, si sviluppò nel corso del XIII sec. grazie alla codificazione della musica polifonica. La genesi della notazione della durata verso la fine del XII sec. e la sua maturazione nel corso di tutto il XIII sec. hanno suscitato numerosi dibattiti. Bisogna considerare che nel XIII sec. prevalse la notazione cosiddetta modale, che si eseguiva per mezzo di segni derivati dalle legature di due o tre note della notazione neumatica, e ordinati in base a un sistema di differenziazioni grafiche in grado di indicare in modo inequivocabile il valore di brevità o di lunghezza di ciascuna delle due o tre note legate. Tuttavia, l'interpretazione di questi segni presupponeva, nel musicista e nel notatore, la rappresentazione mentale di una catena ritmica (ordo) fondata sulla ripetizione di uno stesso modulo di base, corrispondente a uno dei seguenti piedi della metrica classica: trocheo, giambo, dattilo, anapesto, spondeo o tribraco. Nel corso dell'ultimo terzo del XIII sec. si giunse alla conclusione che i simboli della notazione potessero ormai indicare il modo ritmico. Questa inversione nella concezione dei processi cognitivi, che presiedevano alla redazione e alla lettura della notazione mensurale, segnò l'inizio di un'evoluzione verso un sistema di notazione che rendeva possibile assegnare un significato ritmico a segni isolati ‒ e non più legati ‒ e alla notazione di valori sempre più brevi di durata.

L'instrumentarium medievale: scienza e tecnologia

La storia delle tecniche utilizzate nel Medioevo dagli artigiani che fabbricavano gli strumenti rimane per molti aspetti ancora non ben definita. A eccezione di un carillon europeo di dodici campane (del 1200 ca.), conservato presso il Flagellation Museum di Gerusalemme, non ci restano che pochi frammenti dell'instrumentarium medievale: alcune canne e cursori di un organo idraulico costruito verso il 1228, conservati presso l'Aquincumi Múzeum a Budapest; alcuni resti di organi positivi della fine del XIV sec., vale a dire gli organi di Norrland e di Sundra, presso lo Statens historiska Museum di Stoccolma; alcune parti di antichi organi della cattedrale di Notre-Dame-de-Valère a Sion (del 1380 ca.) o di San Nicola a Utrecht (del 1479). Uno dei più antichi strumenti a tastiera che ci sia pervenuto è un clavicordo costruito da Domenico da Pesaro che risale al 1543, conservato nel Musikinstrumenten-Museum dell'Università di Lipsia.

Le fonti iconografiche (miniature e sculture) e letterarie (metodi di fabbricazione delle canne dell'organo, descrizione dei registri dell'organo, schizzi dei meccanismi dei salterelli del clavicembalo) sono più numerose; tuttavia, esse si prestano a una dubbia interpretazione soprattutto perché tacciono sui dettagli essenziali della struttura degli strumenti.

In uso dal X al XVI sec., i carillon erano costituiti da una serie di campane, da quattro a dodici, sospese a un'asta orizzontale; essi erano probabilmente destinati all'esemplificazione didattica, e precisamente a illustrare i rapporti delle consonanze (3:2, 4:3, ecc.), o erano usati per conferire una certa vivacità al canto. Le campane erano messe in vibrazione da un martello che batteva su esse; dal XII sec. alcuni carillon furono dotati di grandi tasti di legno.

Fino al XII sec. la campana presenta una forma a volte emisferica, a volte di alveare, altre ancora di cappello a punta. A partire dal XIII sec. essa assume la classica forma svasata, accrescendo in tal modo le sue dimensioni e il suo peso. Questa modificazione si verificò durante il pieno sviluppo della civiltà urbana, allorquando le campane assunsero una grande importanza.

