La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Immagini della Natura

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Immagini della Natura

Baudouin van den Abeele
Wesley M. Stevens
Uta Lindgren

Immagini della Natura

Durante l'Alto Medioevo la conoscenza della Natura seguiva molteplici percorsi e per quanto riguarda, per esempio, il mondo animale, essa si esprimeva sia in discorsi allegorici che in osservazioni etimologiche, sia in testi tecnici che in favole. Le piante erano descritte per le loro virtù terapeutiche negli erbari, ma erano anche prese in considerazione da un punto di vista completamente diverso nelle rare prescrizioni agronomiche che ci sono pervenute. La storia delle conoscenze del mondo naturale finisce quindi inevitabilmente per confondersi con quella di alcuni generi letterari, ed è pertanto importante prendere in esame, sia pur brevemente, i diversi tipi di scritti che ci hanno trasmesso le differenti visioni della Natura dell'uomo medievale. Questi testi, ovviamente, non erano il fedele riflesso di una conoscenza comune, largamente diffusa in tutto l'Occidente, ma rispecchiavano la conoscenza libresca delle élites intellettuali, prevalentemente ecclesiastiche, nell'ambito di una cultura che doveva a sua volta molto a varie tradizioni letterarie, in particolare alla Bibbia e ai suoi commenti, ai testi antichi dedicati alla Natura, spesso filtrati dagli scritti patristici o dalla diffusa tradizione dei florilegi.

'Natura rerum': i 'regni della Natura'

di Baudouin van den Abeele

I tre 'regni della Natura' nei quali il mondo era abitualmente diviso nella storia naturale dell'Antichità ‒ animale, vegetale e minerale ‒ diedero origine a generi letterari specifici: bestiari, erbari e lapidari. Queste raccolte, tuttavia, rispondevano a considerazioni divergenti: i bestiari applicavano al mondo animale una prospettiva essenzialmente moralistica e teologica, negli erbari le piante erano descritte in funzione delle loro virtù curative e, infine, la gran parte dei lapidari considerava le pietre dal punto di vista della loro applicazione medica e magica.

Il Physiologus e i bestiari

A partire da una fonte greco-cristiana, il Physiologus alessandrino del II sec. d.C., si è sviluppata una tradizione testuale di grande coerenza, la cui diffusione è stata continua fino alla fine del Medioevo. Il Physiologus o 'Naturalista' ‒ termine che designa allo stesso tempo l'autore e il titolo dell'opera ‒ è originariamente una piccola raccolta composta di quarantotto notizie, ciascuna dedicata a un animale (più quattro pietre e due alberi), in cui a una breve descrizione dell'animale segue un'interpretazione teologica o morale delle sue caratteristiche. Si tratta soprattutto di animali menzionati nella Bibbia, e i capitoli che si susseguono, apparentemente senza alcun ordine, sono ispirati alle fonti classiche e bibliche.

Questo catalogo elementare definisce alcune immagini tipiche che si ritroveranno nel corso di tutto il Medioevo e, in alcuni casi, anche in seguito. La profonda vocazione del bestiario medievale era infatti quella di giungere all'elaborazione di un'ermeneutica sacra del mondo animale, capace di rivelare gli insegnamenti disseminati in esso dal Creatore, in una prospettiva che faceva di questo regno uno specchio che invitasse alla riflessione; le creature erano in qualche modo "geroglifici di Dio". Si era dunque ben lontani dal discorso zoologico antico, nella misura in cui l'interesse per gli animali era ormai subordinato a un ordine di valori e di insegnamenti estrinseco. Eppure, nel corso del tempo questi due punti di vista finiranno a poco a poco per avvicinarsi, come dimostrano i grandi bestiari latini del XIII sec., in cui il simbolismo tende a perdere di importanza e il catalogo delle specie si arricchisce notevolmente.

Il Physiologus greco, la cui tradizione testuale e manoscritta è molto complessa, conobbe rapidamente una diffusione in molte lingue orientali e, successivamente, occidentali. Tradotto in latino molto probabilmente nel IV sec., il testo si diversificò in molteplici versioni e in molte famiglie di manoscritti, classificati nel XIX sec. da C. Cahier e, in seguito, da M.R. James (1928) e F. McCulloch (1962). La storia del Physiologus latino coincide con una serie di rimaneggiamenti e di integrazioni cui l'opera fu sottoposta, le cui tappe fondamentali furono l'inserimento di materiali ripresi dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia (versione B-Is) e, in seguito, l'incorporazione di brani di Solino, Ambrogio e Rabano Mauro. Si giunse così a un vero e proprio 'bestiario', un testo notevolmente ampliato contenente più di un centinaio di notizie ordinate secondo le diverse categorie di animali (quadrupedi, uccelli, serpenti, vermi, pesci).

I grandi bestiari raggiunsero l'apice della popolarità nel periodo compreso tra il XII e il XIII sec. e si diffusero soprattutto in Inghilterra, in manoscritti spesso sontuosamente miniati. Se si eccettuano però le trascrizioni pubblicate a corredo di alcune edizioni facsimilari di questi manoscritti, non disponiamo di edizioni di tali versioni elaborate del bestiario. Nel continente, ebbero la più grande influenza altre due versioni: da un lato i Dicta Chrysostomi, un testo di 27 notizie ordinate per bestiae e aves, erroneamente attribuiti al Padre della Chiesa Giovanni Crisostomo, ma forse redatti nell'XI sec., e dall'altro, il Physiologus Theobaldi, una redazione in versi su 12 animali che risale alla stessa epoca e che ebbe una larga diffusione nell'Europa centrale, dove fu utilizzato come testo scolastico per l'apprendimento del latino. È altrettanto importante il singolare Aviarium del canonico Ugo di Fouilloy (1125 ca.), che si limita a prendere in considerazione gli uccelli, spiegando lungamente i significati mistici della colomba, dell'accipiter (lo sparviero o l'astore), della tortora e del passero, prima di passare alla descrizione e all'interpretazione di una trentina di altri uccelli.

Il Physiologus e i bestiari furono tradotti in volgare a partire dal X sec. in Inghilterra (Old English Physiologus, 3 notizie), dall'XI sec. in Germania (Althochdeutscher Physiologus, 12 notizie riprese dai Dicta Chrysostomi) e nel XII sec. in Francia (da Philippe de Thaon, Gervaise, Guillaume Le Clerc, Pietro di Beauvais). Il fenomeno, però, ebbe proporzioni molto vaste e interessò quasi tutte le lingue letterarie medievali, dal catalano all'islandese. Bisogna sottolineare anche che la tradizione nata dal Physiologus attraversò il Medioevo senza essere in alcun modo influenzata dall'introduzione della scienza araba; nessuna cesura si registra nell'XI e nel XII secolo. Il nucleo narrativo paleocristiano continuò a essere vitale fino al XV sec., in un periodo in cui, grazie alla zoologia aristotelica e ai libri di caccia, si era ormai diffusa una conoscenza molto più approfondita del mondo animale.

Ciò era probabilmente legato a una questione di destinatario e di registro; nelle scuole, le immagini che associavano una virtù o una lezione teologica a un animale erano ancora considerate utili dal punto di vista didattico; i bestiari conservavano, d'altronde, tutta la loro potenza evocativa nel campo della meditazione religiosa o come fonte di ispirazione dei predicatori, dei poeti e degli artisti. Se ne ritrovano numerose tracce, del resto, nei libri di emblemata del Rinascimento, e nell'iconografia religiosa che ne perpetuerà diverse immagini (il pellicano, l'aquila, il cervo, ecc.).

Gli erbari

Gli erbari costituiscono una tradizione più eterogenea di quella dei bestiari, dei quali non condividono la prospettiva teologica e moralistica; si tratta, nella maggior parte dei casi, di opere compilate per scopi medicinali in cui è redatto un inventario descrittivo dei vegetali dotati di proprietà curative. Il genere risale all'Antichità classica; ci sono pervenuti testimonianze e frammenti di erbari greci risalenti al IV sec. a.C., ma il primo testo conservato di Dioscuride Pedanio risale al I sec. della nostra era. Durante il Medioevo, il De materia medica (Perì hýlēs iatrikẽs), in cinque libri, venne tradotto più volte in latino e, nelle versioni note anche col titolo di Dioscoride lombardo (VI sec.) e Dyascorides (fine dell'XI sec.), influenzò profondamente la tradizione occidentale.

Tra i testi antichi, vanno inoltre ricordati gli erbari che circolavano sotto la falsa autorità di Galeno e di Apuleio e, in particolare, lo Pseudo-Apuleio del IV sec., che ebbe una larga diffusione. Il testo descrive 131 piante elencate in ordine non alfabetico ed è sistematicamente illustrato, il che deve avere indubbiamente contribuito al suo successo. Le notizie riportate in questo genere di opera contengono alcune informazioni elementari su ogni pianta, secondo uno schema che si conserverà a lungo, in cui all'indicazione del nome e dei sinonimi segue la descrizione della pianta stessa e del suo ambiente e, infine, si elencano le sue virtù curative e le istruzioni relative all'uso.

Nell'età carolingia, Strabone, nel periodo in cui era abate del monastero di Reichenau sulle rive del lago di Costanza (842-849), redasse un poema che occupa una posizione singolare: il Liber de cultura hortorum o Hortulus, un erbario in versi di 444 esametri, dalla struttura finemente elaborata. Dopo aver celebrato il giardinaggio nel prologo, l'autore ricorda le 24 piante che formavano il giardino claustrale dell'abbazia, descrivendone l'aspetto e indicandone gli usi medicinali e persino culinari. Le fonti sono antiche ma l'ispirazione è contemporanea, e il testo sorprende per l'originalità del tono. Strabone inaugura così, all'interno della tradizione degli erbari, il genere dei poemi didattici, che avrà il suo più autorevole rappresentante nel testo conosciuto col titolo di Macer o Macer floridus, probabilmente redatto da Oddone di Meung nell'ultimo quarto dell'XI secolo. Ben presto a questo testo venne erroneamente associato il nome del poeta Macer (Aemilius Macer Veronensis, I sec. d.C.), autore di un altro poema dedicato alle piante. Nella versione pubblicata nel XIX sec. da L. Choulant, il Macer descrive 77 piante in 2269 versi; ne esistono, tuttavia, varie redazioni, che non sono ancora state studiate. Tra le opere riconducibili a questo genere, bisogna segnalare il De erbis di Henry de Huntingdon (1085 ca.-1156 ca.), finora conosciuto indirettamente e ritrovato soltanto di recente, in cui l'autore presenta la visita di un giardino dalla pianta quadrata, su ogni lato del quale descrive 25 piante prendendo a prestito alcuni brani dallo Pseudo-Apuleio, dall'Hortulus e dal Macer.

