La scienza in Cina: i Ming. La dinastia Ming: lineamenti generali

Storia della Scienza (2001)

La scienza in Cina: i Ming. La dinastia Ming: lineamenti generali

Pierre-Étienne Will

La dinastia Ming: lineamenti generali

Per molti aspetti la storia della dinastia Ming (1368-1644) può essere considerata una perfetta illustrazione della teoria dei cicli dinastici enunciata dai pensatori di epoca Han; al fondatore della dinastia, un campione della giustizia che si è ribellato a un regime oppressivo e corrotto, tende inevitabilmente a seguire, nel corso dei diversi regni, un progressivo indebolimento della linea di discendenza. Gli imperatori divengono vittime dei loro eunuchi e degli intrighi di corte; le 'istituzioni ancestrali' si rivelano sempre più inadeguate a far fronte alle necessità del tempo; la competenza, le norme di condotta e la moralità della burocrazia si degradano e le forze armate sono sempre più impotenti. Allo stesso tempo, s'innesca un processo di concentrazione fondiaria e di crescita demografica che conduce all'impoverimento di strati sempre più ampi della popolazione agricola, all'esasperazione delle tensioni sociali, alla diffusione dell'evasione fiscale e alla crisi finanziaria dello Stato. Alla fine di questo percorso, emerge un regime indebolito, che ha perso il mandato celeste e non riesce a opporsi in modo autorevole alle ribellioni popolari e alle pressioni delle vicine popolazioni barbare. Tutti questi elementi contribuiscono senza alcun dubbio a caratterizzare profondamente la storia dei Ming, che si distingue anche per il fatto di essere l'ultima dinastia imperiale di etnia cinese.

Tuttavia, l'esame dell'evoluzione più generale del secondo millennio della storia imperiale rivela che il periodo Ming è stato soltanto una fase di un processo più vasto. Una serie di tendenze, tra cui, per esempio, la concentrazione nelle mani degli imperatori e della loro 'corte interna' (neichao) di un potere politico sempre più ampio, la sua frammentazione nelle province, la preminenza del sistema degli esami nel reclutamento dei funzionari, la supremazia della burocrazia civile sull'apparato militare (a eccezione di una fase più militarista sotto i Mongoli e all'inizio della dinastia Ming), emerse nel periodo Song (960-1279) e seguitò a manifestarsi sino alla fine della storia imperiale. L'istituzionalizzazione del neoconfucianesimo (daoxue) come ideologia ufficiale, nella versione sanzionata da Zhu Xi (1130-1200), imposta dalla struttura degli esami, risale alla fine dell'epoca Yuan, anche se in seguito fu confermata dai Ming e sancita dai Qing. Anche la fine delle aristocrazie e la formazione di una classe dominante il cui potere e le cui capacità di riproduzione si fondavano sulla ricchezza fondiaria, sul prestigio locale, sull'educazione, sulla partecipazione al sistema accademico e sull'accesso (almeno potenziale) al governo, fecero parte di un processo iniziato in epoca Song, sviluppatosi nel periodo Ming e confermato nel periodo Qing.

Il periodo Ming s'inserì infine in una tendenza millenaria ‒ protrattasi dal X al XIX sec. ‒ che vide il quadruplicarsi della popolazione cinese, la localizzazione del centro di gravità economico e demografico dell'Impero nel bacino dello Yangzi e lungo la costa sudorientale, la definitiva annessione alla Cina della regione montuosa del Sud-ovest, in gran parte ancora abitata da popolazioni non cinesi, e la progressiva diffusione dell'economia commerciale e monetaria nell'insieme della società e del territorio. La Cina dei Ming fu interessata anche da una serie di eventi che coinvolsero tutta l'Asia orientale, se non la storia mondiale: la scoperta delle Americhe e delle loro riserve di argento che dinamizzarono il commercio estero cinese e, indirettamente, lo sviluppo dell'economia del paese; la pressione islamica (dal conflitto abortito con Tamerlano alle soglie del XV sec. sino all'espansionismo aggressivo dello Stato mughal di Turfan nella seconda metà dello stesso secolo); l'arrivo dei mercanti e dei missionari europei nei mari orientali, che pose nuovi problemi di difesa ed ebbe ripercussioni istituzionali e persino intellettuali tutt'altro che trascurabili.