La fusione delle campane è descritta in diversi trattati di metallurgia, e in particolare nella Diversarum artium schedula, redatta a Colonia verso il 1125 dal monaco Teofilo. La fusione di una campana si compie in due tempi. Bisogna innanzi tutto tracciare il profilo (dei contorni esterni e interni) e preparare il calco, collocato su un asse orizzontale e composto da tre parti: l'anima (di argilla e di paglia), la falsa campana (di argilla ricoperta da uno strato di cera sormontata da una corona) e la calotta (formata da molti strati di argilla). Dopo aver estratto la falsa campana si fa colare dall'estremità superiore del calco il bronzo fuso che si introduce nell'intercapedine tra l'anima e la calotta. Per contenere la pressione esercitata al momento dell'introduzione del bronzo, l'anima ricoperta dalla calotta è interrata o ricoperta di terra.

Secondo analisi eseguite in base alle testimonianze di quell'epoca, la lega di bronzo era composta dal 20% circa di stagno e da una quantità di piombo, antimonio o di zinco compresa tra l'1 e il 6%, e per il resto da rame. Questa lega era colata a una temperatura di circa 1100 °C. I fonditori sapevano valutare perfettamente il rapporto tra le dimensioni e il peso delle campane, anche se, a meno di non supporre un certo numero di correzioni empiriche, le testimonianze contenute nei trattati medievali sulle proporzioni delle campane rimangono inverificabili. Tali trattati possono essere divisi in due gruppi: i primi attribuiscono le proporzionalità pitagoriche al peso delle campane (ossia al peso della cera necessaria alla realizzazione della falsa campana), gli altri all'altezza e alla larghezza delle pareti interne della campana. Tuttavia, questi scritti non offrono alcun genere di indicazioni sui rapporti di lunghezza (dello spessore della parete e delle dimensioni interne della campana) corrispondenti alle proporzioni pitagoriche che regolano i pesi o viceversa.

L'organo, la cui presenza nel mondo greco-romano è attestata a partire dalla fine del II sec. a.C., fece la sua comparsa nell'Occidente medievale nel 757, durante il regno di Pipino, grazie ai contatti con l'Impero bizantino. Nell'812 gli ambasciatori dell'imperatore di Bisanzio offrirono in dono uno di questi strumenti a Carlo Magno. Nell'826 un sacerdote originario di Venezia, tradizionale luogo di scambi con Bisanzio, fu inviato ad Aquisgrana, alla corte di Ludovico il Pio, con l'incarico di costruire un organo. Tuttavia, fino all'XI sec. questo strumento fu destinato esclusivamente a un uso secolare, soprattutto nel quadro dell'insegnamento della musica e in occasione delle consacrazioni e delle investiture. L'uso liturgico dell'organo si sviluppò solamente a partire dal XII sec., secondo modalità ancora oggi non del tutto definite.

Non possediamo alcuna informazione tecnica sulla fabbricazione degli organi tra il X e il XII secolo. Secondo una testimonianza letteraria, di dubbia credibilità, l'organo di Winchester (costruito nel 990 ca.) sarebbe stato dotato di 26 mantici e di 400 canne allineate in 10 file con 40 note disposte in due serie di 20 tasti estendibili, la cui utilizzazione richiedeva il concorso di almeno due organisti.

A eccezione, forse, dell'organo donato a Carlo Magno, l'organo medievale occidentale non utilizzava la regolazione idraulica dell'aria. Il Medioevo ha sviluppato al suo posto la tecnica del mantice, in un primo tempo sotto forma di otre costituito da un'unica pelle, e successivamente del mantice a cuneo costituito da tavole di legno e fasce di cuoio, che aveva però il difetto di non permettere la regolazione dell'aria. Questa, penetrando nel somiere sul quale sono disposte le canne, si introduce nel piede delle stesse attraverso fori aperti oppure tappati da cursori forati. Nell'organo romanico questi cursori erano spinti avanti e indietro dalla mano dell'organista; in seguito, il meccanismo a cursore fu sostituito da una valvola a molla, azionata da un tasto che funzionava secondo il principio della leva: premendo la valvola si provocava l'immissione dell'aria in un condotto scavato nella tavola (successivamente costruito per mezzo di aste saldate tra due tavole), sotto una fila di canne che corrispondevano a un determinato suono.