Nell'enciclopedico Liber subtilitatum (v. cap. XXX), la badessa Ildegarda di Bingen (1098-1179) riserva una particolare attenzione al mondo vegetale, al punto che alcuni critici si sono chiesti se in origine quest'opera non fosse un erbario, al quale soltanto successivamente sarebbero venuti ad aggiungersi i libri di contenuto zoologico e mineralogico. I 230 capitoli del De plantis (nell'edizione della Patrologia Latina) contengono un inventario per diversi aspetti originale, in cui compaiono molti termini tedeschi, e le cui indicazioni di carattere farmaceutico si sono spesso rivelate esatte; tuttavia, nel corso della trasmissione dell'opera numerose aggiunte sono state inserite nel testo originale, e il giudizio sulle conoscenze botaniche della badessa probabilmente va ridimensionato.

Con il Liber de simplici medicina di Matteo Plateario (metà del XII sec.), generalmente designato col nome di Circa instans dalle prime parole del prologo, si entra in un altro campo; si tratta infatti di un autorevole trattato di medicina, soprattutto vegetale, direttamente ispirato ai testi arabi che erano stati da poco tradotti a Salerno.

I lapidari

La tradizione dei lapidari medievali si situa in qualche modo a metà strada tra le due precedenti; benché i testi più significativi del genere rivelino un contenuto medico-magico prossimo a quello degli erbari, ve ne sono alcuni che offrono un'interpretazione simbolica di un certo numero di pietre, avvicinandosi così ai bestiari. Sia gli uni che gli altri si interessano soprattutto delle pietre preziose, delle gemme; non si tratta dunque in alcun modo di esaurienti inventari del mondo minerale.

Il più importante di questi testi è il lapidario in versi redatto da Marbodo (1035-1123), che rivestì la carica di cancelliere e poi di arcidiacono ad Angers e che, nel 1096, fu nominato vescovo di Rennes. Nel De lapidibus, un'opera di 732 esametri, Marbodo prende in esame 60 pietre in altrettanti capitoli che contengono descrizioni, indicazioni delle virtù medicinali e allusioni ad alcuni usi magici. In questi versi non compare alcuna allegoria, a cui l'autore ricorrerà invece in un'altra opera, il piccolo lapidario simbolico dedicato al significato delle dodici pietre che, secondo la Bibbia, ornano la città celeste di Gerusalemme; di questo testo esiste una versione in versi e una in prosa. Il De lapidibus di Marbodo ebbe una larga diffusione; J.M. Riddle, cui si deve un'edizione critica (1977), ne segnala 125 manoscritti latini, e il numero totale delle copie conservate è certamente ancora maggiore. Marbodo non fu l'inventore dei lapidari che risalgono all'Antichità greca e, in particolare, alessandrina, ma diede un impulso decisivo a questo genere, al punto che il De lapidibus ha messo in ombra i testi più antichi che gli sono serviti da fonti, come, per esempio, il lapidario attribuito a un re arabo chiamato Evax (lo Pseudo-Damigéron), da cui Marbodo ha ripreso il prologo e diversi capitoli.

I lapidari cristiani, invece, trovano la loro giustificazione nella Bibbia, in cui per due volte sono evocate, in un contesto ricco di significati, dodici pietre preziose; secondo l'Esodo, il pettorale che chiude il mantello del gran sacerdote Aronne è ornato da dodici gemme (Esodo, 28, 17-20; 39, 10-13), e nell'Apocalisse si afferma che le fondamenta delle mura della Gerusalemme celeste sono adorne di dodici specie di pietre preziose (Apocalisse, 21, 18-20). Le interpretazioni dei commentatori hanno dato origine ai lapidari simbolici e, tra quelli che ci sono pervenuti, il più antico è il lapidario di Epifanio di Salamina, che interpreta le dodici pietre del pettorale del gran sacerdote (fine del IV sec. d.C.). Altri autori seguirono il suo esempio (per es., Gregorio Magno, Ambrogio Autperto, Hildebert de Lavardin, Ugo di San Vittore, ecc.) ed è in questa linea testuale che s'iscrive il lapidario simbolico di Marbodo.

Tra i lapidari medievali, quelli dedicati alle pietre incise costituiscono una categoria a parte. Si tratta di piccoli testi in cui sono descritte in brevi paragrafi le virtù mediche o magiche di gemme sulle quali era stato inciso un motivo ornamentale. Ci si riferisce chiaramente alle pietre intagliate di origine antica, nel Medioevo ancora frequentemente utilizzate per decorare gli oggetti del culto o come castoni degli anelli. Nel XII e nel XIII sec., sotto il nome di un filosofo ebreo, Tethel, circolò un piccolo lapidario di questo genere in cui erano contenute 33 prescrizioni; assieme a un testo dello stesso genere, questo lapidario fu inserito da Tommaso di Cantimpré nel suo De natura rerum (v. cap. XXX), ma lo si ritrova anche copiato separatamente in alcuni manoscritti.

Enciclopedismo e interpretazione del mondo

di Baudouin van den Abeele

Nell'Alto Medioevo, le conoscenze sulla Natura erano espresse, oltre che nei trattati dedicati a ciascuno dei tre 'regni della Natura', in testi di carattere più generale, vale a dire le enciclopedie e la letteratura esameronica. Tra i trattati le Etimologie di Isidoro di Siviglia (560-636 ca.) esercitarono una profonda influenza in tutti i campi del sapere; dal VII al XV sec. quest'opera enciclopedica e lessicografica è stata infatti una delle più importanti cornici di riferimento per i letterati; se ne possono contare centinaia di manoscritti conservati ed è persino impossibile elencarne le utilizzazioni da parte di autori più tardi.

Le Etimologie, un'opera concepita come strumento culturale per le élites religiose e laiche del regno fondato dai Visigoti in Spagna, rimasero incompiute al termine di un lungo lavoro di redazione. Isidoro ne affidò il testo al suo amico Braulione, vescovo di Saragozza, che lo ripartì in 20 libri e ne curò la pubblicazione. Le ambizioni enciclopediche dell'autore traspaiono dall'ordine di successione dei libri. I primi tre sono dedicati alle arti liberali (I, grammatica; II, retorica e dialettica; III, le quattro scienze 'matematiche' o del quadrivio), seguite dalla medicina (IV) e dal diritto (V); i tre libri successivi sono dedicati alle scienze sacre (in particolare: alla liturgia, a Dio e agli angeli, alla gerarchia della Chiesa e alle sette, VI-VIII) e, dopo un libro sulla vita sociale (IX), questa prima decade si chiude con un libro lessicografico (X). La seconda metà dell'opera prende poi in esame la Natura e le sue realtà concrete, e Isidoro vi compila un inventario dell'Universo: l'uomo (XI), gli animali (XII), gli elementi con i cieli e le acque (XIII), la Terra e le sue parti (XIV). Dalle attività dell'uomo legate alla terra (XV) passa ai minerali (XVI) e ai vegetali (XVII), per terminare con la civiltà materiale (il Libro XVIII prende in esame le guerre e i giochi, il XIX le arti e le tecniche, il XX gli utensili). Se per l'opera intera l'edizione curata da W.M. Lindsay nel 1911 resta ancora la più autorevole, un'edizione critica in corso di pubblicazione dei singoli libri offre oggi un testo arricchito e più adeguatamente inserito nel suo contesto (Libri II, IX, XII, XVII, XIX, collana Auteurs Latins du Moyen Âge). Sono inoltre apparse alcune sintesi critiche della letteratura secondaria (Hillgarth 1983 e 1990), tanto che oggi possiamo valutare meglio i risultati e i desiderata della ricerca isidoriana.

Le Etimologie realizzano il programma di conoscenza auspicato da Agostino nel De doctrina christiana: compilare un'opera che passi in rassegna e spieghi le realtà di cui si parla nella Bibbia. In realtà, l'opera di Isidoro va al di là di questo quadro di riferimento; di ogni soggetto sono selezionati tra le opere cristiane e profane ‒ in parte sulla base di florilegi ‒ i brani che lo caratterizzano meglio; in questo senso, le Etimologie sono il risultato di una compilazione selettiva e divennero una sorta di biblioteca tascabile. L'etimologia apre un accesso diretto alla conoscenza della Natura, consentendo di risalire al momento creatore ‒ genesiaco ‒ della denominazione delle cose, e questa chiave di lettura del mondo seguitò a essere un punto di partenza obbligato per gli autori che nel corso dei secoli successivi si occuparono della Natura; Isidoro con le Etimologie aveva creato l'accessus perfetto allo studio del mondo naturale.

Per quanto riguarda la descrizione della Natura, Isidoro di Siviglia si servì ampiamente di un modello enciclopedico antico, la grande Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Le Etimologie, tuttavia, non soppiantarono l'opera di Plinio ma, dal momento che offrivano un compendio ragionato della scienza antica, la loro diffusione rallentò senza dubbio quella della Naturalis historia. Un'altra importante fonte è costituita dai Collectanea rerum memorabilium di Solino (III sec.), che sono una sorta di sostituto dell'opera di Plinio, limitato, però, alla geografia e ai mirabilia. Il successo dell'opera di Solino, tuttavia, non risentì in alcun modo della parziale concorrenza delle Etimologie; se ne conosce persino un'edizione 'critica' redatta nel periodo carolingio e le copie manoscritte conservate sono 250.

Due secoli dopo la pubblicazione dell'opera di Isidoro, ne apparve in Germania un rifacimento, il De rerum naturis di Rabano Mauro (776 ca.-856), abate di Fulda e poi vescovo di Magonza. Si tratta di un'opera enciclopedica in 22 libri, in cui sono affrontati gli stessi argomenti trattati nelle Etimologie, ma in un diverso ordine di successione che si apre con una sezione dedicata alla scienza sacra. Soprattutto, Rabano Mauro aggiunge alle descrizioni di Isidoro un commento allegorico o mistico, nella prospettiva generale di "cristianizzare più nettamente l'enciclopedia isidoriana" (Fontaine 1966); riduce qua e là la nomenclatura e attribuisce una minore importanza all'etimologia. Il De rerum naturis, di cui si conoscono 36 manoscritti completi e 22 manoscritti parziali, anche se non ottenne certamente lo stesso successo del suo modello, ebbe tuttavia una grande importanza, dal momento che rappresentò il primo esempio di enciclopedia allegorica, e venne ampiamente ripreso dagli autori successivi.