Storia, politica e istituzioni

La metà del XIV sec. coincise in Cina con un periodo di anarchia e di militarizzazione generale della società. Zhu Yuanzhang, il futuro imperatore Hongwu della dinastia Ming (1368-1398), uno dei tanti pretendenti alla successione degli Yuan, riuscì a prevalere sui rivali prima di tutto grazie alla sua pronta adesione alla rivolta dei Turbanti rossi, che combattevano contro gli Yuan nella Cina centrale e avevano aderito alla setta millenarista del Loto bianco, in cui si combinavano elementi manichei e del buddhismo popolare (da essa, del resto, trae origine il nome della futura dinastia Ming, 'luce'). Il suo successo fu dovuto, tuttavia, anche alla prontezza con cui egli seppe rompere le vecchie alleanze per rafforzare la legittimità delle sue pretese e renderle così più accettabili agli occhi delle élite tradizionali. La creazione, inoltre, di una solida base territoriale nei dintorni di Nanchino sin dal 1356, il felice esito di alcune battaglie cruciali contro i suoi principali rivali della Cina centrale e del basso Yangzi, la rapida organizzazione di un sistema burocratico e militare in grado d'integrare e controllare i nuovi sudditi e, infine, il sistematico sforzo di ricostruire l'economia dei territori recentemente conquistati, contribuirono alla sua definitiva affermazione.

Nonostante l'integrazione delle élite dei letterati delle regioni sudorientali nel nuovo ordine politico e l'immediata ricerca di una legittimità confuciana, il regime fondato a Nanchino nel 1368, due anni prima dell'espulsione dei Mongoli dalla Cina settentrionale, era fondamentalmente militarista e populista. Il potere era nelle mani di un'aristocrazia militare formata da prìncipi di sangue, luogotenenti della prima ora e signori della guerra che si erano uniti in un secondo momento alle file di Zhu Yuanzhang; la sfera delle competenze dei letterati era limitata ai problemi relativi ai rituali e all'amministrazione ordinaria. Come dimostrano le istituzioni per il controllo nelle campagne create all'inizio della dinastia, Zhu Yuanzhang era estremamente diffidente nei confronti dei funzionari; tali organismi prevedevano infatti che la popolazione si amministrasse autonomamente nell'ambito di un sistema di organizzazione fiscale in cui le responsabilità erano rilevate a turno dai più ricchi. I funzionari locali svolgevano un ruolo di semplici contabili, e, in alcuni casi, fu persino vietato loro di uscire dai propri uffici; si riteneva infatti che le loro iniziative potessero suscitare la collera del popolo, che era autorizzato a denunciarli direttamente al trono.

I principî di governo e il modello di società cui s'ispirava Zhu Yuanzhang, descritti a grandi linee nei suoi 'grandi proclami' (dagao), a lungo andare non ressero all'usura del tempo, ma per molti aspetti il suo stile seguitò a essere preso a modello durante tutta la storia della dinastia Ming. Zhu sterminò personalmente i suoi vecchi luogotenenti nel corso di una serie di cruente epurazioni, dopo la prima delle quali (1380) soppresse la Segreteria centrale del governo (Zhongshu sheng) e la carica di Primo ministro ‒ entrambe ereditate dai Song e dagli Yuan ‒, concentrò tutti i poteri decisionali nelle sue mani, frammentando l'amministrazione centrale e quella delle province per stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di complotto. Nello stesso tempo, i letterati furono progressivamente reintegrati nell'apparato dello Stato (gli esami furono reintrodotti nel 1384) e l'imperatore iniziò a preparare un avvenire meno violento per il suo regime, facendo impartire un'educazione rigidamente confuciana all'erede presunto (cioè al maggiore dei suoi figli e poi, alla morte di quest'ultimo, a suo nipote, il futuro imperatore Jianwen). Agli altri figli egli assegnò alcuni centri di potere territoriali e militari situati alla periferia dell'Impero. Salito al trono nel 1399, il giovane imperatore Jianwen tentò di restituire alla burocrazia civile tutti i suoi poteri, ma non riuscì a controllare i suoi zii, tanto che il più potente di questi ultimi, il futuro imperatore Yongle (1403-1424), insediatosi a Pechino, finì per usurpare il trono al termine di una lunga campagna di riconquista.