Le canne, di forma conica o cilindrica, sono canne labiali che funzionano in base al principio del flauto a becco. Il suono è prodotto dal flusso di aria che fuoriesce da una fessura posta sulla parete del piede della canna e da una linguetta più o meno orizzontale fissata al suo interno; l'aria è spinta contro la parete superiore della canna mettendo così in vibrazione la colonna di aria; la nota del suono fondamentale ‒ al quale si accompagnavano vari suoni armonici, di diversa intensità ‒ corrispondeva a una lunghezza d'onda pari al quadruplo della lunghezza della canna dalla fessura di eccitazione all'estremità superiore aperta. A partire dalla fine del XIII sec., l'uso delle canne labiali consentì di abbassare il suono di un'ottava. Questo principio ‒ scaturito, a quanto sembra, da preoccupazioni economiche ‒ ebbe l'effetto secondario di ridurre notevolmente gli armonici ‒ già scarsi ‒ di questo tipo di canna.

Diversi trattati sulla lunghezza delle canne dell'organo menzionano la prassi di far suonare molte canne per ottenere un solo suono. Due trattati anonimi dell'XI sec. (Cuprum purissimum e Mensura fistularum) descrivono, per esempio, l'associazione di tre canne, di cui una accordata a un'ottava superiore rispetto alle altre. Secondo la tarda testimonianza di Henri Arnault de Zwolle, che risale al 1440, queste fourniture (file di canne) potevano essere arricchite da un numero variabile di canne che suonavano a un intervallo di dodicesima (ottava+quinta), di doppia ottava, e persino di decima (ottava+terza minore) dal suono fondamentale. Le canne così associate realizzavano in un certo modo uno spettro sonoro strutturato in base ai primi tre o quattro armonici (ottava, dodicesima, doppia ottava, terza maggiore alla doppia ottava). L'equilibrio sonoro dello strumento era assicurato aggiungendo alcune file di canne supplementari ascendenti verso l'acuto. Secondo alcuni trattati, le canne erano di rame o di una lega di stagno.

L'imprecisione delle informazioni sul processo della fusione, sulla composizione delle leghe e sulla battitura del metallo, non consente di formulare ipotesi attendibili riguardo alle proprietà acustiche di queste canne (sappiamo tuttavia che l'abbondanza degli armonici dipende dalla durezza del metallo); non vi sono però dubbi che le file di canne rispondevano sia all'esigenza di aumentare la potenza dello strumento, sia a quella di arricchirne e ravvivarne il timbro.

Tale dispositivo acustico caratterizzava l'organo gotico monumentale del Nord-est della Francia e dell'area germanica. La concezione delle diverse file di canne ricorda in modo singolare la tecnica dell'organum vocale originario per quinte e ottave parallele, così come è descritto, a partire dal IX sec., dai teorici della musica. L'organo appare così, in qualche modo, lo strumento-prototipo della sintesi del suono a partire dai primi quattro o cinque armonici.

Alla fine del Medioevo, la fabbricazione degli strumenti è caratterizzata anche dall'invenzione e dallo sviluppo di numerosi strumenti polifonici a tastiera. Concepito in base al principio del monocordo, il clavicordo fece la sua comparsa all'inizio del XV secolo. Questo strumento è caratterizzato da un meccanismo a percussione (la corda è percossa da una piastrina metallica fissata all'estremità della leva formata dal tasto) e da corde unisone di uguale lunghezza. I punti in corrispondenza dei quali dovevano essere percosse le corde erano determinati in base alla misura del monocordo, in modo da ottenere molti suoni successivi su una sola corda o su una coppia di corde. Il clavicembalo, che fece la sua comparsa all'incirca nello stesso periodo, è invece caratterizzato da un meccanismo a corde pizzicate, funzionante in base al principio del plettro. Contrariamente al clavicordo, nel clavicembalo ciascun suono è emesso da una corda di lunghezza e di altezza sonora differenti.