Bisogna infine prendere in considerazione una tradizione letteraria che a prima vista non sembra interessare la storia della scienza: la letteratura esameronica. A partire dall'epoca patristica, il racconto della Genesi suscitò approfonditi commenti per meglio comprendere il significato dei sei giorni della Creazione. Punto di partenza sono le nove Omelie sull'Esamerone di Basilio di Cesarea (329-379), nei cui sermoni si tratta successivamente della creazione del cielo e della Terra (I), della luce (II), del firmamento (III), della raccolta delle acque (IV), delle piante (V), dei corpi luminosi (VI), dei rettili e dei pesci (VII), degli uccelli (VIII) e, infine, degli animali terrestri e dell'uomo (IX). Più che un commento letterale del testo biblico, Basilio nella sua opera offre alcune riflessioni sull'Universo e sulle sue parti costitutive, confrontando le teorie scientifiche antiche con la visione biblica. Nella trattazione del regno animale e di quello vegetale, l'autore allinea brevi notizie in cui si scorgono alcune analogie con il Physiologus, e in cui ogni pianta e ogni animale è oggetto di un breve commento allegorico.

Nel mondo latino, il modello di Basilio fu ripreso da Ambrogio (333/340-397), il quale nei sermoni contenuti nel suo Esamerone ‒ pronunciati verso il 386-388 ‒ tradusse e ampliò le omelie di Basilio. L'opera è divisa in 6 libri, ciascuno dei quali è dedicato a un giorno della Creazione, e le informazioni sulle specie animali e vegetali sono ampie, così come i commenti allegorici. Indubbiamente Basilio ha dato un impulso decisivo al genere dei commenti esameronici, che in Occidente conobbe in seguito una considerevole fortuna; per quanto riguarda l'età medievale, sono stati censiti circa 200 commenti al racconto della Genesi e scritti relativi alla creazione del mondo, fra i quali occorre ricordare i commenti del Venerabile Beda, di Wandalbert de Prüm, di Hildebert du Mans, di Remigio di Auxerre e di Bruno di Asti. Nessuno di questi autori sviluppa, tuttavia, riflessioni dettagliate sulle diverse specie che compongono il regno vegetale e animale, come quelle che troviamo in Basilio e in Ambrogio. In via generale, il racconto della Genesi offriva agli autori cristiani una cornice di riferimento per la descrizione del mondo, e non è quindi sorprendente che alcuni enciclopedisti abbiano pensato di far corrispondere il piano del loro testo a quello dell'opera dei sei giorni; tra questi ultimi, l'esempio più elaborato è rappresentato dallo Speculum naturale, redatto da Vincenzo di Beauvais (1190 ca.-1264).

3. Rappresentazioni della Terra

di Wesley M. Stevens

Gli antichi pitagorici descrivevano i cieli come sfere e la Terra come un globo; Platone e Aristotele avevano analizzato queste concezioni e, successivamente, sviluppato argomentazioni a loro sostegno, con la conseguenza che queste immagini tridimensionali di forma sferica sono state accettate e insegnate da tutti gli autori ellenistici quali raffigurazioni dei cieli e della Terra. Esse costituiscono la base di tutta la letteratura e delle raffigurazioni del periodo medievale che ci sono pervenute, mediante opere sia in greco, in latino, in anglosassone, in irlandese, sia in successive varietà di francese, tedesco, italiano, catalano o castigliano (v. cap. XXII). La Terra nel suo complesso era raffigurata sui papiri oppure sulle pergamene per mezzo di linee o circonferenze secondo tre modelli di rappresentazione: orbis quadratus, orbis terrae e una rota suddivisa in zone.

L'orbis quadratus era un diagramma utilizzato per rappresentare sia le sfere celesti sia la sfera della Terra. All'interno di una circonferenza erano raffigurati i cieli come quattro plagae mundi (continenti di stelle) divise da fasce di colures che s'intersecavano. Per analogia, la Terra era rappresentata suddivisa in quattro continenti, separati da grandi oceani; i testi parlavano di due emisferi, ma le due metà del globo che erano prese in considerazione di volta in volta potevano essere sia l'emisfero orientale e quello occidentale sia quello settentrionale e quello meridionale, ognuno dei quali comprendeva due delle quattro parti. Ognuna di queste era la parte di globo compresa in un quarto di cerchio, come uno spicchio di mela tagliato fino al torsolo, e poteva essere abitabile. Seguendo l'orientamento attribuito a questa rappresentazione dai pitagorici, si faceva riferimento a varie popolazioni. I sýnoikoi vivevano nelle estese terre dell'emisfero orientale, intorno al Mare di Mezzo (Mediterraneo); gli ántoikoi vivevano a sud dei sýnoikoi; i períoikoi vivevano intorno allo stesso mare nell'altro quarto settentrionale; infine gli antípodes vivevano in una posizione diametralmente opposta rispetto a quella dei sýnoikoi ed erano così denominati in quanto, visti dal nord, mostravano di avere la testa in giù e i piedi in su, cioè al contrario del normale: se ciascuna di queste popolazioni fosse discesa nelle più profonde caverne del Tartaro, scivolando giù verso il centro, i sýnoikoi e gli antípodes si sarebbero incontrati piede contro piede.

Alcuni autori greci e latini sostenevano che tutti e quattro i settori della Terra erano abitati, ma i physici e i philosophi richiedevano prove e argomentazioni logiche; vi erano i racconti dei commercianti provenienti dal settore dei sýnoikoi e da quello degli ántoikoi, e, inoltre, era possibile individuare alcuni indizi che lasciavano supporre la presenza di vita anche nell'altro settore settentrionale, quello dei períoikoi (pesci, orsi bianchi, falconi), ma per quanto concerneva il quarto settore, dove avrebbero dovuto vivere gli antípodes, non esisteva nemmeno questo genere di illazioni. Nonostante ciò, sia le argomentazioni logiche sia le prove a sostegno del diagramma e della suddivisione in parti dell'orbis quadratus avvaloravano la concezione secondo la quale la forma della Terra era sferica. Il diagramma dell'orbis quadratus è stato illustrato da Krates di Mallos nella sua Geographia intorno alla metà del II sec. a.C. (quando insegnava a Pergamo nell'Asia Minore) e, intorno al 50 d.C., nell'Astronomia di Gemino di Rodi. La concezione dell'orbis quadratus era spesso data per scontata nella letteratura greca e latina, per esempio da Aristotele nel De caelo, da Tolomeo nella Megále sýntaxis, da Agostino nel De civitate Dei, da Isidoro nelle Etimologie. Qualsiasi riferimento alle popolazioni denominate antípodes presupponeva la concezione dell'orbis quadratus; questo modello suddiviso in quattro parti esercitò un influsso determinante attraverso le opere di Colum Cille (Columbanus, m. 597) a Luxeuil e Bobbio, di Giovanni Scoto a Compiègne (860 ca.), di Erico di Auxerre che insegnò anche a Soissons e Laon, di Notker Labeo a San Gallo (950-1022 ca.) e altri ancora. Lo si può osservare raffigurato a margine della Pharsalia di Lucano, come schema con funzioni didattiche (Berna, Burgerbibliothek, ms. 45, f. 41, datato 900 ca.).

Una seconda raffigurazione del globo terrestre, denominata orbis terrae, rappresentava un quarto dell'orbis quadratus ed era disegnata sui muri delle scuole o sulle pergamene come una rota terrarum. Essa mostrava l'oikouménē, nel quale gli esseri umani vivevano intorno al Mare di Mezzo, e comprendeva l'Asia, l'Africa e l'Europa. Il fiume Nilo (o in alcuni casi il Mar Rosso) separava l'Africa dall'Asia, e il fiume Tanais (il Don o il Dnepr) sembrava separare l'Europa dall'Asia. Le terre dall'altro lato delle acque non erano visibili, quindi la figura era circondata dall'Oceano. Diversi autori ellenistici, come Krates (150 a.C.), Strabone (150 a.C.), Gemino (50 d.C.) e Tolomeo (100 ca.-178 ca.), hanno conosciuto e illustrato il modello dell'orbis terrae, e la prima rappresentazione dello schema della rota terrarum in un manoscritto latino compare nel De natura rerum di Isidoro di Siviglia nella versione rivista del 613, un manuale destinato alla scuola del VII sec., che è stato usato per l'insegnamento da Beda (701), Rabano Mauro (819/820), Erico di Auxerre (875), Giovanni Scoto (860 ca.), Abbone di Fleury (988), e molti altri. Questo modello assunse nel tempo forme diverse e fu illustrato in molti testi; di solito era orientato verso oriens (est), e i due quarti inferiori erano denominati Europa e Lybia. La parte chiamata Lybia dai Greci negli scritti latini è diventata poi nota come Africa, per estensione del nome romano Africa nova della regione costituente l'attuale Tunisia. A volte le linee orizzontali e verticali erano spostate verso l'alto o verso destra e sinistra per ampliare lo spazio destinato all'Europa e all'Africa oppure a una sola di queste due regioni. Per via della sua flessibilità questo modello tripartito fu alla base dello sviluppo della cartografia medievale; in alcuni manoscritti del periodo tra il X e il XIV sec. ‒ contenenti testi di Sallustio (40 a.C.) e Lucano (65 d.C.) ‒ ce ne sono pervenute interessanti varianti, nelle quali un continente era rappresentato più grande mentre altri erano ridotti di dimensioni, oppure le terre erano spinte da parte dal Mediterraneo con le sue isole, in modo da poter dare a queste maggiore risalto.

La raffigurazione dell'orbis terrae rappresentata dalla tripartita rota terrarum poteva quindi essere adattata per porre maggiormente in rilievo città, isole del Mediterraneo, fiumi dell'Africa e dell'Asia e la grande penisola dell'Europa; nell'800 ca. questa raffigurazione fu ampliata per servire come períplous e per identificare regioni e popolazioni nel corso di viaggi lungo le coste del Mediterraneo. Le rappresentazioni dell'orbis terrae generalmente dedicavano uno spazio particolarmente esteso al Mediterraneo per mostrarne tutte le isole, e raffiguravano anche molte isole distanti dell'Oceano facendo una proiezione, sulle pagine a sinistra e a destra della rota, delle acque che si estendevano nell'altra parte del globo, in modo tale che si potessero individuare le Azzorre, le Canarie e Madeira nell'Atlantico settentrionale, Taprobane (Srī Lanka) nell'Oceano Indiano e una grande estensione di terra senza nome nel Pacifico, forse corrispondente al Giappone o alle Filippine.