L'imperatore Yongle trasferì la capitale a Pechino (la 'capitale del Nord') e inaugurò una politica estera aggressiva, guidando personalmente cinque spedizioni in Mongolia e inviando in sette diverse occasioni l'ammiraglio Zheng He a solcare i mari del Sud e l'Oceano Indiano alla testa d'imponenti flotte, per reprimere il contrabbando e sollecitare l'instaurazione di nuove relazioni diplomatiche. Tuttavia, a lungo termine i suoi sforzi si rivelarono vani; i Mongoli ben presto riaffermarono la loro potenza e lo spettacolare afflusso delle ambascerie tributarie a Pechino durante gli anni di Yongle cessò piuttosto rapidamente. Allo stesso tempo, nonostante il prestigio di cui godettero durante il suo regno le istituzioni militari, Yongle lasciò la gestione dell'Impero alla burocrazia civile, che reclutava autonomamente i suoi membri attraverso il sistema degli esami, fissò i principî dell'ortodossia in base al neoconfucianesimo di Cheng Yi e di Zhu Xi, e patrocinò un gigantesco lavoro di compilazione, la Grande enciclopedia dell'era Yongle (Yongle dadian), che si proponeva di riunire tutta la letteratura esistente secondo il metodo di classificazione basato sulle rime. Durante il suo regno si costituì un piccolo gruppo di funzionari, quasi tutti ex allievi dell'Accademia Hanlin (i cui membri, scelti tra i diplomati meglio classificati agli esami, svolgevano lavori di segreteria e di compilazione letteraria per conto del trono), che assistevano direttamente l'imperatore e facevano da tramite con l'amministrazione; da questo gruppo sarebbe nata la 'Grande segreteria' (Neige). A partire dai regni successivi, i 'Grandi segretari' (daxueshi) iniziarono a essere considerati i capi dell'amministrazione civile e, allo stesso tempo, a essere al centro dell'ostilità e dei sistematici sospetti dei loro colleghi a causa degli stretti rapporti che li univano all'imperatore e alla burocrazia degli eunuchi del palazzo. I rapporti di Yongle con i suoi funzionari furono caratterizzati dallo stile brutale che era stato inaugurato da Hongwu e che fu poi imitato dalla maggior parte dei suoi successori, tra le cui espressioni più spettacolari si ricordano le 'bastonate alla presenza della corte' (tingzhang), gli arresti arbitrari e la pratica della tortura, esercitata dagli eunuchi del 'Deposito dell'Est' (Dongchang) e dal loro braccio armato, le 'Guardie in uniforme di broccato' (jinyiwei), un potente corpo di polizia segreta, che hanno indotto alcuni storici a definire 'poliziesco' il regime dei Ming (Ding Yi 1951).

Nella storia politica e istituzionale della dinastia Ming, d'altra parte, il ricorso a misure dispotiche si combinava con la tendenza a lasciare la conduzione degli affari pubblici nelle mani della burocrazia civile, che godeva di un immenso prestigio sociale e disponeva di alcuni organi ‒ per esempio, la Grande segreteria e il Censorato ‒ cui era riconosciuto un considerevole potere. In questo modo, il governo riuscì bene o male a funzionare per un periodo molto lungo; a partire dalla metà del XV sec., pur trovandosi periodicamente sull'orlo del baratro, il regime riuscì in ogni occasione a mobilitare le risorse materiali e umane necessarie a riprendere il controllo della situazione ‒ almeno sino alla catastrofe finale degli anni Quaranta del XVII secolo. La sua grande capacità di resistenza si basava sulla stabilità delle istituzioni e, al tempo stesso, sulla loro capacità di funzionare in nome dell'imperatore anche quando quest'ultimo se ne disinteressava, ma anche sull'esistenza, soprattutto nelle province, di un piccolo numero di funzionari molto attivi che disponevano de facto di una certa autonomia e avviarono importanti riforme, in particolare nel campo fiscale.

Nella seconda metà del periodo Ming un violento settarismo agitò la classe politica in seguito ai conflitti che opposero l'imperatore e la cerchia dei suoi intimi collaboratori a un ampio settore della burocrazia. Si ricordano in proposito la disputa nata dalla decisione di Jiajing, che discendeva da un ramo collaterale del clan imperiale, di tributare a titolo postumo a suo padre onori che spettavano soltanto agli imperatori legittimi (controversia sul 'grande rituale', dali yi), e quella provocata dal desiderio di Wanli di conferire al figlio della sua concubina preferita il titolo di erede presunto (controversia sul 'fondamento dello Stato', guoben). In entrambi i casi all'interno della burocrazia si registrò una divisione tra coloro che sostenevano le scelte dell'imperatore e quelli che le osteggiavano accanitamente denunciandone la scorrettezza rituale; i membri della Grande segreteria tentarono di guidare il governo senza urtare la suscettibilità del sovrano al quale dovevano le loro cariche e per tale motivo furono attaccati da tutte le direzioni.