L'uso del monocordo, a fini teorici e didattici, si diffuse verso la fine del X secolo. Esso rappresentò lo strumento sperimentale ideale; dato che il diametro e la densità della corda rimangono sufficientemente costanti e le modificazioni della tensione che intervengono durante la manipolazione dello strumento sono trascurabili, il monocordo consente di verificare con una notevole esattezza la correlazione tra gli intervalli sonori e i rapporti di lunghezza determinati dalla divisione geometrica della corda. In questo senso il monocordo ‒ e il sistema acustico pitagorico di cui rappresenta la materializzazione ‒ sembra aver esercitato non soltanto un ruolo di primo piano nella formazione dell'orecchio del cantore occidentale, ma anche un'influenza decisiva sulla fabbricazione medievale degli strumenti. In effetti, il Medioevo ha prodotto una ricca letteratura dedicata alla misura di diversi corpi sonori: le corde elastiche del clavicembalo e del monocordo e l'organistrum (antenato della ghironda), ma anche le canne dell'organo e le campane.

Tutti questi testi, almeno fino al XIV sec., documentano con certezza la realizzazione del sistema acustico pitagorico, ma basandosi su modalità e metodi molto diversi. La disparità dei metodi descritti dipende, da una parte, dalle rappresentazioni teoriche che guidavano gli autori di questi brevi trattati e, dall'altra parte, dalle condizioni empiriche della fabbricazione degli strumenti. In effetti, il sistema di proporzionalità posto in evidenza dal monocordo non è in quanto tale facilmente trasponibile a corpi sonori come le campane o le canne; questi ultimi, infatti, necessitavano di molte correzioni ‒ relative sia alla loro forma sia alla loro dimensione ‒, che sono menzionate e suggerite da alcuni di questi trattati.

Le divergenze tra le proporzioni del sistema pitagorico e i dati empirici della fabbricazione degli strumenti costituivano oggetto di preoccupazione per i teorici. Fu precisamente alla soluzione di uno di questi problemi che si dedicò Gerberto di Aurillac nello stabilire, verso la fine del X sec., la commensurabilità tra i valori del monocordo e quelli delle canne dell'organo. Gerberto, ricavando una costante numerica, avrebbe offerto, su questo punto, una soluzione soddisfacente sia per quanto riguarda l'ideazione degli strumenti sia per la loro fabbricazione.

I trattati sulla caccia

di Baudouin van den Abeele

In tutti i tempi la caccia è stata per l'uomo un'occasione di contatto diretto con il mondo animale, ma nel Medioevo in particolare questa attività era apprezzata in quanto componente essenziale della vita aristocratica. Le forme di caccia medievali per eccellenza erano quella con i cani, o caccia alla corsa, e la falconeria, o caccia al volo; la prima si basava sul fatto che l'inseguimento di grossa selvaggina avveniva con l'aiuto di una muta di cani, mentre la seconda si praticava con l'aiuto di uccelli rapaci, che erano addomesticati e addestrati a cacciare selvaggina da penna per l'uomo e sotto la sua guida. Le due forme di caccia ‒ divenute componenti della vita di corte, con i loro codici, il loro sfarzo e la passione che le accompagnava ‒ richiedevano mezzi di un certo rilievo: gli animali necessari, cani e uccelli ‒ spesso costosi, dovevano essere sempre appositamente addestrati e occorreva dunque personale che se ne occupasse quotidianamente ‒, oltre alle terre e a un seguito di uomini. I numerosi trattati medievali sulla falconeria e sulla caccia con i cani sono rilevanti per la storia della scienza poiché trasmettono numerose informazioni zoologiche, notizie su pratiche veterinarie e conoscenze mediche.

Venivano comunque praticati anche altri tipi di caccia: la caccia con l'arco, la cattura con trappole di piccola selvaggina o di animali pericolosi, la caccia di uccelli con le reti e la pesca. Queste forme ricevevano però una considerazione molto minore dal punto di vista sociale; i testi didattici che le riguardano infatti sono pochi, in un'epoca in cui la pratica della scrittura era diffusa soprattutto nei ceti superiori della società, e rifletteva dunque le abitudini di vita di gruppi di alto livello sociale.