Una terza immagine della sfera celeste era proiettata sulla Terra come una rota suddivisa in zone. L'astronomo e studioso di geometria Eudosso di Cnido (408 ca.-355 ca.) aveva concepito, su questa sfera celeste, particolari linee immaginarie (i 'tropici') stabilite in base ai movimenti stagionali del Sole, che in estate era visto passare nel suo punto estremo nel segno del Cancro e in inverno nel suo punto estremo nel segno del Capricorno; il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno individuavano quindi ampie porzioni di cielo. La maggior parte delle stelle era visibile soltanto per metà dell'anno a causa delle rotazioni stagionali dei cieli. A nord alcune stelle erano visibili durante tutta la notte; il loro moto circolare consentiva d'identificare nel cielo settentrionale un centro teorico: il polus settentrionale (Polo Nord). Il limite inferiore delle stelle che erano sempre visibili dalle isole di Coo e Rodi nel Mediterraneo serviva a stabilire il Circolo polare artico; si presupponeva che esistesse il suo corrispettivo meridionale, il Circolo polare antartico. Inoltre, i diagrammi della rota suddivisa in zone, oltre a mostrare i tropici, individuavano anche una linea diagonale che univa il punto d'intersezione tra un estremo dell'eclittica, l'orizzonte e il punto d'intersezione opposto. Queste quattro linee immaginarie (di solito non si considerava anche l'equatore) erano state concepite per suddividere e studiare i cieli, ma erano spesso proiettate anche sulla Terra per individuare tre fasce di clima: torridus (tra i due tropici), temperatus (in ognuno dei due emisferi, la zona tra tropico e circolo polare), frigidus (le zone polari).

La terminologia relativa a tutti e tre i modelli riguardanti i cieli e la Terra rivelava anche l'esistenza di due prospettive convenzionali. Se ci si orienta verso est, nel cielo notturno si osserverà la grande distesa di stelle, nota come oceanus orientalis, che si estende sopra le terre dell'Asia, mentre l'Europa si troverà a destra e l'Africa a sinistra (si diceva infatti Europa est dextera, Africa est laeva); ovviamente, in questo caso, la grande distesa d'acqua dell'Atlantico si troverà a ovest, oltre le colonne d'Ercole. Un simile orientamento delle costellazioni è evidente in un planisfero carolingio di Salisburgo che risale all'inizio del IX sec., e si ritroverà spesso, da quell'epoca in poi, nei planisferi presenti nei manuali scolastici. Tuttavia, se si guarda verso est dal di fuori rispetto alla grande sfera delle stelle, proiettando le porzioni di cielo direttamente sul globo della Terra (o su una superficie qualsiasi, come un muro o un tavolo), si verificherà un capovolgimento delle posizioni, cosicché l'Europa si presenterà ora sulla sinistra e l'Africa sulla destra (Europa est laeva, Africa est dextera). Il planisfero carolingio di Fulda, anch'esso dell'inizio del IX sec., presenta questo orientamento alternativo, come peraltro anche altri planisferi dei secoli successivi. Entrambe le prospettive potevano dunque essere usate nelle rappresentazioni delle costellazioni presenti nella letteratura popolare che trattava di astronomia; esistono numerosi esempi di rappresentazioni delle stesse stelle orientate in una direzione o nell'altra, a seconda che artigiani, artisti e studiosi si basassero su planisferi e globi che presupponevano l'una o l'altra delle due prospettive.

Fra le rappresentazioni della Terra vanno poi menzionati altri due modelli, anche se probabilmente la loro origine è più tarda. Il primo compare nel XII sec. nei manoscritti di Macrobio e presenta una sorta di fusione dei tre precedenti modelli che conferisce maggiore risalto alle fasce latitudinali, senza tuttavia tralasciare la suddivisione del globo in quattro parti. Il secondo modello fu introdotto nel XIV sec. da Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.), nel corso delle lezioni tenute a Parigi; in esso il globo è composto da due elementi, terra e aqua, i quali formano ciascuno una sfera distinta: quella della terra è circondata da quella dell'acqua, e la terra emerge dall'acqua quel tanto sufficiente a far comparire i tre continenti. Nei disegni dell'orbis terrae, la rota terrarum con i tre continenti è leggermente decentrata rispetto alla rota aquarum; questa concezione asimmetrica fu presa in esame anche da Nicola Oresme (1320 ca.-1382) e Pietro d'Ailly (1350-1420), e nei secoli successivi da molti altri studiosi nelle loro lezioni universitarie.

Molti testi latini sono stati spesso fraintesi perché i modelli (orbis) e le loro descrizioni (rotae) assunti dai Greci, dai Romani o dagli autori medievali, non sono stati compresi dagli interpreti moderni. Quasi tutte le allusioni ai "quarti della Terra" dai quali soffiano determinati venti o a 'quel quarto' dove era successo qualcosa o da cui erano venuti alcuni stranieri, di solito presupponevano una concezione dell'orbis quadratus, consolidata dalle osservazioni compiute in ambito ellenistico e soprattutto romano. Quando si parlava di notizie che volavano alle "estremità della Terra" ci si basava sulle stesse assunzioni, e gli autori che usavano espressioni come 'acque che circondano' e 'cinto dall'oceano' presumibilmente le basavano sulla rota dell'orbis terrae.

Nelle testimonianze che ci sono pervenute non compare mai l'idea di una Terra 'piatta' o 'simile a un disco'. Tuttavia, intorno all'anno 650 un commerciante siriano affermò che la Terra fosse in realtà simile a una tenda, con fondale piatto, lati orizzontali e un tetto a punta a doppio spiovente. Dotato di una certa conoscenza del greco, ma a quanto pare all'oscuro dell'esistenza dei modelli di rappresentazione della Terra come globo, l'autore, ora noto come Cosma Indicopleuste, scelse alcuni passi da libri diversi delle Scritture ebraiche e cristiane giustapponendoli a proprio piacimento, in modo da fondare una nuova cosmologia (il suo Cosmo comprendeva un firmamento celeste collocato al di sopra di una Terra immaginata piatta). Evidentemente Cosma non riteneva che le sue concezioni dovessero sottostare a una discussione pubblica su basi razionali, e nemmeno sentiva la necessità di comprendere le citazioni bibliche valutandole nell'ambito del loro contesto linguistico o storico. Egli era in un certo senso un cristiano, ma ovviamente in conflitto con gli insegnamenti cristiani ortodossi e voleva gettare discredito sui filosofi cristiani che nel VII sec. insegnavano nelle scuole di Alessandria d'Egitto, Antiochia, Edessa, Nisibi o Costantinopoli. La sua singolare opera è divenuta un documento importante nello studio delle antiche illustrazioni presenti nei testi bizantini. Le illustrazioni del manoscritto greco che ci è pervenuto forniscono infatti agli storici dell'arte testimonianze rare risalenti al X sec., periodo al quale si possono appunto datare i primi frammenti greci; la più antica copia latina è invece del XV secolo.

4. La teoria delle maree e le latitudini terrestri

di Wesley M. Stevens

La teoria delle maree, sviluppatasi tra il VI sec. e l'inizio dell'VIII sec., rappresenta uno dei progressi più notevoli di tutti i tempi nella comprensione dei fenomeni naturali. Molti degli autori più antichi avevano parlato delle fluttuazioni del livello dell'acqua sulle coste e nei porti all'interno del grande bacino del Mediterraneo; tuttavia il flusso e il riflusso delle acque era minimo nella parte orientale e in quella centrale. Agostino aveva osservato questi fenomeni sulle coste dell'Africa nova (De Genesi ad litteram, I, XII, 26) ed era stato notato che l'azione delle maree aumentava procedendo verso ovest; nel complesso però si trattava di una scienza completamente nuova, del tutto indipendente dalle fonti classiche.

Nel VI sec. Prisciano di Lydia descrisse l'azione delle maree sulle coste occidentali del Mediterraneo, dell'Oceano Atlantico e del Mare del Nord, riferendo addirittura dell'esistenza di onde di marea nel Tamigi e nel Reno. Egli riconobbe la presenza quotidiana di due flussi e riflussi di marea, e sottolineò la forza di attrazione esercitata dalla Luna che trascinava con sé le acque lungo il suo spostamento verso ovest, anche se con uno scarto temporale. Le maree più forti che si verificavano mensilmente erano messe in relazione a congiunzioni od opposizioni di Sole e Luna; erano state individuate anche le maree equinoziali, le maree di quadratura e ulteriori flussi di alta marea in occasione degli equinozi, cosa che nessun siriano, greco o romano aveva mai fatto.

Le strette relazioni tra la Luna e le maree sono esaminate, in modo più circostanziato rispetto al passato, nel De mirabilibus Sacrae Scripturae (655 ca.) di un autore dell'Irlanda meridionale che scrive sotto lo pseudonimo del vescovo Agostino; in quest'opera i particolari che riguardano la ledo (marea equinoziale) e la malina (marea di quadratura) sono tratti dall'osservazione dei flussi delle acque e dei corrispondenti quarti di Luna. Gran parte di queste osservazioni concernenti le maree sono presenti anche in un secondo trattato, De ordine creaturarum, risalente alla fine del VII sec. e scritto forse in Spagna. In questi due testi i fenomeni naturali sorprendenti sono inquadrati all'interno di un mundus assolutamente regolare; questa impostazione esercitò un certo influsso nelle scuole europee e specialmente in Northumbria, dove il Venerabile Beda, nel primo quarto dell'VIII sec., redasse per la prima volta una trattazione sistematica della teoria delle maree.