I conflitti s'inasprirono durante il regno di Wanli (1573-1619). In questo periodo, infatti, molti giovani funzionari di belle speranze, esiliati dalla capitale a causa della loro opposizione all'imperatore nel corso della controversia sul fondamento dello Stato, si riunirono nel partito chiamato Donglin, dal nome dell'Accademia fondata nel 1604 a Wuxi (Jiangsu), con l'esplicito intento di ristabilire l'integrità morale dello Stato, dal quale intendevano espellere tutti gli elementi indegni. Al contrario di quanto era accaduto durante le lotte tra fazioni all'epoca dei Song settentrionali, in questa occasione lo scontro ruotò intorno ad argomenti che si richiamavano all'etica di governo e al comportamento pubblico degli individui, e non a opinioni politiche o a programmi di riforma. I membri del Donglin, tuttavia, non riuscirono a impadronirsi dei centri strategici del potere fino alla morte di Wanli; nel periodo immediatamente successivo essi dovettero scontrarsi con l'eunuco Wei Zhongxian, che esercitava uno stretto controllo sul giovane imperatore Tianqi e che riuscì a sterminarli negli anni 1625-1626, durante una feroce repressione. La violenza delle lotte tra le fazioni non si attenuò durante il regno dell'ultimo imperatore Ming (Chongzhen, 1628-1644), nel corso del quale si moltiplicarono le associazioni; la più potente di queste, la 'Società del Rinnovamento' (Fushe), rilevò, almeno in parte, l'eredità del Donglin, di cui riprodusse la combinazione di concitazione morale, sete di potere e angoscia di fronte alla crisi del regime e della società. La notorietà pubblica delle lotte interne contro la burocrazia, la violenza degli argomenti, se non delle critiche rivolte direttamente all'imperatore, e, più in generale, l'incandescenza della vita politica nell'ultimo periodo della dinastia Ming non hanno quasi precedenti nella storia imperiale. Gli imperatori mancesi videro nelle lotte tra fazioni una delle principali cause della caduta del regime Ming e imposero, per reazione, una rigida disciplina alla loro burocrazia, dichiarando illegali le critiche all'imperatore e costringendo gli scontri politici a rimanere sotterranei.

Economia, demografia e società

Semplificando molto il quadro della situazione, si può affermare che la storia socioeconomica della dinastia Ming descrive il passaggio dalla federazione delle frugali comunità autarchiche di villaggio, che il fondatore della dinastia aveva tentato di edificare sulle rovine dell'Impero Yuan, alla raffinata società urbana, in cui vigeva una grande libertà di condotta e d'idee, consumatrice e interamente commercializzata, che suscitò lo stupore dei primi viaggiatori dell'Europa moderna. Si tratta, tuttavia, di una tesi semplicistica, dal momento che, da un lato, le devastazioni dell'epoca mongola non avevano colpito allo stesso modo tutte le regioni (l'area sudorientale, per es., aveva per molti aspetti preservato la raffinatezza e la ricchezza del periodo Song) e, dall'altro, lo splendore e la prosperità delle regioni più progredite durante l'ultimo secolo dei Ming, i grandi progressi compiuti dalla produzione artigianale e dall'urbanizzazione, così come l'accesso di un settore sempre più ampio della popolazione ai beni di consumo e alla cultura, non toccarono vaste aree in cui seguitò a prevalere un'economia di sussistenza e lasciarono ampie zone di miseria rurale, anche nelle province considerate più ricche. Resta il fatto che in soli due secoli la Cina cambiò realmente volto, cosa di cui i contemporanei erano perfettamente coscienti; il ricorso alla contrapposizione retorica tra la semplicità dei regni di Chenghua (1465-1487) e di Hongzhi (1488-1505) e la dispendiosa ricercatezza e il lusso di quelli di Jiajing (1522-1566) e di Longqing (1567-1572) dimostra che gli autori del periodo Ming facevano risalire quasi all'unanimità la trasformazione sociale, economica e culturale all'inizio del XVI secolo.

Questa nuova tendenza fu in primo luogo il risultato di una crescita secolare, iniziata con la ripresa economica e demografica successiva alla crisi della transizione dagli Yuan ai Ming, proseguita grazie alla pace interna di cui il paese godette durante i primi due secoli della dinastia, e accelerata dalla rivoluzione commerciale del XVI sec. e dalle massicce importazioni di argento monetario. I censimenti del primo regno della dinastia Ming registrarono circa sessanta milioni di abitanti e, benché le cifre riportate in quelli effettuati nel corso dei regni successivi siano assai meno affidabili, tutto induce a supporre che verso il 1600 la popolazione fosse quantomeno raddoppiata. La crescita demografica fu accompagnata da un movimento migratorio dalle province costiere sudorientali, che erano densamente popolate, verso i bacini delle regioni interne e occidentali del paese; anche il dissodamento delle periferie montuose del bacino di drenaggio dello Yangzi, che nel XVIII sec. subì una forte accelerazione, ebbe inizio a partire dall'epoca Ming.

