La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Medicina, chirurgia e farmacologia

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Medicina, chirurgia e farmacologia

Nancy G. Siraisi
Giovanna Ferrari
Piero Morpurgo
Jean-Noël Biraben

Medicina, chirurgia e farmacologia

L'insegnamento della medicina

di Nancy G. Siraisi

Al pari di tanti altri aspetti della cultura medievale dell'Europa occidentale, la medicina è stata trasformata dagli sviluppi intellettuali, istituzionali e sociali che si sono verificati nel corso del XII sec. (per gli sviluppi precedenti, ossia nel primo Medioevo, v. cap. X). Questa trasformazione non ha introdotto cambiamenti nelle idee fondamentali, né nelle pratiche terapeutiche. Piuttosto, è stata caratterizzata da un più ampio accesso al patrimonio di testi delle tradizioni greca e araba in traduzione latina. Tutto ciò ha comportato una migliore comprensione e un incremento nella produzione della letteratura medica in latino, nonché la nascita di nuove forme di insegnamento e di legittimazione della medicina, oltre che di nuovi contesti sociali che hanno favorito il moltiplicarsi di coloro che praticavano questa disciplina. Nella prima parte di questo capitolo illustreremo brevemente gli sviluppi dell'insegnamento della medicina tra l'XI e la metà del XV secolo.

Anche se lo studio teoreticamente più complesso e intellettualmente più sofisticato si sviluppava negli ambienti accademici, ai quali solamente una minoranza di medici poteva accedere, in realtà il patrimonio della conoscenza medica apparteneva a una cerchia assai più vasta. Nell'Europa del Tardo Medioevo i medici provenivano da categorie assai diverse fra di loro. Vi erano medici uomini e medici donne, cristiani, ebrei e (nella Penisola Iberica) saraceni; medici e chirurghi; dotti professori di università e semplici guaritori considerati con disprezzo dai colleghi più colti come empirici. Resta ancora molto da scoprire (e molto potrebbe restare per sempre ignoto) sulle differenze regionali e sul grado e modo in cui la pratica medica integrava i metodi e i rimedi di origine locale con le teorie e le terapie derivate dalla medicina antica. Tuttavia, qualunque fosse il loro retroterra culturale e il loro livello di istruzione, quasi tutti i medici, gli insegnanti e gli autori di opere mediche noti agli storici partecipavano, in misura maggiore o minore, al sistema di idee derivato in ultima istanza dalla medicina greca, sebbene a livelli di elaborazione estremamente differenziati. Analogamente, la circolazione delle opere che trasmettevano la conoscenza medica, dapprima in latino e successivamente sotto forma di traduzioni e di adattamenti in volgare, si estendeva ben oltre i circoli accademici.

Lo sviluppo dell'insegnamento della medicina nel Tardo Medioevo può essere diviso in due fasi. La prima, compresa tra la fine dell'XI e gli anni a cavallo tra il XIII e il XIV sec., può essere considerata come un periodo di assimilazione e di formazione disciplinare, in interazione con gli altri movimenti intellettuali. Nella seconda fase, la complessa struttura della conoscenza medica cui si era pervenuti fornisce la base sia per un'incessante opera di esegesi, di elaborazione e di analisi dei problemi, sia per la creazione di nuovi generi di letteratura medica in risposta al mutamento avvenuto nel quadro delle patologie e alle nuove esigenze professionali.

Tra le acquisizioni più significative che si verificarono tra la fine dell'XI e il XII sec. si possono annoverare l'assimilazione di un vasto corpus di nuovo materiale, la formazione di una raccolta di brevi testi per l'insegnamento (in seguito nota come Articella), l'elaborazione di una importante opera enciclopedica di medicina in latino (la Pantegni di Costantino l'Africano [1015 ca.-1087 ca.]), lo sviluppo di nuove forme di insegnamento e di esegesi, e infine l'ampliamento del vocabolario tecnico in latino. Salerno e il vicino monastero di Montecassino erano i centri di studio e di istruzione più importanti, ma il nuovo insegnamento medico fiorì anche in varie scuole dell'Europa settentrionale, tra cui Montpellier, Parigi, Parma e Chartres. Sebbene questi sviluppi abbiano sicuramente condotto a un diverso approccio alla medicina ‒ maggiormente orientato verso la teoria rispetto a quello del primo Medioevo ‒, essi tuttavia non hanno comportato un rifiuto o una rottura rispetto alle forme di conoscenza già esistenti e alla pratica medica in uso. Riguardo a quest'ultima, occorre sottolineare che l'eredità della medicina antica disponibile nell'Europa occidentale del primo Medioevo, sebbene riguardasse principalmente gli aspetti pratici, era tuttavia trasmessa attraverso lo studio e l'uso dei testi (v. cap. X).

Il primo centro di medicina pratica è stato Salerno, al cui interno, alla fine dell'XI sec., si diede vita alla rinascita della letteratura medica grazie all'opera dei traduttori ‒ e dei loro committenti ‒ che attinsero da materiali di origine greca e araba. Gli scritti di medicina araba ‒ che l'Occidente medievale ha conosciuto in traduzioni latine provenienti per la maggior parte dall'Italia meridionale e, successivamente, dalla Spagna ‒ comprendevano le traduzioni di alcune opere di Galeno e di altri testi greci, le importanti opere di sintesi e d'interpretazione della medicina ippocratico-galenica, nonché nuovi contributi che riguardavano alcuni campi della medicina pratica (per es., la botanica medica e la pratica della cauterizzazione).

Nelle prime fasi di questa espansione della cultura medica, la figura di Costantino l'Africano, monaco di Montecassino, occupa una posizione di eccezionale rilievo. Sebbene Costantino non faccia riferimento alle fonti arabe da cui attinge, tuttavia le sue opere hanno svolto un ruolo fondamentale nell'introduzione sistematica ed esauriente della letteratura medica araba nel mondo latino. La sua opera principale, conosciuta come Pantegni, è una rassegna che prende in esame tutta la medicina organizzandola in venti libri, dieci dedicati alla teoria e dieci alla pratica. I libri sulla teoria sono una traduzione della parte corrispondente dell'opera di medicina generale di ῾Alī ῾Abbās (῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī, m. 994). Studi recenti hanno invece dimostrato che la maggior parte della seconda sezione dell'opera, quella dedicata alla pratica ‒ forse redatta nella sua interezza soltanto dopo la morte di Costantino ‒, non è una traduzione di ῾Alī ῾Abbās, bensì una compilazione basata su varie altre fonti (Green 1994b; Wack 1994). Tra le opere attualmente attribuite a Costantino l'Africano figura anche la traduzione latina dell'Isagoge di Iohannitius (Ḥunayn ibn Isḥāq) (ritenuta oggi una libera versione latina di un'opera di Ḥunayn ibn Isḥāq, vissuto tra l'808 ca. e l'877), ossia una breve introduzione alla medicina galenica, che costituì il nucleo della cosiddetta Articella (Newton 1994).

Anche se la piena assimilazione delle traduzioni di Costantino ha richiesto del tempo, esse hanno avuto un'enorme importanza. Tra il XII e il XIV sec., i manoscritti della Pantegni sono stati ampiamente diffusi nelle loro versioni integrali o parziali e in diverse varianti. L'influenza di questo testo può essere rintracciata in numerose opere di medicina, chirurgia, anatomia e farmacologia scritte nel XII sec. a Salerno e in altri luoghi. I neologismi latini coniati da Costantino hanno creato una certa confusione, ma nello stesso tempo hanno dato origine ad alcuni dei termini medici tuttora in uso (per es., pia mater). L'opera di cinque libri che gli storici hanno denominato Articella ha preso forma nella prima metà del XII sec. grazie all'unione di cinque libri: l'Isagoge di Iohannitius, gli Aforismi e il Prognosticon di Ippocrate, e due brevi opere sulla diagnosi basate, rispettivamente, sull'ispezione delle urine e sulla rilevazione del polso. Questa raccolta era aperta a nuove aggiunte e varianti; fra il XII sec. e la comparsa della prima edizione a stampa, realizzata in tempi e luoghi diversi, è stata ampliata fino a includere una varietà di altri testi medici. Uno dei primi scritti a essere aggiunto è stato il breve sommario di medicina di Galeno intitolato Mikrotéchnē, conosciuto nel Medioevo come Tegni o Ars parva (Pesenti 1990).

La Pantegni e l'Isagoge presentavano una medicina chiaramente e sistematicamente organizzata in parti differenti. Si sottolineava la distinzione tra teoria e pratica, e si insisteva sulla padronanza della teoria come base per una corretta pratica, essendo la medicina una conoscenza per causas. Inoltre, la medicina era collegata alla filosofia naturale poiché conteneva una discussione degli elementi, mentre la teoria medica era divisa nello studio dell'insieme delle res naturales (i componenti del corpo umano, inclusi gli elementi), lo studio delle res contra naturam (fattori ambientali e stati del corpo) e lo studio delle res non naturales (malattie e lesioni). Anche la presentazione di determinate nozioni di fisiologia e (nella Pantegni) di anatomia rientrava nell'ambito della filosofia naturale. Presumibilmente, proprio in conseguenza di ciò i termini physica e physici sono spesso stati usati in riferimento alla medicina e a certe categorie di medici (quest'uso è sopravvissuto nel termine inglese physician). Di sicuro la Pantegni ha affascinato alcuni filosofi naturali del XII sec., in particolare Guglielmo di Conches (1080-1154 ca.), che ha attinto largamente da quest'opera per il suo Dragmaticon (1144-1149; Ronca 1994).

Nel XII sec. vi sono stati altresì nuovi sviluppi nel metodo d'insegnamento basato sullo studio delle auctoritates, i cui precedenti possono essere rintracciati nei commenti eruditi di Galeno a testi attribuiti a Ippocrate, o nelle lezioni su un canone di testi galenici tenute ad Alessandria d'Egitto nel VI secolo. I testi dell'Articella divennero la base per una serie di commenti di maestri salernitani, nei quali a volte gli autori dimostravano già una discreta conoscenza delle opere aristoteliche di filosofia naturale (Kristeller 1986). Nello stesso tempo, la preesistente tradizione dei quesiti di filosofia naturale era ripresa e ampliata dalla compilazione di raccolte di questioni su argomenti di fisica e di medicina, un altro genere di letteratura scientifica associato con Salerno, ma non necessariamente in essa confinato. Alla fine del XII sec., o al principio del XIII, alcuni maestri salernitani hanno occasionalmente introdotto tali questioni nei loro commenti. Dunque, si può affermare che alla fine del XII sec. alcune caratteristiche essenziali della medicina scolastica erano già presenti negli autori legati a Salerno o alla medicina di tipo 'salernitano', in particolare la divisione fra parti teoriche e parti pratiche, l'insegnamento come commento ai testi delle auctoritates, l'interazione con la filosofia naturale e, infine, la formulazione di questioni o dubia.

Sempre in quel periodo, la letteratura medica in latino si è estesa fino a includere un imponente corpus di opere specialistiche (traduzioni, compilazioni e composizioni più o meno originali) di anatomia, ginecologia, farmacologia, ecc. Un ulteriore, significativo sviluppo è consistito nella ricezione delle principali enciclopedie arabe di medicina, in particolare le opere di al-Rāzī (865-925) e il Canone di Avicenna (Ibn Sīnā, 980-1037). L'opera di Avicenna fu probabilmente conosciuta nell'Italia settentrionale subito dopo che Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187) l'aveva tradotta a Toledo, ma non sembra abbia avuto grande diffusione prima degli anni Trenta o Quaranta del 1200; da allora in poi l'influenza del Canone di Avicenna fu enorme. Per diversi secoli quest'opera fu un importante strumento di consultazione, largamente utilizzato dai medici pratici per i manuali sulle malattie, sui metodi di cura e sui rimedi. Brevi estratti del Canone hanno egualmente avuto una lunga fortuna come manuali per l'insegnamento della medicina sia pratica sia teorica, e sono divenuti oggetto di numerosi commenti.

Anche Avicenna collocava la medicina in un più ampio contesto filosofico (la sua opera si apre con un'enunciazione di principî e contiene una sezione dedicata agli elementi), ma metteva altresì in guardia i lettori sull'esistenza di importanti differenze tra le concezioni fisiologiche di Aristotele e quelle di Galeno, avvertendoli che per gli scopi della medicina pratica avrebbero dovuto seguire quest'ultimo. Una serie di importanti opere di Galeno su argomenti quali le cause e i sintomi delle malattie, i disturbi interni, la diagnosi attraverso il rilevamento del polso e la teoria dei temperamenti (l'equilibrio delle qualità primarie, o, nella terminologia medievale, la complexio), che erano state tradotte nel XII sec., hanno cominciato a essere studiate e commentate solamente nella seconda metà del Duecento (García-Ballester 1982). Così, la fase di ricezione nella medicina medievale è continuata lungo tutto il XII e il XIII sec.; di fatto, l'opera di Galeno più importante, completa e disponibile in latino nel Medioevo, ossia l'imponente rassegna di fisiologia anatomica intitolata De usu partium corporis humani, è stata tradotta (direttamente dal greco) solamente all'inizio del XIV secolo. Inoltre, sebbene un discreto numero di medici eruditi del Tardo Medioevo avesse a disposizione un notevole corpus di letteratura medica, alcuni dei testi più importanti della medicina greca sono rimasti loro ignoti (per es., le Epidemiae ippocratiche complete e le opere anatomiche autentiche di Galeno).

Nell'organizzazione degli studi che si è andata affermando nel XIII sec. il sistema dell'educazione universitaria incluse la medicina come una delle tre Facoltà superiori (accanto a quelle di teologia e di diritto, e con uno status superiore rispetto alle artes liberales). La Facoltà di medicina, almeno nominalmente, era presente in quasi tutti gli studia generalia (ossia nelle università), ma nella maggior parte dei casi il numero di professori e di studenti è rimasto a quanto pare piuttosto esiguo. Le tre Facoltà universitarie più importanti per l'educazione medica sono state quelle di Montpellier, Bologna e Parigi. Montpellier era un centro di studi medici già nella metà del XII sec.; dal 1220 professori e studenti si erano organizzati in una universitas. In una Bolla papale del 1289 si riconosce Montpellier come uno studium generale dotato di tutte e tre le Facoltà superiori. Bologna e Parigi hanno avuto una storia molto simile; entrambe, sin dagli anni a cavallo tra il XII e il XIII sec., erano noti centri di studi medici, ma fino alla seconda metà del XIII sec. non si rintracciano testimonianze di una formale organizzazione accademica della Facoltà di medicina con professori, studenti, corsi ed esami. Anche Padova, una delle istituzioni più antiche, ha acquistato importanza come centro di studi medici.

Oltre a influenzare la struttura istituzionale dell'insegnamento medico, l'ambiente universitario ha portato professori e studenti a stretto contatto con le principali correnti intellettuali del tempo, in particolare con l'aristotelismo nei suoi vari aspetti. In questo contesto si sono ulteriormente rafforzate sia la convinzione che la medicina debba fondarsi sulle arti liberali e sulla filosofia naturale, sia la tendenza a privilegiare l'esegesi testuale; due aspetti che in alcuni autori emergono già alla fine del XII secolo. Si riteneva infatti che le arti liberali, e in particolar modo la logica e la filosofia naturale, fossero gli studi preparatori adeguati per la medicina. I professori universitari di medicina non soltanto mostravano un'approfondita conoscenza della filosofia naturale aristotelica, ma in molti casi applicavano i metodi scolastici di esegesi testuale anche alle opere di medicina. Gli esercizi accademici di medicina includevano le disputationes, mentre le quaestiones dei commenti medici erano argomentate adoperando tutto l'armamentario della logica scolastica.

Negli studia italiani il rapporto tra medicina, arti liberali e filosofia fu istituzionalizzato con la creazione di collegi dottorali e di università di studenti di 'arti e medicina'. Ciononostante è opportuno sottolineare il fatto che la medicina, unica tra le Facoltà universitarie medievali, era sempre rivolta verso un'attività pratica non meno che all'esegesi teorica. Lo scopo dell'istruzione medica nel suo complesso era quello di formare medici in grado di esercitare la professione, anche se la branca del curriculum definita come practica era prevalentemente insegnata attraverso una lectio basata su testi. Inoltre, i più famosi autori scolastici e professori di medicina erano essi stessi medici rinomati; Taddeo Alderotti (1215/1223-1295) ammetteva di essere stato distolto dagli studi dalla lucrativa operatio. Si dice che Gentile da Foligno (m. 1348), il quale si cimentò nell'immane impresa di commentare l'intero Canone di Avicenna, morisse di peste a causa della sua devozione all'assistenza ai malati.

Si deve con tutta probabilità al relativo prestigio e all'autonomia delle corporazioni universitarie se si è giunti alla legittimazione della dissezione dei cadaveri finalizzata all'istruzione medica. Le dissezioni hanno cominciato a essere praticate intorno al 1300 sia a Montpellier sia a Bologna. Nel corso del XIV e del XV sec. in questi, come in altri studia, esse sono state ufficialmente autorizzate dallo statuto accademico o dalle autorità pubbliche locali, o da entrambi. L'introduzione della dissezione dei cadaveri umani come parte del curriculum universitario medievale è giustamente famosa quale precedente di grande e duratura rilevanza per l'insegnamento della medicina. Le dissezioni anatomiche ufficialmente approvate, tuttavia, non erano frequenti. Come risulta evidente dal famoso manuale di anatomia scritto all'inizio del XIV sec. da Mondino dei Liuzzi (1270 ca.-1326), professore nell'Università di Bologna, le dissezioni nelle università erano usate essenzialmente per illustrare versioni semplificate della fisiologia e dell'anatomia galeniche (senza accesso, come notato in precedenza, agli scritti anatomici originali di Galeno). Non era prevista alcuna partecipazione attiva da parte degli studenti, anche se abbiamo notizia che nel XIV sec. il sezionamento di cadaveri era praticato anche privatamente da professori e studenti. Le dissezioni nell'ambito accademico, ovviamente, non erano le uniche occasioni in cui era lecito aprire cadaveri umani, specialmente in Italia. Infatti si praticavano autopsie anche per appurare un eventuale atto criminoso o per cercare segni di malattia; per l'addestramento pratico dei chirurghi; per esaminare i corpi di uomini reputati santi alla ricerca di eventuali segni di santità (Park 1994).

Tra i professori, i medici e gli autori di opere mediche, che si sono formati nelle Facoltà di medicina al momento del loro pieno sviluppo, figurano alcuni fra gli intellettuali di spicco dell'età scolastica. Fra questi, per esempio, Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.), che ha studiato e insegnato a Montpellier, e la cui carriera si è svolta tra il mondo accademico, l'esercizio della medicina alla corte reale, la diplomazia e un intenso impegno nelle controversie religiose. I suoi numerosi scritti ‒ alcuni dei quali sono attualmente disponibili in edizioni critiche moderne ‒ includono accurate esposizioni basate sui trattati originali di Galeno, nonché un tentativo di sviluppare un metodo per introdurre le proporzioni matematiche nella preparazione dei composti farmaceutici. Pietro d'Abano (1250 ca.-1315), che ha studiato e insegnato a Parigi e a Padova, era famoso in egual misura per la sua erudizione in materia di medicina, filosofia naturale e astrologia. La sua principale opera medica, il Conciliator, è una summa medica presentata sotto forma di quaestiones scolastiche, il cui scopo era quello di individuare e spiegare le principali differenze tra i filosofi e i medici, vale a dire tra la tradizione aristotelica e quella galenica, nonché tra le varie auctoritates della medicina.

Come indica il titolo dell'opera di Pietro d'Abano, lo scopo di tali quaestiones, nella medicina come in altre discipline, era di norma quello di arrivare a una conciliazione. Sebbene molte quaestiones su determinati argomenti siano rimaste invariate nei secoli, altre riflettono i cambiamenti di interessi intervenuti successivamente. Un tema cui i medici scolastici hanno dedicato particolare attenzione tra il XIII e il XV sec. è stato quello dell'elaborazione di una teoria onnicomprensiva della complessione (krãsis o temperamento, ossia l'equilibrio delle qualità elementari). L'approccio scolastico portava però i professori di medicina a focalizzare l'attenzione sull'esistenza di diversità di opinione tra le principali auctoritates antiche riguardo a problemi centrali nella fisiologia. Tra questi rientravano, per esempio, le spiegazioni radicalmente divergenti fornite da Aristotele e Galeno su tematiche come le funzioni del cuore e del cervello, o del ruolo svolto dal genitore femminile nel concepimento.

I medici accademici prestavano molta attenzione allo statuto epistemologico della loro disciplina, tentando di stabilire se una parte di essa potesse essere considerata una scientia in senso aristotelico, ossia in grado di offrire una conoscenza certa delle verità universali, cui si giungeva per il tramite di una dimostrazione razionale. Molti di loro insistevano nel rivendicare alla medicina lo status di scientia, assegnandole una posizione di rilievo nella gerarchia delle scienze dell'epoca, oppure puntando sulla sua relazione privilegiata con la filosofia naturale (in contrasto con Ugo di San Vittore, teologo del XII sec., il quale aveva collocato la medicina fra le arti meccaniche). Tuttavia essi davano anche risalto al fine eminentemente pratico della disciplina, riconoscendo come scientia solamente la parte più propriamente teorica o dottrinale, oppure sfruttando, con qualche variante, la formula che descriveva la medicina tanto come scienza quanto come arte.

I cambiamenti di circostanze avvenuti nel Tardo Medioevo hanno prodotto nuovi generi di letteratura medica e nuovi indirizzi nell'insegnamento della disciplina. Nelle opere specializzate ‒ come, per esempio, nei trattati sulla peste e, in seguito, in quelli sulla sifilide ‒ i medici cercano di applicare il loro sapere ai problemi posti dalle malattie del tempo. Nel corso del XIV e del XV sec. proliferano i consilia indirizzati ai singoli pazienti (il primo dei quali era apparso nel XIII sec., probabilmente sul modello dei consilia legali), tanto che nel XV sec. alcuni medici lasciano ai loro allievi o eredi centinaia di consilia da pubblicare in raccolte (Agrimi 1994a). I consilia sono in realtà resoconti di consulti che, accanto alla descrizione del paziente e della storia della sua malattia ‒ informazioni non presenti però in tutti gli esempi ‒, offrono consigli per la terapia e ricette, senza fare cenno agli esiti della cura. Le raccolte di consilia potevano contribuire a propagare la fama di un dato medico, ma a quanto sembra erano assemblate e sistematizzate ‒ nonché, nel tardo XV e nel XVI sec., stampate ‒ principalmente per fini di studio. Nonostante in molti casi manchi una descrizione del paziente o della malattia, la popolarità di queste raccolte di consilia potrebbe indicare un cambiamento di interesse verso casi individuali e particolari, quale si osserva in altre aree della scienza medica del XV sec. (Jacquart 1990a).

In conclusione, tra il XII e il XV sec. la medicina occupa un posto di rilievo tra le discipline più erudite. I medici dell'Europa tardo-medievale hanno assimilato e hanno assunto come base una complessa tradizione medica giunta loro in varie forme da una molteplicità di fonti diverse. Senza dubbio, la medicina accademica favoriva gli interessi professionali, economici e sociali di un'élite medica che, rivendicando a sé una cultura superiore, prendeva le distanze da quanti praticavano questa disciplina empiricamente. Nello stesso tempo, la presenza della medicina fra le più alte discipline accademiche ha contribuito a orientare l'attenzione verso un'importante area della conoscenza della Natura (assai più estesa della medicina in senso stretto) e un ricco patrimonio di testi. In questo senso l'erudizione medica ha fornito una significativa alternativa all'aristotelismo su questioni importanti (per es., il meccanismo della riproduzione umana).

Elemento forse ancora più importante, l'insegnamento medico scolastico presentava lo studio del corpo umano, sia sano sia malato, come un'impresa nobile e degna di lode. Nella società in generale ‒ ma specialmente negli ambienti più colti degli ecclesiastici, dei cortigiani e dei cittadini ‒ la medicina dotta, basata sull'analisi dei testi, sembra essere stata rispettata e molto richiesta. In effetti, nonostante occasionali espressioni di disillusione o di critiche morali, il sistema di insegnamento e di erudizione che abbiamo finora descritto è sopravvissuto facilmente alle disastrose epidemie di peste del XIV secolo. A conferma di ciò, parti significative di questo sistema hanno continuato a esistere per tutto il XVI sec. e oltre, accanto alla nascita dell'umanesimo medico e della nuova anatomia.