Nella sua prima opera De natura rerum (701 ca.), Beda aveva accettato il periodo lunare di otto anni per le maree proposto da Plinio, e aveva aggiunto a questo la coordinazione tra le maree e le fasi della Luna descritta dal citato vescovo irlandese. Subito dopo, nel De temporibus liber (703), si era però rivolto a teorie più esaurienti, ponendo alla base dei suoi studi di computo il periodo lunare di 19 anni sostenuto da Dionigi. Successivamente, nell'opera più matura De temporum ratione (716-725), egli riuscì a mettere in relazione, nell'arco di questo periodo di 19 anni, le ledones e le malinae con le fasi lunari: la ledo di solito inizia cinque giorni prima della Luna nuova e di nuovo prima della Luna piena, e la malina di solito inizia cinque giorni prima del primo e del terzo quarto della Luna. Nella letteratura ellenistica, per le maree quotidiane che seguono il passaggio della Luna al meridiano superiore del luogo era di frequente menzionato un ritardo della fase massima di 3/4 più 1/24 d'ora (cioè 47 minuti e mezzo); Beda calcolò invece un ritardo di marea di quasi IIII puncti di un segno, vale a dire di quasi 48 minuti, giustificando questo ritardo nell'arco di un periodo di due mesi sinodici, cioè 59 giorni solari, durante i quali la Luna girava attorno alla Terra soltanto 57 volte. Egli descrisse maree equinoziali e maree di quadratura secondo uno schema di 7 o 8 giorni in ogni periodo di 15 giorni; le maree equinoziali raggiungevano il massimo in prossimità di ogni equinozio, ma la marea era relativamente bassa al solstizio d'estate, contrariamente a quanto affermato nella letteratura classica e nei testi irlandesi.

Beda insisteva nell'affermare che per ciascuna regione esisteva una regula societatis (uno schema regolare) delle relazioni tra la Luna e le maree. Alcune delle sue osservazioni concernenti la regolarità dei fenomeni erano tuttavia poco precise, in quanto i fenomeni osservabili non erano sufficientemente costanti da permetterne una descrizione esatta. Egli dissentiva fortemente da coloro i quali ritenevano che l'azione delle maree si verificasse dappertutto nello stesso momento; forniva invece esempi di come il mare potesse presentare in un luogo il flusso di marea mentre nello stesso tempo, in un altro luogo, avveniva il riflusso. La forza, la velocità e l'altezza delle fluttuazioni delle maree variavano a seconda delle condizioni meteorologiche e anche a seconda della direzione e forza del vento; inoltre, le caratteristiche specifiche di un porto o del letto di un fiume incidevano considerevolmente sull'ampiezza della marea. Oltre al ritardo di quasi 48 minuti tra Luna e maree, su qualunque costa avrebbe potuto verificarsi un ulteriore ritardo tra il passaggio della Luna e l'alta marea che ne conseguiva. Questi fenomeni presentavano dunque variazioni talmente considerevoli, pur nell'ambito del loro naturale riproporsi con regolarità, che Beda usava in proposito un termine per lui piuttosto inconsueto: sorte (caso). Egli dimostrò meglio di chiunque altro la necessità di riconoscere varianti locali nell'ambito di una generale regolarità, quella che ora è definita 'regola del porto' oppure 'stabilimento del porto'. Sebbene il suo contributo non sia riconosciuto nelle British admiralty tide tables, la teoria di Beda sulle maree costituisce tuttora la struttura sulla quale si basano i dati pubblicati annualmente nei portolani e utilizzati in tutto il mondo.

Per indicare le fasce di terra e di mare che si estendevano intorno al globo era comunemente usata la parola greca klíma; elenchi di klímata si trovano nelle opere di Plinio, Tolomeo, Orosio, Gregorio di Tours, Isidoro, Beda e molti altri, e occorre ricordare che fino al XVII sec. non sono state concepite le linee ravvicinate per la latitudine nord. Cassiodoro ha descritto sette klímata, nei quali si trovavano differenti tipologie di uomini e di animali, denominati Meroe, Syene, la costa dell'Africa, Rodi, Ellesponto, Mar Nero, Borysthenes. Il termine klíma era soltanto menzionato nel De natura rerum di Isidoro, mentre nelle Etimologie erano riproposti i sette klímata secondo l'elenco fornito da Cassiodoro. Nell'ambito di ciascun klíma era possibile prevedere la stagione adatta per la navigazione, il periodo migliore per l'aratura, e perfino il caldo estivo e le piogge autunnali.

Le modificazioni regolari della lunghezza del giorno sono annoverate da Gregorio nel De cursu stellarum ratio come il settimo miraculum. A Tours (47°18′ latitudine nord) la lunghezza del giorno variava da circa otto ore di luce a dicembre a sedici ore in giugno, ma nel più antico manoscritto dell'opera che ci è pervenuto lo schema delle ore di luce elaborato da Gregorio andava da nove a quindici ore, con una variazione di un'ora ogni mese. Questa oscillazione più limitata descritta nel manoscritto potrebbe dimostrare che i dati elaborati a Tours non erano stati semplicemente copiati, ma piuttosto adattati alla fascia di klíma dell'Italia settentrionale. Le variazioni stagionali si potevano correggere consultando un horologium e basandosi sull'uguale numero di ore di luce e di buio ai due equinozi in primavera e in autunno, applicando in seguito il risultato di queste osservazioni nel corso di tutto l'anno.

In una delle sue prime opere, De natura rerum, anche Beda ha riproposto la descrizione fatta da Plinio comprendente otto fasce di klímata e molti particolari sulla lunghezza delle ombre agli equinozi e sulle ore di luce al solstizio d'estate, dies longissimus. Egli ha però aggiunto due ulteriori fasce a sud e a nord, per un totale di dodici fasce di klímata che in termini moderni si estenderebbero da 8°30′ a 66°30′ ca. di latitudine nord. Molti altri studiosi hanno elaborato questi dati sui klímata, aggiungendovi i propri e applicandoli non soltanto ai periodi dei solstizi e degli equinozi ma anche a tutti i mesi dell'anno (sebbene le estrapolazioni mensili dei dati fossero meno affidabili dei rilevamenti trimestrali). I dati relativi alla lunghezza delle ombre e alle ore di luce erano organizzati in tabelle ‒ talvolta in una rota horarum o in un horologium ‒ fornite di note esplicative e a volte di calendari mensili. Quando una rota oppure un calendario erano spostati in una diversa località, un eventuale successivo utilizzatore avrebbe dovuto applicare i dati operando alcuni aggiustamenti al fine di ottenere informazioni esatte rispetto al klíma locale; proprio le differenze che intervenivano tra una fascia di clima e l'altra conferivano alle informazioni una loro utilità pratica. Questa utilizzazione sarebbe stata possibile soltanto con ore equinoziali (cioè tutte uguali fra loro) indipendentemente dall'epoca dell'anno; tutti coloro che insegnavano a scuola ‒ e soprattutto coloro che si occupavano di computo calendaristico ‒ insistevano dunque su un'uguale lunghezza delle ore sia del giorno che della notte.

5. La letteratura geografica

di Uta Lindgren

L'orizzonte geografico

Dopo le grandi migrazioni non era cambiato, rispetto alla Tarda Antichità, soltanto il baricentro dell'Impero, ma anche il modo in cui si guardava al suo territorio; già Isidoro di Siviglia non scriveva più per un ceto culturale in grado di accedere agli scritti degli antichi (Fontaine 1983). Le memorie geografiche dei successori del movimento migratorio ebbero un ruolo soltanto molto marginale all'interno degli scritti ispirati all'Antichità e in particolare a Plinio (23-79 d.C.).

Nelle opere altomedievali non si prestava attenzione alla geografia dei territori germanici e soltanto gradualmente trovò spazio la descrizione delle regioni dell'Europa settentrionale, centrale e occidentale. A dare il via a quest'opera furono l'Inghilterra con Beda (672 ca.-735), la Scandinavia con Adamo di Brema (m. dopo il 1081), il Galles e l'Irlanda con Giraldo di Cambria (1146 ca.-1223). Perfino gli eventi geografici più spettacolari, come la conquista navale dell'Atlantico del Nord da parte degli Irlandesi e dei Vichinghi o la conquista dell'Europa orientale da parte dei Variaghi, sono stati ammessi nella letteratura geografica con un ritardo di molti secoli.

I contatti con l'Oriente hanno invece trovato uno spazio molto maggiore nella letteratura, anche se fino al XII sec. le informazioni geografiche sono rimaste in secondo piano. Si può far risalire l'inizio di questi contatti alle conquiste saracene in Europa (dal 711) e allo scambio di legazioni tra il califfo Hārūn al-Rašīd e l'imperatore Carlo Magno; nel complesso, i rapporti diplomatici con Costantinopoli ‒ la quale era però molto più orientata verso est e sud-est piuttosto che verso ovest ‒ hanno ulteriormente rafforzato gli interessi dell'Occidente latino per l'Oriente. L'attrattiva esercitata dai luoghi geografici della Bibbia, che poteva soltanto parzialmente essere soddisfatta dal Testo Sacro, trovò uno sbocco nei pellegrinaggi e nelle crociate, dando luogo a un genere letterario specifico, la descriptio Terrae Sanctae, dove, tuttavia, l'importanza attribuita alle informazioni geografiche era, nella maggior parte dei casi, soltanto secondaria.

Caratteri della letteratura geografica

Nel Medioevo, come nell'Antichità, la geografia non era trattata soltanto in opere enciclopediche e in scritti autonomi, ma anche in opere storiche e teologico-storiche; essa si trovava inoltre associata alle materie del quadrivio e soprattutto alla geometria e all'astronomia. Solamente a partire dal VII sec. è possibile rintracciare testi dedicati interamente alla geografia, il primo dei quali è uno scritto De natura rerum piuttosto modesto di Isidoro di Siviglia. Diversamente, il De natura rerum di Beda rappresenta un esempio significativo di opera cosmografica, che include una trattazione sistematica dei fenomeni di geografia fisica ma non la geografia regionale; quest'ultima è invece esaminata nel De mensura orbis terrae di Dicuil (attivo tra l'814 e l'825).

Nella cosmografia, la Terra era trattata come un corpo celeste ed erano dunque fornite delle rudimentali conoscenze astronomiche; la geografia fisica riguardava la trattazione sistematica dei fenomeni atmosferici e della superficie terrestre; la geografia regionale, infine, prendeva in esame le regioni della Terra, accompagnando la descrizione del paesaggio con dati di carattere storico ed etnologico. Queste tre sezioni della geografia erano tutte articolate in base all'antica dottrina dei quattro elementi; la terra, l'elemento più pesante, era posta al centro con l'acqua, l'aria e il fuoco situati in strati concentrici (spherae) intorno a essa. In tal modo la distribuzione perfetta delle sfere regolava il rapporto fra gli elementi nell'atmosfera e sulla terra.