Lo sviluppo socioeconomico del periodo compreso tra il XV e il XVI sec. disgregò il livellamento sociale, le rigide stratificazioni e l'autarchia rurale voluti dal fondatore della dinastia Ming. Anche i considerevoli vantaggi fiscali concessi alle famiglie dell'élite accademica e burocratica (shidafu) svolsero un importante ruolo in questo processo, dal momento che garantirono la redditività dell'accumulazione fondiaria e l'accelerarono, incoraggiarono l'usura negli ambienti rurali e il passaggio dei piccoli proprietari indebitati alla condizione di fattori o servi protetti dal fisco dai loro padroni. La ricchezza accumulata dalle 'grandi famiglie' (dajia) permise loro di ampliare i propri possedimenti e, allo stesso tempo, d'investire nel credito e nelle imprese commerciali. La ricchezza favorì inoltre la riproduzione delle classi sociali e la stabilità politica, in quanto finanziò la preparazione dei giovani più promettenti delle diverse casate e consentì loro, attraverso l'acquisizione di titoli accademici, di preservare status e privilegi nel corso delle generazioni.

Nel XVI sec. si generalizzò l'assenteismo dei grandi proprietari rurali, che si spostarono verso le grandi città. L'assenza della classe più agiata compromise il funzionamento dei 'sistemi di autoamministrazione rurale' (lijia) istituiti all'inizio della dinastia, in base ai quali le famiglie più facoltose s'incaricavano secondo turni decennali della riscossione delle tasse, dell'imposizione delle corvée e di altri servizi all'interno delle comunità dei villaggi, e turbò l'organizzazione delle strutture comuni di manutenzione dei sistemi d'irrigazione; l'abbandono delle campagne favorì inoltre la gestione indiretta dei grandi possedimenti, che fu affidata a 'intendenti di condizione servile' (nupu), e ciò probabilmente contribuì allo sviluppo dell'agricoltura commerciale.

Le regioni del basso Yangzi possono essere considerate un perfetto esempio di tale processo. Sin dalla fine del XV sec., in quest'area l'espansione della coltura del gelso e soprattutto del cotone, su cui si basò lo sviluppo dell'artigianato tessile, fu favorita in primo luogo dall'introduzione nel mercato del surplus di cereali accumulato dai grandi proprietari come reddito, in seguito dalle importazioni di granaglie dal medio Yangzi; provocò anche una costante diminuzione del numero di coloro che lavoravano per il proprio sostentamento, incentivò la monetizzazione dell'economia e la divisione del lavoro (sin dalla fine del XVI sec. una parte del cotone filato e tessuto nel Jiangnan fu esportato nella Cina settentrionale). I diversi stadi della produzione ‒ in cui assunse un ruolo sempre più importante il lavoro femminile ‒ e della commercializzazione erano controllati e finanziati da reti di commercianti e mediatori collegati al mercato interregionale, la cui influenza si esercitava anche nei villaggi. Le nuove città commerciali sostituirono ben presto gli antichi centri amministrativi; questi nuovi centri di potere economico, in cui si riunirono i detentori della ricchezza fondiaria e i commercianti, riuscirono a sfruttare senza pietà le campagne in cui le strutture sociali e amministrative tradizionali, fondate sui rapporti di buon vicinato e sulla cooperazione, furono sconvolte a vantaggio di un sistema in cui dominavano le relazioni contrattuali e i rapporti di forza fondati sulla coercizione economica.

La prosperità del Jiangnan, che era in gran parte di natura urbana, fu accompagnata dall'emergere di un'élite sociale che si distingueva per uno stile di vita straordinariamente dispendioso e che instaurò rapporti piuttosto ambigui con il potere. Verso la fine della dinastia Ming, queste élite delle regioni più sviluppate dell'Impero (il Jiangnan e le province costiere) si caratterizzarono per un insieme singolare e contraddittorio di comportamenti ‒ spesso presenti negli stessi individui ‒ in cui la frivolezza si affiancava alla dedizione al bene pubblico, l'estetismo decadente al coraggio politico e il rigore morale al gusto smodato per il denaro e per i piaceri che esso poteva comprare. D'altra parte, il rapido aumento della quantità di argento in circolazione dopo i primi decenni del XVI sec. fu incontestabilmente il grande motore dello sviluppo sociale ed economico cinese della seconda metà del periodo Ming. Importato dal Giappone e poi, a partire dagli anni Settanta del XVI sec., dall'America attraverso Manila, l'argento serviva a pagare la seta, le porcellane e tutti gli articoli prodotti per l'esportazione nelle province dello Yangzi e della costa, che si vendevano con grande profitto nelle regioni sudorientali dell'Asia, in Giappone e persino in Europa.