Chirurgia e strumenti chirurgici

di Giovanna Ferrari

L'eredità del passato e la formazione di un nuovo quadro sociale e istituzionale

Anche la chirurgia occidentale, come la medicina, percorse a partire dal Mille un tragitto di progressivo irrobustimento teorico, accompagnato dal moltiplicarsi delle opere scritte e dalla definizione dei connotati istituzionali della disciplina-professione, prima all'interno della Scuola salernitana poi nelle università. Inoltre la chirurgia, come la medicina, si nutrì del recupero della tradizione greco-araba e greco-latina. Il lavorìo dei traduttori iniziò già prima del Mille nei territori islamizzati (nel IX sec., a Baghdad, Iohannitius [Ḥunayn ibn Isḥāq] tradusse in arabo varie opere di Ippocrate e Galeno, redigendo le Questioni sulla medicina, che costituirono la base teorica della medicina arabo-galenica) e proseguì in Occidente in diverse fasi. Alla fine dell'XI sec. il monaco cassinense Costantino l'Africano sintetizzò e tradusse in latino, col titolo di Isagoge, le Questioni di Iohannitius, e adattò l'enciclopedia medica Kitāb al-Malaki (Liber regalis) di ῾Alī ῾Abbās, denominando l'opera col titolo grecizzante Pantegni, e selezionandone la parte chirurgica in una pseudoepigrafa Chirurgia.

Nella seconda metà del XII sec. Gherardo da Cremona tradusse a Toledo numerosissime opere mediche, tra cui il Canone di Avicenna, il Kitāb al-ṭibb al-Manṣūrī (Liber Almansoris) di al-Rāzī, il cui nono libro è dedicato alla chirurgia, e il testo chirurgico più importante per il Medioevo, il trentesimo libro ‒ la Chirurgia ‒ dell'enciclopedia medica Kitāb al-Masrif di Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī (Abulcasis), debitore della grande tradizione galenica e bizantina. Nel XIII sec. furono tradotte, prima dall'arabo e poi dal greco, le opere del corpus zoologico di Aristotele; nel XIV sec. Niccolò da Reggio tradusse diverse opere galeniche direttamente dal greco, tra cui il De usu partium. Un'ultima data determinante per la storia della chirurgia di questo periodo è il 1428, data del ritrovamento del De medicina di Celso, opera che contiene ampie parti di interesse anatomo-chirurgico; tuttavia il testo chirurgico più importante della tradizione greco-bizantina, il Libro VI dell'Epitome medica di Paolo di Egina, su cui si basò anche Abulcasis, fu invece disponibile nell'originale greco solo nel tardo Quattrocento, in manoscritto, e a stampa nel XVI secolo.

Le tappe del recupero degli antichi testi furono decisive per tutta la medicina e per la sua costituzione in dottrina universitaria, processo nel quale svolse un ruolo fondamentale fin dal XII sec. l'invenzione (o la riscoperta, il dibattito è tuttora aperto) della metodologia didattica basata su commentarii e quaestiones. La medicina teorica impostata dai salernitani si sviluppò ulteriormente a partire dal XIII sec. a Bologna, Parigi, Montpellier e Padova, sotto l'impulso dato dalle traduzioni aristoteliche, e mentre il medico divenne il più nobile physicus, cioè uno scienziato che condivideva con il filosofo scolastico il sapere sulla Natura, anche i practici iniziarono a distinguersi dai semplici operatori della salute proprio perché si procuravano sui libri e nelle università il sapere teorico fondamentale.

A mano a mano che la chirurgia trovava posto tra i curricula universitari si delineava anche la sua separazione dalla medicina. Per decreto di Federico II (1240 ca.), a Salerno e Napoli il chirurgo che voleva esercitare doveva documentare di avere studiato per un anno almeno presso i maestri della Facoltà medica "quella parte della medicina su cui poggia la perizia del chirurgo, e in particolare [...] l'anatomia dei corpi umani" e di possedere esperienza in quella branca della medicina "senza la quale non potranno con vantaggio per la salute né essere eseguite incisioni, né venir curate le ferite" (Costituzione di Federico II, in Agrimi 1980, pp. 165-166). Un corso breve a confronto dei nove anni, tra studio e tirocinio, richiesti a un medico.

A Montpellier nel 1239 i chirurghi furono espressamente esclusi dalla licenza medica (v. Statuti dell'Università di Montpellier, in Agrimi 1980); a Parigi, alla metà del Trecento, il chirurgo certificato come esperto poteva aspirare al grado di licenziato, che gli consentiva di praticare, ma chi prendeva i gradi in medicina doveva giurare di non operare manualmente. Nello Studio bolognese e pavese gli statuti dell'inizio del Quattrocento, i primi conservati, regolamentavano la licenza in chirurgia rispecchiando la sproporzione tra rilievo accademico dell'una e dell'altra disciplina; a Padova, nel XV sec., esisteva una variegata stratificazione accademica che contemplava, al di sotto del doctor physicus, il licenziato in chirurgia latino sermone e vulgari sermone, di fatto assimilato al barbiere.

In realtà, la percentuale di chirurghi che si impegnavano negli studi o affrontavano (e pagavano) gli esami per ottenere la licenza, durante il Duecento e il Trecento (ma anche nel secolo successivo), restò irrisoria rispetto alla massa di uomini, e di donne, che si occupava di cure medico-chirurgiche al di fuori di ogni istituzionalizzazione. Le sedi ufficiali di formazione (università o collegi medico-chirurgici oppure corporazioni) erano comunque concentrate nelle maggiori città, e dunque poche rispetto alle potenzialità del mercato della cura. Inoltre, l'investimento nella formazione non assicurava un futuro professionale privilegiato, sia perché il valore didattico del tirocinio e dell'esperienza pratica restava predominante, sia perché il chirurgo doveva fare i conti con un mercato terapeutico stratificato e competitivo.

Innanzi tutto, nel campo della pratica chirurgica a volte entravano anche i medici physici (come dimostrano i divieti degli statuti francesi sopra ricordati e le accuse di chirurghi come Enrico di Mondeville nel XIV sec. o di Leonardo da Bertipaglia nel XV). Fra di essi esisteva inoltre un gruppo, per quanto minoritario e diffuso soltanto in alcune regioni, di medici ebrei rinomati, spesso chiamati al capezzale di nobili e regnanti; esclusi dalla formazione nelle istituzioni cristiane, e dunque privi di titoli, essi erano spesso dottissimi e aggiornati anche sulle opere di chirurghi di altra religione, arabi e cristiani, come dimostrano i manoscritti in ebraico della Cyrurgia magna di Lanfranco da Milano (m. 1306?) o le discussioni tra medici spagnoli analizzate da García-Ballester. In secondo luogo, nelle città ‒ in cui si stava strutturando una doppia élite, composta da clienti borghesi e da medici e chirurghi autorevoli per dottrina ‒ e soprattutto nei piccoli centri e nelle campagne, la medicina immediata e a basso costo era offerta da un complesso mondo di operatori illetterati. Erano cavadenti, flebotomi, barbieri, conciaossa, guaritori, empirici specializzati in trattamenti chirurgici particolari (ernie, calcoli vescicali, ferite), e un folto numero di donne, soprattutto ostetriche, guaritrici (vetulae) esperte di erbe, pozioni e, a volte, di incantamenti sospetti, ma anche 'medichesse' e chirurghe accreditate per le stesse cure dei colleghi uomini.

Su queste figure escluse dalla produzione della scrittura, in specie sulle donne, la documentazione è scarsa, spesso 'negativa'; sono citate incidentalmente negli atti e negli scritti privati, nei registri catastali, negli interventi ecclesiastici, oppure nei provvedimenti ripetutamente presi dalle corporazioni concorrenti per limitarne l'attività (v. cap. XXVII, par. 3). Un'altra fonte di informazioni al riguardo, per quanto parziale e deformata dall'intento polemico, è la trattatistica dei grandi chirurghi medievali, nella quale i praticanti del volgo compaiono in relazione a terapie o strumenti approssimativi e sono accomunati alle donne nell'accusa di infangare l'arte; nel proemio dell'Inventarium o Chirurgia magna di Guy de Chauliac, addirittura, sono equiparati a una setta da combattere. L'ostracismo invocato nei loro confronti dai chirurghi dotti, che patiscono dall'alto la discriminazione dei physici e dal basso la concorrenza dei layci, è motivato con la mancanza di dottrina, ed è proprio su questo terreno che la chirurgia medievale conduce la propria battaglia di legittimazione.

L'avvio di una nuova tradizione scritta

Sui percorsi professionali seguiti dai grandi maestri del XII e XIII sec. ‒ da Ruggero Frugardi a Ugo e Teodorico Borgognoni da Lucca, a Bruno da Longoburgo, a Guglielmo da Saliceto, fino a Lanfranco da Milano ‒ sappiamo poco, sostanzialmente ciò che è detto nelle loro opere. Erano Italiani e si muovevano nell'ambito delle città comunali, un ambiente sociale effervescente, ricco di opportunità professionali e culturali. Pur non provenendo dalla più prestigiosa scuola medica dell'epoca, la Scuola salernitana, erano al corrente delle opere che questa aveva divulgato; ricevevano i primi rudimenti nelle scuole vescovili e si perfezionavano in medicina e chirurgia nelle città del Nord Italia, all'ombra di qualche grande maestro, o, come nel caso di Teodorico Borgognoni, sulle orme del padre. Una volta compiuta la formazione, svolgevano un'intensa attività pratica in centri urbani che in alcuni casi, ma non necessariamente, erano anche sedi universitarie. A volte erano assunti dalle autorità locali su contratto come medici-chirurghi, e come tali seguivano sia i cittadini sia le truppe militari del luogo; insegnavano a gruppi di allievi, spesso futuri chirurghi di fama, come magistri di scholae private, ma non erano inquadrati in una struttura didattica che garantisse un insegnamento stabile di tipo accademico.

In questa situazione ancora indefinita, nella quale il chirurgo dotto era un professionista itinerante anche ben pagato, ma esposto ai rovesci della fortuna ‒ come Guglielmo da Saliceto, ghibellino, che lasciò Bologna per Verona a seguito delle lotte comunali, o Lanfranco da Milano, costretto all'esilio da un bando di Matteo Visconti ‒ assunse un rilievo particolare il fiorire di una letteratura specialistica originale, con opere che divennero subito libri di testo ‒ fin dall'inizio del XIII sec. ‒ e tali rimasero, in alcuni casi, anche in epoca umanistica o addirittura fino al XVII sec. (come l'Inventarium di Guy de Chauliac). In questi trattati, spesso ripetitivi, non è facile discernere il peso della riscrittura della tradizione rispetto all'esperienza personale, né è facile estrapolare un quadro realistico della pratica chirurgica usuale e del tasso di successo/insuccesso che la caratterizzava. Gli strumenti chirurgici conservatisi, per esempio, sono assai rozzi rispetto a quelli di epoca romana e inadatti alle operazioni, di frequente delicate, comunemente descritte nelle opere del periodo; le procedure di disinfezione, emostasi, sutura e cura postoperatoria erano molto primitive se non decisamente controproducenti. Tuttavia, nel tempo queste opere cambiarono anche sensibilmente nella forma e nel contenuto; gli autori tentarono nuove sistemazioni del materiale e affrontarono testi e problemi nuovi, relativi alla pratica concreta, e, contemporaneamente, si dedicarono alla difesa di un'idea di chirurgia sempre più ambiziosa e complessa. I primi autori, poco più che praticanti letterati, lasciarono il posto a dotti chirurghi di re e pontefici, competenti in testi classici e dispute scolastiche, agguerriti contro chiunque costituisse una minaccia per la professione.

Escludendo un'anonima compilazione di ispirazione salernitana della prima metà del XII sec. (la cosiddetta Chirurgia di Bamberga), il trattato chirurgico più antico, di poco posteriore, è la Cyrurgia (o Practica chirurgiae, o Post mundi fabricam, dall'incipit) di Ruggero Frugardi da Parma, redatta probabilmente in volgare e poi rimaneggiata da un letterato dello Studio parmense, Guido d'Arezzo, verso il 1180. Forse proprio perché priva di antecedenti, è un'opera di impianto pratico, fresca e ricca di particolari desunti ‒ sembrerebbe ‒ dall'esperienza diretta, soprattutto di cura delle ferite di guerra, poco incline alla citazione delle autorità (solo l'Ippocrate degli Aforismi) e apparentemente estranea alla tradizione salernitana. Strutturata tradizionalmente a capite ad calcem, l'opera si prefigge di riordinare la materia chirurgica, intesa come quel ramo della medicina pratica "che per opporsi a corruzioni producentesi all'esterno e ledenti la continuità del corpo si assume, anche per la dignità del benefico risultato da raggiungere, un compito di chirurgia", cioè di intervento manuale, secondo il tradizionale etimo del termine (Cyrurgia, Proemio).

I quattro libri di cui l'opera è composta affrontano: (I) le malattie del capo; (II) del collo e della gola; (III) delle estremità superiori, di torace, addome e organi genitali; (IV) delle estremità inferiori e di alcune patologie gravi (lebbra, elefantiasi, tetano, ecc.). Vi sono elencate le principali azioni chirurgiche, che si ritrovano costantemente ‒ salvo rare eccezioni ‒ nella trattatistica posteriore; nel Libro I, la cura di ferite e fratture del cranio con la trapanazione; l'asportazione di polipi nasali, tumori, escrescenze; la cura del mal di denti e d'orecchio, delle pustole e macchie della pelle; la cura di vari disturbi neurologici e mentali (mania, melanconia, epilessia) con cauterizzazioni e trapanazione. Nel Libro II l'attenzione si fissa sul trattamento delle ferite del collo e della nuca, sulla cura delle scrofole, degli ascessi, delle fistole, del gozzo. Nel III sono affrontate le ferite e le lussazioni del tronco e degli arti superiori, le fistole, gli ascessi e i cancri (confusi con ulcere e fistole), specie dell'addome e dei genitali, le emorroidi, con l'importante appendice delle due operazioni di estrazione di calcoli vescicali (per via perineale) e di ernia (sia con taglienti sia con cauteri). Nell'ultimo libro sono trattate le ferite e le fratture degli arti inferiori, con il relativo corredo di cure per ascessi, fistole e cancri.

L'uso del cauterio è frequente ma non approfondito nei particolari, come è invece tipico della tradizione araba e degli autori posteriori a partire da Rolandino. Sono descritte la legatura dei grandi vasi recisi (se piccoli li si cauterizzava), la medicazione con polveri essiccanti, con albume d'uovo, ma anche con lardo per non far chiudere le ferite e favorire la suppurazione. Mancano indicazioni anatomiche specifiche sulle parti da trattare; l'interesse per la teoria e la diagnostica è scarso e molte malattie comuni sono trascurate. Sono presenti alcuni ritrovati, come la cenere di spugna, ricca di iodio, per curare il gozzo, o l'uso della spugna soporifera imbevuta di succhi vegetali (papavero, giusquiamo, ecc.) per anestetizzare i pazienti, e metodi di riduzione per lussazioni, o indicazioni particolari su come eseguire l'operazione di ernia, che fanno pensare a una conoscenza della tradizione greco-araba rivista alla luce dell'esperienza (è suggerito nell'ultimo caso di disporre il paziente su di un piano inclinato con i piedi in alto, secondo la posizione conosciuta attualmente come 'posizione di Trendelenburg').

L'esperienza conduce l'autore anche a sconsigliare interventi azzardati sulle ferite al ventre, per l'alto tasso di mortalità; poiché il pericolo immediato in questi casi è il 'raffreddamento' dei visceri, Ruggero raccomanda di poggiare sugli intestini scoperti il ventre tagliato di un animale ancora vivo, che possa trasmettere il calore vitale (un espediente che rimarrà nella tradizione a lungo); per quanto riguarda l'intestino, consiglia di suturare una ferita attorno a una cannula di sambuco. A proposito della trapanazione del cranio e degli strumenti necessari, mancano alcune importanti indicazioni disponibili nella Chirurgia di Costantino l'Africano, la prima opera chirurgica adoperata nella Scuola salernitana. Anche per questo motivo gli studiosi concordano ormai nell'escludere l'appartenenza di Ruggero a questa scuola; è vero però che il suo trattato vi venne utilizzato come libro di testo, arricchito con le glosse mediche dei cosiddetti Quattro Maestri.

In realtà la fortuna della Cyrurgia di Ruggero è attribuibile al rimaneggiamento che ne fece, pochi decenni dopo, il suo allievo Rolando Capelluti, o Capezzuti, proveniente da Parma ma trasferitosi a Bologna all'inizio del XIII sec. La notissima Rolandina, redatta in data incerta entro la metà del Duecento, conservò l'impianto e pressoché tutto il contenuto del trattato di Ruggero, con qualche correzione e aggiunta che purtroppo non eliminarono il caos compositivo della fonte, specie nei Libri II-IV. Sul piano strettamente chirurgico le principali novità riguardano l'attenzione ai tumori (trattati invece confusamente da Ruggero) e alla loro eziologia umorale, secondo la teoria di Avicenna e Galeno, e la possibilità di curare alcune ferite ai polmoni negata invece da altri chirurghi, Ruggero compreso. La peculiarità specifica della Rolandina rispetto all'opera di Ruggero è l'arricchimento del patrimonio teorico della chirurgia grazie agli apporti della riflessione medica contemporanea.

Vanno in questa direzione (e non mancheranno più nelle opere successive) il richiamo, nel proemio, alla divisione tra medicina teorica e medicina pratica; la collocazione della chirurgia all'interno di quest'ultima, dopo dieta e pozione, come applicazione dei principî di 'soluzione di continuità' (incisione del corpo, chiusura delle ferite) e di eliminazione del superfluo; la descrizione dei medicamenti che il chirurgo doveva accompagnare all'intervento manuale; l'attenzione alle teorie medico-anatomiche, molto approssimative peraltro, riguardanti 'le cellule' e le membrane cerebrali. Anche il riferimento alla teoria umorale e ad Avicenna, il cui Canone era stato da poco tradotto in latino, è frutto del posizionamento della chirurgia all'interno della dottrina medica più aggiornata. Rolando dedicava inoltre molto più spazio di Ruggero ai cauteri e al loro uso e utilizzava l'opera scritta non solamente per tramandare conoscenze, ma anche per criticare il predecessore (in un paio di casi) ed esibire i propri successi, come faranno sempre più vistosamente i chirurghi a venire.

Ugo e Teodorico Borgognoni, Bruno da Longoburgo

Nella città, Bologna, e nel periodo, la prima metà del XIII sec., in cui lavorava Rolando, operava anche Ugo Borgognoni, lucchese, chiamato e stipendiato dal Comune bolognese nel 1214 per esercitare la chirurgia. Nel 1219-1220 egli seguì come medico comunale le truppe cittadine in Siria, durante una spedizione della quinta Crociata. Oltre a queste attività, Ugo Borgognoni insegnava privatamente; al suo seguito si formarono Teodorico Borgognoni, uno dei suoi quattro figli, e Bruno da Longoburgo, autori di due trattati chirurgici assai simili. Ugo invece non lasciò nulla di scritto, anzi, secondo quanto testimoniato da Teodorico e Bruno, impose ai suoi figli e agli allievi il silenzio sul suo insegnamento, secondo il vecchio modello dell'apprendistato artigianale; perciò è soltanto attraverso le loro opere che lo conosciamo.

Teodorico Borgognoni, medico-chirurgo di fama e autore di numerose opere tra cui una originale Cyrurgia, era un alto prelato domenicano; prese gli ordini a Bologna, diventò penitenziere di Innocenzo IV a Roma negli anni Quaranta, poi divenne vescovo di Bitonto e infine di Cervia (1266). Svolse questi incarichi risiedendo a Lucca e poi a Bologna; morì, vecchissimo, nel 1298. Un permesso speciale pontificio gli concesse di poter praticare la medicina e di essere retribuito, nonostante le ripetute proibizioni della Chiesa (Concili di Tours e IV lateranense; Bolla di Onorio III che vietava agli ecclesiastici di frequentare le scuole di medicina). Nel 1284 era ancora medicus domini pape sotto Martino IV. La Cyrurgia di Teodorico è nota in quattro stesure (dagli anni Quaranta ai Sessanta inoltrati), ognuna diversa nella scelta dei disturbi trattati e nell'uso delle fonti; metodi e ritrovati spesso sono attribuiti al padre (citato quarantacinque volte, contro una settantina di volte ciascuno per Avicenna e Galeno).

Senza dubbio una di queste stesure (la seconda, della metà del XIII sec.) mostra forti somiglianze con la contemporanea Cyrurgia magna di Bruno (1252), il quale dopo la formazione bolognese si era trasferito a Padova; per questo motivo dal Medioevo fino al Settecento Teodorico è stato considerato un suo plagiario, il che è solo parzialmente vero. L'opera di Teodorico infatti è più ampia e ha una coloritura personale che manca in quella di Bruno. Entrambi comunque concordano nel definire la chirurgia come "operazione manuale sul corpo destinata a curare e guarire", esaltandone il carattere di disciplina eminentemente pratica che tuttavia non può essere padroneggiata dagli illetterati poiché richiede dimestichezza con la dottrina medica (Bruno, Cyrurgia magna, Proemio). Entrambi citano frequentemente le proprie fonti, alcune delle quali da poco entrate nella biblioteca del medico-chirurgo, ossia la Chirurgia di Abulcasis, i passi di interesse chirurgico del Canone di Avicenna e del Liber Almansoris di al-Rāzī, che si aggiungono al Megategni, versione costantiniana della Methodus medendi di Galeno.

Da queste opere, in particolare dalla Chirurgia di Abulcasis, largamente debitrice di Paolo di Egina, Teodorico e Bruno derivano una maggiore attenzione agli elementi clinici, a certi interventi (come la paracentesi nell'idropisia e la sutura con budello animale) e agli strumenti chirurgici, specialmente i cauteri e gli attrezzi per una efficace trapanazione cranica (il trapano 'abatista', con un blocco per non affondare oltre l'osso; il coltello lenticolare per asportare i frammenti senza ledere le meningi). Nonostante le differenze di composizione, di contenuto e anche di accento (la Cyrurgia magna di Bruno ha un carattere compilativo-cumulativo, mentre la Cyrurgia di Teodorico scorre sull'unico piano della pratica chirurgica allora corrente, incrociandola a pari livello con le citazioni dai maestri), "in una certa misura i due testi possono essere considerati un'unica opera" (McVaugh 1993b, p. 383).

La Cyrurgia di Teodorico non segue il tradizionale andamento a capite ad calcem ed è suddivisa in quattro parti tematiche: (1) ferite o soluzioni di continuità in generale e loro cause, cura e bendaggio, medicazioni e medicamenti delle carni, emorragie, ferite dei nervi, contusioni dei muscoli, ascessi, estrazione di frecce e simili, diete e cure, pozioni e misture; (2) ferite e traumi della testa e del viso con relative cure, ferite in altre parti del corpo e delle vene, fratture e lussazioni di tutte le parti del corpo; (3) fistole, cancri, ascessi, vesciche, pustole, ghiandole, lipomi, idropisie, ernie, porri, calli, nei, emorroidi, calcoli, eczemi, lentiggini, lebbra, con un capitolo sui cauteri; (4) epilessia, argomenti di oculistica, medicina interna e del ricambio (gotta, artrite, paralisi), preparazioni farmacologiche. Opera discontinua per il sovrapporsi di acute indicazioni e fantasticherie (per es., l'ebollizione di sangue dalle ferite profonde a ore fisse), è rimasta nella storia per alcune importanti innovazioni, o meglio tentativi di innovazione, come, per esempio, la disinfezione delle ferite con vino caldo (primo tentativo di asepsi, attribuito al padre Ugo) e la loro medicazione non troppo frequente (ogni 3 o 5 giorni salvo dolore), con sutura o senza a seconda della profondità della lesione, al fine di asciugare e far cicatrizzare rapidamente la ferita senza provocare suppurazione (cioè per primam intentionem). Era infatti un luogo comune della chirurgia salernitana che alla guarigione giovasse più l'umido che il secco. Teodorico invece ‒ sulla scia del padre, e forse di Abulcasis ‒ era convinto del contrario, ma, consapevole della difficoltà che le sue posizioni avrebbero incontrato, affermava: "temo che ora noi ariamo nella sabbia, inquantoché nonostante tutto, essi [i sostenitori dei vecchi metodi] non si ritrarranno dai loro errori; è difficile infatti abbandonare le cose alle quali si è abituati e forse è meglio lasciare che coloro che sono in errore continuino a sbagliare [...]" (Cyrurgia, II, 11).