Con le Etimologie di Isidoro di Siviglia e il De rerum naturis di Rabano Mauro, la geografia nel suo complesso conquistò un posto di rilievo. Nel XIII sec. accanto a queste opere classiche ‒ che continuarono a essere usate e copiate ‒ comparvero delle compilazioni enciclopediche, fra cui lo Speculum naturale e lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, due opere di gran lunga superiori a tutti i precedenti scritti di geografia. Inoltre, altri autori ‒ per esempio Roberto Grossatesta (1175-1253) ‒ inserirono la geografia all'interno dell'Hexaemeron, il commento al racconto biblico della Creazione; più spesso si verificava però che la geografia, soprattutto quella regionale, trovasse posto nelle cronache universali e nelle storie regionali; le Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum di Adamo di Brema ne costituiscono uno dei primi esempi. Nell'opera di Marziano Capella (prima metà del V sec.) e di Rabano Mauro la geografia è trattata come parte della geometria, mentre Gerberto di Aurillac (940/950-1003) e Giovanni di Sacrobosco (attivo nel 1230) la includono nell'astronomia.

Gli scritti Mappa mundi sono raccolte di nomi geografici molto concise e per lo più classificatorie, fra le quali troviamo quella dell'anonimo Geografo Ravennate dell'VIII sec.; questo genere raggiunse la sua massima espressione nel XII sec., negli scritti di Gervasio di Canterbury (1145-1210 ca.) e di Ugo di San Vittore (m. 1141), e si collegava a un altro genere di fonti geografiche, le Mappae depictae, ossia disegni a mano libera e raffigurazioni del mondo, dettagliatamente descritte da Ugo. Il concetto di raffigurazione del mondo è stato coniato per la carta di Ebstorf (1239 ca.), ma è appropriato anche per i pittoreschi disegni geografici nello stile del Beato di Liébana (VIII sec.; Kugler 1991; v. oltre). Questo tipo di carte serviva a illustrare gli scritti storico-geografici e per la loro elaborazione assumeva un'influenza determinante ciò che era detto nel testo (sui disegni schematici come le cosiddette carte climatiche e zonali, v. cap. XX, par. 5; Lindgren 1985, 1990).

Rientrano inoltre nella letteratura geografica in senso lato anche i resoconti di viaggio, che a partire dal XII sec. includono alcuni dati geografici come, per esempio, le distanze. A questo proposito occorre citare il Domesday book, che costituisce una fonte straordinaria per un gigantesco rilevamento topografico, ma che né all'epoca (XI sec.) né successivamente è stato considerato come un'opera geografica, bensì come un semplice inventario delle risorse economiche del paese. Non rientrano invece fra gli scritti geografici i viaggi immaginari, quelli spirituali e quelli infernali, come per esempio la Navigatio Sancti Brendani, il Purgatorio Sancti Patricii (1173 ca.) e la Visio Alberici (Tundalus-Legende, 1150-1160).

A differenza delle materie del quadrivio, la geografia suscitava l'interesse di un pubblico molto vasto e una parte degli autori si adattò a questa situazione adottando uno stile popolare, come, per esempio, Marziano Capella e Isidoro di Siviglia. Aethicus Ister (VIII sec.), fra i primi divulgatori del sapere geografico, e in seguito Giovanni di Mandeville (XIV sec.) produssero scritti di contenuto puramente, o prevalentemente, geografico; esistevano tuttavia anche molte opere storiche, religiose e poetico-letterarie all'interno delle quali il pensiero geografico era comunque presente. Le prime finalità dei diversi tipi di scritti geografici erano sicuramente l'insegnamento e l'istruzione in senso lato, però anche il carattere di passatempo istruttivo, che trova un'espressione esemplare nella figura della damigella d'onore di Marziano Capella, deve aver rivestito un ruolo non secondario. Per opere come quelle di Beda il Venerabile, Vincenzo di Beauvais e Roberto Grossatesta va invece ipotizzata l'esistenza di un pubblico di lettori motivati anche da interessi scientifici.

Esempi di opere geografiche

Poiché il Medioevo adottò per gli scritti geografici la struttura elaborata da Plinio ‒ basata sulla cosmografia, la geografia fisica e la geografia regionale ‒ senza modificarla con nuove conoscenze ma semplicemente arricchendola da un punto di vista contenutistico, tale struttura conservò, fino all'epoca moderna inoltrata, un'importanza fondamentale.

Marziano Capella e Isidoro di Siviglia sono fra gli autori più importanti del periodo altomedievale; i loro scritti erano copiati, diffusi e usati per le lezioni. Si tratta di opere enciclopediche che includono la geografia come parte a sé stante. In Marziano Capella la geografia, il cui nucleo è costituito dalla cosmografia, è trattata all'interno della geometria ed è seguita dalla geografia regionale insieme ad alcune indicazioni riguardanti le distanze. Nelle Etimologie di Isidoro, invece, la geografia regionale ha un'importanza di gran lunga maggiore, mentre la cosmografia, nonostante il disinteresse dell'autore per i problemi matematico-astronomici, se pure non è del tutto trascurata è comunque semplificata in confronto al modello di Plinio.

All'inizio dell'VIII sec., con lo scritto De natura rerum del 701 ca., Beda il Venerabile svincolò la geografia dal contesto enciclopedico riconducendola al suo nucleo teorico; ricorrendo direttamente a Plinio, oltre che alle proprie esperienze, egli andò molto oltre il modesto scritto di Isidoro. Alla definizione di mundus (il greco kósmos) e alla spiegazione degli elementi dei quali esso è composto (ignis, aer, aqua e terra) è premessa in poche parole la Creazione del mondo in base al racconto della Genesi; segue la struttura del firmamento nella misura in cui la sua suddivisione risulta determinante per la Terra: con l'asse polare e i paralleli, in particolare i circoli polari e i tropici, così come l'equatore, i colures e lo Zodiaco. Beda affronta poi i pianeti e le loro orbite, i segni zodiacali, il Sole e la Luna. Dopo la trattazione delle eclissi solari e lunari non tralascia il riferimento di Plinio alla più antica notizia di eclissi lunare (che avrebbe dovuto risalire all'epoca di Alessandro Magno), sulla cui base sarebbe stata osservata una differenza di longitudine tra l'Arabia (in Plinio Arbela) e la Sicilia.

Diversamente da Plinio, tuttavia, egli non si occupa della questione della circonferenza terrestre e passa a esaminare i fenomeni di tipo sublunare: comete, meteore, condizioni atmosferiche, nonché l'acqua, trattata da un lato come elemento, dall'altro nella sua forma fenomenica terrena, ossia il mare (con i suoi fenomeni specifici di alta e bassa marea), e in particolare il Mar Rosso, considerato da sempre un caso eccezionale, o ancora le inondazioni estive del Nilo e il principio di ripartizione delle acque sulla Terra. Per la spiegazione delle maree, se Beda come Plinio non si limita semplicemente alla dipendenza dalle fasi lunari, tuttavia non va oltre la complicata spiegazione antica. All'enumerazione dei venti classici compresi nella rosa dei venti, con le loro caratteristiche valide per il Mediterraneo, l'autore aggiunge una propria osservazione sull'avvicendamento, tipico delle regioni del Mare del Nord, fra il vento di mare e quello di terra quando non si sia appena verificata una tempesta. L'opera si conclude con i capitoli che riguardano la Terra: la sua posizione nel Cosmo, la sua forma sferica (con alcune dimostrazioni riprese da Plinio), il reticolo delle coordinate geografiche e la determinazione delle zone climatiche (cioè zone di uguale latitudine geografica), terremoti e vulcanismo, come anche la divisione della massa terrestre in continenti (Simek 1992).

Nell'Antichità, prima che si cominciasse a calcolare per ogni luogo l'esatta latitudine, le zone climatiche erano definite soltanto grossolanamente. Nell'opera di Beda non si spiega certo al lettore la connessione tra la crescita della latitudine geografica e l'aumento della durata del giorno nella stagione primaverile-estiva, dal momento che non si accenna ai gradi di latitudine; si indicano però le regole pratiche per determinare tramite lo gnomone i gradi di latitudine dei luoghi, specificando il rapporto numerico che vige fra lo gnomone e la sua ombra. Queste regole erano il presupposto per poter mettere in relazione le maggiori regioni d'Europa con delle zone climatiche; in seguito, nel X sec. (per opera di Gerberto), la conversione dei gradi di latitudine sarebbe stata il passo teorico successivo necessario per arrivare al controllo della superficie.

A questa trattazione della cosmografia Beda non fece seguire una parte di geografia regionale, anche se nelle sue opere storiche si trovano descrizioni geografiche indipendenti dal modello antico. Una descrizione di geografia regionale è presente all'inizio della sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum, dove, per la prima volta in ambito germanico, è descritto un territorio nazionale. Con il titolo De locis sanctis troviamo invece una trascrizione del resoconto di viaggio del vescovo franco Arculfo, messo per iscritto dall'abate Adamnano di Iona (Adamnan di Hy, 624-704). Si tratta del primo resoconto di un viaggio in Terra Santa, inizio di un genere letterario che avrebbe avuto larga diffusione per tutto il Medioevo fino alla prima età moderna; un genere che, in un certo senso, anticipò le guide di viaggio.

Seguendo l'esempio di Plinio, nel suo scritto De natura rerum Beda presentava la Terra come un corpo celeste nella sua compagine cosmica, includendovi i fenomeni fisici allora descrivibili e compiendo in questo modo un importante passo in avanti verso la geografia matematico-astronomica e fisica. Il fatto che la descrizione di tali fenomeni si presenti in un libro a sé stante costituisce un segno dell'emancipazione della cosmografia come disciplina, aspetto, questo, tuttavia da non sopravvalutare considerata l'esistenza di ampi capitoli geografici di contenuto simile all'interno di opere enciclopediche, sul genere di quella di Rabano Mauro. Per quanto riguarda la forma autonoma in cui si presenta il testo di Beda, è possibile osservare una certa continuità sia con il De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco sia con il Cosmographicus liber di Pietro Apiano (1495-1552), influenzati comunque anche da Plinio.

Un altro scritto di geografia è la Chosmographia id est mundi scriptura (750 ca.), di un autore sconosciuto noto sotto lo pseudonimo di Aethicus, un compilatore fantasioso che come fonti utilizzava soltanto le Etimologie di Isidoro di Siviglia. Simulando le esperienze di un viaggio intorno al mondo ‒ uno stratagemma che sarebbe stato ripreso secoli più tardi da Giovanni di Mandeville ‒ senza proporre tuttavia nel suo testo un itinerario o, in generale, un contesto geografico di riferimento, Aethicus offriva delle informazioni sulla struttura del Cosmo e della Terra come parte di esso, confusamente mescolate ad ampie esposizioni geografico-regionali. L'opera rappresentava quindi un tipo di lettura adatta a un pubblico che aveva scarsa dimestichezza con gli scritti matematico-astronomici, prodotta da un grande divulgatore con il merito di aver portato le antiche idee cosmografiche in contesti sociali che Plinio, Beda e Isidoro non avrebbero mai raggiunto.