La rapida espansione dell'economia mercantile, che progressivamente conquistò un numero sempre più grande di regioni non situate nelle aree direttamente coinvolte nel commercio internazionale, fu il diretto risultato di questo processo, come, del resto, lo sviluppo di una classe mercantile che disponeva di molteplici canali di diffusione, cosciente dei propri valori e persuasa della loro compatibilità con l'ideologia confuciana dominante. Tra i grandi mercanti, avidi di riconoscimenti sociali e culturali, e gli ambienti dei letterati, che investivano più o meno discretamente nel commercio, esisteva un'intesa simbiotica molto più profonda di quanto questi ultimi fossero disposti ad ammettere. Rispondono a questa logica anche altri processi, tra i quali, per esempio, l'emergere di una classe media urbana (non soltanto nelle città del Jiangnan e a Pechino, ma anche in tutti gli agglomerati urbani coinvolti nel commercio interregionale, per esempio lungo il Grande Canale o sul medio Yangzi), la diffusione senza precedenti dei libri e dei prodotti della stampa (si è parlato di un''esplosione della stampa' in riferimento alla fine del periodo Ming), la nuova importanza assunta dalla filantropia.

Gli ultimi decenni del periodo Ming furono caratterizzati però da una drastica inversione di tendenza provocata da molti fattori: il degrado secolare dei dispositivi d'irrigazione e di protezione idraulica; una serie di epidemie; diverse calamità naturali e carestie che interessarono molte province e che registrarono i picchi più alti nei periodi 1587-1589 e soprattutto 1638-1644; la grave crisi monetaria negli anni Quaranta del XVII sec. causata dal momentaneo esaurimento delle importazioni di argento; la bancarotta finanziaria dello Stato, stretto nella morsa della crisi delle istituzioni fiscali e della crescita esponenziale dei costi della difesa; infine, le devastazioni provocate, a partire dal 1628, in più della metà del territorio dell'Impero dai ribelli originari dello Shaanxi, e poi in tutto l'Impero, dalla conquista mancese. Molte testimonianze sottolineano il carattere estremamente violento della crisi del decennio 1640-1650, anche nelle regioni più prospere della Cina; la crescita riprese soltanto negli ultimi anni del XVII sec. per proseguire vigorosamente sino alle soglie del XIX secolo.

La Cina dei Ming e il mondo esterno

L'oltremare

Uno degli aspetti paradossali più interessanti della storia dei Ming è che il decollo economico e l'effervescenza culturale della seconda metà della dinastia fu finanziato, in modo più o meno diretto, dal commercio estero, che sino al 1567 fu completamente illegale. Al contrario dei suoi predecessori Song e Yuan, il fondatore dei Ming aveva infatti decretato la chiusura dell'Impero ai traffici marittimi; la navigazione oltremare era proibita, i contatti tra Cinesi e stranieri erano vietati e gli scambi commerciali si limitavano alle ambascerie che portavano tributi, alle quali erano concesse molte facilitazioni, trattandosi, in effetti, di un caso di diplomazia sovvenzionata. Tuttavia, sin dall'inizio della dinastia il contrabbando fu esercitato da comunità cinesi insediate in luoghi strategici, come per esempio Giava o Palembang, che all'inizio del XV sec. le missioni di Zheng He tentarono di neutralizzare. Nel corso del secolo seguente, il commercio legato alle ambascerie dei paesi tributari fu di fatto discretamente sfruttato dai mercanti cinesi, mentre il contrabbando continuò a svilupparsi. Nonostante diverse proposte locali (avanzate all'inizio del XVI sec.) di aprire al commercio estero alcuni porti, come Canton e Ningbo, il divieto di esercitare quest'attività fu confermato, soprattutto in relazione ai Giapponesi e ai Portoghesi. Di conseguenza il commercio marittimo, sempre più prospero e indispensabile all'economia del continente, si concentrò intorno a una serie di basi al largo del Fujian e del Zhejiang, che alcuni storici hanno definito senza esitazioni il centro del commercio marittimo internazionale in Estremo Oriente.