In effetti, la metodica antisuppurativa di Teodorico ebbe sì sostenitori, come Guglielmo da Saliceto ed Enrico di Mondeville, ma anche importanti oppositori, tra cui Lanfranco e Guy de Chauliac, che contribuirono a bloccare per secoli la ricerca sull'asepsi. Un altro elemento nuovo introdotto dalla Cyrurgia riguarda la dieta dei feriti, che fino ad allora era stata molto rigida, mentre Teodorico riteneva importante l'assunzione di vino al posto dell'acqua "per far sangue" (sue fonti erano, con la stessa autorità, il padre Ugo e Galeno, Methodus medendi, VIII, 3). Sul punto si aprì un ampio dibattito in Europa, tra avversari della teoria di Teodorico (Guglielmo da Saliceto) e suoi sostenitori (Enrico di Mondeville).

Bisogna infine ricordare che nella Cyrurgia di Teodorico si trova un'ampia sezione dedicata ai medicinali, tra cui molti nuovi, soprattutto oli, 'acque chirurgiche' per gli usi più disparati, e caustici, sostanze capaci di bruciare i tessuti infetti e di procurare una parziale asepsi. Questa sorta di antidotario, precursore delle sezioni separate che si trovano nelle opere chirurgiche successive (a partire da Lanfranco), comprende anche carbonati e ossidi di diversi metalli, combinati con oli vegetali e animali, cere, erbe, sostanze alimentari. Nella tradizione medico-chirurgica questi preparati venivano trattati meccanicamente, diluendoli, seccandoli, triturandoli o tutt'al più bollendoli per asciugarne l'umidità in eccesso. Bruno, ma soprattutto Teodorico, introdussero fra di essi alcune sostanze ottenute con metodi propriamente chimici in uso presso i contemporanei alchimisti (in particolare la sublimazione, suggerita già da al-Rāzī e Avicenna).

Guglielmo da Saliceto, Lanfranco da Milano e il rapporto medicina-chirurgia

A Guglielmo e a Lanfranco si deve un'ulteriore trasformazione della trattatistica e della dottrina chirurgica. Se Teodorico e Bruno indicavano lo studio degli autori come una parte della formazione del chirurgo, l'accento cadeva comunque sull'esperienza pratica, artigianale, come suo punto focale. Teodorico chiudeva la Cyrurgia dichiarando: "Io, in questo libro, non ho voluto includere nulla che non fosse stato da me provato". Guglielmo, che voleva mostrare la natura scientifica della chirurgia (definita scientia operativa), azzardava al contrario che "si può possedere questa scienza senza avere mai agito in essa". Benché essa si applichi al caso particolare e necessiti dell'operazione manuale, molti che fanno solo esperienza pratica "operano contro ogni ragione e senza motivo, e anche in modo errato", perciò "a buon diritto è reputato il medico migliore colui il quale ha meglio appreso ad adattare o a combinare i principî generali a un caso particolare" (Cyrurgia, Proemio).

Riecheggiano qui le discussioni che, nel Duecento avanzato, occupavano gli interpreti della tradizione aristotelica nell'intento di dare una sistemazione a quelle discipline, come la medicina, in cui convivevano problematicamente aspetti teorici e fini pratici. Già Teodorico e Bruno utilizzavano numerosi autori di recente introduzione nel patrimonio medico-chirurgico e ampliavano l'arsenale chirurgico traendo suggerimenti da quello, amplissimo, di Abulcasis. Guglielmo e Lanfranco, a distanza di pochi anni o decenni, erano ormai impregnati dei concetti e delle discussioni scolastiche che accompagnavano l'assorbimento delle lezioni di Avicenna e Aristotele, dei dibattiti tra scientia e ars, della consapevolezza di quanto la trasmissione didattica ‒ e non più artigianale ‒ fosse costitutiva di una disciplina che voleva essere scientifica, e delle discussioni interne tra galenismo, avicennismo e aristotelismo. In realtà, l'opera di Guglielmo costituiva un fine tentativo di mediazione tra le istanze di una nuova chirurgia, della quale valorizzava il contenuto razionale, e l'esperienza del clinico e operatore manuale, quale egli stesso si descriveva nei numerosi e vivaci casi che erano contenuti nella Cyrurgia.

Nativo del piacentino, Guglielmo da Saliceto (1210-1276/1280), dopo i primi studi a Piacenza, si formò come medico alla medesima Scuola bolognese di Rolando, Ugo e Teodorico Borgognoni, di Bruno da Longoburgo e di Bono del Garbo, a cui è dedicata la Cyrurgia. Con i colleghi condivise il destino professionale di rinomato pratico itinerante, chiamato in varie città (Piacenza, Bologna, Pavia, Milano, Verona, ecc.) a medicare per un committente pubblico, in carceri, piazze e ospedali, e nelle case di facoltosi privati (a Ferrara, a Cremona), mentre teneva contemporaneamente lezioni a un folto gruppo di futuri chirurghi (tra cui Lanfranco da Milano). Già avanti negli anni scrisse due trattati, la Cyrurgia, in due stesure (1268 e 1275) e una Summa curationis et conservationis corporis, facenti parte di un programma complessivo di formazione medica e chirurgica che cronologicamente sembra coincidere con il momento in cui allo Studio bolognese si strutturò l'insegnamento della medicina intorno a Taddeo Alderotti.

La Cyrurgia è divisa in 5 libri (a volte l'ultimo è ulteriormente suddiviso): (I) le infermità di tutto il corpo e i loro trattamenti, compresi l'idrocefalo infantile, i tumori, i calcoli e l'ernia, ma anche le malattie dei denti, i paterecci, le croste del tallone, il sudore eccessivo; (II) le ferite e le contusioni; (III) le fratture e le lussazioni; (IV) l'anatomia generale; (V) i cauteri e i farmaci. I primi tre libri sono organizzati a capite ad calcem, cominciando dalle malattie dovute a cause interne per proseguire con quelle di origine esterna, con una particolare attenzione, nelle cure chirurgiche, all'anatomia locale. In generale Guglielmo prestava molta attenzione all'eziologia umorale e tendeva a evitare operazioni inutili (incurabili per definizione riteneva le ferite al cuore, ai reni, alla vescica, ma anche i cancri, da trattare con palliativi) o pericolose (come quella di ernia inguinale, che comportava il taglio o la legatura del funicolo spermatico e dunque la castrazione). Anche per l'operazione di cataratta (introdotta da Bruno attraverso la mediazione degli Arabi, che si erano ispirati a Paolo di Egina), considerata impegnativa, consigliava di non azzardarvisi senza essere esperti.

Guglielmo era competente nelle ferite belliche e polemizzava con la tradizione (Avicenna, Teodorico) sia a proposito dell'uso di recidere totalmente il nervo lesionato prima di suturarlo, sia sull'inserimento di cannule di sambuco negli intestini da suturare (Ruggero e Rolando), sistema che egli giudicava letale. Nell'opera sono presenti molti accenni a interventi sui bambini; sulle medicazioni si adottano i suggerimenti di Ugo e di Teodorico (vino e bendaggi distanziati nel tempo) e sulle fratture si mostra molta attenzione ai differenti segni che le contraddistinguono, scegliendo di conseguenza il trattamento.

Le indicazioni cliniche e operative contenute nei primi tre libri sono di notevole valore, corredate di numerosi esempi e casi, ma senza dubbio la novità più ricca di conseguenze è l'introduzione della sezione dedicata all'anatomia. Quella di Guglielmo è un'anatomia succinta e topografica, finalizzata esplicitamente all'addestramento dei futuri chirurghi, affinché nel taglio non danneggino le parti vicine e conoscano bene i percorsi delle vene da flebotomizzare; non priva di confusioni e inesattezze (non è chiaro fino a che punto sia frutto di osservazioni personali), è diversissima dall'anatomia dettagliata e contaminata di fisiologia di Mondino dei Liuzzi (1316 ca.), il quale tuttavia vi si ispirò in più punti. Per quanto la presenza di digressioni anatomiche nelle opere arabe, che Guglielmo conosceva bene (al-Rāzī, Avicenna), lo abbia senza dubbio ispirato, questo ampliamento della dottrina chirurgica verso una competenza scientifica costituisce un avanzamento di notevole rilievo per la chirurgia e un deciso avvicinamento al sapere del physicus.

Altre caratteristiche che rendono la sua Cyrurgia un'opera più completa e sistematica delle precedenti sono l'importanza data alla deontologia professionale e l'aggiunta di una sezione sui cauteri; Guglielmo inoltre semplificò la gamma degli strumenti tramandati dalla tradizione (specie da Abulcasis) indicandone l'uso e ridimensionandone tuttavia l'utilità a favore dei taglienti (bisturi), di tradizione greco-latina e bizantina. Nel corso dell'opera sono menzionati anche altri strumenti di uso comune, quali le coppette per la scarificazione (si applicavano sulla pelle raschiata ottenendo il vuoto all'interno), i flebotomi, gli aghi per suture e per l'operazione della cataratta, i clisteri, le cannule, le pinze, ecc.

Tutti questi elementi contribuirono alla costruzione di una chirurgia solida, fondata su conoscenze trasmissibili e verificate. La razionalità a cui Guglielmo legava la nuova chirurgia era infatti composta di tre elementi: la dottrina (intesa come tradizione degli autori, sottoposta comunque a vaglio pratico, ma anche come esperienza personale ripetuta e confrontata, ovvero usus); la pratica razionale, che applicava le regole generali al caso particolare; infine la capacità strettamente intellettuale dell'operatore, l'ingenium, che permetteva di prendere decisioni corrette pur all'interno di un certo margine di incertezza. Evidentemente, la professionalità del chirurgo, non più legata alla semplice manualità, stava divenendo una complessa attività di collegamento tra esperienze pratiche e mentali.

Non c'è prova che Guglielmo abbia compiuto studi accademici, ma la sottigliezza epistemologica, il linguaggio scolastico infarcito di termini tecnici arabi (le nuove traduzioni di Avicenna e Abulcasis erano meno 'latine' di quelle salernitane), le fonti utilizzate (tra cui frequentemente l'Aristotele fisico e biologico), i problemi affrontati (per es., il ruolo della donna nella generazione) e la cura degli aspetti didattici della propria opera mostrano un evidente condizionamento da parte del contemporaneo sviluppo della medicina universitaria. Nell'insieme, l'opera di Guglielmo si mantiene in equilibrio tra le varie anime della chirurgia ed evita anche i furiosi attacchi ai layci, gli empirici, che caratterizzarono molte delle più importanti opere successive: egli li considerava degli operatori 'irrazionali', che agivano senza conoscere l'anatomia e le cause dei disturbi. Forse anche per questo introdusse nel trattato diversi argomenti relativi alla gravidanza e al parto, rimasti estranei alla trattatistica chirurgica medievale (non invece a quella tardo-antica o araba) e affidati alle competenze paramediche delle donne.

La Cyrurgia, come il suo autore, godette di grande fama. Si è conservata in decine di manoscritti, diffusi in vari paesi, anche in versioni vernacole oppure ridotte e semplificate, e in numerose edizioni a stampa in diverse lingue (di cui la prima in assoluto è in volgare, Venezia, 1474), evidentemente a uso di chirurghi extra-accademici.

Ancora più fortunata fu la Cyrurgia magna (o meglio Practica que dicitur ars completa totius cyrurgie) di Lanfranco da Milano, al quale si deve il positivo trapianto della Scuola chirurgica italiana in Francia. Milanese, si era formato all'insegnamento di Guglielmo, poi tornò a Milano dove praticò con successo (egli stesso si diceva collaboratore di Matteo Visconti). Uno scontro col potente signore lo costrinse a prendere la via della Francia (1290 ca.), dove si stabilì a Lione (qui scrisse la Cyrurgia parva) e in altre città, fino al 1295, quando finalmente approdò a Parigi, "terra di pace e di studio" (Cyrurgia magna, Proemio). Abitava nella casa del decano della Facoltà medica di Parigi, Jean Passavant, e vi teneva frequentati corsi privati (suoi scolari furono Enrico di Mondeville e Jehan Yperman, futuro fondatore della chirurgia fiamminga). Egli dichiarò di avere scritto la Cyrurgia magna a istanza degli studenti universitari, ma i suoi rapporti con lo Studio non sono stati ancora chiariti, come del resto quelli con il Collegio chirurgico parigino di Saint-Côme.

La Cyrurgia magna è strutturata, secondo il modello avicenniano, in trattati, dottrine e capitoli. I trattati, che corrispondono ai 'libri', riguardano: (I) la definizione e le regole generali della chirurgia all'interno della physica, l'anatomia e l'embriologia, il trattamento generico delle ferite e delle ulcere, con attenzione alle differenze di nomenclatura tra le opere dei salernitani e le nuove traduzioni dai classici greci e arabi; (II) le ferite dalla testa ai piedi, con l'anatomia delle parti interessate; (III) altre patologie di interesse chirurgico (malattie della pelle, del metabolismo, apostemi, ascessi, tumori, e le malattie speciali delle diverse parti, ordinate approssimativamente dalla testa ai piedi); (IV) l''algebra', ossia le fratture e le lussazioni; (V) l'antidotario, organizzato per tipologia (medicine ripercussive, risolutive, maturative, mondificative, conglutinative-rigenerative-consolidative, mollificative, cauterizzative), con proprietà, preparazione (anche alchemica) e applicazione ai vari tipi di disturbi.

Questa organizzazione della materia ‒ anatomia all'inizio, tipi di patologie, antidotario ‒ divenne in seguito consueta per l'efficacia didattica e per la completezza. Lanfranco fece scuola anche per l'applicazione della divisione razionale, tipicamente scolastica, tra parte teorica e parte pratica della medicina, nella quale il principio ordinativo era gerarchico e seguiva il criterio della subalternità della seconda alla prima (secondo l'impostazione di Tommaso d'Aquino). Perciò la chirurgia, che si occupava di 'intervenire con le mani sul corpo umano', traeva le necessarie direttive dalla dottrina medica, definendo oggetti, metodi e scopi dell'intervento manuale.

Diversamente dai predecessori, Lanfranco scelse di ordinare cronologicamente le autorità di riferimento (numerose e frequentemente citate) e di presentare i diversi orientamenti secondo la divisione in sectae. All'interno di questo quadro, molto più sistematico e chiuso, il chirurgo è sempre un professionista di valore, ma il suo compito non è tanto quello sottolineato da Guglielmo ‒ migliorare 'sul campo' la propria competenza, affrontando situazioni diverse e rischiose ‒ quanto quello di conoscere profondamente la dottrina medica, senza la quale rischiava di confondersi con l'operatore manuale ignorante, il disprezzato empirico. Lanfranco riteneva d'altronde che il medico non dovesse perdersi per le strade della teoria ma tenersi vicino alla pratica e anche alla chirurgia, perché il buon physico, secondo la tradizione greco-araba, era anche chirurgo (e viceversa). Tuttavia, nella realtà il mondo della cura si stava spietatamente dividendo e gerarchizzando. Le storie di casi inseriti nella Cyrurgia (non numerosi come quelli narrati da Guglielmo) sono spesso forme indirette di elogio all'autore che recuperava miracolosamente, da chirurgo dotto, situazioni disperate causate dall'incompetenza di medici, familiari e chirurghi ignoranti, empirici.

Dal punto di vista della pratica chirurgica va ricordato che Lanfranco non disinfettava le ferite col vino (ricorreva piuttosto alla chiara d'uovo), ma usava medicare raramente, e soltanto in determinati casi considerava terapeutica la formazione di pus. Come e più di Guglielmo aveva molto a cuore la sedazione del dolore, poiché riteneva con Avicenna che esso attraesse i cattivi umori e producesse infezioni e ascessi; anche per questo motivo era favorevole alla nevrotomia in caso di nevralgie incurabili. Sembrava avere identificato nella qualità dell'acqua la causa della frequenza del gozzo in certe aree della Lombardia; consigliava di evitare il più possibile le operazioni che riteneva pericolose (tumori voluminosi, trapanazioni del cranio, ernie, calcoli renali, anche paracentesi negli idropici). Per estrarre i calcoli vescicali usava il taglio obliquo, che preservava i canali deferenti. Dedicava molta attenzione alle sanguisughe e alle ventose (i cosiddetti 'evacuanti particolari'), ai cauteri, e soprattutto alla flebotomia. Su quest'ultima aveva posto l'accento il Canone di Avicenna, che ne sosteneva il valore di evacuatore universale degli umori corrotti o sovrabbondanti; Lanfranco ne elencava le posizioni adatte, gli strumenti, gli scopi (mantenere la salute nei pletorici, preservarla in chi aveva disturbi che potevano aggravarsi, in caso di febbri, dolori di capo, ascessi caldi interni, ecc., là dove si volesse correggere la struttura umorale di una parte, annullare la materia corrotta, arrestare un'emorragia).

Si attribuisce a Lanfranco anche la prima descrizione della sutura con 'nodo del chirurgo', ago a tre spigoli, filo ritorto e cerato. Egli descrisse con cura i "trapani dei bolognesi", che dovevano "essere fatti in modo che in un punto siano acuti e siano taglienti dalle due coste, e siano fatti in guisa da aumentare in larghezza proporzionalmente, onde non possano penetrare oltre il pannicolo della sostanza cerebrale" (Cyrurgia, tract. II, doctr. 2, cap. 1), probabilmente perché a Parigi si usava un altro genere di trapano, con un cavicchio da posizionare in diversi fori per bloccare l'affondamento della vite.

La chirurgia d'oltralpe: Enrico di Mondeville, Guy de Chauliac, Jehan Yperman, John of Arderne

Dall'insegnamento di Lanfranco a Parigi si sviluppò una notevole fioritura di abili chirurghi nordeuropei, che spesso erano anche pregevoli trattatisti. Allievo ed erede intellettuale di Guglielmo e Lanfranco fu Enrico di Mondeville (1260 ca.-1320 ca.), il primo di cui è certa, sulla base della testimonianza sua e di Guy de Chauliac, la formazione universitaria e anche la docenza (a Montpellier e a Parigi). Chirurgo di guerra, entrò dal 1298 al servizio del re Filippo il Bello; la sua Chirurgia, la prima nata fuori d'Italia, scritta in latino a partire dal 1306, è ricca di dottrina oltre che di esperienza, ma è purtroppo rimasta incompiuta per la morte dell'autore. Dei cinque libri che la compongono manca il quarto, dedicato alle fratture e lussazioni, ed è incompiuto il terzo (su operazioni, salassi, cura degli ascessi, cauterizzazioni, ecc.); sono completi invece il primo (anatomia), il secondo (ferite, ulcere, fistole, piaghe, morsi di animali), e il quinto (antidotario).

Seguace di Avicenna in anatomia ed egli stesso esperto anatomista (tenne lezioni di anatomia a Montpellier nel 1304), Mondeville mostra capacità e spirito innovativo soprattutto nel secondo libro, in cui esprime la convinzione che il contatto delle ferite con l'aria sia dannoso. Per questo adotta il sistema di medicazione (e anche i consigli dietetici) di Teodorico, senza però riuscire a modificare le usanze correnti. Esperto di ferite e di operazioni, consiglia l'uso del magnete per attrarre i frammenti metallici affondati nella carne, la balestra per estrarre frecce, e propugna la legatura dei vasi nelle amputazioni. Egli era un esperto di strumenti per la cura e la trapanazione del cranio, di cauteri e flebotomi, e voleva riportare il salasso nelle mani dei chirurghi; con suo disappunto, infatti, la rivalutazione di questa cura come terapia universale (Avicenna) aveva fatto sì che i medici se ne appropriassero dal punto di vista della prescrizione, facendola eseguire manualmente ai barbieri ed esautorando così i chirurghi.

Enrico considerava la chirurgia disciplina quasi inscindibile dalla medicina dal punto di vista teorico; per questo era favorevole alla formazione medica anche per gli aspiranti chirurghi, che dovevano seguire un curriculum duplice, universitario e professionale, da una parte studiando, insegnando e discutendo con i colleghi degli aspetti teorici dell'intera disciplina medica, astrologia compresa, dall'altra osservando e imparando da chi già era esperto, per poi esercitarsi da sé, nelle circostanze più diverse. L'idea di chirurgia espressa da Mondeville è tra le più alte; egli infatti era convinto, come a suo tempo Guglielmo, ma in modo più articolato, che la propria disciplina superasse addirittura la medicina per vari e rilevanti motivi: per efficacia, perché curava malattie più difficili davanti alle quali la medicina si dimostrava impotente; per evidenza, perché i risultati erano attribuibili al suo intervento, non a farmaci o alla Natura, mentre in medicina ciò non si poteva mai sicuramente affermare; infine, perché i suoi procedimenti erano manifesti, mentre in medicina erano occulti (il che facilitava assai più i medici rispetto ai chirurghi, poiché in caso di errore la reputazione di questi ultimi era messa ben più a repentaglio di quella dei primi; Notabilia introductoria).

In questa esaltazione della chirurgia dotta, che gli derivava da una formazione di rara ricchezza, egli ridicolizzava i segreti professionali e l'addestramento familiare, criticava l'avidità dei colleghi e se la prendeva con violenza inusuale contro chi pretendeva di curare coi santi e coi sortilegi, contro quella massa di ciarlatani, empirici e millantatori, ostetriche, vetulae, mammane e donnacce, ebrei convertiti e musulmani, che con le loro falsità riducevano in miseria i veri chirurghi (ibidem).

L'opera di Mondeville dominò il panorama chirurgico per mezzo secolo, ma restò manoscritta e fu presto dimenticata, fino alla riscoperta settecentesca. La sua sorte dipese anche dal grande successo della Chirurgia magna di Guy de Chauliac, il cui titolo completo ‒ Inventarium sive collectorium in parte chirurgicali medicinae ‒ corrisponde alla natura onnicomprensiva dell'opera. è un ampio trattato in sette libri, preceduto da un Capitulum singulare che contiene una breve storia della chirurgia, considerazioni teoriche generali sul duplice aspetto della disciplina (scientia docens e ars utens), le indicazioni sui suoi mezzi, avvicinati a quelli della medicina (dieta, farmaci, strumenti chirurgici, operazioni), la deontologia e le abilità proprie del chirurgo. Seguono i diversi libri, strutturati ordinatamente procedendo dalla teoria alla pratica e dal generale al particolare: (I) anatomia umana; (II) ascessi, tumori, malattie della pelle; (III) ferite e contusioni in tutto il corpo; (IV) ulcere; (V) fratture e lussazioni; (VI) operazioni chirurgiche varie; (VII) ginecologia e ostetricia, flebotomia, legatura di vasi, ventose, sanguisughe. L'opera si chiude con l'ormai consueto antidotario (750 medicamenti).

Come tutti i grandi chirurghi-autori da Guglielmo in poi Guy (1298 ca.-1367 ca.) vantava una doppia formazione (si definiva chirurgicus magister in medicina); dapprima studiò medicina a Montpellier, poi si perfezionò in chirurgia a Bologna, dove seguì l'insegnamento di Niccolò Bertrucci, allievo a sua volta dell'anatomista Mondino dei Liuzzi; divenne medico dei papi Clemente VI, Innocenzo VI e Urbano V, e ad Avignone scrisse la Chirurgia magna, terminata nel 1363. Dai suoi studi trasse una vasta competenza dottrinaria, che traspare dalle numerose (circa duemila) citazioni dagli autori del passato, ed è riassunta nell'originale storia della chirurgia con cui si apre l'opera. La chirurgia contemporanea vi è presentata come il risultato di un combattuto processo cumulativo che comprende in sequenza tre divisioni o sectae (la Scuola di Salerno, erudita e teorica; Ugo e Teodorico Borgognoni, abili ma empirici, e infine i mediatori Guglielmo e Lanfranco, suo imitatore, che hanno saputo armonizzare con successo teoria e pratica). Secondo Guy le origini prime della chirurgia risalgono a Paolo di Egina per gli aspetti operatori e a Galeno per quelli razionali.