La letteratura medievale relativa alla caccia apparve in Occidente come una creazione sui generis; gli antecedenti antichi, come il Cinegetico di Senofonte, rimasero infatti ignoti fino al Rinascimento. In questo campo gli autori medievali crearono gradualmente una tradizione letteraria, prima in latino, poi in volgare. Il genere ricevette un impulso decisivo all'epoca delle Crociate e raggiunse il suo massimo sviluppo durante il XIII e il XIV sec., con una grande varietà di trattati. I testi sulla falconeria erano nettamente predominanti; sia in latino sia nelle lingue volgari, i trattati sulla caccia con i cani apparvero più tardi e in numero minore.

Sull'origine precisa del genere letterario dei trattati sulla falconeria non si hanno molte notizie certe; il primo testo pervenutoci risale al X sec. ed è estremamente modesto sulla cura degli uccelli rapaci, costituito in gran parte da ricette terapeutiche; è conservato in forma frammentaria nel ms. 144 della Biblioteca Capitolare di Vercelli. A questo testo se ne può accostare un secondo, il ricettario di Grimaldo, tramandato in un manoscritto di Poitiers databile all'XI sec. (Biblioteca Municipale, 184), ma che fa riferimento a un contesto carolingio. Tuttavia si tratta di due testi isolati, in cui ci si limitava a fornire alcuni rimedi per le malattie degli uccelli da caccia.

Nel XII sec. il numero dei trattati si moltiplicò; ce ne sono pervenuti otto, tutti brevi e di argomento prevalentemente terapeutico. Alcuni testi sono riconducibili alla Sicilia normanna, come quelli di Danco e di Guglielmo, altri all'Inghilterra, come quello di Adelardo di Bath, di molti invece non si conosce la provenienza (van den Abeele 1990). In seguito, alla metà del XIII sec., la tradizione latina raggiunse il suo massimo sviluppo con alcune opere maggiori; in primo luogo il De arte venandi cum avibus (Trattato sulla falconeria) dell'imperatore Federico II di Svevia ‒ redatto negli anni dal 1230 al 1245 ca. ‒ che è il testimone più importante in questo genere sia per ampiezza sia per valore, anche se non ebbe un'influenza particolare sui testi posteriori. Nella sua versione più completa, in sei libri, il trattato presenta nel Libro I una ornitologia generale di notevole interesse; il Libro II è dedicato ai falconi, e fornisce qualche informazione di base per il loro mantenimento; il Libro III tratta dell'addomesticamento e dell'ammaestramento; nei tre ultimi libri si spiega come cacciare la gru con l'aiuto del girifalco (Libro IV), l'airone con il falco sacro (Libro V) e le anatre e gli altri uccelli acquatici con il falco pellegrino (Libro VI). Sempre alla corte del Regno di Sicilia, intorno al 1240 furono tradotti per l'imperatore due trattati arabi, che si diffusero in latino con i nomi Moamin e Ghatrif; il Moamin divenne il testo più diffuso della tradizione latina (se ne conservano ventisette manoscritti). Il domenicano Alberto Magno, contemporaneo di Federico II, compose poi un trattato molto interessante sui falconi, inserito nel suo De animalibus, che si distingueva per la descrizione dettagliata delle diverse specie.

Gli altri trattati latini di falconeria del XIII e del XIV sec. sono non meno di quattordici, quasi tutti inediti, e si dividono in due categorie: da una parte alcuni testi originali, in tutto o in parte, che concernono sempre di più le tecniche di caccia e che sono tutti redatti in Italia, come il notevole Liber avium viventium de rapina di Egidio d'Aquino; dall'altra parte testi a carattere compilativo, realizzati a partire dai brevi ricettari del XII secolo. Quanto alla letteratura in lingua latina sulla caccia con i cani, essa si limita a un solo testo della metà del XIII sec., relativo alla caccia al capriolo: il De arte bersandi di Guicenna.

Nel XIII e XIV sec. si iniziarono a tradurre testi sulla falconeria in volgare, se ne fecero dei compendia, e in breve tempo si sviluppò una vera e propria tradizione letteraria sulla caccia nelle principali lingue europee. In questo nuovo insieme di scritti il genere subì alcune trasformazioni; vi sono meno opere anonime, gli autori sono più conosciuti, i testi hanno un'impronta più regionale, sono letterariamente più elaborati, spesso contengono illustrazioni e si diffondono quindi soprattutto in manoscritti di lusso.