Il terzo scritto di geografia altomedievale degno di nota è il Liber de mensura orbis terrae di Dicuil, terminato nell'825. Si tratta di un trattato di pura geografia regionale, in parte frammisto a racconti storici e a frequenti indicazioni di distanze, quali, per esempio, quelle tra due luoghi o quelle relative alla lunghezza di un fiume. Anche Plinio, e dopo di lui Isidoro, avevano fornito nei loro testi geografici delle indicazioni di distanze, ma Dicuil, che si richiama al rilevamento topografico di un "sacro imperatore Teodosio", da ricollegarsi a quello compiuto sotto l'imperatore Augusto, attingeva inoltre alle più note fonti del De mensuratio provinciarum di Julius Honorius (IV sec.); soprattutto i dati relativi alle lunghezze dei corsi dei fiumi appartengono quasi esclusivamente a Honorius. L'opera è priva di un'introduzione cosmologica e la struttura del testo assume come modello Plinio, separando i fiumi, le isole e le montagne dalla geografia regionale per trattarli in capitoli a parte. Per quanto riguarda la regione dell'Atlantico settentrionale, Dicuil andava oltre i testi antichi e fu il primo a ricordare che nel 795 i monaci irlandesi si trattennero in Islanda per sei mesi.

Una trattazione della geografia universale come quella di Plinio e di Isidoro si trova nei Libri IX-XIV dello scritto enciclopedico De rerum naturis di Rabano Mauro, dove il modello di Isidoro risulta notevolmente ampliato per i numerosi riferimenti alla Bibbia. In alcuni casi Rabano Mauro ha introdotto capitoli del tutto originali, basati su conoscenze popolari che acquisivano autorità grazie alle citazioni bibliche; per esempio, il cap. XXII del Libro IX tratta i fenomeni atmosferici e in particolare le tempeste e i venti, ed è intitolato De prunis, un termine che avrebbe dovuto indicare dei fenomeni celesti luminescenti provocati da incontri di anime impure; il titolo del cap. XXIII, De carbonibus, invece si riferiva al nero del peccato.

Tra i capitoli riguardanti i fenomeni atmosferici e quelli che sono relativi alle diverse forme dell'acqua, Rabano Mauro introdusse un libro contenente considerazioni filologiche sul tempo e la sua ripartizione, che andava dal momentum fino all'aetas, senza però fornire indicazioni sul computus. I Libri XII e XIII contengono la geografia del mondo, ancora una volta corredata di citazioni bibliche; rispetto a Plinio e Isidoro in essi è presente un'attenzione maggiore alla Palestina. Le conclusioni dei Libri XIII e XIV sono poi dedicate ad aspetti sistematici della geografia fisica; come in Plinio si parte dalle isole, ma poi la trattazione include anche argomenti quali, per esempio, i deserti. Mentre Plinio elencava le isole, i fiumi, le montagne, ecc. riferendone solamente i nomi, Rabano Mauro spiegava in capitoli supplementari di quale tipo di fenomeno si trattasse, vale a dire le diverse forme naturali della superficie terrestre, con parziale riferimento alla loro utilizzazione da parte degli esseri umani; nel cap. XVI, per esempio, intitolato De navibus, vengono descritte regioni marittime e insenature che servivano come porti naturali. L'interesse di Rabano Mauro non era certamente focalizzato sulla geografia fisica e cosmografica, ciononostante questi argomenti non sono trascurati nella sua trattazione, la quale anzi presenta alcuni aspetti innovativi rispetto all'Antichità. Nello scritto De clericorum institutione, il quale contiene il programma educativo di Rabano Mauro per giovani chierici, la geografia è associata in parte alla geometria (dimensio terrae, le distanze di Terra, Sole e Luna), in parte all'astronomia (forma mundi).

Meno tradizionale è invece lo scritto più tardo De divisione naturae (867) di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 ca.), strutturato come un dialogo tra magister e discipulus. L'opera non segue nessuno dei sistemi scientifici classici, ma contiene conoscenze dettagliate veramente sorprendenti; il problema della misurazione della circonferenza terrestre, per esempio, è trattato ‒ con riferimento a Eratostene (273-192 ca.) ‒ così dettagliatamente da lasciare nell'ombra tutti gli scritti esaminati sopra. È un mistero dove Giovanni abbia trovato le fonti per affrontare questo problema, visto che oggi sono note soltanto fonti provenienti dalla tradizione greca; in ogni caso, il De divisione naturae non rientra tra gli scritti geografici in senso stretto.

Alla fine dell'XI sec., nella storia della Chiesa d'Amburgo scritta da Adamo di Brema, Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, troviamo una descrizione geografica della Scandinavia e dell'Atlantico del Nord, come parte di un'opera storica, così come era accaduto precedentemente per Beda. Adamo fu il primo a dare un resoconto dei viaggi dei Vichinghi che non erano stati messi per iscritto al loro tempo. Molte descrizioni di luoghi geografici si trovano nei Libri storici I-III; il Libro IV descrive regioni e popoli delle "isole del Nord" che comprendono tutta la Scandinavia, l'Islanda, la Groenlandia e le piccole isole del nord dell'Atlantico. Questa raccolta di conoscenze geografiche sulle aree più settentrionali, frammiste a più o meno vaghe tradizioni antiche, rappresenta il contributo originale di Adamo che si distanzia in tal modo notevolmente dalle opere dell'Antichità; le fonti propriamente scandinave cominceranno soltanto all'inizio del XIII secolo.

Relativamente al XII sec. e agli inizi del XIII si registra un forte incremento della letteratura geografica, unito a una maggiore libertà stilistica; dal punto di vista dei contenuti, tale fenomeno però non risentì della ricezione dei testi aristotelici, né delle traduzioni dei testi arabi. Giraldo di Cambria, con la sua Topographia Hiberniae, presentando una descrizione geografica dell'Irlanda non preceduta da una cosmografia, si riallacciava a una tradizione di geografia nazionale che tuttavia, fino a quel momento, non rappresentava un genere autonomo. L'antica dottrina degli elementi vi si trova come una reminiscenza che serve da principio ordinatore per l'esposizione; Giraldo, come il suo contemporaneo Alessandro Neckam (1157-1217), all'interno dei singoli elementi colloca gli animali che ci vivono, limitandosi però strettamente alla fauna irlandese, cosa che è ripetutamente sottolineata. La parte finale è costituita da mirabilia e miracula ‒ ancora specificamente irlandesi ‒, ed è anche messa in risalto la partecipazione irlandese alla scoperta dell'Atlantico del Nord. In questa parte compare la descrizione del Galles, patria di Giraldo, e tra le righe si affaccia una prima forma di orgoglio nazionale.

Si devono distinguere tre tipi di geografie generali: (1) le grandi compilazioni di citazioni, (2) i testi geografici innovativi, cioè più o meno indipendenti dal passato e (3) gli Hexaemerona, i commenti alla storia biblica della Creazione. Al primo genere appartiene il Liber floridus (scritto tra il 1090 e il 1120) di Lamberto di Saint-Omer (Audomarensis), conservato a Gent in un sontuoso manoscritto splendidamente illustrato. Il testo contiene sia un'ampia trattazione di alcuni temi geografici sia racconti religiosi; la parte principale riguarda la cosmografia e la geografia fisica, mentre la geografia regionale vi compare soltanto occasionalmente. La configurazione del volume non ne fa un semplice promemoria, bensì una rappresentativa raccolta di fonti tratte dalla tradizione geografica; l'opera contiene alcuni elementi innovativi come la rosa dei venti (venti Christi), dove per la prima volta i punti cardinali sono indicati con termini tedeschi al posto degli stereotipi tratti dai venti mediterranei. Innovativa è anche la presenza di una carta geografica, di formato ridotto, sulla quale sono tracciati i confini della Germania, della Francia e dell'Italia. L'unica carenza del Liber floridus è un'ordinazione sistematica della materia. Con la trasposizione in lingua tedesca dei punti cardinali, compiuta da Lamberto, si manifesta un primo distacco dalla tradizione classica, che tipicamente verrà portato a compimento attraverso un processo graduale. Di una simile trasposizione esiste un'attestazione risalente a circa due secoli prima, conservata all'interno di uno scritto filosofico di Boezio (Cracovia, Berol. lat. 4° 939); tale attestazione è però di difficile comprensione ed era comunque accessibile solamente a persone dotte, dal momento che l'autore utilizzava lettere greche per le parole tedesche.

Lo Speculum quadruplex sive speculum maius è una compilazione di dimensioni ancora più estese redatta da Vincenzo di Beauvais. La prima parte, lo Speculum naturale, comprende una scienza della natura che include cosmografia, geografia fisica, biologia e antropologia, mentre nell'ultima parte, lo Speculum historiale, dopo la descrizione del diluvio universale sono inseriti compendi di geografia collegati ad alcuni capitoli di etnologia, o a favole e storie di mostri. Lo Speculum naturale si rifà allo schema dei sette giorni della Creazione, che è però utilizzato soltanto per strutturare il lavoro e dare un ordine a tutto il sapere cosmografico, geoscientifico e biologico dell'epoca; nel secondo e nel terzo giorno è trattata la dottrina degli elementi, mentre la separazione di luce e tenebre è per Vincenzo di Beauvais l'occasione per esporre il materiale sui colori e sugli specchi.

A proposito della creazione del cielo è riproposta l'antica suddivisione fra le sfere delle stelle fisse e dei pianeti e quella sublunare; si introducono poi sette capitoli sui suoni e si passa alle questioni meteorologiche tradizionali, ovvero a ciò che avviene nella regione sublunare. In questo modo Vincenzo di Beauvais riesce a collocare nel suo schema anche alcune nozioni di fisica, senza presentarle mai, tuttavia, come un proprio contributo originale; il suo ruolo è esclusivamente quello del compilatore che indica le proprie fonti. Dopo aver terminato la geografia fisica con la petrografia nel Libro VIII, si passa a esaminare nel Libro IX la nascita della vita sulla Terra, e con essa la descrizione delle piante, collocata, all'interno dello schema, nella seconda parte del terzo giorno. Ciò è ancora una volta interrotto da passi tratti da opere di astronomia, in cui si esaminano i movimenti dei corpi celesti fino alle comete e al calendario, creazioni del quarto giorno. Soltanto a questo punto dell'opera per la prima volta sono introdotti gli altri esseri viventi, cioè gli animali e gli uomini. Questa gigantesca compilazione, dietro la quale giustamente si presume vi sia stato un lavoro di squadra, ebbe l'effetto di una dimostrazione di forza del sapere occidentale; Vincenzo citava tutte le autorità a lui accessibili del mondo antico, di quello cristiano e di quello orientale, anche se queste ultime non avevano alcun ruolo di rinnovamento rispetto alla geografia.