Egli aveva dimestichezza con il vasto corpus delle opere galeniche tradotto dal greco nella prima metà del XIV sec. da Niccolò da Reggio, ma non ne traeva tanto un sapere tecnico quanto la fondazione razionale della chirurgia su una base fisiologica e anatomica (Galeno, com'è noto, non aveva mai valorizzato la chirurgia come disciplina a parte, perché davvero convinto dell'unità della medicina, e perché la chirurgia, intervenendo violentemente nei processi naturali, per lo più si poneva in contrasto con la sua teoria medica). Come si è detto, Guy non seguiva le innovazioni di Teodorico (e di Guglielmo da Saliceto ed Enrico di Mondeville) nella cura delle ferite e nella dieta dei feriti; era assai prudente quanto alle operazioni di calcoli (renali ma anche vescicali, che personalmente non operava); tuttavia la sua opera è ricca di indicazioni nuove e interessanti. Innanzi tutto, il capitolo anatomico è molto più sviluppato e preciso rispetto ai precedenti, e contiene anche indicazioni tratte dall'esperienza bolognese su come svolgere un accurato studio sul cadavere (Berengario da Carpi, all'inizio del XVI sec., nel Commentarium super Anatomiam Mundini lo citava ancora come il migliore autore di anatomia).

Guy recuperò da Avicenna la tracheotomia e l'intubazione; inventò un sistema di sospensione e trazione per le fratture del femore; fu un preciso conoscitore delle tecniche di trapanazione del cranio; si occupò finemente di chirurgia dentaria (consigliava di evitare le cure dei barbieri, e inventò uno strumento per le estrazioni, il 'pellicano'); inventò degli specchietti per esaminare l'interno dell'orecchio, e sapeva usare un'infinità di strumenti chirurgici vecchi e nuovi, o perlomeno non ancora recuperati dall'abbondantissima dotazione chirurgica di Abulcasis. Descrisse pratiche ostetriche, e in particolare si occupò di parti anomali e degli interventi correlati (rivolgimento del feto, dilatazione strumentale del collo dell'utero, cesareo post mortem); approfondì le considerazioni già presenti in Guglielmo sulle conseguenze delle lesioni cerebrali; consigliò di suturare direttamente le ferite al torace che non presentassero lesioni interne e le ferite all'intestino, senza introdurre nessun corpo estraneo (come invece volevano Ruggero e Rolando). Un ultimo rilievo riguarda l'acume clinico con cui Guy distinse le diverse manifestazioni della pandemia di peste (prima polmonare e poi bubbonica) che decimò l'Europa nel 1348; egli stesso, colpito dalla forma bubbonica, scampò fortunosamente alla morte.

L'Inventarium è dunque una vera e propria summa di tutto il sapere medico-chirurgico medievale, e nonostante la pubblicazione di altre Chirurgie ebbe un vasto e duraturo successo che resistette anche alla concorrenza di questi trattati più moderni. Fu la prima opera chirurgica stampata in Inghilterra, e fu tradotta in inglese già alla fine del Trecento; si sono conservate altre traduzioni manoscritte in ebraico e decine di edizioni in francese, spagnolo, tedesco, fino alla fine del XVII secolo.

Sempre dall'insegnamento parigino di Lanfranco nacque la nuova chirurgia fiamminga. Jehan Yperman (1260/1265-1330 ca.) studiò a Parigi a fine secolo, poi ritornò nella sua città, Ypres, e vi svolse l'attività di chirurgo stipendiato presso un importante ospedale locale. Questo impiego è documentato per un lungo periodo (fino al 1329) durante il quale egli affrontò alcune campagne di guerra e praticò anche la professione. Si sono conservate due sue opere, scritte originariamente in fiammingo e mai pubblicate a stampa, una Medicina e una Chirurgia. Insieme al contemporaneo meno noto, Thomas Scellinck, Yperman è il primo chirurgo che abbia lasciato traccia scritta della propria attività nelle Fiandre, dove la disciplina si tramandava entro tradizioni artigianali ed empiriche. Con la Chirurgia Yperman si rivolgeva a un pubblico di pratici, perciò la sua opera è molto ricca di prescrizioni terapeutiche (operatorie, farmaceutiche, ecc.) e povera di nozioni di anatomia e patologia, entrate a far parte della tradizione scritta. Non è dunque una chirurgia di impianto scolastico come quella del suo maestro, anche se mostra di averne tratto molti insegnamenti concreti.

L'opera è divisa in sette libri, che trattano di volta in volta una parte da curare: (I) criteri introduttivi e malattie chirurgiche del capo; (II) malattie degli occhi; (III) malattie del naso; (IV) malattie della bocca e dei denti; (V) malattie delle orecchie; (VI) malattie del collo e della gola; (VII) tutte le altre malattie; seguono alcuni capitoli

sciolti su malattie degli arti, dell'addome, dei genitali, infettive, traumi, su bruciature, avvelenamenti, fratture e lussazioni. Il contenuto dell'opera varia da un manoscritto all'altro, così come l'apparato illustrativo, che insiste soprattutto su trapani, strumenti da taglio, aghi e uncini, mentre concede poca attenzione ai cauteri. In due manoscritti su quattro si conserva anche una sezione dedicata all'antidotario. La parte più ricca, curata e originale è il Libro I, in cui si trovano anche intere parti trascritte dall'opera di Lanfranco. Yperman conosceva ‒ e a volte citò ‒ gli autori precedenti, ma mostrava soprattutto molta dimestichezza pratica, specie nella cura delle emorragie e dei disturbi comuni, e notevole chiarezza.

Non partecipò alle grandi polemiche dell'epoca, ma selezionò i suggerimenti della tradizione (sulla cura delle ferite, sulla dieta, sulle suture, sulla positività o meno della suppurazione a seconda dei casi, ecc.). Descrisse poche operazioni, tra cui, con molta attenzione, quelle al viso e le trapanazioni craniche, oltre a un originale sistema per curare l'idrocele; in genere tuttavia ‒ allineandosi con i colleghi contemporanei ‒ consigliava di evitare il più possibile gli interventi pericolosi, come la cauterizzazione dell'ernia o la trapanazione stessa, mentre per i calcoli vescicali rimandava alla Rolandina, ed evitava di descrivere l'operazione di cataratta. A volte registrava credenze e trattamenti popolari, nonché rituali magico-religiosi che erano ignorati dalla trattatistica più dotta.

In Inghilterra la condizione istituzionale della chirurgia nel XIV e nel XV sec. era ben diversa rispetto ai paesi mediterranei. Nessun chirurgo inglese del XIV sec. studiò nel continente; le Università di Oxford e Cambridge riservavano poco spazio all'insegnamento chirurgico e soprattutto non erano collocate in grandi città, o presso una corte regia, dove una clientela sufficientemente ampia e facoltosa potesse consentire al chirurgo di praticare e insegnare allo stesso tempo (come facevano tutti i grandi nomi fin qui considerati); per gli stessi motivi, non c'erano neanche corporazioni capaci di difendere lo status dei chirurghi. La crescita della cultura chirurgica in Inghilterra in questo periodo fu quindi affidata ai percorsi compiuti dai manoscritti e ad alcune precocissime traduzioni dal latino che consentirono agli operatori più esigenti di attingere alla dottrina di Ruggero, Lanfranco ed Enrico di Mondeville.

Formatosi non nelle università ma sui testi disponibili, sui campi di battaglia e nella pratica quotidiana, emerse da questo quadro John of Arderne (1307-1380/1392), attivo nella sua città, Newark, dal 1349 al 1370 salvo qualche missione come chirurgo militare, e poi trasferitosi a Londra, dove restò fino alla morte. La sua opera più nota è un trattato specialistico scritto nel periodo londinese, la Practica [de fistula in ano], dedicata a un disturbo allora molto diffuso; Arderne scrisse anche una collezione di brevi trattatelli su argomenti specifici (malattie degli occhi, emorroidi, flebotomia, mal di denti, pruriti, morsi di animali, ecc.) nota sotto il nome di De arte phisicali et de cirurgia.

La Practica si apre con una inconsueta lista di ventuno personaggi di rilievo sofferenti di fistola anale perforata curati con successo da Arderne, sia a Newark sia a Londra. Egli era consapevole del fatto che questa specializzazione gli conferiva una posizione di prestigio che lo poneva ai massimi livelli della medicina; per sancirla, mettendosi al servizio di chi voleva apprendere, scrisse un trattato in latino, pur non padroneggiando perfettamente questa lingua. La Practica comincia con affermazioni generali, anche di deontologia medica (tratte da Lanfranco), alle quali fa seguito la presentazione degli strumenti chirurgici necessari, in parte tradizionali, in parte di sua invenzione. La fistola è la degenerazione di ascessi locali mal curati, e secondo il metodo di Arderne l'intervento doveva cominciare innanzi tutto dalla diagnosi di fistola perforata, per procedere ad aprire la parete in comune col retto, senza ledere lo sfintere, e farla poi cicatrizzare con cura; si potevano usare anche sostanze caustiche, oppure si poteva procedere mediante una legatura che lentamente incideva i tessuti.

Arderne aveva dimestichezza con le principali opere chirurgiche allora disponibili, in particolare quelle di ῾Ali ῾Abbās, al-Rāzī e Abulcasis, che riprendevano la descrizione originaria dell'intervento data da Paolo di Egina, sulla quale Arderne elaborò il proprio metodo. Dei suggerimenti proposti dai chirurghi medievali ‒ in particolare Bruno da Longoburgo e Teodorico ‒ non c'è traccia esplicita, nonostante Arderne conoscesse numerose parti delle loro opere. Anche gli strumenti sono per lo più tratti dalle opere arabe, a parte il tendiculum, una sorta di archetto per tenere teso il filo destinato a tagliare la parete fistolosa, e il cucchiaio posto a protezione della parete del retto durante il taglio, che sono frutto dell'ingegnosità di Arderne.

Altra caratteristica dell'opera è la precisione nella descrizione di ogni fase dell'intervento e l'ampio spazio dato alle illustrazioni, evidentemente sorvegliate dall'autore, sia sulla presentazione delle fistole sia sulle fasi dell'operazione e sui suoi strumenti. L'opera era sufficiente alla formazione di uno specialista, e in effetti nell'Inghilterra del XV sec. ebbe più fortuna di qualsiasi altra.

Varianti quattrocentesche

Più che il trauma della peste nera ‒ del quale si sta ormai sfatando l'effetto dirompente sulla credibilità delle professioni mediche ‒ altri eventi contingenti ebbero conseguenze importanti sulla chirurgia del XV sec., come la diffusione di armi caricate con polvere da sparo, che procuravano un nuovo insidioso genere di ferite; l'invenzione della stampa, che metteva a disposizione di molti operatori di formazione non universitaria un sapere secolare; in Italia, in particolare, l'incremento della dissezione anatomica come insegnamento e la scoperta del De medicina di Celso, stampato nel 1478, con le sue evolute tecniche operatorie.

In Germania, dove tardò a svilupparsi un'autonoma tradizione chirurgica, Heinrich von Pfalzpeint scrisse nel 1460 il primo trattato in tedesco, il Buch der Buendth-Ertznei (Trattato della sutura), che si occupa con competenza della cura delle ferite e menziona, sembra per la prima volta, quelle da armi da fuoco. La chirurgia delle ossa e delle ferite è la materia anche di un altro importante testo tedesco, Das Buch der Chirurgia (Trattato di chirurgia), di Hieronymus Brunschwig; pubblicato nel 1497, è corredato di illustrazioni belle ma poco verosimili. Iniziatore della Scuola chirurgica di Strasburgo, Brunschwig sosteneva che nella cura delle ferite da arma da fuoco bisognasse far uscire le sostanze tossiche dell'esplosivo prima di sanarle; era inoltre un buon conoscitore della letteratura chirurgica precedente.

Frattanto gli empirici continuavano la loro carriera, spesso assai remunerativa, a fianco o a danno dei chirurghi, occupandosi di alcune specialità operatorie con eccellenti risultati. Nel 1456 comparve nel De viris illustribus di Bartolomeo Facio, umanista alla corte di Napoli, il ritratto encomiastico dei chirurghi siciliani Branca, padre e figlio, che avevano perfezionato in quegli anni una efficace tecnica rinoplastica dai risultati eccezionali, con la quale ricostruire perfettamente il naso e altre parti del capo mutilate in battaglia; essi applicavano alla parte monca la pelle viva di un braccio e riuscivano con essa a riprodurre i connotati perduti. Di questa tecnica ingegnosa, ripresa e migliorata da Tagliacozzi nel XVI sec., si venne subito a sapere anche fuori d'Italia; la menzionava infatti già von Pfalzpeint. Altre invenzioni chirurgiche trasmesse per via orale si devono ai chirurghi militari e anche ai preciani e norcini dell'Umbria, che acquistarono vasta fama con rischiose operazioni di ernia, taglio della vescica e cataratta, evitate ‒ come si è detto ‒ dai chirurghi più istruiti. Fu sempre un anonimo empirico spagnolo a innovare l'operazione di ernia inguinale mediante isolamento del sacco erniario dal testicolo, evitando così finalmente la castrazione; questa tecnica fu ripresa su vasta scala nel Cinquecento.

In generale, nel XV sec. si verificarono un fenomeno di specializzazione settoriale della chirurgia e un regresso dell'interesse per l'inquadramento teorico della disciplina, a favore di una maggiore attenzione per l'esperienza particolare. In Italia restarono in uso le grandi opere trattatistiche del Trecento, alle quali altre se ne aggiunsero senza eguagliarle, ma, come nel caso della medicina, furono la finalizzazione pratica e la rivalutazione dell'esperienza professionale a dare l'avvio a una nuova letteratura (opere specialistiche, singoli consilia o receptae raccolti poi in collezioni od organizzati in Practicae), che costituì anche la via per incrementare le conoscenze. Rispetto alla trattatistica precedente questo nuovo genere di opere selezionava un numero limitato di disturbi, soffermandosi con precisione sulle cure e riportando casi trattati dall'autore.

Alcuni chirurghi-scrittori emersero durante il secolo. Pietro Argelata (m. 1423), professore di chirurgia allo Studio bolognese, fu l'autore di un'ampia Chirurgia ricordata soprattutto per alcune innovazioni nella cura della carie e delle malattie veneree, nonché per le operazioni di grande chirurgia descritte con competenza (trapanazione, taglio della vescica, suture e legature di vasi, ecc.). Giovanni Arcolano, professore di medicina a Padova e a Ferrara (m. 1458) scrisse diverse opere specialistiche e una Practica ... in nonum Rhazis ad Almansorem librum, più volte pubblicata; fu anch'egli uno dei pochi a operare di calcoli vescicali, seguendo l'antica tecnica greco-romana del taglio obliquo nel perineo. Dedicò notevoli approfondimenti ai disturbi dell'apparato urinario e dei denti, e ad alcune patologie dell'occhio. Altra figura di rilievo fu quella di Leonardo Buffi da Bertipaglia (m. dopo il 1448), autore di una Cyrurgia (1421) stampata più volte, il quale, come i grandi predecessori del XIII e XIV sec., univa l'insegnamento universitario a un'avventurosa esperienza di chirurgo itinerante per il Mediterraneo.

La sua opera è notevole per l'indubbia competenza e per la profonda dottrina (si ricordano, per es., le tecniche emostatiche e il trattamento delle malattie delle ossa), ma è nota soprattutto per l'aspra critica diretta sia contro i barbieri e i ciarlatani sia contro i medici e i chirurghi contemporanei formatisi all'Università di Padova, giudicati estremamente avidi e ignoranti, tanto che per insipienza si alleavano professionalmente con i barbieri. Per polemica contro questa degenerazione della chirurgia Bertipaglia non concluse gli studi con la licenza, e preferì dedicarsi alla pratica per conoscere direttamente i mirabilia opera naturae. Il Senato veneziano lo chiamò finalmente a insegnare chirurgia allo Studio padovano nel 1421 dove restò fino al 1429.

Altri autori di formazione medica (Michele Savonarola, Bartolomeo da Montagnana, Antonio Cermisone, Cristoforo Barzizza) si occuparono nelle loro Practicae o nei Consilia di curare coi medicinali patologie affidate solitamente alle cure chirurgiche, dalle affezioni della pelle ai calcoli, alla cataratta, alle ernie, all'idropisia, lasciando ai chirurghi, come extrema ratio, il compito di risolvere le situazioni incurabili, anche per il rischio e lo scarso guadagno connessi agli interventi chirurgici. Ciò dimostra il permanere di una forte concorrenza tra medici e chirurghi, a cui va aggiunta la cronica lotta degli operatori dotti contro gli empirici e le diverse tipologie di ciarlatani, che ‒ secondo quanto narrano i cronisti e gli scrittori del periodo ‒ continuavano a sedurre popolo e nobili senza distinzione.

All'interno delle università la chirurgia ottenne nel frattempo una collocazione, per quanto minoritaria, accanto alla medicina. Oltre alla formazione dei futuri professionisti, ai chirurghi, come operatori manuali, fu affidato un territorio disciplinare ibrido, nuovo, che si rivelò poi il terreno di coltura della ricerca cinquecentesca, ossia l'anatomia umana, insegnata nelle università italiane e poi europee, su cadaveri e non su animali (come a Salerno) o con l'ausilio di figure o parti artificiali (come a Montpellier). Era un territorio ibrido perché atteneva alla physica, allo studio della Natura fondato da Aristotele, e nello stesso tempo era intrinsecamente connesso all'esperienza dei sensi; si trattava al momento soltanto di un'anatomia didattica, finalizzata all'educazione teorico-pratica di medici e chirurghi. A essa si affiancò la crescente esperienza di autopsie giudiziarie, documentate spesso nelle opere scritte (per es., nella Chirurgia di Argelata, nei manoscritti di Bernardo Torni, nelle opere di Antonio Benivieni, ecc.), dalle quali si sviluppò un embrione di anatomia patologica. Con l'ampliarsi della letteratura medico-anatomica disponibile riemersero i temi di contrasto che avevano diviso gli autori già in epoca classica: struttura e ruolo del cuore e del cervello e altri ancora. L'anatomia si rivelava in tal modo il banco di prova delle auctoritates, e lo strumento sia di una possibile via epistemologica propria della medicina sia di una rifondazione definitiva della chirurgia.

Farmacologia, erbari e ricette

di Piero Morpurgo

La farmacologia medievale europea comprendeva un insieme di fonti scritte sviluppatesi dall'Antichità, dall'Historia plantarum di Teofrasto (m. 287 a.C.), ove erano state classificate circa 500 piante e che influenzò le opere di Crateo e Diocle (IV sec. a.C.), Plinio (23-79), sino a Girolamo Fracastoro (1483 ca.-1553) che nel De contagione et contagiosis morbis (1546) ipotizzava che la causa delle malattie fosse ascrivibile all'azione di germi patogeni e non a 'miasmi' e alterazioni dell'aria. Nello stesso periodo Andrea Vesalio (1514-1564) con il De humani corporis fabrica, pubblicato nel 1543, produceva le prime tavole anatomiche frutto di accurate dissezioni, le quali erano ben distanti dalle tradizionali impostazioni aristoteliche.

Proprio intorno alla metà del Cinquecento la farmacopea occidentale passò dallo studio degli 'erbari' ‒ tutto fondato sulla tradizione manoscritta dei codici antichi che si estese oltre il XV sec. (Roma, Casanat., ms. 1471; Chiesa di San Michele a Bamberga, erbario a soffitto) ‒ all'istituzione degli orti botanici, fondati con il dichiarato scopo di coltivare le specie atte a produrre il Medicamentum simplex, estendendo e rendendo più rigorosa la consuetudine monastica (v. il dipinto di Gherardo da Starnina a Firenze nella Galleria degli Uffizi). La più antica istituzione di questo tipo fu l'Orto Botanico di Padova fondato nel 1545 sotto la supervisione di Pier Antonio Michiel (m. 1576) che scrisse una Istoria generale delle piante con oltre mille figure a colori. Un anno prima il botanico senese Pier Andrea Mattioli (m. 1577) aveva pubblicato a Venezia il suo erbario figurato che commentava e ampliava il trattato di Dioscuride. Il tutto sulla scia del bibliofilo Konrad von Gesner, archiatra di Zurigo impegnato come medico nella tutela della salute pubblica e morto di peste nel 1565, che nel 1542 con il suo Catalogus plantarum aveva tentato di ordinare la nomenclatura botanica classificando le diverse varianti linguistiche originatesi dalle traduzioni dal greco e dal latino. Quest'opera era collegata al progetto di classificazione generale di tutti i medicinali che apparve, sempre nel 1542, con il titolo De compositione medicamentorum; il tutto era inserito in quel sistema previsto dalla Bibliotheca universalis inteso a fissare i criteri della ricerca scientifica. Il tentativo di Gesner prefigurò, assieme all'opera di Ulisse Aldrovandi (1522-1605), il sistema tassonomico di Linneo (1707-1778) che pose termine quasi definitivamente a quell'indirizzo della farmacologia medievale tutto volto alla ricerca dell'antiveleno per eccellenza, la theriaca.

La tradizione degli erbari incontrò notevoli resistenze quando ‒ nel 1854 ‒ la British Medical Association tentò di espellere 6000 esperti in erboristeria; il decreto fu poi sospeso nel 1864. Nel 1869 John King pubblicò il suo American dispensatory, che elencava le proprietà medicamentose di molte specie vegetali utilizzate nel Medioevo. Quest'opera fu più volte aggiornata ‒ sino agli inizi del Novecento ‒ dal medico Harvey Wickes Felter e dal chimico John Uri Lloyd, i quali curarono la descrizione botanica delle piante, la storia del loro uso, la composizione chimica nonché la farmacodinamica e le dosi tossiche e terapeutiche.

Si può riscontrare, così, che molte delle erbe descritte nei ricettari medievali avevano effettive proprietà farmacologiche; per esempio, l'elleboro in piccole dosi è uno stimolante dell'attività cardiaca e, benché sia estremamente tossico, è stato usato per le malattie nervose e come anestetico; la noce moscata contiene un acido che è stato somministrato per alcune affezioni gastrointestinali; il mirabolano è stato ritenuto efficace per le infezioni dell'intestino; la resina di mirra solubile in alcool sembra essere antisettica e con proprietà espettoranti e mucolitiche, ma in grandi provoca nausea e tachicardia; il dracontium in piccole dosi sarebbe un antispastico benché sia molto tossico; dall'aloe si ottengono derivati efficaci nella dispepsia e in alcune parassitosi. Nello studio degli erbari medievali, pertanto, non bisogna enfatizzare soltanto gli aspetti folclorici della tradizione, ma occorre anche cercare di individuare le ragioni di alcune di queste indicazioni (Touwaide 1997).

Il commercio delle droghe medicinali fu soggetto al rischio delle contraffazioni e delle adulterazioni (Nebbia 1971); Plinio ricordava alcuni di questi casi (Naturalis historia, XXXIV, 25 e XXXIII, 57); al-Rāzī nel Kitāb al-ḥāwī ‒ tradotto in latino con la sovrintendenza di Amant de Troyes e di Jean de Nesle, medici alla corte napoletana di Carlo I d'Angiò ‒ redasse un capitolo sulla preparazione delle medicine e su come riconoscere i prodotti adulterati; un analogo impegno animava il Canone di Avicenna.

Queste direttrici cronologiche e scientifiche fanno intendere come la transizione dalla scienza medievale alla farmacopea contemporanea sia stata estremamente lunga; sino alla fine del XVIII sec. non si ebbe una cognizione certa della struttura della materia che era prevalentemente fondata sulla scienza dei 'quattro elementi', terra, acqua, aria e fuoco (v. tabella degli elementi derivata dal ms. Barb. lat. 283, Città del Vaticano, BAV), e quindi sull'interazione armonica o disequilibrata delle sostanze composte che si riteneva fossero costituite dai detti elementi (Butterfield 1962). In base a questo principio, fondato su una scienza qualitativa e non su una chimica quantitativa, ogni persona aveva un temperamento ('complessione') che era determinato da una presenza bilanciata delle qualità derivate dai quattro elementi: il caldo, il freddo, l'umido e il secco.