Anche la tradizione di letteratura sulla caccia della Penisola Iberica è abbastanza antica; la versione spagnola del trattato chiamato Epistola Aquile, Symachi, et Theodotionis ad Ptolomeum potrebbe risalire all'inizio del XIII sec., e nel 1250 si ebbe la traduzione di una versione particolare del Moamin arabo. Intorno al 1325 comparvero alcune opere originali (quali il Tratado de cetrería o il Libro de la caza del principe Juan Manuel), anticipando quella che fu in seguito l'opera più diffusa: il Libro de la caza de las aves di Pedro López de Ayala, del 1386. La caccia con i cani costituì l'oggetto di un'opera rimarchevole: il Libro de la montería di un re Alfonso la cui identità (Alfonso X o XI) è discussa.

Se la tradizione iberica è stata oggetto di numerose ricerche nell'ultimo ventennio (Fradejas Rueda 1991), non è stato lo stesso per i trattati francesi, rimasti poco studiati (Bohrn 1973). In Francia la prima opera, risalente alla metà del XIII sec., è provenzale; si tratta del poema Dels auzels cassadors di Daude de Pradas, per la maggior parte formato da una raccolta dei trattati latini del XII secolo. Solamente nel XIV sec. comparvero i primi scritti originali in lingua francese; tra questi spicca una triade classica, costituita dai Livres du roy Modus et de la royne Ratio, scritti fra il 1354 e il 1376 da Henri de Ferrières, dal Roman des déduis di Grace de la Buigne, terminato prima del 1377, e dal famoso Livre de chasse di Gaston Phébus, conte di Foix (1331-1391). Il primo di questi è un dialogo didattico fra un apprendista cacciatore e il re Modus ('Le buone maniere'), con qualche sviluppo moraleggiante svolto attraverso la figura della regina Ratio. Vi è incluso un dibattito in cui sono contrapposte la caccia con i cani e la caccia al volo, che servì da modello al Roman des déduis, un vasto poema che conta più di 12.000 versi, per la maggior parte contenente un dialogo estremamente vivace fra 'Amore per i cani' e 'Amore per gli uccelli', nutrito di numerosi aneddoti. Quanto al Livre de chasse del conte di Foix, in esso sono considerate tutte le modalità della caccia con i cani, nonché forme di caccia più modeste (con l'arco, con le trappole e con le reti). Oltre a questi tre testi maggiori, la tradizione francese presenta una grande varietà di scritti e ricettari e restò fiorente per tutto il XV secolo.

I trattati in lingua italiana sono meno conosciuti; le diverse piccole edizioni curate da studiosi italiani nel XIX sec., infatti, non hanno portato a ricerche d'insieme. A partire dal XIV sec. si conoscono numerosi trattati sulla falconeria, piuttosto modesti e in gran parte fondati su testi latini, ma non sembra che si siano avute opere notevoli prima del XV sec., quando comparve, per esempio, il trattato di Giovanni Belbasso da Vigevano, inedito. Nessuno di questi scritti, in ogni caso, riguardava la caccia con i cani.

In ambito germanico, la prima opera tedesca dedicata alla caccia al volo risale probabilmente all'inizio del XIV sec. (Ältere deutsche Habichtslehre), ma il genere si sviluppò pienamente soltanto nel XV secolo. Una delle sue particolarità è una piccola tradizione di testi dedicati alla descrizione dei cervi. I trattati tedeschi, opere anonime e prive di pretese letterarie, più orientate alla pratica, sono oggi ben conosciuti.

In medio nederlandese si è conservato un solo trattato anonimo, forse del XV sec., sulla caccia con una specie particolare di uccello rapace, l'astore. I testi inglesi, infine, comparvero tardi e anch'essi erano dedicati principalmente alla caccia al volo; il più conosciuto è il Boke of Saint Albans, una raccolta stampata nel 1480.