La situazione si deteriorò quando alcuni notabili della costa, coinvolti nel contrabbando esercitato con il tacito consenso dei funzionari locali, non fecero fronte ai loro impegni con i mercanti stranieri, dai quali avevano comprato a credito; questo episodio diede origine a una serie di conflitti armati e di spedizioni punitive, segnando il passaggio dal commercio illegale alla pura e semplice pirateria. Tutti questi problemi giunsero al culmine a partire dal 1547, quando agli energici tentativi di repressione del governo seguì l'inasprimento del contrabbando e della pirateria, i cui principali protagonisti erano ormai i Giapponesi (ufficialmente banditi dalla Cina a partire dal 1532) e i loro alleati cinesi della costa. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del XVI sec. le cruente incursioni dei pirati giapponesi (wokou) lungo le coste del Jiangsu, del Zhejiang e del Fujian, che a volte penetrarono profondamente all'interno del territorio, sembrarono instaurare un vero e proprio stato di guerra e provocarono gravi conseguenze in tutta la regione: devastazioni e saccheggi, il rapido ripiegamento dei notabili verso le città dotate di una cinta muraria, la mobilitazione delle milizie rurali da parte dei funzionari locali cui il governo centrale non diede nessun appoggio militare, l'insicurezza generale e la sensazione di essere abbandonati dalla corte. Nel 1567 fu quindi stabilita la legalizzazione del commercio marittimo con l'estero (escluso il Giappone), una misura che si spiega sia con l'incapacità del governo di porre limiti al contrabbando sia con la pressione dei notabili e dei mercanti locali delle province costiere, per i quali quest'attività era economicamente vitale.

La pressione mongola

Le devastanti incursioni dei wokou lungo la costa coincisero con una delle fasi più critiche della pressione mongola lungo le frontiere settentrionali, che raggiunse il culmine nel 1550, con l'assedio virtuale di Pechino da parte degli eserciti di Altan Khān. Fin dal 1370, infatti, i Mongoli, che erano ripiegati a nord dell'attuale Grande Muraglia e avevano di fatto rifiutato di consegnare ai Ming i sigilli imperiali, furono una costante minaccia; la strategia aggressiva fondata sull'iniziativa, adottata durante i primi regni, cedette progressivamente il passo a una concezione decisamente statica e isolazionista della difesa; i primi elementi della Grande Muraglia furono edificati nell'area meridionale della regione degli Ordos negli anni Settanta del XV secolo.

Le relazioni con le diverse tribù mongole seguirono in origine il modello tributario e furono associate all'organizzazione delle fiere lungo le frontiere (che costituivano la principale fonte di approvvigionamento di cavalli per gli eserciti Ming); in diverse occasioni, l'ascesa di capi in grado di federare tra loro un certo numero di gruppi di popolazioni e di cui i Ming rifiutarono le pretese commerciali e diplomatiche, condusse alla moltiplicazione delle incursioni cruente all'interno della Cina, quando non a uno stato di guerra aperta. Nel 1449, Esen (m. 1455), il capo dei Mongoli orientali (Oirat), che era riuscito a estendere il suo controllo sull'Asia centrale sino all'attuale Manciuria, catturò l'imperatore Zhengtong, imprudentemente partito al seguito di una missione militare, a un centinaio di chilometri a nord-ovest di Pechino; la capitale poi fu sottoposta a un breve tentativo di assedio. Questi eventi evidenziarono il declino militare dei Ming e segnarono una svolta nella storia della dinastia. Durante il periodo compreso tra il 1480 e il 1520, nel corso del quale i Ming dovettero far fronte alle temibili azioni offensive delle tribù mongole, per un certo periodo riunificate da Dayan Khān (Batu Möngke), l'inefficacia delle misure difensive fu la principale preoccupazione del regime: probabilmente la Cina evitò l'invasione soltanto grazie ai dissensi sorti tra i Mongoli a partire dal 1510. Le forze di Altan Khān tornarono a saccheggiare le periferie di Pechino nel 1550, senza tuttavia approfittare della loro superiorità; il regime in questo caso si salvò grazie alla mancanza di ambizioni imperiali dei suoi nemici più pericolosi. Nei decenni seguenti, la presenza mongola a nord dell'Impero non si ridusse, ma la pace conclusa nel 1570 con Altan Khān e gli sforzi del ministro Zhang Juzheng per rafforzare le misure difensive ‒ la costruzione della Grande Muraglia, così come la conosciamo oggi, si concluse in questi anni ‒ garantirono una certa tranquillità da questo punto di vista. Il pericolo si ripropose, a partire dalla fine del regno di Wanli, dalla federazione delle tribù tunguse creata da Nurhaci (1559-1626) nell'estremo Nord-est, da cui ebbe origine la dinastia mancese dei Qing.