Ildegarda di Bingen (1098-1179) spiegava queste caratteristiche del corpo umano riallacciandosi al racconto genesiaco della Creazione dell'uomo che, in quanto creato con la terra, sarebbe capace di riconoscere nelle erbe quelle qualità che possono aiutare lo sviluppo dell'organismo o, al contrario, essere nocive, poiché le piante assorbono dalla terra gli umori e i succhi da cui si originò l'equilibrio del sangue umano. Su queste tesi si basava l'idea di una 'complessione' che agiva in modo significativo soprattutto per quel che riguardava i quattro 'umori fisiologici' principali: il sangue, il flegma, la bile nera e la bile gialla. Ogni malattia si intendeva generata da uno squilibrio interno, cosicché, per esempio, la febbre appariva il prodotto di una sovrabbondanza di calore emanata dal cuore; molte di queste convinzioni si ritrovano sia nel Liber graduum di Costantino l'Africano (1015 ca.-1087 ca.) sia nelle opere di Urso di Salerno (m. 1225 ca.).

In base a questi principî tutti gli umori in eccesso potevano essere 'ridotti' attraverso azioni 'terapeutiche' fondate prevalentemente sull'uso di purghe o di salassi o mediante l'assunzione di cibi o medicinali che avevano 'qualità' opposte a quelle che avevano portato alla malattia. Non c'è dubbio che molti di questi rimedi fossero del tutto inefficaci o avessero comunque il valore del placebo; eppure, in certi casi la tradizione popolare aveva ben individuato piante lassative o analgesiche che potevano essere usate in modo appropriato. È pur vero che talvolta il rimedio era peggiore del male, come quando si consigliava di usare le feci del maiale per arrestare l'epistassi (Lindberg 1992). I limiti di tali impostazioni erano evidentemente ben noti, poiché all'interno della scuola del medico bolognese Taddeo Alderotti ci si accorse che le auctoritates non concordavano sulle 'qualità' delle medicine, e si arrivò a stabilire che se un farmaco era 'caldo' per Platone, ma non per Socrate, questo comportava la necessità di osservare gli effetti concreti della medicina sui pazienti senza farsi disorientare dalle classificazioni elaborate dalle 'autorità'.

Nello stesso ambito si denunciò l'inefficacia dei sistemi di misurazione, giacché il prescrivere 'un grano' di un'erba officinale nella ricetta di una medicina significava mettere nella più assoluta incertezza chi adottava una terapia, e pertanto sarebbe stato meglio adottare almeno il sistema proporzionale ('bollire in 10 parti di vino e una di aceto'). Nello stesso periodo Ruggero Bacone (1214 ca.-1294) nel De erroribus medicorum, dedicato soprattutto alle errate impostazioni farmacologiche, denunciò l'assenza della pratica sperimentale nel pensiero medico. Su questa linea ‒ seguendo le discussioni di Avicenna e Averroè (1126-1198) ‒ si schierarono Giovanni di Saint-Amand, Pietro Ispano (papa Giovanni XXI, 1210-1277) e Arnaldo da Villanova, che condivisero la tesi per cui, nell'impossibilità di misure certe, sarebbe stato meglio discutere di proporzioni di sostanze medicinali cercando di capire se un 'medicinale semplice' miscelato con altri acquisisse o perdesse capacità farmacologiche (McVaugh 1975). In questo contesto Dino Del Garbo (m. 1327) scrisse la sua Compilatio unguentorum et emplastorum, nella quale assai di rado si indicavano le quantità dei componenti dei preparati medicinali. La consapevolezza dei limiti della scienza farmacologica non distolse tuttavia da pratiche singolari, tanto che Taddeo Alderotti arrivò a suggerire contro l'epilessia un preparato a base di ceneri di ossa umane e succo di peonia (Siraisi 1981).

Presa nel suo insieme, la grande quantità di trattati farmacologici che circolarono nel Medioevo fu alimentata dalla tradizione classica fondata tanto sugli scritti prodotti dalle scuole di Ippocrate (460 ca.-370) e Galeno (130-200 ca.), con il De complexionibus e il De simplici medicina (McVaugh 1975), quanto sugli erbari di Antonio Musa (I sec. d.C.), Apuleio Platonico e Dioscuride, oltre che dalla variegata diffusione dei Problemata aristotelici (Beccaria 1956). Quest'ultimo trattato testimonia un genere letterario affermatosi particolarmente nella produzione scientifica medievale, tutta incentrata su un fitto susseguirsi di quesiti; ci si chiedeva ‒ tra l'altro ‒ perché i preparati farmacologici che curavano le affezioni dello stomaco non fossero efficaci per la vescica, e a questa domanda si rispondeva che nello stomaco prevalevano gli 'umori della terra' mentre nella vescica prevalevano quelli dell''acqua', e per questo motivo era necessario adottare medicinali distinti in ragione degli umori prevalenti in quegli organi.

La letteratura medica fondata su quesiti portò nel XII sec. a raccolte quali le Questiones Salernitanae, in cui ci si domandava perché mai il pepe non avesse effetti lassativi come la scamonea, pur condividendone la natura 'calda' dell'essenza. In questo caso si argomentava che nello stomaco non tutte le sostanze subiscono gli stessi processi di scomposizione; per esempio, i noccioli delle ciliegie non sono trasformati e tanto meno provocano effetti; ancora, il pane è trasformato e anche il pepe è assorbito nella essentia membrorum, mentre la scamonea (da non usarsi con gli oppiacei) non è assorbita e quindi può purgare, contribuendo a espellere gli umori (Lawn 1979).

Queste tesi, sviluppate a partire da un atomismo fondato sui quattro elementi, furono condivise dall'enciclopedismo scientifico medievale, da Rabano Mauro e Ugo di San Vittore ad Alberto Magno (1193 ca.-1280). Tuttavia bisogna distinguere tra la tradizione manoscritta degli erbari che si diffusero nelle corti dei sovrani e nelle università, e le raccolte miscellanee di ricette, spesso non illustrate, che erano dense anche di riferimenti alla magia, all'astrologia e all'alchimia. Furono Michele Scoto (1175 ca.-1236) e Alberto Magno a presentare alcuni di questi orientamenti che, nonostante le condanne e i divieti, si intrecciarono profondamente con le tesi dei maestri delle università medievali; dai testi ermetici si diffuse il principio per cui l'uso di particolari fiori o specie vegetali, accompagnato da determinate cerimonie che rendevano possibile la trasmissione dei raggi planetari, poteva permettere la creazione di talismani in grado di prevenire o curare le malattie (Pingree 1994). Questa prospettiva esoterica fu condivisa da gran parte della scienza medievale (Lenoble 1976) e aveva un valore particolare nel sostegno psicologico al paziente, come sosteneva lo stesso Michele Scoto nel suo De informacione medicorum, dove affermava che nulla dovesse essere tralasciato nella cura dell'infermo, e qualora le sofferenze fossero state eccessive si ricorresse pure a streghe e incantesimi (Morpurgo 1984).

In una dimensione della vita delimitata dai rapporti tra macrocosmo e microcosmo, tra scienza e magia, nel Medioevo si elaborò dunque una teoria scientifica per cui tutte le affezioni dello spirito e del corpo dell'uomo potevano essere curate attraverso la composizione di preparati con erbe officinali che riflettevano nella loro struttura la disposizione del Cosmo e della Terra. Altrettanto era previsto per gli animali (ai quali comunque si riconosceva un'innata capacità di trovare i rimedi naturali); per esempio, Giordano Ruffo (1200 ca.-1256) per le crisi d'asma dei cavalli prevedeva di diluire nel vino bianco una polvere a base di semi di garofano, noce moscata, cardamonio, cumino, zafferano e semi di finocchio; questa bevanda doveva essere somministrata al cavallo ‒ con la testa immobilizzata e tirata verso l'alto da una corda ‒ attraverso un corno di bue tagliato; poi l'animale doveva essere lasciato a digiuno per un giorno, e al secondo giorno avrebbe potuto mangiare solo fronde di salice (Prévot 1991). Analogamente, nel De cura accipitrum di Adelardo di Bath (1070 ca.-1160) si proponeva una serie di 'medicamenti semplici' per curare i falchi, quali i preparati con aloe, assenzio, malva, semi di garofano e verbena (van den Abeele 1994).

La scienza degli erbari era applicata non soltanto nel tentativo di curare diverse patologie, ma anche per la cosmesi del corpo; per esempio, Aldobrandino da Siena (m. 1287) nel suo Régime de la santé dedicava un capitolo alla cosmesi del viso. Lo scopo di questo trattato era non soltanto quello di intervenire sul colore della pelle alterato dalle malattie, ma anche quello di offrire un programma in grado di tutelare l'equilibrio psicosomatico del corpo; infatti, se da un lato si prevedevano maschere per la faccia a base di farina di fave, colla di pesce e radici di fiordalisi sciolte nell'acqua, dall'altro si consigliava di bere vino con chiodi di garofano, zafferano e senape nera senza trascurare di lavorare, essere felici, cantare e ascoltare musica in compagnia di gente piacevole (Landouzy 1911).

Poco tempo dopo, e precisamente nel 1317, Matteo Silvatico da Salerno dedicò il suo Liber pandectarum medicinae al re Roberto d'Angiò. Si trattava di un compendio botanico in 487 capitoli, in cui si descrivevano i medicamenti 'semplici' di origine vegetale, fornendone anche i sinonimi greci e arabi, e si elencavano, tra l'altro, le proprietà dell'assenzio, della belladonna, dell'aloe, dell'erba betonica, della camomilla, della cicuta, della cannabis, del dittamo, dell'elleboro e della mandragora. Il testo influenzò l'Hortus sanitatis del 1491, e fu ampiamente utilizzato sino a quando nel Cinquecento non fu criticato dal Mattioli (Mauro 1999).

Ogni 'farmaco', almeno in teoria, era adottato con l'intento di evacuare, di spingere via fisicamente gli umori in eccesso, o di arrestare la perdita di quelli che erano andati consunti. Si trattava dunque di un'azione meccanica che apparentemente nulla aveva a che fare con la farmacodinamica; tuttavia, in alcuni trattati compariva l'idea di garantire l'assorbimento del preparato medicinale.

Così, Abulcasis nel Trattato sulle pastiglie medicinali teorizzava la necessità di avvolgere con gomma arabica gli estratti di rosa benefici per la febbre e il mal di stomaco. E ancora, nel Trattato sulle polveri medicinali precisava che gli estratti dalle erbe erano facilmente deteriorabili, e pertanto avevano bisogno di una duplice protezione: il miele e la gomma. Tutti questi preparati ‒ spesso costituiti da sandalo, semi di zucca, menta selvatica, salvia, finocchio e myrobalano ‒ erano prevalentemente utilizzati per curare o lenire le affezioni intestinali e quelle dell'apparato genitourinario (Arvide Cambra 1994, 1996).

Con questi presupposti era evidentemente difficile prevenire o comunque curare il susseguirsi di epidemie che investirono l'Europa e il Vicino Oriente; tra queste si può segnalare la diffusione del morbillo in tutto l'Impero romano tra il 165 e il 266, la varicella che si diffuse nel mondo arabo nel 569 per poi estendersi nel 580 nelle regioni francesi, le febbri tifoidi e malariche nonché i numerosi casi riconoscibili di malaria, dissenteria e scorbuto, sino all'irrompere della sifilide portata dall'esercito francese a Napoli nel 1495. Ma l'evento che mise a dura prova l'organizzazione sanitaria del Medioevo fu sicuramente la peste nera del 1348, la cui catena di propagazione avvenne attraverso un ciclo che coinvolgeva i topi e i loro parassiti (le pulci), i quali, a loro volta, trasmettevano all'organismo umano l'infezione. La malattia si diffondeva poi in modo diretto da uomo a uomo.

La percezione di questo ciclo sfuggì alla società medievale (Cipolla 1989); tuttavia occorre rilevare che Avicenna nel suo Canone annoverava tra i signa pestilentiae il fatto che i topi et animalia que habitant sub terra iniziassero a dilagare ad superficiem terrae (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 2197, con miniature che illustrano l'attività di medici e farmacisti). Poi, ben oltre il Trecento, il medico Manget, pur continuando a pensare che la peste potesse dipendere dall'azione degli astri o dalla perfidia dei Turchi, teorizzò che un'efficace azione preventiva potesse venire dall'irrorare le case con profumi capaci di far scappare tutti i topi e ogni altro genere di animali. Purtroppo, ad alcune buone intuizioni si sovrapponevano talvolta assurde deduzioni; fu così che Guglielmo Grataroli suggerì un metodo 'infallibile' per individuare l'arrivo della peste: bastava prendere le galle integre delle querce e spezzarle, e qualora vi si fosse trovato un ragno all'interno si avrebbe avuta l'evidenza dell'avvicinarsi dell'epidemia.

Un'efficace azione di contrasto nei confronti delle malattie comportava dunque una diversificazione di interventi che, per essere realizzati, implicavano anche competenze di ingegneria idraulica; l'impianto di approvvigionamento dell'acqua e dei relativi scarichi (raffigurato nella planimetria medievale di un edificio nel ms. R.17.1, conservato a Cambridge nella University Library) sembra essere stato uno dei possibili fattori che preservarono dal contagio gli abitanti di alcuni agglomerati urbani. D'altronde, già Vitruvio (I sec. a.C.) aveva affermato che l'architetto avrebbe dovuto avere una vasta formazione filosofica e scientifica e quindi essere non digiuno di medicina, e altrettanta determinazione caratterizzava ῾Alī ibn Riḍwān che nel suo trattato Sulla prevenzione delle malattie prescriveva di purificare aria e acqua con timo, sandalo, canfora e oli di rosa e violette (Dols 1984).

In un mondo colpito dalle epidemie si reagì anche con gli interventi urbanistici; a Firenze la peste del 1347 portò al riassetto igienico e architettonico dei luoghi di mercato. Sino dal Duecento vi era una diffusa consapevolezza del fatto che, per evitare il contagio, fosse necessario garantire la purezza dei luoghi e in particolare dell'acqua; ciò traspariva anche nell'opera di Avicenna, che invitava a bollire l'acqua, a filtrarla attraverso un panno e a 'correggerla' con aceto o vino, suggerimenti questi che furono ripresi dal medico Adamo di Cremona (attivo nel 1235) che operava presso la corte di Federico II (1194-1250). L'importanza attribuita a tutte queste considerazioni è testimoniata dal fatto che l'imperatore svevo inserì nelle sue disposizioni legislative una serie di norme per cui l'aria e l'acqua non dovevano essere contaminate dalle attività produttive dell'uomo: "la salubrità dell'ambiente è un dono di Dio e a noi spetta conservarla secondo procedimenti precisi; si eviti di lasciar macerare il lino o la canapa all'aperto […] E i corpi dei defunti siano sepolti ben profondamente" (Constitutiones, II, 48, p. 78).

Federico II non faceva altro che riprendere un analogo intervento di Ruggero II, apportando però a questa tradizione un significativo elemento di novità che distingueva proprio tra iatrós e pharmakeús; il commercio dei prodotti medicinali era vietato ai medici, i quali dovevano promettere sotto giuramento di denunciare tutti i farmacisti che lavorassero con poca cura (Liber Augustalis). La validità di queste prestazioni fu però messa in dubbio da Raimondo Lullo il quale nel 1272 accusò i medici di diagnosticare malattie inesistenti e di prescrivere cure inefficaci all'unico scopo di spartire con i farmacisti i guadagni derivanti dalla vendita dei prodotti prescritti.

In sintonia con Federico II vi fu a Costantinopoli Giovanni III Vatatzes (m. 1254) che nel 1238 incaricò Niceforo Blemmide di viaggiare con l'intento di recuperare antichi manoscritti; in quella corte Nicola Mirepso ebbe il compito di redigere un trattato di farmacologia da utilizzare nei nosocomi che venivano costruiti (una delle prime strutture ospedaliere ‒ costruita al Cairo nell'873 ‒ contemplava locali appositi per una farmacia). A partire dal XIII sec. i farmacisti furono obbligati a garantire la purezza del contenuto dei loro prodotti; questi ultimi erano controllati attentamente da pubblici ufficiali.

Questi indirizzi divennero nel tempo estremamente dettagliati, come è testimoniato dagli Statuta observanda a medicis et spetiariis promulgati a Venezia da Ranier Zen nel 1258, nei quali non soltanto si stabilivano i prezzi dei farmaci, ma per di più si vietava agli estranei all'Arte di preparare decotti e sciroppi; si giunse così alla pubblicazione di farmacopee ufficiali la cui tradizione antica risale al Ricettario fiorentino del 1498 che ebbe nove edizioni sino al 1789. Inoltre, dalla metà del Cinquecento, gli interventi della Giustizia Vecchia veneta estesero la propria legislazione a tutta la Terraferma, e fissarono l'obbligo di bruciare i medicinali scaduti; nel 1777 si arrivò a un prontuario medico unico per l'intera Serenissima.

Vi era dunque un contesto normativo, ripreso da diversi statuti cittadini, che intendeva regolare tanto il commercio dei farmaci e le politiche sanitarie quanto l'assetto urbano, con il fine di prevenire le epidemie. Tanto gli interventi urbanistici quanto le disposizioni sanitarie poggiavano sulla tradizione di una serie di regolamenti ecclesiastici volti a circoscrivere l'insorgere della lebbra; sulla base del Levitico (13, 46) si stabilì che l'impuro dovesse stare al di fuori dei centri abitati, e questo principio fu recepito dal III Concilio del Laterano del 1179, nonché da molte autorità civiche, che imposero la costruzione dei lazzaretti. La Bibbia e i suoi commenti fornivano sovente le indicazioni farmacologiche essenziali; già nel Talmud babilonese si consigliava di dare del miele a chi è sfinito (ipoglicemia?); l'olio di oliva era usato per lenire il mal di gola; erano noti diversi tipi di erbe emetiche, e altre essenze vegetali erano usate per curare le ferite (l'unguento a base di cere e grassi mescolato con laudano, noci e mandorle, l'estratto dal populus nigra che era utilizzato tanto come espettorante quanto come balsamo per alleviare l'irritazione delle ulcerazioni). Ben conosciuto era l'uso della mandragora sia come farmaco per l'insonnia e antidolorifico sia come rimedio contro l'infertilità (Genesi, 29-30). Per ridurre le infiammazioni oculari il Talmud consigliava di applicare compresse di pane imbevute nel vino oppure foglie verdi; come antipiretico si suggeriva di applicare sulla fronte fette di piante come, per esempio, il cetriolo; nello stesso volume si riconosceva l'efficacia delle cure elioterapiche e dei bagni.

In questo contesto giudaico-cristiano era diffuso l'uso del ricino; le foglie erano utilizzate per trattare le scottature e l'olio era usato per le malattie della pelle, mentre l'estratto dei semi mescolato con bevande alcoliche come la birra veniva proposto per gastriti e cistiti; associato con i porri era invece consigliato per il trattamento di alcune dermatiti parassitarie. Per lo stomaco era utilizzato il cumino, che sembrava avere efficacia anche per le cefalee e il mal di denti. L'olio di ginepro serviva come disinfettante della pelle; la radice del melograno, tritata e mescolata a bevande alcoliche, era somministrata per uccidere i vermi intestinali.

La cultura ellenistica e caldea nel X sec. trasmise al mondo arabo ed ebraico la Agricoltura Nabatea, un trattato che fu aspramente criticato da Maimonide (1135-1204): "il libro è pieno di assurdità […], parla di talismani, dei metodi di condizionare l'influenza delle stelle, di magia e di spiriti e demoni che risiedono nella foresta" (Dux dubitantium, III, 37, pp. 332-338). La sua denuncia condannava l'idea di un mondo vegetale dotato di proprietà miracolose: alberi che muovevano i rami come fossero serpenti, foglie che applicate sul collo rendevano invisibili, piante che parlavano tra loro o che suggerivano agli uomini le pratiche magiche. Tutte follie ‒ diceva Maimonide ‒ che assai di frequente affascinavano grandi quantità di persone, ma che erano lontane dalla vera scienza.

Le connessioni tra mondo antico e medievale sono evidenti. Tanto Dioscuride quanto Galeno segnalarono l'uso dei derivati oleosi della Cannabis indica; gli scienziati arabi, come al-Rāzī e Avicenna, prescrissero poi questi preparati per curare le malattie della pelle, mentre ῾Alī ῾Abbās li usò come antiepilettici. Sempre seguendo la tradizione di Dioscuride, molti trattati descrissero diverse utilizzazioni dell'oppio, e Averroè presentò l'oppio nel De theriaca come un efficace antidolorifico e sostanza adatta a prevenire varie patologie, benché ne avvertisse la pericolosità.

A questo proposito è importante sottolineare che la storia dell'analgesia ha radici antichissime; per esempio, nella Genesi è scritto che il Creatore, quando ad Adamo fu asportata la costola per la creazione di Eva, indusse in lui "uno stato di sopore" (Genesi, 2, 21). Effettivamente, è ben documentata una tradizione di preparati antidolorifici e analgesici che va dalla conoscenza dell'estratto di Salix alba (da cui, unitamente alla Spirea, si preparò l'aspirina sintetizzata da Felix Hoffmann nel 1897) all'uso, nel monastero di Montecassino, della spongia somnifera che, imbevuta di estratti di oppio, matalote e giusquiano, avrebbe addormentato il paziente sottoposto a un'operazione chirurgica (egli sarebbe stato poi risvegliato con l'uso di un'altra spugna impregnata di aceto riscaldato). Più efficace, sebbene poco utilizzato come antidolorifico, era il "vetriolo dolce" (l'etere) di cui si servì Raimondo Lullo nel XIV secolo.

L'insieme di queste annotazioni costituì la tradizione farmacologica medievale, basata prevalentemente sull'applicazione di ciò che era stato tramandato dagli auctores dell'Antichità; si trattò dunque di una disciplina prevalentemente libraria ben lontana dal metodo sperimentale. Non mancarono però le eccezioni; per esempio, quando l'imperatore bizantino Costantino VII Porfirogeneta (905-959) donò al califfo di Cordoba il De materia medica di Dioscuride, che conteneva la descrizione di circa 600 piante medicinali, fu creata una commissione di medici che si occupò di rintracciare e identificare le piante descritte sul testo procedendo a una corretta nomenclatura ispano-araba, con varianti romanze, e identificando inoltre i succedanei delle erbe non disponibili in una data regione.

La ricerca di nuove erbe medicinali fu una costante del mondo medievale, tutto incentrato sui commerci di spezie con l'Oriente; già nel Trecento il re etiope cristiano si serviva del qat (Catha edulis) come eccitante per le truppe che combattevano gli infedeli; nel Quattrocento alcuni viaggiatori arabi segnalarono il caffè come bevanda stimolante, e l'uso fu rapidamente proibito dalle autorità musulmane, che lo assimilarono al vino. Questa ricerca di nuove erbe divenne ancor più intensa dopo il 1492 quando, con la scoperta dell'America, furono introdotte nuove piante medicinali; tra queste, il tabacco, utilizzato nei casi di avvelenamento, e la cocaina, che era somministrata a chi doveva sottoporsi a un'operazione chirurgica. Gli stili terapeutici e quelli farmacologici non si allontanavano dalle impostazioni di Galeno e di Dioscuride, e con questo spirito il re di Spagna Filippo II incaricò Hernandez de Oviedo di approntare ‒ tra il 1571 e il 1577 ‒ un thesaurus delle sostanze medicamentose che erano disponibili nelle Americhe.

In realtà, il principale ostacolo all'elaborazione di una moderna farmacologia fu l'inefficacia, e spesso l'inesistenza, dei sistemi di misurazione, che ‒ per di più ‒ differivano in modo marcato tra paese e paese. In generale, il sistema farmacologico che si sviluppò tra l'Antichità e il Medioevo era fondato su due direttrici: (a) il tentativo di classificare tutte le piante con capacità terapeutiche; (b) l'idea che si potessero mescolare tutti i principî attivi (vegetali, animali e minerali) per arrivare a produrre un unico farmaco, un antiveleno generale, contro tutte le malattie. L'igiene rimase per secoli il miglior modo per evitare il contagio, ma non sfuggì a filosofi e scienziati che nella Natura esistessero sostanze terapeutiche, gli antidoti (dal greco antídotos, 'dato contro'), capaci di contrastare i 'veleni' che tormentavano il corpo.