La quasi totalità dei trattati sulla caccia in latino e la maggior parte di quelli in volgare sono dunque dedicati alla falconeria; il loro contenuto riguarda in gran parte le malattie degli uccelli e i rimedi per guarirle. Si tratta quindi di una letteratura essenzialmente legata alla terapeutica, che assunse aspetti diversi a seconda del periodo; tuttavia nei trattati in volgare crebbe sempre più la parte riguardante le informazioni descrittive e tecniche. Se gli autori di testi sulla caccia conoscevano bene gli animali, pochi di loro li descrissero. L'interesse di questi trattati dal punto di vista zoologico è dunque, salvo eccezioni, piuttosto limitato. Questo tipo di letteratura si rivolgeva a persone che praticavano la caccia e apprendevano tale arte in modo diretto, non avendo affatto bisogno di conoscere attraverso testi scritti le varietà di cani o di uccelli utili per questa attività; i primi lavori perciò offrivano descrizioni molto semplici degli animali e si limitavano a fornire una nomenclatura (che presenta spesso molte difficoltà per il lessicografo).

Una preoccupazione ricorrente degli autori riguardava invece i criteri di riconoscimento per una buona scelta dell'animale da caccia; così, tanto nell'opera di Danco, quanto nel Moamin, come nel trattato di Federico II e in quelli di diversi autori in volgare si trova il ritratto di un buon falcone, ben proporzionato e dal comportamento presumibilmente intraprendente. Allo stesso modo Gaston Phébus dissertava su diversi tipi di cani buoni e cattivi, riconoscendo tuttavia che essi erano ben noti a tutti. La questione delle razze era quindi poco trattata in questi scritti sui cani, così come avveniva nei testi di veterinaria per i cavalli; si possono trovare descrizioni più dettagliate degli animali nell'iconografia, poiché l'opera di Phébus è illustrata nella maggior parte dei manoscritti con bellissime miniature, in cui è possibile osservare particolari realistici ai quali nel testo non si fa alcun riferimento.

Per gli uccelli rapaci, invece, la questione delle varietà si poneva in maniera diversa; l'uomo medievale infatti non ne controllava affatto la riproduzione e doveva catturarli liberi per farne un prezioso ausilio per la caccia. In questo caso, in genere, i miniaturisti non hanno reso con uguale precisione le caratteristiche distintive dei diversi rapaci; è raro infatti che si possa riconoscere una specie particolare, come accade per lo splendido astore dipinto da Benozzo Gozzoli nell'affresco dei re Magi nel Palazzo Medici a Firenze. Quanto agli uccelli e ai quadrupedi che erano cacciati, nei testi quasi sempre figurano soltanto semplici riferimenti o cataloghi. Il De arte venandi di Federico II fa eccezione, in quanto contiene un'ornitologia generale di livello estremamente elevato; da questo punto di vista il trattato dell'imperatore è senza dubbio il testo medievale più approfondito sul mondo degli uccelli. I motivi di interesse risiedono inoltre nelle miniature, molto realistiche, che ornano il più antico manoscritto conservato (Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 1071), e che vennero copiate nei manoscritti francesi; in queste miniature l'ornitologo può riconoscere senza difficoltà più di ottanta specie diverse di uccelli.

Per quanto riguarda la grossa selvaggina, alcuni testi in anglo-normanno (Venerie di Twiti), francese (La chasse du cerf di Gaston Phébus) o tedesco (Lehre von den Zeichen des Hirsches) trattano le classificazioni dei cervi. Il comportamento della selvaggina è osservato con finezza da Gaston Phébus così come da Federico II, che in particolare descrive gli uccelli acquatici. Considerate nel loro insieme, le informazioni di tipo zoologico contenute nei trattati medievali sulla caccia permettono di completare in maniera significativa le trattazioni più 'libresche' caratteristiche delle opere didattiche, come le enciclopedie.