Tra i testi geografici innovativi, si deve citare in primo luogo il De naturis rerum libri duo di Alessandro Neckam. L'opera riprende un titolo già incontrato più volte, tuttavia è di tipo nuovo; dopo un'introduzione teologica, l'autore segue l'ordine degli elementi e, trattando la sfera del fuoco (cioè la sfera dei pianeti e delle stelle fisse), inserisce anche informazioni sul tempo meteorologico, mentre esaminando gli altri elementi riporta i dati cosmografici e geografici noti sin da Plinio. Rappresenta però una novità nell'ambito del genere De natura rerum il fatto che siano trattati anche gli animali che hanno il loro spazio vitale nell'aria, nell'acqua e sulla terra; qui troviamo, per così dire, l'inizio della biogeografia occidentale, in una forma dapprima puramente descrittiva; inoltre, nell'ambito dell'aria sono trattati anche i problemi di fisica che riguardano il vuoto, il suono e le campane. Nel complesso, Alessandro portò dunque a compimento una geografia molto concreta strutturata nella cornice fornita da Plinio; manca però un testo di geografia regionale.

In questo genere di opere geografiche, talvolta anche senza la componente di biogeografia, rientrano scritti come il De elementorum philosophiae libri quatuor di Honorius Augustodunensis (1080-1137 ca.), il De philosophia mundi libri quatuor di Guglielmo di Conches (1080-1154 ca.) e altri scritti del XIV secolo. Nel Buch der Natur di Corrado di Megenberg (1309-1374) e nel De natura rerum di Tommaso di Cantimpré (1201 ca.-1270 ca.), la biologia occupa la maggior parte dell'opera e la geografia diventa una sua appendice; la stessa cosa, sebbene assuma una posizione diversa e un'estensione variabile, avviene anche nelle rielaborazioni dell'opera di Tommaso che sono state fatte successivamente. D'altra parte, in un capito-lo dedicato alla geografia della Historia scholastica di Petrus Comestor (1100-1178), uno dei maestri di Vincenzo di Beauvais, si possono trovare alcuni accenni programmatici alla geografia regionale, che non includono le altre parti della geografia.

Un esempio pregnante del terzo tipo di scritti geografici, ossia gli Hexaemerona, è rappresentato dall'Hexaemeron di Roberto Grossatesta (Zahlten 1979). Si tratta di un commento soprattutto teologico alla storia biblica della Creazione, che però è integrato con argomenti di scienze naturali a volte anche strettamente geografici. Così il Proemium contiene esempi scelti, tratti dalla geografia regionale tradizionale, e nel testo, anch'esso di nuovo strutturato secondo l'antica dottrina degli elementi, si trovano innumerevoli informazioni geografiche che rientrano nella tradizione di Plinio, accanto ad altri esempi dell'erudizione di Roberto, che non si limitava affatto alla geografia. L'Hexaemeron di Roberto non ha in nessun modo il carattere di un manuale, ma è un esempio ideale per capire come le scienze naturali al servizio della teologia possano e debbano contribuire a una più profonda comprensione della Bibbia (Crombie 1971). Uno dei più poetici Hexaemerona è quello di Bernardo Silvestre (scritto probabilmente dopo il 1159), che suddivide il mondo in Megacosmus e Microcosmus.

Sono poi da ricordare un gruppo di scritti storici, in cui si trovano capitoli più o meno estesi oppure libri di geografia regionale. Tra di essi il Polychronicon di Ranulph Higden (m. 1263/1264), gli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury (1152 ca.-m. dopo il 1220), uno scritto didattico di facile portata per Ottone IV bambino, sulla base del quale fu anche elaborata la carta di Ebstorf, la cronaca universale di Richard di Cluny (anche detto Pictaviensis, 1110/1120-dopo il 1174) e inoltre la Chronica di Sigeberto di Gembloux (1028/1029-1112), la Mappa mundi di Paulinus Minorita (Venezia, 1270/1274-1344), la Historia ecclesiastica e la Historia moderna di Hugo di Fleury (m. 1118/1135), Li livres dou Tresor (Il tesoro) di Brunetto Latini (1220-1295) e il Chronicon di Ugo di San Vittore.

Una serie di scritti geografici classificatori, sotto forma di un elenco di luoghi e di dati geografici, rappresenta il passaggio a un altro genere di fonti geografiche, quello delle 'raffigurazioni del mondo'. Con questa espressione ci si riferisce agli scritti Mappa mundi, che hanno i loro precursori nelle cosmologie dell'anonimo Geografo Ravennate (VIII sec.) e in Guido di Pisa (XII sec.). Il primo rappresenta Ravenna come il centro delle regioni che sono suddivise in senso orario da est verso ovest passando per il sud in dodici zone giorno, e di nuovo, passando da nord e ritornando a est, in dodici zone notte. A prescindere dal fatto che in alcuni casi l'attribuzione sembra forzata, si tratta di un tentativo originale di considerare in modo sistematico l'estensione est-ovest come anche quella nord-sud; le liste di nomi allegate all'opera contengono soltanto minime spiegazioni per ogni posizione. La geografia di Guido di Pisa presenta invece liste di nomi geografici solamente per l'Italia e le regioni del Mediterraneo orientale (la parte che doveva comprendere liste di nomi per il resto del mondo, pur essendo stata progettata, non è stata scritta).

Dopo il 1122 Ugo di San Vittore ha scritto la sua Descriptio mappae mundi, che contiene elenchi più o meno classificatori di dati geografici, etnografici e a carattere storico-mitologico, distribuiti su tutta la circonferenza terrestre. Nel prologo Ugo rimanda espressamente al fatto che ci sono anche sapienti (sapientes) che dipingono questi dati su una carta (in tabula vel pelle solent orbem terrarum depingere), mentre lui vuole soltanto descriverli (nos autem non depingere, sed describere mappam mundi proponimus in hoc opere). Uno scritto simile, anche se molto più limitato, è la Mappa mundi di Gervasio di Canterbury, che presta molta attenzione alle 34 contee inglesi con le loro domus religionis, integrate da un elenco di hospitalia, castellae, insulae, aquae dulces et aquae salsae. Vi è acclusa una lista di arcivescovadi del mondo con le loro sedi suffraganee, che nell'Impero comprendono soltanto Salisburgo, Magdeburgo e Magonza.

'Raffigurazioni del mondo' e disegni geografici a mano libera

L'espressione 'raffigurazione del mondo' è stata usata per indicare la carta di Ebstorf, una rappresentazione ‒ del formato di 3,60 m×3,60 m ‒ trovata nel convento di Ebstorf nella brughiera di Lüneburg, che comprende dati geografici, storici, religiosi e mitici di tutta la circonferenza terrestre (Kugler 1991). L'espressione è tanto più adeguata in quanto non si tratta di una carta geografica in senso stretto (v. cap. XX, par. 5 sulla geografia matematica); essa si basa in parte sul cosiddetto 'schema a T', usato fino dall'Antichità e di cui si può trovare riscontro in Erodoto, con il quale i rapporti di grandezza di Europa, Asia e Africa ricevono una struttura circolare.

La carta circolare, orientata a est, che è circondata in alto (E) dalla testa di Cristo, a destra e a sinistra (N e S) dalle sue mani e in basso (O) dai suoi piedi, non mostra alcuna somiglianza né con le forme né con i contorni geografici reali. Le singole raffigurazioni seguono i segni convenzionali, usuali a partire dalla Tarda Antichità (Corpus agrimensorum) fino all'epoca moderna; la rete idrografica salta agli occhi in quanto domina il tutto, ma anche le sigle delle città a volte hanno dei tratti individuali. La carta, che probabilmente era collocata dietro l'altare della chiesa presso il convento delle monache di Ebstorf, per quanto riguarda il contenuto segue ampiamente gli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury.

Si è potuto dimostrare un'analoga utilizzazione per la carta, leggermente più piccola (1,35×1,65 cm), di Hereford (1283 ca.), del canonico di Hereford, Richard de Haldingham (anche detto Richard de Belo, m. dopo il 1313), che ha conservato una raffigurazione scenica molto minore, ma in compenso è ricca di indicazioni sulle distanze. Una terza raffigurazione del mondo in grande formato è poi la 'carta di Vercelli', elaborata intorno al 1200 (ancora più piccola, 84×72 cm). Fra i disegni geografici a mano libera si ricordano: la cosiddetta 'carta di Albi' (IX sec.); la Cottoniana, tratta da un testo di Prisciano (X sec.); la carta di Heinrich von Mainz (XII sec.); quella di Matheus Parisiensis (m. dopo il 1259); una carta inglese del Libro dei salmi (XIII sec.); molti schizzi di carte di Paulinus Minorita (detto Veneto), come anche molte carte allegate alle copie (del XIV sec.) del già citato Polychronicon di Ranulph Higden. Disegni più piccoli, nello schema a T, si trovano in diversi scritti, soprattutto in Isidoro; semplici planisferi sono allegati al commento dell'Apocalisse del Beato di Liébana e portano per questo il nome di 'carte del Beato'. In ogni caso, tutti questi dipinti e disegni illustrano i dati geografici più di quanto li rappresentino realmente, cosa che invece accade soltanto sulle carte in senso stretto (von den Brincken 1989).

Descriptio Terrae Sanctae e resoconti di viaggi

I resoconti di viaggio dalla Terra Santa (dopo Adamnano, Benjamin von Tudela è tra gli autori più antichi) sono stati sempre raccolti; erano in parte alla base delle descrizioni della Terra Santa, o in altri casi avevano una diffusione autonoma. In proposito, abbiamo anche gli scritti storico-geografici dei Crociati, come la Historia orientalis e la corrispondente Historia occidentalis di Jacques de Vitry (1160/1170-1240 ca.), o le lettere di Oliverius de Colonia (1170-1227 ca.), poi vescovo di Paderborn.

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