Fu Mitridate VI re del Ponto (m. 63 a.C.) a cercare l'antiveleno per eccellenza che avrebbe dovuto preservare da ogni intossicazione e ogni malattia. La ricerca di questa immunità coinvolse anche la tradizione galenica, che sostenne come attraverso un'adeguata mescolanza di tutti gli antidoti conosciuti si sarebbe ottenuto un preparato unico caratterizzato dalla somma di tutti gli effetti terapeutici disponibili. La tradizione, nota come theriaca (dal greco thēríon, 'animale velenoso', 'vipera') e volta appunto all'ottenimento di un tale 'antidoto universale', fu ripresa da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone (37-68 d.C.) e giunse sino ad Avicenna, sviluppandosi poi per diventare un'arte soggetta al controllo pubblico dell'Arte degli speziali.

L'assunzione di un 'antidoto', in cui erano contenute sostanze velenose, comportava dei pericoli, e di ciò si era ben consapevoli giacché il giurista romano Gaio (II sec. d.C.) osservava: "Chi dice veleno (venenum) deve aggiungere se esso è male o bene; infatti, i rimedi sono anche dei veleni, poiché questo nome contiene tutto ciò che cambia la natura di colui cui lo si applica. Ciò che noi chiamiamo veleno, i Greci lo chiamano phármakon, cosa che anche per loro significa sia il rimedio sia ciò che è nocivo; da qui la necessità di un'altra parola per distinguerli" (Grmek 1996, p. 83). Già Ctesia, medico alla corte greca di Artaserse, aveva descritto le difficoltà della somministrazione dell'elleboro poiché "nessuno conosceva il modo di mescolarlo, né la misura, né il peso che è opportuno somministrare" (ibidem), e pertanto era opportuno avvisare i pazienti del rischio che correvano in quanto spesso molti morivano soffocati.

La quantità di ingredienti usati per preparare i farmaci fu esaminata nel De retardatione accidentium senectutis attribuito a Ruggero Bacone; in quest'opera si sosteneva che nella preparazione dei farmaci occorreva operare sia per experimentum ratiocinationis sia per experimentum certitudinis, in quanto da un lato era necessario conoscere bene le erbe con proprietà terapeutiche e dall'altro non si poteva prescindere dall'osservazione ‒ per spatium temporis ‒ degli effetti che un preparato aveva sul corpo umano. In particolare, lo Pseudo-Bacone discuteva se vi potesse essere una medicina capace di curare più di una malattia, e se fosse appropriata o meno la consuetudine di mescolare assieme diverse erbe, soprattutto quelle lassative e gli oppiacei. L'uso di più radici di piante era giustificabile quando fosse necessario temperare gli effetti di un'erba particolarmente tossica; per esempio, qualora ci si fosse serviti dell'aloe per purgare l'intestino si sarebbe dovuto bilanciare l'effetto negativo che l'aloe sembrava avere sul sangue aggiungendo nel preparato il dracontium e la myrrha.

Di tutto ciò Ibn Buklaris, nel suo trattato di farmacologia del 1106, era già ben conscio. Nel pensiero di questo medico ebreo vi era la determinazione tanto filologica quanto scientifica di non trascurare mai l'osservazione diretta, allo scopo precipuo di raccogliere tutti i dati per la preparazione di un farmaco: "Io dico che […] questa è una scienza complicata e difficile tanto che molti l'abbandonano fidandosi delle copie dei libri. In realtà costoro non si rendono conto che tutto quello che apprendono è già passato attraverso le mani di molta gente che non lo ha copiato bene né conosce l'argomento. È possibile pertanto che molti di questi libri riportino errori, esagerazioni nei pesi delle droghe, e che talvolta abbiano trascurato di riferire i nomi di una o più sostanze" (Labarta 1980). Ibn Buklaris denunciava che con queste leggerezze i ciarlatani potevano commettere atti tali da compromettere la salute del paziente; pertanto sollecitava un impegno "affinché nessuno venda […] o prepari medicine a meno che non sia un medico esperto, né si permetterà di comprare i rimedi dai droghieri […] poiché il fine di costoro è quello di guadagnare denaro, perciò preparando medicine sconosciute […] provocano solo la morte degli infermi" (ibidem). Egli pensava che per fermare i millantatori si sarebbe dovuto divulgare il più possibile il sapere scientifico sostenendo che chi riceve una scienza è obbligato a divulgarla e non deve mantenerla segreta.

Nel Medioevo l'impegno per rendere più efficace l'azione terapeutica includeva un adeguato sostegno psicologico che prevedeva anche interventi di aromaterapia e azioni volte a rendere più salubri i luoghi di lavoro, nonché le abitazioni che dovevano essere lavate frequentemente con acqua e aceto, quindi profumate con erbe capaci di prevenire il degrado dell'aria. A partire dal XII sec. i trattati di medicina tentarono di indicare come fosse possibile assicurare tranquillità e serenità al paziente; in effetti, in un quadro in cui le scienze erano tutte interdipendenti ‒ tanto che la farmacologia non poteva trascurare l'astrologia e l'alchimia ‒ si cominciò a invitare a non sottovalutare le condizioni 'psicologiche' di chi aveva contratto una malattia. Maimonide prescrisse che:

non bisogna mai trascurare di rafforzare le condizioni psichiche dell'ammalato avvalendosi di buoni profumi e di aromi quali il muschio, la rosa, il basilico e l'aloe […]; al tempo stesso le forze vitali andranno sostenute avvalendosi di strumenti musicali, raccontando storie divertenti in modo da rilassare l'anima del paziente e rasserenarne il cuore; si dovranno comunque ricordare notizie che distraggano la sua mente e lo facciano ridere assieme ai suoi amici. Occorrerà scegliere le persone che lo assistano in modo che il malato sia contento e ben trattato. Tutto ciò è obbligatorio in ogni malattia. (Rosner 1990, p. 148)

Egli inoltre sottolineava con passione come l'ascolto della musica e del bel canto fosse indispensabile per distendere l'animo; per evitare ogni possibile smarrimento Maimonide suggeriva pertanto di rilassarsi con queste armonie almeno per un'ora al giorno.

Della stessa opinione era il medico e filosofo Michele Scoto, ancor più dettagliato nel prescrivere il necessario conforto 'psicologico' a chi era stato colpito da una malattia. Egli esortava innanzi tutto a considerare se le ragioni dell'infermità potessero dipendere da fattori ambientali provocati dalla rumorosità del posto di lavoro o dall'abitare in luoghi malsani e umidi; in ogni caso riteneva necessario per il successo di una terapia che gli amici dell'ammalato continuassero a frequentarlo per rallegrare il cuore del paziente. Scoto suggeriva quindi una vera e propria strategia di sostegno morale dell'infermo; ogni visitatore avrebbe dovuto indossare vestiti di porpora o comunque colorati gradevolmente, e si sarebbe reso poi disponibile a raccontare storielle divertenti; era anche obbligatorio che la stanza del paziente fosse decorata con fronde d'albero, immagini e oggetti piacevoli. Un altro elemento tonificante era costituito dalla diffusione nell'ambiente ove giaceva l'ammalato di erbe e di fiori aromatici; tra questi si consigliavano i fiori degli alberi da frutta e la rosa selvatica, il muschio, la salvia, lo zafferano e la maggiorana. Il tutto doveva essere organizzato con l'intento ‒ dichiarava Michele Scoto ‒ di fare in modo che i dolori non inducessero il paziente alla disperazione; per questo si rendeva necessario stimolare le sensazioni del piacere nell'ammalato avvalendosi del suono di un noto strumento a corde, il salterio.

Su questo punto concordava anche Arnaldo da Villanova, medico di re e papi, che sosteneva l'utilità dei bagni termali accompagnati dalla dolcezza di canti e musiche. A questo proposito efficacissime sono le parole di Guglielmo Ebreo da Pesaro (1420-1481), il cortigiano di Lorenzo de' Medici, attivo anche a Napoli e Venezia, che affermò che la musica e il canto costituiscono una scienza

di singularissima efficacia, et alla humana generatione amicissima et conservativa: senza la quale alchuna lieta et perfetta vita essere tra gli humani giamai non puote: si chome noi stessi spesse volte proviamo quando con tanto et fervente studio nutricamo nelle nostre case i vaghi et lieti ucelletti per havere da loro il dolce et suave frutto di suoi amorosi et delettevoli canti dalla gran maestra di natura in lor creati. Li quali sovente porgono agl'infermi spiriti et alle contristate menti leticia singulare. (De practica seu arte tripudii, ed. Sparti, p. 88)

L'evoluzione delle patologie

di Jean-Noël Biraben

L'Alto Medioevo

È certamente arbitrario suddividere la storia delle patologie del mondo occidentale in periodi distinti. Nel Medioevo infatti è raro che si verifichi un cambiamento improvviso, tale da poter influire su una considerevole parte delle patologie umane, come può accadere oggi con le grandi scoperte mediche (vaccini, chemioterapia, terapia antibiotica, ecc.). Tuttavia, sembra che in certi momenti, in seguito all'improvvisa comparsa di una nuova grande epidemia, in pochi anni si accumulino cambiamenti che segnano una svolta nello stato patologico delle popolazioni.

Una mutazione di questo tipo si è prodotta all'inizio dell'Alto Medioevo, e altre tre sono sopraggiunte in seguito, durante l'Alto e il Basso Medioevo. Come accade per ogni epoca, nel periodo tra una mutazione e l'altra è predominante un certo numero di affezioni, le quali formano un complesso patologico chiamato 'patocenosi'. All'interno di questa patocenosi, per un tempo più o meno lungo, le malattie si presentano in uno stato di equilibrio o squilibrio permanente (cioè di crescita o decrescita). Le affezioni ricorrenti ‒ per la maggior parte endemiche o allo stesso tempo endemiche ed epidemiche ‒ che si verificano con una certa costanza in ogni epoca, sono poco significative per operare una distinzione tra patocenosi successive. I criteri più validi per la delimitazione di una patocenosi sono invece le modificazioni che si attuano nelle grandi epidemie o endemie, ossia la comparsa, la crescita, il declino o la scomparsa. In base a questi elementi sono state distinte, nel corso del Medioevo, quattro patocenosi successive delle quali forniamo una breve descrizione.

Durante l'Impero romano, la patocenosi era stata caratterizzata da pandemie molto gravi ed estese, probabilmente favorite dallo sviluppo della rete viaria, delle comunicazioni marittime all'interno dell'Impero e del commercio con i paesi stranieri, tra cui i Paesi Baltici, l'Etiopia, l'Iran, l'India e anche la Cina attraverso la via della seta. Nel periodo che si apre con le grandi invasioni, alla metà del V sec., questo stato di cose comincia a modificarsi sensibilmente. Da una parte un certo raffreddamento del clima causa un notevole calo nella produttività agricola (che rappresenta il 90% dell'economia dell'epoca), dall'altra i grandi spostamenti di popoli, in seguito alle invasioni, diminuiscono sensibilmente gli scambi commerciali, favorendo la diffusione di diverse malattie.

Più grave è il progressivo declino che investe la medicina; essa sopravvive con molta difficoltà nell'Impero d'Oriente del V sec., mentre in Occidente, dove cessa il suo insegnamento, decade, e la sua pratica scompare quasi del tutto durante il VI sec., sostituita dalla medicina di beneficenza dispensata nei rari ospedali o nei monasteri. È infatti sulla spinta della carità cristiana che s. Basilio (329-379) nel 368 allestisce, nei pressi di una porta della città di Cappadocia di Cesarea, un istituto che costituirà il modello dei futuri ospedali. Tale edificio comprendeva due parti distinte, ossia un ospizio, o xenodochio, che serviva da rifugio per i viaggiatori stranieri poveri, e un ospedale propriamente detto, o nosocomio, che accoglieva i malati poveri offrendo loro gratuitamente le cure. Su tale modello, nel 380 a Ostia fu fondato da Fabiola il primo ospedale dell'Occidente; in seguito, a partire dal V e soprattutto dal VI sec., ne furono costruiti molti altri ‒ quasi sempre di modeste dimensioni ‒ dai vescovi, ognuno nella città di appartenenza.

Alla fine del VI sec., su iniziativa di Cassiodoro (490 ca.- 580 ca.), all'interno dei monasteri benedettini i monaci cominciarono a copiare antichi trattati di medicina e ad acquisire numerose conoscenze in questo campo, istruendo alcuni tra loro a dispensare cure ai poveri e a praticare semplici operazioni. È da notare che la documentazione relativa alle malattie e alla situazione sanitaria dell'Europa, che fino ad allora si limitava unicamente all'Impero romano, cioè soprattutto alle regioni mediterranee, si estende gradualmente prima alle isole britanniche, poi all'Europa centrale, infine all'Europa orientale e settentrionale. La prima epidemia di questa patocenosi è nota unicamente attraverso una tradizione britannica. Essa avrebbe colpito i Bretoni dell'Inghilterra tra il 441 e il 444, e i Pitti ne avrebbero approfittato per attaccarli. Non potendo più contare sull'aiuto delle truppe romane, che avevano abbandonato il paese nel 407, i Bretoni avrebbero fatto appello ai Sassoni. Ignoriamo tutto sulla natura di questa malattia ma, se la tradizione fosse confermata, si tratterebbe di un'epidemia rimasta a livello regionale, unico carattere che la differenzierebbe dalle grandi pandemie precedenti.

Nel 455 Evagro lo Scolastico riferisce che, a seguito di una siccità e di una carestia, una grande epidemia nata in Asia Minore, caratterizzata da tosse, febbre, tumefazione e infiammazione del corpo, si diffuse nella penisola balcanica risalendo il Danubio fino a Vienna. F. Schnurrer pensa di riconoscere in questa malattia, contro la quale la medicina dell'epoca era impotente, una forma di morbillo.

Molto più importanti sono invece il ritorno, lo sviluppo o la comparsa delle tre grandi affezioni che segnano in modo determinante quest'epoca, ossia il vaiolo, la lebbra e la peste, così come la scomparsa di una malattia epidemica, la cardiaca passio descritta dai medici latini. Questa malattia (di cui si sa poco, poiché impossibile oggi da osservare) ‒ forse imparentata alla febbre inglese (sudor anglicus), del XV e XVI sec. o alla febbre miliare del XVIII e XIX sec., e caratterizzata da un certo grado di letalità ‒, apparsa per la prima volta nel I sec. d.C., si era ripresentata all'inizio con molta frequenza e in seguito sempre più sporadicamente fino a essere menzionata per l'ultima volta al principio del VI secolo.

La lebbra, portata in Italia nel 60 a.C. dai soldati di Pompeo, si diffuse inizialmente in modo piuttosto limitato; a partire dalla metà del V sec. essa conobbe uno sviluppo così rapido da divenire una grave minaccia per tutti i paesi dell'Occidente. In quest'epoca, infatti, i testi riguardanti la lebbra ‒ legislativi o regolamentari, civili o religiosi ‒ si moltiplicarono, testimoniando l'esistenza di una crescente preoccupazione per questa endemia, in contrasto con l'indifferenza con cui era stata trattata nel periodo precedente. Poiché la lebbra aveva da molto tempo la fama di essere una malattia contagiosa e inguaribile, i lebbrosi erano spesso costretti a vivere un'esistenza emarginata e miserabile. Oltretutto, poiché in quest'epoca la sanità era gestita dalla sfera privata, fu la Chiesa a prendere l'iniziativa della creazione delle prime misure di assistenza pubblica con l'apertura di ospedali specializzati per questo tipo di malati, che in breve tempo presero il nome di 'lebbrosari'. Il primo, una casa modesta, fu aperto nel 460 nelle vicinanze dell'abbazia di Saint-Oyan (oggi Saint-Claude sul Giura). L'Italia, la Gallia, la Penisola Iberica, poi le isole britanniche e la Germania, videro a poco a poco moltiplicarsi questi istituti di carità, finché diversi concili, in particolare quello di Orléans nel 549, resero obbligatoria per i vescovi l'assistenza ai lebbrosi.

Nella maggior parte dei regni germanici in cui si era diviso l'Impero romano, alcune leggi vietavano ai lebbrosi di continuare a vivere nelle loro famiglie e di circolare liberamente in mezzo alla popolazione. Sappiamo oggi che circa la metà dei malati presentava forme poco visibili della malattia, e dunque non dovette essere toccata da queste misure di isolamento, che si supponeva potessero arrestare efficacemente il contagio. Tuttavia, se si misura l'importanza della lebbra col numero dei testi ufficiali, civili o religiosi che le si riferiscono, si constata che, dopo la rapida crescita del IV e V sec., essa conobbe una leggera regressione durante il VII secolo. Tale declino però fu soltanto transitorio, perché a partire dall'VIII sec. le autorità dovettero rispondere a una nuova ondata della malattia rinforzando le misure di esclusione e di isolamento.

Un'altra epidemia molto grave che sembrava essere ormai del tutto scomparsa, il vaiolo, si ripresentò in modo violento nel VI secolo. Nel 541, forse provenendo da Marsiglia, essa si diffuse in Francia, in Germania, in Belgio e nelle isole britanniche, in particolare in Irlanda dove (attraverso le ricerche di J.F.D. Schrewsbury) è stata individuata negli anni 543, 548, 550 e 555. Riguardo alla Francia, Gregorio di Tours (538-594) ne descrive la comparsa in Turenna, dove colpì soprattutto gli adulti, compreso lui stesso, il suo chierico e il vescovo di Nantes che, mal curato, ne morì all'età di settant'anni. In realtà, a quei tempi il vaiolo non poteva impiantarsi in maniera endemica, sia per ragioni climatiche sia, ancor di più, per ragioni demografiche, poiché il popolamento e gli agglomerati dell'Occidente erano al di sotto della soglia critica che ne permette la persistenza e la diffusione. Ciò significa che la malattia con molta probabilità era riportata periodicamente per via marittima dal Vicino Oriente. Nelle isole britanniche, per esempio, il vaiolo scomparve per un secolo per poi ritornare, violento come la prima volta, nel 664 e ancora nel 675, impiantandosi questa volta in maniera pressoché endemica per qualche anno prima di scomparire nuovamente. In seguito, esso ebbe soltanto alcuni ritorni episodici, nel 709 a Saint-Omer e nel 711 nella Penisola Iberica con le truppe di Tariq. Fu Aronne, un prete medico di Alessandria d'Egitto, che offrì nel 622 la prima descrizione medica della malattia. Essa però finì per rimanere ignota in Europa, dove l'insegnamento della medicina era ormai in declino e i monaci avevano smesso di copiare i grandi trattati medici per limitarsi a brevissimi riassunti descrittivi delle malattie, seguiti da alcune ricette per il loro trattamento.

Il terzo grande flagello che colpì l'Europa durante questa patocenosi, probabilmente per la prima volta, fu la peste bubbonica. La sua prima dirompente comparsa è conosciuta nella storia con il nome di 'peste di Giustiniano'. Arrivata, forse, nel 541 dall'Etiopia nel porto egiziano di Pelusio ‒ sbocco mediterraneo del commercio marittimo dal Mar Rosso e dall'Oceano Indiano ‒ la peste si trasmise di lì a poco ad Alessandria d'Egitto; da lì, nel 542 raggiunse per via marittima Costantinopoli e nello stesso anno si diffuse in Tracia, in Macedonia, in Dalmazia e in Spagna. L'anno successivo devastò Roma e il resto dell'Italia, in seguito Marsiglia e la Provenza, da dove, risalendo le valli del Rodano e della Saona, arrivò fino a Treviri.

Questa prima epidemia, che si propagò in una popolazione fino ad allora indenne, provocò danni inauditi; la perdita di vite umane fu tale che l'Impero ne fu scosso fino alle fondamenta economiche. Nelle città le case vuote crollarono, nelle campagne i campi restarono incolti, le greggi abbandonate morirono di malattia o alla ricerca di un nutrimento introvabile, la mano d'opera, rara, divenne costosissima, i proprietari rovinati non riuscirono più a pagare le imposte, i ranghi effettivi degli eserciti furono ridotti. Nel complesso il bilancio si rivelò così catastrofico che in esso si può ravvisare la causa principale del fallimento della politica di riconquista di Giustiniano.

In Europa, se si eccettua l'incursione fino a Treviri, soltanto le regioni del versante mediterraneo furono toccate dal flagello, cioè quelle più ricche e più popolate che, fino ad allora, avevano costituito il sostegno economico e finanziario dell'Impero. Probabilmente a causa della loro minore popolosità, l'epidemia non penetrò nelle regioni interne, neanche durante i suoi ritorni periodici, non trovandovi una frequenza di contatti sufficiente. Tuttavia, come accadrà più tardi nel Basso Medioevo, la peste ritornò in Occidente piuttosto regolarmente nell'arco di periodi lunghi dai nove ai tredici anni, in una ventina di ondate di cui almeno undici toccarono l'Europa, quasi esclusivamente sul versante mediterraneo. Successivamente, per ragioni che non sono chiare, dopo un'ultima ondata che colpì Napoli e la Sicilia nel 767, la peste scomparve tanto in Europa quanto nel Vicino Oriente.

I secoli dall'VIII all'XI

Quest'epoca, iniziata con la breve rinascita carolingia, si presenta come una delle più buie per l'Europa. Aggredita da ogni parte dalle invasioni, Vichinghi al nord, Arabi al sud, Slavi e Ungheresi all'est, la cristianità europea, che manteneva con il Vicino Oriente soltanto scarsi contatti e un commercio molto ridotto, conobbe un periodo di ripiegamento su sé stessa e solamente più tardi cominciò a riacquistare un certo dinamismo. Verso l'800 si insedia una nuova patocenosi che persisterà per ben tre secoli. Mentre la peste scompare e il vaiolo e la lebbra sembrano ristagnare o addirittura regredire lentamente, compaiono però due nuovi flagelli: il cosiddetto 'fuoco sacro' e l'influenza. Essendo possibile disporre di una statistica delle menzioni di malattie in un numero sufficiente di testi medici dell'Alto Medioevo, esamineremo l'importanza delle affezioni correnti o endemiche e le loro eventuali variazioni durante le patocenosi successive.

La peste, scomparsa nel 767 a Napoli, è rapidamente dimenticata tanto da non essere menzionata in alcun testo medico. Il vaiolo è citato per la prima volta agli inizi del IX sec. in un testo medico contenuto in un manoscritto proveniente dalla regione di Orléans, nel quale, in diciotto righe, sono descritti i sintomi principali ed è indicato il relativo trattamento. In seguito, soltanto tre altri manoscritti riportano notizie, ancora più ridotte, sul vaiolo; uno, dell'inizio del IX sec., proveniente dalla regione di Digione, e altri due, dell'inizio dell'XI sec., delle regioni di Vendôme e di Rouen. Ciò significa che la malattia era divenuta piuttosto rara. La lebbra invece non scompare, ma l'attenzione che le prestano i testi ufficiali, civili o religiosi, diminuisce circa della metà fra l'inizio del IX e dell'XI sec., lasciando supporre che la sua minaccia era divenuta ormai sempre meno pressante.

L'epidemia più eccezionale, e anche la più grave per l'epoca, fu il 'fuoco sacro'. Nell'857, sulle sponde del medio Reno, si manifesta una malattia che i Romani avevano già incontrato nel II sec. d.C. e descritto brevemente come una piccola epidemia che aveva colpito una legione di guarnigione in Toxandria (regione corrispondente al Brabante settentrionale). Nel IX sec., si era perso il ricordo di questa epidemia minore al punto che, quando essa ritornò sotto forma di grande epidemia regionale, provocò subito prostrazione e sconcerto. In realtà, non si tratta di una infezione, ma di una intossicazione caratteristica, detta ergotismo, causata dalla Claviceps purpurea, un fungo parassita velenoso, responsabile della malattia della segale (segale cornuta). Giunto probabilmente dall'Asia centrale, esso si diffonde con grandi ondate stagionali quando il clima gli è favorevole. Ingerito frammisto alla farina degli alimenti, trasmette due forme di intossicazione, una forte e una debole. La prima provoca una forma acuta, o convulsiva, nella quale spasmi con contrazioni molto dolorose scuotono il malato ed evolvono rapidamente verso il delirio e la morte. Nella seconda, cancrenosa ‒ probabilmente la più frequente ‒, il sonno è turbato da incubi, enormi vesciche sierose si formano sotto la pelle, gli arti sono colpiti da dolori lancinanti, si anneriscono, si disidratano, finendo per fratturarsi al livello delle articolazioni. Proprio l'annerimento ha fatto credere che un fuoco misterioso carbonizzasse gli arti dall'interno, da cui il nome di 'fuoco sacro'. Va aggiunto che questa intossicazione, anche in forma molto debole, fa cessare immediatamente la lattazione, provocando così la morte di molti neonati.