Si tende spesso a dimenticare che, avendo come motivo dominante la terapeutica, la letteratura medievale sulla caccia costituì una prima tappa della scienza veterinaria in Occidente (Schäffer 1996). Infatti, se certi testi antichi sull'arte della ferratura degli zoccoli dei cavalli e di altri animali rimasero in circolazione durante l'Alto Medioevo, la rinascita di una letteratura originale di veterinaria relativa ai cavalli si ebbe solamente verso il 1250, con il Liber de curis equorum di Giordano Ruffo. In questo senso, i brevi trattati di falconeria latini del periodo che va dal X al XII sec., in forma di ricettari per la cura degli uccelli malati, costituiscono modesti abbozzi di una medicina degli animali. In essi si trova poca teoria; a volte un rinvio alla costituzione umorale dei corpi, come in Danco a proposito delle diverse varietà di falchi, o in Adelardo di Bath a proposito della malattia detta fellera, che si manifestava con una sovrabbondanza di 'bile rossa'. La conoscenza dell'anatomia degli uccelli rapaci o dei cani si esprimeva soltanto in modo indiretto, in relazione alle parti del corpo e degli organi che ci si proponeva di curare. Federico II invece offriva una vera e propria esposizione sistematica dell'anatomia degli uccelli, in cui una parte rilevante era costituita da scoperte personali.

La patologia degli uccelli da caccia nei trattati di falconeria presenta notevoli problemi di comprensione; una terminologia poco unitaria, accompagnata nei fatti da una certa povertà della sintomatologia delle malattie negli uccelli rapaci, rendono infatti estremamente problematica l'interpretazione di molti passi, anche per il fatto che le conoscenze scientifiche attuali in materia non sono affatto consolidate. La terapeutica vera e propria nei trattati di falconeria era costituita innanzi tutto da ricette farmaceutiche; la dieta interveniva in misura limitata, e i trattamenti chirurgici in misura minima. Per gli uccelli erano prescritti rimedi con pochi ingredienti ‒ di solito due o tre ‒, la cui somministrazione si effettuava in genere insieme al cibo. Si tratta di una medicina semplice ma ricca, poiché le diverse raccolte contengono una grande varietà di ricette. Un confronto tra la materia medica utilizzata nella medicina aviaria e in quella umana permette di rilevare corrispondenze interessanti; infatti, la farmacopea per le cure degli uccelli rapaci riprendeva dalla medicina umana gran parte dei suoi prodotti curativi, ma utilizzandoli in proporzioni differenti; i prodotti d'origine animale occupavano un posto di maggior rilievo, mentre era abbandonato l'uso di alcuni prodotti vegetali (prodotti gommosi, cereali e così via).

Resta oggi difficile valutare la reale efficacia di questi rimedi, a causa dei problemi relativi alla terminologia usata e delle conoscenze insufficienti sulle malattie degli uccelli rapaci; è inoltre ancora da svolgere un'opera di confronto delle ricette di falconeria con quelle di altre tecniche tradizionali. Il corpus delle prescrizioni terapeutiche per la cura dei cani e degli uccelli rapaci è, in ogni caso, una componente essenziale di questo genere letterario e merita maggiore attenzione nell'ambito della storia delle scienze medievali.

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Tilander 1963: Tilander, Gunnar, Dancus Rex, Guillelmus Falconarius, Gerardus Falconarius. Les plus anciens traités de fauconnerie de l'Occident publiés d'après tous les manuscrits connus, Lund, C. Bloms, 1963.

Ungerer 1931: Ungerer, Alfred, Les horloges astronomiques et monumentales les plus remarquables de l'Antiquité jusqu'à nos jours, Strasbourg, Chez l'auteur, 1931.

Whyte 1962: Whyte, Lynn T., Medieval technology and social change, Oxford, Clarendon Press, 1962.

Willemsen 1986: Willemsen, Carl A., Bibliographie zur Geschichte Kaiser Friedrichs II und der letzten Staufer, München, Monumenta Germaniae historica, 1986.

Williams 1993: Williams, Peter, The Organ in Western culture, 750-1250, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1993.

Zaminer 1984-: Geschichte der Musiktheorie, hrsg. im Auftrag des Staatlichen Instituts für Musikforschung Preussischer Kulturbesitz Berlin von Frieder Zaminer, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1984-.

Zinner 1956: Zinner, Ernst, Deutsche und niederländische astronomische Instrumente des XI.-XVIII. Jahrhunderts, München, Beck, 1956.

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