I primi missionari

Benché i Portoghesi avessero raggiunto i mari dell'Estremo Oriente sin dall'inizio del XVI sec. e nel 1554 avessero acquistato il diritto di stabilirsi a Macao, il primo insediamento cattolico nella Cina propriamente detta fu organizzato nel 1583 a Zhaoqing (Guangdong) dai gesuiti Ruggieri e Ricci. In seguito, Ricci si stabilì a Nanchino e infine, a partire dal 1603, a Pechino. Più tardi, la missione fondata a Pechino ospitò i gesuiti che la corte chiamò a lavorare all'interno dell'Ufficio del calendario, creato nel 1629, e, in particolare, il celebre Adam Schall von Bell (1592-1666).

Matteo Ricci (1552-1610) inaugurò in Cina una strategia di proselitismo basata su una radicale differenziazione dal buddhismo, sul tentativo di sedurre le élite dei letterati mostrando loro le acquisizioni della scienza occidentale (che si riteneva dimostrassero la superiorità della religione cristiana), sull'argomento della compatibilità etica del cristianesimo e del confucianesimo. Difesa soprattutto dai gesuiti italiani, alla fine del XVI sec. questa politica conciliante fu imposta alle missioni che operavano in Cina e in Giappone, contro le opinioni dei difensori di un'evangelizzazione basata sulla conquista militare, molto numerosi in Spagna e nelle Filippine. A giudicare dal gran numero di eminenti personaggi che presero contatto con Ricci e i suoi colleghi, e che in alcuni casi si convertirono, come, per esempio, Xu Guangqi (1562-1633), Li Zhizao (1565-1630) e Yang Tingyun (1557-1627), questa strategia non mancò di dare i suoi frutti. Questi personaggi erano tutti membri attivi del movimento riformatore dell'ultimo periodo Ming, che si proponeva, tra l'altro, di sviluppare il potenziale economico e militare dell'Impero ‒ Xu Guangqi compilò il celebre Trattato completo di amministrazione agricola (Nongzheng quanshu) e si batté appassionatamente, insieme a Li Zhizao, a favore dell'adozione delle armi da fuoco portoghesi ‒ e forse fu proprio l'interesse per le innovazioni tecniche a indurli ad avvicinarsi agli eruditi provenienti dagli 'Oceani dell'Ovest'. Questo interesse si collegava alla moda degli 'studi pratici' (shixue) che si era diffusa tra gli intellettuali cinesi dell'epoca in reazione al neoconfucianesimo 'intuizionista', il cui rappresentante più celebre fu il filosofo e uomo di Stato Wang Yangming (1472-1529); l'attrazione esercitata dalle discipline 'utili' è illustrata anche in un'altra grande enciclopedia tecnologica, Lo sfruttamento delle opere della Natura (Tiangong kaiwu), compilata da Song Yingxing nel 1637, quasi contemporaneamente quindi al Trattato completo di amministrazione agricola.

L'attività dei missionari nel paese suscitò tuttavia una forte opposizione sia di carattere filosofico e religioso sia di natura politica (si ricordano, tra l'altro, le persecuzioni del 1616 e del 1637-1638 rispettivamente a Nanchino e nel Fujian), resa ancora più dura dai conflitti scoppiati tra i gesuiti già residenti in Cina e i missionari domenicani e francescani giunti nel paese a partire dagli anni Trenta del XVII secolo. Nel complesso, è difficile giudicare i risultati dell'opera di cristianizzazione della Cina intrapresa nella maggior parte delle province durante l'ultimo cinquantennio della dinastia Ming. Rispetto alle ambizioni iniziali, essi furono certamente modesti; alla fine di questo periodo non si contavano, anche secondo le stime più ottimiste, più di 150.000 convertiti. Questo cristianesimo 'popolare', tuttavia, seguitò a sopravvivere sotterraneamente in molte regioni sino all'epoca moderna.

Quanto all'influenza delle missioni gesuite sugli ambienti intellettuali, bisogna riconoscere che la sua importanza, spesso esagerata dalla storiografia missionaria, fu comunque tutt'altro che trascurabile. I gesuiti furono accolti con simpatia e curiosità da molti letterati, che erano interessati in particolare alle loro conoscenze matematiche, astronomiche e cartografiche, e tentarono tenacemente di penetrare la cultura cinese e d'impadronirsi della lingua del paese; al di là dei loro progetti di evangelizzazione ‒ del resto piuttosto discreti ‒, e nonostante gli inevitabili motivi d'incomprensione, essi avviarono quello che si può definire un autentico dialogo tra le due civiltà, che ben presto, tuttavia, s'interruppe, sia a causa della diffidenza provocata dall'espansionismo europeo sia per ragioni di politica interna.

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