Dopo un inizio di modesta entità nell'857 presso Xanten sulla riva sinistra del Reno, il fuoco sacro si estese mezzo secolo più tardi nel bacino di Parigi, dove trovò un clima favorevole. L'Île-de-France nel 912, di nuovo questa e la Champagne nel 945, furono teatro delle prime due manifestazioni di una terribile serie. A partire dal 993, quasi ogni anno l'ergotismo devastò una o più province, provocando decine di migliaia di morti e mutilando un numero ancora maggiore di persone. Così furono martirizzati di volta in volta gli abitanti dell'Île-de-France, dell'Artois, della Champagne, della Lorena, del Limosino, dell'Aquitania, del León in Spagna, della Vallonia, delle Fiandre, del Delfinato, della Provenza. In seguito furono colpite la Germania nel 1105 e l'Inghilterra nel 1109, quando l'ergotismo raggiunse l'apogeo nell'Europa occidentale.

L'altra grande epidemia di quest'epoca fu l'influenza. Questa infezione virale insorse bruscamente in Europa nell'inverno fra l'876 e l'877. Durante il viaggio di ritorno da una spedizione in Italia l'armata di Carlomanno fu colta da una febbre con tosse violenta, lacrimazione e disturbi oculari; molti morirono per la tosse e al loro arrivo in Germania l'epidemia si diffuse in tutto il paese, specialmente nelle regioni renane. La malattia si presentava molto più grave delle semplici corize e di altre sindromi influenzali stagionali conosciute fin dall'antichità. Alcuni hanno voluto vedervi il morbillo, altri la polmonite, ma l'opinione dominante è che si tratti proprio dell'influenza, la prima che abbia colpito l'Occidente. Da allora in poi essa ritornerà numerose volte, colpendo molti paesi in pochi mesi, e causando, una o due volte in ogni secolo ‒ per esempio nel 927 e nel 1105 ‒, vere e proprie ecatombi.

Oltre a queste due nuove grandi affezioni, un'altra grave malattia, questa volta endemica, fino ad allora rimasta confinata al versante mediterraneo dell'Europa, si diffuse sulle coste atlantiche e sulle rive del Mare del Nord, portata dai Vichinghi al ritorno dalle loro incursioni nel Mediterraneo e sulle coste dell'Africa: la malaria. Si tratta quasi sempre del Plasmodium vivax, che attecchisce sulle coste della Danimarca, della Germania, dei Paesi Bassi, del Belgio e della Francia, specialmente sulla costa di Saintonge; poi, risalendo i fiumi, raggiunge le regioni paludose dell'interno, come la Sologne, la Brienne in Francia, l'Hannover e la parte inferiore della Vestfalia in Germania.

L'esistenza di un inventario di tutti i manoscritti latini di medicina dell'Alto Medioevo presenti nelle biblioteche pubbliche francesi, compilato da Ernest Wickersheimer, ci ha permesso di stendere una tavola generale delle affezioni ricorrenti delle patocenosi di quest'epoca come pure di calcolare il numero delle citazioni per ciascuna affezione; tale statistica può fornirci indicazioni preziose anche su quelle patologie considerate minori. I 118 testi studiati vanno dal VII all'inizio dell'XI sec.; la maggior parte dei manoscritti proviene dai monasteri francesi, ma un certo numero dall'Inghilterra, dalla Germania, dai Paesi Bassi, dal Belgio, dal Lussemburgo, dalla Svizzera e dall'Italia, mentre tra quelli la cui origine è sconosciuta due sono, se non originari della Spagna, almeno legati a essa.

A un attento esame emerge chiaramente che questi registri sono copiati in gran parte gli uni dagli altri, il che induce a credere che essi rappresentino uno specchio abbastanza fedele delle preoccupazioni riguardo alla salute delle popolazioni dell'Europa occidentale nell'epoca in cui la medicina era praticata nei monasteri. Nell'interpretare i dati contenuti in questi documenti, una difficoltà di rilievo è stata quella di tradurre in affezioni oggi identificate le malattie quali le si concepiva e descriveva all'epoca; in effetti, se alcune, come il vaiolo, sono relativamente facili da individuare, altre, che presentano segni clinici simili, sono confuse tra loro e scambiate per un'unica malattia, mentre altre ancora, presentandosi sotto forme diverse, sono ripartite in altrettante patologie differenti. Per maggiore chiarezza, e per non perderci in incertezze senza soluzione o identificazioni contestabili, abbiamo raggruppato queste malattie per grandi categorie sia anatomiche sia eziologiche, sapendo bene che si sarebbero potute fare altre scelte.

È interessante entrare nel dettaglio di alcune voci; per esempio, su 60 citazioni di febbri, 13 concernono le febbri intermittenti (malaria), 5 altre febbri e 42 alcuni febbrifughi; in altre parole, questi testi più che veri e propri trattati di medicina sembrano raccolte di ricette predisposte, che permettono una 'medicina di soccorso', più che una pratica medica professionale. Occorre inoltre rilevare che le grandi epidemie hanno una presenza relativamente modesta: il vaiolo è citato soltanto 4 volte, il fuoco sacro 12 volte, il carbonchio 7 volte, la lebbra una sola volta e la rabbia, che non è però epidemica, 6 volte. Quanto alle malattie veneree, esse sono quasi assenti, con una sola menzione della gonorrea, e nulla che possa più o meno assimilarsi alla sifilide. Senza passare in rassegna tutte le voci, evidenziamo l'importanza delle affezioni digestive (175 citazioni), di quelle dell'apparato respiratorio (112 citazioni, fra le quali si rileva 16 volte la tisi, mentre le scrofolosi sono segnalate soltanto 2 volte), infine delle malattie propriamente femminili (58 menzioni).

Altra affezione particolarmente evidenziata è la gotta, menzionata 57 volte e che colpisce tutte le classi sociali: contadini, mercanti, monaci, e persino il papa Gregorio Magno (540 ca.-604) che nel 599 dichiara di scrivere dal suo letto, dove è trattenuto da quattordici mesi per un'interminabile crisi di gotta. Con ogni probabilità la grande diffusione di questa affezione è il risultato di un leggero saturnismo alimentare, dovuto alle vernici delle stoviglie e all'incapsulamento dei vini con prodotti a base di piombo. Anche le malattie della pelle sono citate molto frequentemente (43 notazioni), ma la loro descrizione è sempre estremamente sommaria e la denominazione di 'scabbia' copre in realtà una gran varietà di affezioni. Infine, è necessario rilevare l'importanza delle parassitosi, molto frequenti e diffuse (49 menzioni, riguardanti i pidocchi e soprattutto i vermi intestinali come lombrichi e tenie).

Dall'esame delle casistiche relative alle cause di decesso fra la metà dell'VIII sec. e quella del IX sec. o di quella, antichissima, delle affezioni citate nelle Epidemiae del Corpus Hippocraticum ‒ in cui circa i tre quarti delle affezioni sono di origine infettiva o parassitaria ‒, emerge una forte preponderanza di menzioni (i due terzi del totale) riguardanti malattie che non sembrano né infettive né parassitarie. In realtà, queste casistiche mediche dell'Alto Medioevo non hanno di fatto alcuna pretesa di enumerare cause di decesso; ciò significa che devono essere interpretate soprattutto come il riflesso delle preoccupazioni quotidiane per la salute dell'Europa occidentale di quest'epoca.

Il Basso Medioevo

Per l'Europa intera il Basso Medioevo è il periodo delle Crociate e della ripresa dei contatti e del commercio con le regioni del Vicino Oriente. Esso è caratterizzato inoltre da un progressivo incremento dell'economia e dall'aumento demografico, fattori che modificarono piuttosto rapidamente le condizioni epidemiologiche tanto dell'ambiente quanto delle popolazioni. Se nel Basso Medioevo le affezioni ricorrenti restano nell'insieme abbastanza vicine alla tavola che abbiamo illustrato, certe grandi endemie modificano radicalmente il loro comportamento a partire dal ritorno dalla prima Crociata.

La lebbra, che sembrava essere regredita nel periodo dal IX all'XI sec., ritorna in modo molto invasivo all'inizio del XII sec., al punto da divenire nel secolo successivo un grande flagello pubblico. L'opinione dominante ritiene che questa recrudescenza sia da mettere in relazione con il ritorno dalla prima Crociata e con la ripresa del commercio con il Vicino Oriente. Poiché la lebbra compare soprattutto nei paesi orientali, appena qualche anno dopo la presa di Gerusalemme ‒ sull'esempio dell'ordine di Sant'Antonio fondato nel 1095 nel circondario di Vienna per confortare gli animi pregando Dio e curando i corpi degli 'ardenti' ‒ è istituito l'ordine ospedaliero di San Lazzaro, consacrato tanto alla preghiera quanto alle cure del corpo dei lebbrosi, i cui statuti sono approvati dal papa nel 1115. Durante il XII e il XIII sec. le misure di esclusione dei lebbrosi diventano sempre più rigorose; infatti, per impressionare le menti, sono istituite commissioni miste di medici e di lebbrosi che impongono ai sospettati esami minuziosi per decidere le modalità della loro esclusione dalla società civile. Lebbrosari sono fondati ovunque in Europa a partire dalle più varie iniziative; la Chiesa, i re, i signori feudali, o anche città o comunità (le commende di San Lazzaro in Europa hanno soprattutto come missione quella di finanziare l'ordine, assai meno di dispensare cure ai lebbrosi, a eccezione della creazione di un grande lebbrosario in Inghilterra).

Nel XIII sec. il numero dei lebbrosari in Europa è stimato tra 19.000 e 20.000 e, secondo le numerose liste dell'epoca, i più piccoli potevano accogliere soltanto due o tre lebbrosi, mentre alcuni, nei dintorni delle grandi città, avevano più di cento ricoverati, con una media di 15 o 16 lebbrosi per lazzaretto. In totale, intorno al 1300 vi sarebbero stati in Europa circa 300.000 lebbrosi in istituti specializzati, cioè relativamente ben isolati dal resto della popolazione. Supponendo, come ci mostra l'epidemiologia moderna, che la metà delle persone infettate dalla lebbra presentasse soltanto segni molto poco visibili (e molto poco contagiosi), per cui esse non erano riconosciute come malate secondo i criteri usati dalle commissioni dell'epoca, si può stimare a circa 600.000 il numero reale delle persone affette da questa malattia. Se si rapporta questa stima alla popolazione totale dell'Europa, ossia circa 75-80 milioni di abitanti includendo anche la Russia, si avrà una percentuale dello 0,82 % come ordine di grandezza possibile al momento massimo di diffusione della malattia in Europa. In effetti, per ragioni che ci sfuggono, dalla prima metà del XIII sec. il numero dei lebbrosi comincia a regredire leggermente.

Intorno al 1100 anche il fuoco sacro conosce la sua maggiore espansione nell'Europa occidentale, che dura fino al primo decennio del XII sec., quando inizia a regredire progressivamente. Verso la metà del XII sec. tale regresso è così rapido che in dieci anni la frequenza della malattia diminuisce della metà, e cento anni più tardi si trova solamente qualche rara piccola epidemia locale; il terrore che infondeva il fuoco sacro, vera e propria paura ossessiva che invadeva gli animi un secolo e mezzo prima, è del tutto dimenticato. Come abbiamo osservato, l'ordine di Sant'Antonio era stato fondato per la cura dei malati di fuoco sacro. Organizzati per combattere questa malattia ‒ che prende ben presto il nome di 'fuoco di sant'Antonio' ‒, i religiosi antoniani, frati infermieri o frati chirurghi che amputano gli arti compromessi dalla malattia, nutrono i malati con un buon pane bianco che guarisce velocemente, poiché la malattia si arresta quando cessa l'intossicazione. Specialisti di questa affezione, essi svolgono in genere il compito di fornire un immediato soccorso nelle città dove sono insediati.

Il rapido regresso dell'ergotismo nel XII sec. non può tuttavia essere attribuito a loro; più verosimilmente, se da un lato il clima è divenuto meno favorevole alla crescita della segale cornuta, dall'altro lato si diffonde sempre più l'abitudine di non seminare più questo cereale da solo, ma una miscela di segale e di frumento, chiamata 'segalata'. All'inizio del XIII sec., un notevole risveglio del flagello in Spagna rallenta il suo regresso, ma anche lì i religiosi antoniani aprono ospedali ovunque il flagello sia loro segnalato e, verso il 1250, la rete delle loro commende-ospedali si estende a tutta la cristianità, fino a Cipro e alla Palestina. Ma a questa data, come abbiamo visto, il fuoco di sant'Antonio ha già smesso di essere un vero e proprio flagello per retrocedere al rango delle affezioni residuali.

L'influenza invece ritorna sempre in maniera episodica, a volte in modo grave, come nel 1105 e soprattutto nel 1172, quando esplode a Venezia e si diffonde nel giro di pochi mesi in Italia, in Sassonia, in Francia e in Inghilterra. All'interno di questa patocenosi devono essere segnalate anche altre affezioni, più endemiche come la tubercolosi o più rare come lo scorbuto. In quest'epoca la tubercolosi, presente nell'Europa occidentale fin dall'inizio del Neolitico, sembra diffondersi con particolare virulenza. Se però nell'Alto Medioevo sembra predominante la forma di tisi polmonare, nel Basso Medioevo è la forma gangliare che appare di gran lunga la più preoccupante, e probabilmente la più frequente, a partire dal XII secolo. Fra le ipotesi avanzate per spiegare quest'ondata europea di adenite di natura tubercolare, chiamata 'scrofolosi', vi è la consistente esportazione di bovini dalla Lombardia in tutta l'Europa. È probabile che questi animali, essendo infetti, abbiano diffuso ceppi bovini del bacillo di Koch, che avrebbero così favorito la forma gangliare della malattia.

Va inoltre ricordato che nella stessa epoca in Francia e in Inghilterra si diffonde la credenza che il tocco del re possa guarire la scrofolosi. In Inghilterra la tradizione fa risalire questo potere a Edoardo il Confessore, in Francia a Clodoveo. In realtà, il tocco del re, che è praticato soltanto nel giorno dell'incoronazione, è sempre accompagnato da un'elemosina di una certa consistenza, per 'rinforzare', pur se soltanto provvisoriamente, l'efficacia del tocco; di certo, queste poche monete d'oro contribuivano a migliorare le condizioni di vita dei malati poveri.

La popolazione urbana dell'Europa, diminuita enormemente dalla fine dell'Antichità all'inizio dell'Alto Medioevo, aveva ripreso lentamente a crescere nell'XI secolo. Nel XII sec. essa continua la sua crescita per esplodere, relativamente alle proporzioni del tempo, nel XIII sec., raggiungendo forse il 12-13 % della popolazione totale. In alcune città molto importanti all'epoca, come Parigi, i medici descrivono alcune sindromi ‒ forse da collegare allo scorbuto ‒, che si possono spiegare con l'eccessivo consumo di prodotti non freschi e di cibi sotto sale. Questa patologia compare a volte tra i reclusi nelle prigioni o in città sottoposte a lungo assedio, ma anche tra i marinai, in quanto le navi erano divenute abbastanza grandi da poter effettuare lunghe traversate con cibi conservati, in particolare sotto sale, senza essere costrette al cabotaggio. La stessa carenza si verificava durante le campagne militari quando non era possibile il rifornimento sul posto, come nel caso dell'esercito di Luigi IX durante la settima Crociata, il cui indebolimento, causato dallo scorbuto, spiega in gran parte la sconfitta ad al-Manṣūra e Damietta.

I secoli XIV e XV

L'equilibrio raggiunto in Europa nel XIII sec. è bruscamente modificato dall'arrivo inaspettato della peste, che nel 1347, per un secolo e mezzo, instaura una nuova patocenosi nella quale essa svolge un ruolo predominante.

Si pensa che la peste medievale sia nata nel 1337 in Asia centrale, nel Turkestan (nella regione dell'Issyk kul´) dal contatto con le pulci di roditori selvatici infetti. Arrivata in Europa attraverso le vie commerciali, nel 1346 essa inizialmente raggiunge, nelle grandi pianure meridionali del Volga e del Don, i popoli dell'Orda d'oro e la loro capitale Sarai (nei pressi dell'odierna Volgograd, già Stalingrado). Nello stesso periodo il Khan dell'Orda d'oro, ǧĀnībeg, in seguito a un contrasto con i Genovesi, stava assediando il loro centro commerciale di Caffa in Crimea. Vedendo il proprio esercito decimato dalla peste, egli inaugurò in qualche modo la guerra batteriologica, facendo catapultare oltre le mura della città alcuni cadaveri di appestati. I Genovesi risposero ributtando sul campo i cadaveri ma, pur riuscendo a conservare intatto il proprio fondaco, furono a loro volta infettati, tanto che le galere che lasciarono Caffa portarono la peste a Pera, altro centro commerciale sotto il dominio genovese nel porto di Costantinopoli, colpito dall'epidemia nel luglio del 1347. Mentre le galere continuavano la propria rotta, Messina era infettata nel settembre 1347 e subito dopo era la volta di Siracusa, di Catania e di tutta la Sicilia. Poiché, a causa del contagio, una fama sinistra accompagnava le galere che venivano dal Mediterraneo orientale, Genova si rifiutò di riceverle; così, il primo novembre 1347 esse si presentarono davanti al porto concorrente di Marsiglia, che ritenne giusto accoglierle. Già molti porti del Mediterraneo erano stati toccati, come Spalato, Venezia, Livorno e poco dopo Barcellona, Valencia, Almeria e tutte le isole, ma è da Livorno e Marsiglia che la peste si propagò, colpendo nella forma polmonare e provocando le devastazioni più terrificanti in Toscana, in Provenza, ad Avignone e nella Contea Venaissin.

Trasmettendosi direttamente da una persona all'altra attraverso la tosse, questa polmonite pestosa, che uccideva tutti i malati senza eccezione alcuna in due o tre giorni, seminò il terrore; un terrore ancor più grande in quanto, essendo scomparsa la peste da più di mezzo millennio, anche il suo ricordo era svanito dalla memoria collettiva dei popoli. Di fronte a un tale flagello nuovo e misterioso, sconosciuto anche ai medici, impreparati dinanzi a questa malattia ignota, gravissima, nessun rimedio sembrava efficace. Consultati dalle autorità, essi cercavano invano nei testi di Ippocrate o di Galeno un'epidemia che presentasse gli stessi sintomi; alla fine, ritenendo che tutte le grandi epidemie, in quanto maligne, avessero le stesse origini, pensarono che questa, come le altre, si diffondesse attraverso l'aria malsana e pestilenziale, e dunque consigliarono, seguendo Galeno, di fuggire e ritirarsi dove l'aria fosse sana, cioè dove l'epidemia non fosse ancora arrivata. Fu questo il suggerimento dato dalla Sorbona al re di Francia nel 1348; tale consulto sarà imitato da tutti i medici d'Europa, moltiplicando la fuga delle genti e favorendo di conseguenza il contagio.

In primavera, ripresa la sua ordinaria forma bubbonica, la peste continuò la sua marcia seguendo in genere le vie commerciali, lenta quando risaliva i fiumi, due volte più veloce quando li ridiscendeva; fu così che, dopo aver toccato Tolosa nell'aprile del 1348, attraversò rapidamente il bacino aquitanico e a giugno raggiunse la costa atlantica a Bordeaux. Dal porto di Bordeaux, via nave, in poche settimane toccò molti porti atlantici, fra cui Weymouth e Bristol nel Sud dell'Inghilterra, Dublino in Irlanda e Rouen in Francia; da Rouen, risalendo la Senna, il 20 agosto giunse a Parigi e da Bristol, discendendo il Tamigi, il 29 settembre raggiunse Londra, da dove passò a Calais a novembre. Con l'arrivo dell'inverno, il contagio ebbe un arresto, per riprendere la primavera successiva soltanto nei luoghi dove ancora era rimasto.

Da Londra, nella primavera del 1349 tutti i principali porti del Mare del Nord, compresa Copenaghen, furono contagiati, a eccezione di quelli dei Paesi Bassi, che da quasi due anni avevano interrotto ogni commercio con l'Inghilterra. Questa nazione, infatti, appena conquistata Calais aveva accordato a questo porto l'esclusività del commercio ‒ specialmente quello della lana ‒ con il continente, mentre fino ad allora esso era passato di solito attraverso l'Olanda. In quello stesso anno furono devastati il Portogallo, la Norvegia, la regione nordoccidentale della Germania, dalla Frisia ad Amburgo, il medio Reno, la Svizzera, l'Austria, l'Ungheria e alcune regioni dell'Inghilterra, dell'Italia e della Francia.

Da Lubecca, durante l'estate del 1350 la peste sbarcò in Svezia e in tutti i principali porti del Mar Baltico, eccetto quelli della Finlandia, mentre devastava la Germania centrale e la regione centrosettentrionale della Polonia. Nel 1351 si diffuse nei Paesi Baltici e in Bielorussia; nel 1352 tutta la Russia di Novgorod vide il flagello abbattersi sulle sue città e persino sui villaggi sperduti nelle foreste e nella tundra, dove alcune volte la malattia si ripresentò nella forma polmonare. In cinque anni la peste spazzò via un quarto o un quinto della popolazione europea; le sfuggirono solamente poche regioni, come la Galizia in Spagna, l'Islanda, i Paesi Bassi, la Boemia, la Galizia polacca, la Finlandia e i principati romeni. Lo sconvolgimento fu radicale, e lo divenne ancora di più in quanto la peste ricomparve in Franconia verso il 1356 per riversarsi nuovamente dal 1360 in poi su tutta l'Europa, senza risparmiare questa volta le regioni che erano rimaste immuni in precedenza; poi, come era accaduto all'epoca di Giustiniano, essa ritornò periodicamente a devastare l'Europa ogni dieci o dodici anni.

A ogni ondata dell'epidemia la paura assaliva gli uomini, molti dei quali fuggivano, seguendo, come abbiamo visto, i consigli dei medici. Alla fuga fisica, che aveva l'effetto negativo di favorire la diffusione della malattia, si aggiungeva quella 'morale' verso santi protettori (specialmente san Sebastiano e san Rocco), taumaturghi, amuleti e guaritori, creando pratiche superstiziose a volte molto dispendiose. La paura e l'angoscia provocavano anche reazioni irrazionali di aggressività. Così, nell'aprile del 1348 a Tolone nasce un movimento che compie persecuzioni e massacri contro gli ebrei, falsamente accusati di diffondere la malattia; questa psicosi collettiva raggiunge gran parte dell'Europa centrale, al punto che molti ebrei dalle regioni occidentali sono costretti a fuggire in Lituania, dove il re, che è sposato con un'ebrea, li protegge. Si sviluppano al contempo anche forme di autoaggressività; intorno alla metà del 1348 nasce in Italia un movimento di flagellanti, che nel mese di agosto, partendo da Venezia attraverso pellegrinaggi itineranti della durata di 33 giorni, ripetuti costantemente, arriva in Austria, in Ungheria, in Moravia, nel Sud della Polonia, attraversa da est a ovest la Germania e finisce nelle Fiandre, dove, da Tournai, si irradia in tutte le direzioni. Condannati dal papa e dalle autorità civili, entrambi questi movimenti si spengono nel dicembre del 1349 o all'inizio del 1350.

Il crollo dell'economia, la massiccia nomina a posti di responsabilità di giovani privi di esperienza in sostituzione della classe dirigente prematuramente scomparsa, e la mancanza di una gran parte del clero regolare, che costituiva l'élite e la guida intellettuale della società, provocò in tutta l'Europa un calo sensibile delle conoscenze e, insieme all'ansia diffusa, un risveglio delle superstizioni e della stregoneria. È forse l'ansia la spiegazione profonda della comparsa di una nuova epidemia caratteristica di quest'epoca: il 'ballo di san Vito'. Numerosi autori hanno descritto scene di una mania legata alla danza comparsa a più riprese tra le popolazioni germaniche: i bambini di Erfurt nel 1237, i danzatori di Maastricht, che nel 1278 fanno crollare il ponte sulla Mosa annegando in gran numero, e le donne e le ragazze di Lüsitze, piccolo borgo al confine fra la Baviera e la Boemia, che ballano per giorni davanti a un quadro della Vergine all'approssimarsi della peste nera nel 1349.

Queste manifestazioni, tuttavia, non hanno niente in comune con quella comparsa per la prima volta il 15 luglio del 1374, quando in molte città del medio Reno gruppi di giovani, ragazzi e ragazze, venuti da chissà dove, in centinaia di coppie si misero a ballare, cantando e gridando sulle piazze e cominciando un viaggio per tutta la regione. Ovunque si recassero, essi trovavano spettatori che per imitazione si univano a loro e li seguivano nel loro peregrinare. I divieti delle municipalità, e più ancora il cattivo tempo, finirono per fermarli nel mese di novembre; a ogni estate successiva essi però ricominciavano, finché, nel 1381, il clero decise di condurli in pellegrinaggio a San Giovanni Battista di Kilburg dove ritrovarono finalmente la calma.

Nel 1414, una generazione più tardi, l'epidemia del ballo riprese vita a Strasburgo, si diffuse nel Baden, nel Württemberg e in Baviera. È grazie a san Vito, questa volta, che il clero riuscì a fermare il fenomeno, dopo il tentativo infruttuoso compiuto con molti altri pellegrinaggi; da questo santo essa prenderà il nome, mentre nella stessa epoca nel Sud dell'Italia la mania danzante dei sedicenti morsi dalla tarantola darà luogo a un genere di musica chiamato 'tarantella'.

Nel corso di questa patocenosi la maggior parte delle grandi epidemie, lungi dal regredire, conobbe un nuovo sviluppo. Le grandi ondate di influenza si moltiplicarono, come quella descritta da Valesco di Taranto a Montpellier nel 1387, quelle del 1403 e del 1413 a Parigi, quella del 1438 che colpì tutta l'Europa, in particolare l'Italia, e quella del 1482 da cui la Francia sembra più colpita degli altri paesi. Il vaiolo alla metà del XV sec. si diffuse rapidamente verso nord, fino alla Scandinavia; probabilmente a causa del clima favorevole e della densità della popolazione, aumentò la sua virulenza e divenne endemico in tutta l'Europa.

La dissenteria divenne più frequente o, perlomeno, fu segnalata sempre più spesso, obbligando talvolta gli eserciti, anche se vittoriosi ‒ come, per esempio, quello del principe di Galles, il Principe Nero, in Spagna nel 1367‒ a ritirarsi con perdite enormi. Solamente il fuoco di sant'Antonio, già molto raro, continuò a regredire e così pure la lebbra, la cui rapida caduta era forse da porre in relazione con la risalita della tubercolosi polmonare, con la quale essa aveva una certa immunità incrociata, mentre la forma della scrofolosi diminuiva lentamente.

La peste resta, evidentemente, il fenomeno più importante di questa patocenosi, non soltanto per la sua rilevanza demografica, economica e storica (si può ipotizzare che essa abbia ritardato di un secolo il Rinascimento), ma anche per l'impatto sul pensiero medico, obbligato in qualche modo a riconsiderare il valore dell'insegnamento scolastico. Questa terribile epidemia costrinse le autorità a prendere le prime misure di igiene pubblica. Nel 1347 la piccola repubblica dalmata di Dubrovnik organizza la prima quarantena e, quando la fuga dissemina l'epidemia, queste prime misure di isolamento appaiono di una certa efficacia. A poco a poco il dogma del ruolo patogeno dell'aria corrotta diventa meno intoccabile. A partire dalla seconda metà del XIV sec. in Italia e nel XV sec. nel resto dell'Europa occidentale e settentrionale le misure municipali di isolamento e di disinfezione si diffondono e si moltiplicano. Venezia dà l'esempio con la creazione del primo lazzaretto permanente e con l'adozione di molte misure di igiene pubblica (come, per es., pulizia delle strade e disinfestazione) che saranno spesso imitate e praticate. Gli animi sono così preparati alla nozione di contagio e all'idea che si può lottare contro le epidemie, concetti che Girolamo Fracastoro (1483 ca.-1553) esprimerà chiaramente nel XVI sec., ma che si imporranno definitivamente a tutti soltanto nel XIX sec. con Pasteur.

A partire dalla fine del XV sec. il ritorno del tifo e la comparsa di nuove grandi epidemie, come la febbre inglese e la sifilide, sconvolgeranno gli equilibri fra le malattie; compare una nuova patocenosi, quella del Rinascimento.

Bibliografia

van den Abeele 1994: Abeele, Baudouin van den, La fauconnerie au Moyen Âge. Connaissance, affaitage et médecine des oiseaux de chasse d'après les traités latins, Paris, Klincksieck, 1994.

Agrimi 1980: Agrimi, Jole - Crisciani, Chiara, Malato, medico e medicina nel Medioevo, Torino, Loescher, 1980.

‒ 1988: Agrimi, Jole - Crisciani, Chiara, 'Edocere medicos'. Medicina scolastica nei secoli XIII-XV, Milano, Guerini e Associati, 1988.

‒ 1993: Agrimi, Jole - Crisciani, Chiara, Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, in Storia del pensiero medico occidentale, a cura di Mirko D. Grmek, Roma-Bari, Laterza, 1993, 3 v.; v. I: Antichità e medioevo, 1993, pp. 217-259.

‒ 1994a: Agrimi, Jole - Crisciani, Chiara, Les 'Consilia' médicaux, Turnhout, Brepols, 1994.

‒ 1994b: Agrimi, Jole - Crisciani, Chiara, The science and the practice of medicine in the thirteenth century according to Guglielmo da Saliceto, Italian surgeon, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García-Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 60-87.

Amundsen 1996: Amundsen, Darrel W., Medicine, society, and faith in the ancient and medieval worlds, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1996.

Arrizabalaga 1994: Arrizabalaga, Jon, Facing the black death. Perceptions and reactions of university medical practitioners, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García-Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 237-288.

Arvide Cambra 1994: Arvide Cambra, María L., Un tratado de polvos medicinales en Al-Zaharāwī, Almería, Universidad de Almería, 1994.

‒ 1996: Arvide Cambra, María L., Tratado de pastillas según Albucasis, Almería, Universidad de Almería, 1996.

Beccaria 1956: Beccaria, Augusto, I codici di medicina del periodo presalernitano (IX, X, XI secolo), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1956.

Biller 1997: Medieval theology and the natural body, edited by Peter Biller and Alastair J. Minnis, Rochester (N.Y.), York Medieval Press, 1997.

Burnett 1994: Constantine the African and ῾Ali ibn al-Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden, E.J. Brill, 1994.

Butterfield 1962: Butterfield, Herbert, Tarda affermazione della rivoluzione scientifica nel campo della chimica, in: Butterfield, Herbert, Le origini della scienza moderna, Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 223-243 (tit. orig.: The origins of modern science, 1300-1800, London, Bell, 1949).

Bylebyl 1990: Bylebyl, Jerome J., The medical meaning of Physica, "Osiris", 6, 1990, pp. 16-41.

Bynum 1991: Bynum, Caroline W., Fragmentation and redemption. Essays on gender and the human body in Medieval religion, New York, Zone Books; Cambridge (Mass.), MIT Press, 1991.

Cadden 1993: Cadden, Joan, Meanings of sex difference in the Middle Ages. Medicine, science, and culture, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1993.

Cipolla 1989: Cipolla, Carlo M., Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento, Bologna, Il Mulino, 1989.

Costa 1964: L'inizio dell'anatomia patologica nel Quattrocento fiorentino sui testi di Antonio Benivieni, Bernardo Torni, Leonardo da Vinci, a cura di Antonio Costa e Giorgio Weber, Firenze, Riviste mediche, 1964.

Daremberg 1854: Glossulae quatuor magistrorum super chirurgiam Rogerii et Rolandi, nunc primum ad fidem codicis Mazarinei edidit Car. Daremberg, Napoli, Filiatre-Sebezio, 1854.

Dols 1984: Medieval Islamic medicine. Ibn Ridwan's treatise "On the prevention of bodily ills in Egypt", transl. with an introd. by Michael W. Dols; arabic text edited by Adil S. Gamil, Berkeley, University of California Press, 1984.

Firpo 1972: Medicina medievale. Testi dell'alto Medioevo, miniature del codice di Kassel, regole salutari salernitane, incisioni del 'Fasciculo de medicina', anatomia di Mondino de' Liuzzi, a cura di Luigi Firpo, Torino, UTET, 1972.

Forni 1948: Forni, Gherardo, L'insegnamento della chirurgia nello Studio di Bologna dalle origini a tutto il secolo XIX, Bologna, Cappelli, 1948.

French 1985: French, Roger, Berengario da Carpi and the use of commentary in anatomical teaching, in: The medical Renaissance of the sixteenth century, edited by Andrew Wear and Roger K. French, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1985, pp. 42-74.

García Ballester 1982: García Ballester, Luis, Arnau de Vilanova (ca. 1240-1311) y la reforma de los estudios medicos en Montpellier (1309). El Hippocrates latino y la introducción del nuevo Galeno, "Dynamis", 2, 1982, pp. 97-158.

‒ 1994: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994.

Gil Sotres 1994: Gil Sotres, Pedro, Derivation and revulsion. The theory and practice of medieval phlebotomy, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 110-155.

Giorgi 1994: Giorgi, Piero P. - Lambertini, Renzo - Tabarroni, Andrea, Techniche d'insegnamento nella formazione dei medici a Bologna nel XIV secolo. Due questioni disputate di Mondino de' Luzzi da Bologna, in: L'insegnamento della medicina in Europa (secoli XIV-XIX), a cura di Francesca Vannozzi, Siena, Tip. Senese, 1994, pp. 211-224.

Goehl 1984: Goehl, Konrad, Guido d'Arezzo der Jüngere und sein 'Liber mitis', Ponnensen, Hannover, H. Wellms, 1984, 2 v.

Green 1994a: Green, Monica H., Documenting medieval women's medical practice, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 322-352.

‒ 1994b: Green, Monica H., The re-creation of Pantegni, Practica, Book VIII, in: Constantine the African and ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 121-160.

Grmek 1993: Storia del pensiero medico occidentale, a cura di Mirko D. Grmek, Roma-Bari, Laterza, 1993, 3 v.; v. I: Antichità e medioevo, 1993.

‒ 1996: Grmek, Mirko D., Il calderone di Medea. La sperimentazione sul vivente nell'Antichità, Roma-Bari, Laterza, 1996.

von Haller 1774-75: Haller, Albrecht von, Bibliotheca chirurgica. Qua scripta ad artem chirurgicam facientia a rerum initiis recensentur, Bern, Haller; Basel, Schweighauser, 1774-1775, 2 v.

Hanson 1994: Hanson, Ann E. - Green, Monica H., Soranus of Ephesus. Methodicorum princeps, in: Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der neueren Forschung, hrsg. von Wolfgang Haase, Berlin, W. de Gruyter, 1972-; v. II, 1994, pp. 968-1075.

Huard 1966: Huard, Pierre A. - Grmek, Mirko D., Mille ans de chirurgie en Occident, Ve-XVe siècles, Paris, R. Dacosta, 1966.

Iannella 1995: Iannella, Cecilia, Malattia e salute nella predicazione di Giordano da Pisa, "Rivista di storia e letteratura religiosa", 31, 1995, pp. 177-216.

Jacquart 1981: Jacquart, Danielle, Le milieu médical en France du XIIe au XIVe siècle, Genève, Droz; Paris, Champion, 1981.

‒ 1985a: Jacquart, Danielle - Thomasset, Claude, Sexualité et savoir médical au Moyen Âge, Paris, Presse Universitaire de France, 1985.

‒ 1985b: Jacquart, Danielle, La question disputée dans les facultés de médecine, in: Les Questions disputées et les questions quodlibétiques dans les facultés de théologie, de droit et de médecine, par Bernardo C. Bazàn [et al.],Turnhout, Brepols, 1985.

‒ 1986: Jacquart, Danielle, À l'aube de la Renaissance médicale des XI-XIIe siècles. L''Isagoge Johannitii' et son traducteur, "Bibliothèque de l'Êcole des Chartes", 164, 1986, pp. 209-240.

‒ 1988: Jacquart, Danielle, Aristotelian thought in Salerno, in: A history of twelfth-century Western philosophy, edited by Peter Dronke, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 407-428.

‒ 1990a: Jacquart, Danielle - Micheau, Françoise, La médecine arabe et l'Occident médiéval, Paris, Éd. Maisonneuve et Larose, 1990.

‒ 1990b: Jacquart, Danielle, Theory, everyday practice, and three fifteenth-century physicians, "Osiris", 6, 1990, pp. 140-160.

‒ 1993: Jacquart, Danielle, La scolastica medica, in: Storia del pensiero medico occidentale, a cura di Mirko D. Grmek, Roma-Bari, Laterza, 1993, 3 v.; v. I: Antichità e medioevo, 1993, pp. 261-322.

‒ 1994: Jacquart, Danielle, Medical practice in Paris in the first half of the fourteenth century, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 186-210.

Jones 1994: Jones, Peter M., John of Arderne and the Mediterranean tradition of scholastic surgery, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 289- 321.

Jordan 1987: Jordan, Mark D., Medicine as science in the early Commentaries on Johannitius, "Traditio", 43, 1987, pp. 121-145.

‒ 1991: Jordan, Mark D., The disappearance of Galen in thirteenth-century philosophy and theology, in: Mensch und Natur im Mittelalter, hrsg. von Albert Zimmermann und Andreas Speer, Berlin-New York, W. de Gruyter, 1991, 2 v; v. I, pp. 38-71.

‒ 1994: Jordan, Mark D., The fortune of Constantine's Pantegni, in: Constantine the African and ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 286-302.

Kibre 1984: Kibre, Pearl, Studies in medieval science. Alchemy, astrology, mathematics and medicine, London, Hambledon Press, 1984.

Kristeller 1986: Kristeller, Paul O., Studi sulla Scuola medica salernitana, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 1986.

Labarta 1980: Ibn-Baklarish, Yūsuf ibn Isḥāq, El prologo de al-Kitab al-Musta᾽ini, texto árabe y traducción anotada por Ana Labarta, in: Estudios sobre historia de la ciencia árabe, editados par Juan Vernet, Barcelona, Instituto de Filologia, Consejo superior de investigaciones cientifícas, 1980, pp. 181-316.

Lawn 1963: Lawn, Brian, The Salernitan questions. An introduction to the history of Medieval and Renaissance problem literature, Oxford, Clarendon Press, 1963 (trad. it.: I quesiti salernitani. Introduzione alla storia della letteratura problematica medica e scientifica nel Medio Evo e nel Rinascimento, Napoli, Di Mauro, 1969).

‒ 1979: The prose Salernitan questions from a Bodleian ms. (Auct. F. 3. 10) an anonymus coll. dealing with science and medicine, edited by Brian Lawn, London, Oxford University Press, 1979.

‒ 1993: Lawn, Brian, The rise and decline of the scholastic 'Quaestio Disputata' with special emphasis on the teaching of medicine and science, Leiden-New York, E.J. Brill, 1993.

Lenoble 1976: Lenoble, Robert, Le origini del pensiero scientifico moderno, Roma-Bari, Laterza, 1976 (1. ed. in: Hstoire de la science, éd. Maurice Daumas, Paris, Gallinard, 1957).

Lindberg 1992: Lindberg, David C., The beginnings of western science. The European scientific tradition in philosophical, religious, and institutional context, 600 B.C. to A.D. 1450, Chicago, University of Chicago Press, 1992.

Lutterbach 1996: Lutterbach, Hubertus, Der 'Christus medicus' und die 'Sancti medici'. Das wechselwolle Verhältnis zweiere Grundmotive christlicher Frömmigkeit zwischen Spätantike und Früher Neuzeit, "Saeculum", 47, 1996, pp. 239-281

Maconi 1987: Maconi, Giovanni, La chirurgia nell'università di Pavia, 2. ed., Alessandria, Centro stampa di via Vescovado, 1987.

Malagola 1888: Statuti delle università e dei collegi dello Studio bolognese, a cura di Carlo Malagola, Bologna, N. Zanichelli, 1888.

Mauro 1999: Mauro, L., Le pandette di Matteo Silvatico e l'Hortus Sanitatis. Influenza della botanica salernitana nell'Europa del XV secolo, in: Dalla medicina greca alla medicina salernitana. Percorsi e tramiti. Atti del convegno internazionale Raito di Vietri sul Mare, 25-27 giugno 1995, Salerno, Edizioni 10, 1999.

McVaugh 1975: McVaugh, Michael R., The development of medieval pharmaceutical theory, in: Arnaldus de Villa Nova, Opera medica omnia, ed. curaverunt Luis García Ballester, Juan A. Paniogua, et Michael R. McVaugh, Barcelona, Seminarium Historiae Medicae Cantabricense, 1975-; v. II: Aphorismi de gradibus, ed. et praef. et comm. anglicis instruxit Michael R. McVaugh, 1975, pp. I-XIV.

‒ 1990: McVaugh, Michael R. - Siraisi, Nancy G., Renaissance medical learning. Evolution of a tradition, "Osiris", 6, 1990.

‒ 1993a: McVaugh, Michael R., Medicine before the plague. Practitioners and their patients in the crown of Aragon, 1285-1345, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.

‒ 1993b: McVaugh, Michael R., Strategie terapeutiche. La chirurgia, in: Storia del pensiero medico occidentale, a cura di Mirko D. Grmek, Roma-Bari, Laterza, 1993, 3 v.; v. I: Jole Agrimi, Antichità e medioevo, 1993, pp. 371-398.

‒ 1994: McVaugh, Michael R., Medical knowledge at the time of Frederick II, "Micrologus", 2, 1994, pp. 3-17.

Morpurgo 1984: Morpurgo, Piero, Il capitolo de informacione medicorum del Liber Introductorius di Michele Scoto, "Clio-Rivista trimestrale di studi storici", 20, 1984, pp. 651-661.

‒ 1990: Morpurgo, Piero, Filosofia della natura nella Schola Salernitana del secolo XII, Bologna, Clueb, 1990.

Nebbia 1971: Nebbia, Giorgio, La trasmissione delle conoscenze sulle falsificazioni e frodi delle merci dall'Antichità al Medioevo islamico e occidentale, in: Oriente e Occidente nel Medioevo. Filosofia e scienze, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1971, pp. 501-520.

Newton 1994: Newton, Francis, Constantine the African and Monte Cassino. New elements and the text of the Isagoge, in: Constantine the African and ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 16-47.

Nutton 1985: Nutton, Vivian, Humanist surgery, in: The medical Renaissance of the sixteenth century, edited by Andrew Wear and Roger K. French, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1985, pp. 75-99.

O'Boyle 1994: O'Boyle, Cornelius, Surgical texts and social contexts. Physicians and surgeons in Paris, c. 1270 to 1430, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994, pp. 157-185.

Ottosson 1984: Ottosson, Per-Gunnar, Scholastic medicine and philosophy. A study of commentaries on Galen's Tegni, ca. 1300-1450, Napoli, Bibliopolis, 1984.

Paniagua 1994: Paniagua, Juan A., Studia Arnaldiana. Trabajos en torno a la obra médica de Arnau de Vilanova, c. 1240-1311, Barcelona, Fundación Uriach 1838, 1994.

Park 1994: Park, Katharine, The criminal and the saintly body. Autopsy and dissection in Renaissance Italy, "Renaissance quarterly", 47, 1994, pp. 1-33.

Pelling 1979: Pelling, Margaret - Webster, Charles, Medical practitioners, in: Health, medicine, and mortality in the sixteenth century, edited by Charles Webster, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1979, pp. 165-235.

Pesenti 1978: Pesenti Marangon, Tiziana, 'Professores chirurgie', 'medici ciroici' e 'barbitonsores' a Padova nell'età di Leonardo Buffi da Bertipaglia (m. dopo il 1448), "Quaderni per la storia dell'università di Padova", 11, 1978, pp. 1-38.

‒ 1982: Pesenti, Marangon, Tiziana, Generi e pubblico della letteratura medica padovana nel Tre e Quattrocento, in: Università e società nei secoli XII-XVI. Nono convegno internazionale, Pistoia, 20-25 settembre 1979, Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d'arte di Pistoia, 1982, pp. 523-545.

‒ 1984: Pesenti Marangon, Tiziana, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova dal 1405 al 1509. Repertorio bio-bibliografico, Trieste, LINT, 1984.

‒ 1990: Pesenti, Marangon, Tiziana, Le 'articelle' di Daniele di Marsilio Santasofia (1410), professore di medicina, in: Tra gli eredi del Petrarca, a cura di Edoardo Fumagalli, Tiziana Pesenti, Paolo Sambin, "Studi Petrarcheschi", 7, 1990, pp. 50-92.

Pingree 1994: Pingree, David, Learned magic in the time of Frederick II, in: Le scienze alla corte di Federico II, a cura di Agostino Paravicini Bagliani, "Micrologus", 2, 1994, pp. 39-56.

Pouchelle 1983: Pouchelle, Marie-Christine, Corps et chirurgie à l'apogée du Moyen Âge. Savoir et imaginaire du corps chez Henri de Mondeville, chirurgien de Philippe le Bel, Paris, Flammarion, 1983.

‒ 1990: Pouchelle, Marie-Christine, The body and surgery in the Middle Ages, Cambridge, Polity Press in association with B. Blackwell, 1990.

Prévot 1991: Prévot, Brigitte, La science du cheval au Moyen Âge. Le Traité d'hippiatrie de Jordanus Rufus, Paris, Klincksieck, 1991.

Ronca 1994: Ronca, Italo, The influence of the Pantegni on William of Conches's Dragmaticon, in: Constantine the African and ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 266-285.

Rosner 1990: Moses Maimonides' three treatises on health, transl. and annotated by Fred Rosner, Haifa, Maimonides Research Institute, 1990.

Ruetten 1996: Ruetten, Thomas, Receptions of the Hippocratic 'Oath' in the Renaissance. The prohibition of abortion as a case study in reception, "Journal of the history of medicine and allied sciences", 51, 1996, pp. 456-483.

Schipperges 1964: Schipperges, Heinrich, Die Assimilation der arabischen Medizin durch das lateinische Mittelalter, "Sudhoffs Archiv", 3, 1964.

Siraisi 1981: Siraisi, Nancy G., Taddeo Alderotti and his pupils. Two generations of Italian medical learning, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1981.

‒ 1987: Siraisi, Nancy G., Avicenna in Renaissance Italy. The Canon and medical teaching in Italian universities after 1500, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1987, pp. 1-76.

‒ 1994: Siraisi, Nancy G., How to write a Latin book on surgery. Organizing principles and authorial devices in Guglielmo da Saliceto and Dino del Garbo, in: Practical medicine from Salerno to black death, edited by Luis García Ballester [et al.], Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1994.

Strohmaier 1994: Strohmaier, Gotthard, Constantine's pseudo-classical terminology and its survival, in: Constantine the African and ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 90-98.

Tabanelli 1965: Tabanelli, Mario, La chirurgia italiana nell'Alto Medioevo, Firenze, Olschki, 1965, 2 v.

‒ 1973: Tabanelli, Mario, Tecniche e strumenti chirurgici del XIII e XIV secolo, Firenze, Olschki, 1973.

Thorndike 1963: Thorndike, Lynn, Science and thought in the fifteenth century. Studies in the history of medicine and surgery, natural and mathematical science, philosophy and politics, New York, Hafner Pub. Co., 1963 (1. ed.: New York, Columbia University Press, 1929).

Touwaide 1991: Touwaide, A., Les poisons dans le monde antique et byzantin: introduction à une analyse systémique, "Revue d'histoire de la pharmacie", 290, 1991, pp. 265-281.

‒ 1997: Touwaide, A., Towards a thesaurus of ancient 'materia medica': a methodological analysis for the constitution of a computerised database, in: Lingue tecniche del Greco e del Latino, II, a cura di Sergio Sconocchia, Bologna, Patron, 1997, pp. 227-247.

Wack 1994: Wack, Mary, ῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi and Constantine on Love, and the evolution of the practica Pantegni, in: Constantine the African and '῾Ali ibn al-᾽Abbas al-Magusi. The Pantegni and related texts, edited by Charles Burnett and Danielle Jacquart, Leiden-New York, E.J. Brill, 1994, pp. 161-202.

Wickersheimer 1979: Wickersheimer, Ernst, Dictionnaire biographique des médecins en France au Moyen Âge, Genève, Droz, 1979, 3 v.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE