La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Grandi sintesi

Storia della Scienza (2004)

La seconda rivoluzione scientifica: fisica e chimica. Grandi sintesi

David Knight

Grandi sintesi

La seconda rivoluzione scientifica del XIX sec. è stata affiancata dall'istituzionalizzazione dell'insegnamento, da una crescente specializzazione e dalla formazione di una comunità scientifica costituita da professionisti impegnati a tempo pieno. Questo processo di trasformazione è stato caratterizzato dall'utilizzazione di costosi apparati e di laboratori costruiti per il conseguimento di scopi precisi, così come dall'emergere della possibilità di intraprendere una carriera ben definita nel mondo della ricerca scientifica, cui corrispose l'introduzione del termine 'scienziato'.

Nel XVIII sec. e fino all'inizio del XIX la ricerca era stata dominata da dilettanti, eruditi, filosofi della Natura, uomini di scienza, studiosi di storia naturale e naturalisti, i quali dedicavano in diversa misura il loro tempo alla scienza, intesa in senso lato, come attività che includeva qualsiasi apprendimento di tipo sistematico. Questi ricercatori potevano essere professori universitari, proprietari terrieri, professionisti (ecclesiastici, medici e avvocati) e ufficiali della Marina e dell'Esercito, o potevano lavorare in campo commerciale e industriale o guadagnarsi da vivere come conferenzieri e giornalisti; molti esercitarono nel corso della loro vita più di una di queste attività, ma non erano 'scienziati' nella moderna accezione del termine.

Nel 1800, quando Parigi era la capitale del mondo scientifico, era ancora possibile scegliere la strada dell'erudito Alexander von Humboldt (1769-1859), che aveva rifiutato di concentrarsi su una sola disciplina scientifica; tuttavia per coloro che non godevano della sua posizione sociale e dei suoi privilegi diveniva sempre più difficile non specializzarsi. Michael Faraday (1791-1867), figlio di un fabbro, pensava che bastasse limitarsi a "lavorare, rifinire il proprio lavoro e pubblicarlo", ed è seguendo questa massima che lui e i suoi contemporanei si fecero strada in territori di cui finirono per rivendicare il possesso, divenendo veri e propri esperti, anche se in ambiti di indagine sempre più ristretti. I presidenti delle società dedicate a una particolare disciplina scientifica, fiorite verso la metà del secolo, si aspettavano di essere considerati autorità nei loro campi di ricerca; il presidente della Royal Society, per esempio, cessò di parlare a nome di tutti, come aveva fatto Sir Joseph Banks nel corso del suo 'lungo regno'. In questo nuovo mondo intellettuale, la scienza doveva affrontare questioni difficili non tanto da formulare quanto piuttosto da risolvere. Tuttavia i nomi che ancora oggi ricordiamo sono in generale quelli degli scienziati che si cimentarono con questioni estremamente ardue e che combinarono in grandiose sintesi le conoscenze esistenti con quelle di recente acquisite, realizzando 'grandi quadri' inediti.

Nel campo della chimica, la scienza prima e fondamentale del XIX sec. su cui è incentrata questa ricostruzione, tali sintesi riguardarono sia la sfera materiale sia quella intellettuale. Nel 1870 la chimica era divenuta una scienza autorevole e matura, dotata di una struttura teoretica ampiamente riconosciuta, pronta a essere applicata in vista di successi sicuri. Nel frattempo, fino agli anni Sessanta, la concezione di Joseph Priestley (1733-1804), secondo cui la chimica era una scienza fondamentale che consentiva di osservare ciò che accadeva oltre la superficie delle cose (che rientrava nella sfera della meccanica) e di rivelare forze nascoste, esercitava ancora una profonda influenza. L'elettricità e il calore sembravano rientrare nella sua sfera d'indagine e Faraday era considerato un chimico. Tra il 1870 e il 1920, tuttavia, la chimica finì per essere vista come una disciplina subordinata a un'altra scienza ormai più importante, la fisica, perdendo così la sua indipendenza. Ciò produsse un radicale cambiamento che rappresenta l'oggetto principale della nostra ricostruzione.

La chimica: una scienza di sintesi

Molti associano il termine 'sintesi' e l'aggettivo 'sintetico' alla chimica ma, nel corso di tutto il XIX sec., i chimici professionisti, vale a dire quelli che si guadagnavano da vivere grazie alla loro conoscenza di questa disciplina, erano prevalentemente analisti.

Probabilmente poco interessati ai grandi quadri d'insieme, i chimici determinavano in quale percentuale un metallo fosse presente in un minerale, la composizione dell'acqua o di campioni di cibo e le sostanze che consentivano a un prodotto naturale o a un rimedio empirico di produrre un certo effetto fisiologico. A volte, i chimici iniziavano le loro operazioni con rapidi esperimenti 'a secco', realizzati usando carbone di legna, borace e cannelli ferruminatori, tuttavia nella maggior parte dei casi lavoravano 'a umido' in modo sistematico, ossia con una serie di test, che implicavano l'uso del solfuro di idrogeno, una sostanza maleodorante, che veniva fatta gorgogliare da soluzioni acide e alcaline. In alcuni casi, essi usavano un 'laboratorio portatile', vale a dire una scatola di legno contenente apparati e reagenti, che portavano con sé nel corso di viaggi di studio o quando dovevano lavorare in un locale non attrezzato. Dopo aver identificato mediante l'analisi qualitativa i componenti di una sostanza, a volte i chimici dovevano effettuare un'analisi quantitativa, per determinare in quale percentuale ogni componente fosse presente nella sostanza in esame. Anche per tale operazione erano previste procedure speciali, sperimentate e verificate, che avevano dimostrato di produrre risultati costanti. All'inizio del XIX sec. le sostanze usate come medicamenti di dubbia provenienza e di efficacia variabile, quali la corteccia di cincona e l'oppio, erano state analizzate e i loro principî attivi isolati, al punto che ormai era possibile somministrarli in dosi appropriate. In seguito, nei grandi centri industriali le capacità analitiche dei chimici si rivelarono indispensabili nella lotta all'inquinamento che minacciava la salute pubblica.

Per comprendere veramente come funzionano le macchine non è sufficiente scinderle negli elementi che le costituiscono, ma occorre essere in grado di rimontarle, così com'erano o in un altro modo, se siamo realmente abili e aspiriamo al raggiungimento di un altro scopo. È questo ciò che accade nella sintesi chimica. Nella chimica del XIX sec., l'analisi fu probabilmente uno strumento indispensabile di lavoro, ma ben presto la sintesi divenne la chiave della conoscenza, grazie, in particolare, alla generalizzazione dei simboli ideati da Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) per indicare gli elementi chimici (O per l'ossigeno, H per l'idrogeno, C per il carbonio e così via), che consentivano di rappresentare il numero degli atomi, i pesi, i volumi e le proporzioni. Al contrario dei piccoli cerchi di John Dalton, rappresentanti sfere, questi simboli erano aperti a qualsiasi determinazione e flessibili; essi trasformarono in realtà la visione di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794). Secondo quest'ultimo, infatti, l'algebra era il linguaggio ideale della chimica: il grande chimico francese aveva intuito che poiché nelle reazioni chimiche niente si crea e niente si distrugge, i conti dovevano quadrare, come quelli delle registrazioni contabili, e le equazioni formulate con le lettere-simboli di Berzelius ‒ oggi percepite come una caratteristica distintiva della chimica ‒ erano in grado di esprimere alla perfezione tale processo. Armati di questi 'strumenti di carta', i chimici potevano individuare relazioni e predire risultati senza lasciare la loro scrivania. Nella sintesi, la manipolazione dei simboli non è meno importante di quella degli apparati strumentali: si tratta di un'attività diretta al conseguimento di uno scopo preciso che deve andare al di là dell'inferenza induttiva, fino a portare all'enunciazione di una vera e propria teoria.

Non tutti apprezzarono questa inversione di tendenza. Il tentativo di raggruppare i composti in famiglie sembrava astratto e astruso, in grado di distrarre i chimici dal loro più autentico lavoro che si svolgeva in laboratorio; l'analisi dei coloranti e dei farmaci reali sembrava molto più utile della sintesi di nuove sostanze di dubbio valore, benché l'etere, il cloroformio e il cloralio si fossero già rivelati di grande interesse in campo medico. Nel 1828, Friedrich Wöhler (1800-1882) sintetizzò l'urea: egli scoprì che il cianato di ammonio si trasformava spontaneamente in questo composto che, prima di allora, si riteneva potesse essere prodotto solamente da organismi viventi. Oggi questa impresa viene solitamente fatta coincidere con l'inizio della chimica organica moderna e la fine del 'vitalismo' ma, a quel tempo, fu considerata importante soprattutto perché confermava che nei composti era fondamentale la disposizione degli atomi e non solo il loro numero. L'algebra evidentemente non era sufficiente: era importante anche la geometria. Due sostanze molto diverse tra loro, infatti, potevano, essere costituite dagli stessi componenti e nelle stesse proporzioni. Negli animali l'urea era ovviamente prodotta in condizioni molto diverse da quelle create nei laboratori, attraverso l'uso di provette e forni: ciò che accadeva esattamente negli animali e nelle piante, tuttavia, non era ancora stato scoperto, e il vitalismo, ossia la nozione secondo la quale negli organismi viventi le sostanze obbedivano ad altre leggi, non fu immediatamente abbandonato. D'ora in poi tuttavia la sintesi diverrà lo strumento impiegato per verificare la validità delle congetture formulate sulla carta e per preparare nuove sostanze non disponibili in Natura. I chimici non si limitavano più a scomporre le cose, ma erano anche in grado di ricomporle.

Justus von Liebig (1803-1873), un amico di Wöhler che aveva lavorato a Parigi con Joseph Gay-Lussac e godeva della protezione di Humboldt, trasformò il minuscolo laboratorio messo a sua disposizione nella piccola Università di Giessen in un grande centro di studio della chimica organica. Liebig aveva messo a punto apparecchi e metodi che fornivano risultati riproducibili, e credeva nell'utilità della specializzazione in chimica. Sotto la sua guida numerosi studiosi provenienti da molti paesi riuscirono a conseguire un titolo superiore di specializzazione. In effetti, si potrebbe dire che l'invenzione del ricercatore laureato, in chimica e in seguito nelle altre scienze, fu uno degli eventi più importanti della seconda rivoluzione scientifica.

Dopo un periodo di tirocinio più o meno formale, iniziava la formazione e il supervisore o 'padre nella scienza' divenne una figura fondamentale nella carriera di tutti gli scienziati. Alla fine del XIX sec., molti di loro si dilettavano a illustrare la loro linea di discendenza chimica fino a risalire agli eroi degli esordi. Altre università tedesche (ricorderemo che in questo periodo la Germania era ancora costituita da una conglomerazione di piccoli Stati) seguirono l'esempio di Giessen, sebbene senza lo stesso talento pubblicitario di cui aveva dato prova Liebig, e ben presto entrarono in competizione tra loro (con istituti e laboratori ben organizzati) per assicurarsi i migliori insegnanti e i più insigni ricercatori. I chimici indicavano il cammino da percorrere e, negli anni Settanta, il loro esempio fu seguito da tutte le nazioni europee e dagli Stati Uniti, mentre le università si trasformavano in istituzioni con scopi non solo didattici, ma anche di ricerca e iniziavano a ospitare laboratori di fisiologia e di fisica. Le università dove si svolgeva la ricerca e le loro scuole per studiosi laureati che volevano conseguire un titolo superiore di specializzazione finirono per cambiare il profilo della scienza.

Insieme a Wöhler, Liebig scoprì il radicale chiamato benzoile, un gruppo che rimane unito nel corso di una serie di reazioni, comportandosi quasi come un elemento. Essi giunsero così alla conclusione che la chimica organica doveva essere concepita come la scienza dei radicali; la sintesi doveva consistere nel mescolarli piuttosto che nel disgregarli, se non in rari casi. Questa posizione poteva non essere compatibile con la generalizzazione operata da Berzelius a partire dai suoi lavori e da quelli di Humphry Davy, in base ai quali l'affinità chimica era di carattere elettrico: le particelle di carica opposta si attraevano reciprocamente per formare composti neutri stabili. Questa formidabile intuizione aveva favorito l'emergere dell'interpretazione della sintesi chimica come unione di estremi opposti; tuttavia, in seguito, si era rivelata di difficile applicazione alla chimica organica, che sembrava obbedire a regole sorprendentemente diverse.

Così, un altro protetto di Humboldt, Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884), studiando il fumo prodotto da candele di cera decolorata con il cloro, scoprì che quest'ultimo poteva sostituire l'idrogeno nei composti organici (come nella cera) senza alterare più di tanto le loro proprietà, anche se i due elementi chimici presentavano un carattere elettrico opposto. Benché costituissero una grave minaccia per le basi teoriche della chimica, queste sostituzioni portarono Dumas, il più importante chimico francese della metà del secolo, a sintetizzare il cloroformio e altri composti organici del cloro, oltre a stabilire una serie di intese e di controversie con Liebig. L'importanza della sintesi era indubbiamente incalcolabile; tuttavia non sembrava ancora esistere un metodo che consentisse ai chimici di verificare se la formula dell'acqua fosse HO, come aveva affermato Dalton (le cui indagini si basavano sui pesi) o H2O, come Amedeo Avogadro, Davy, Dumas e altri avevano suggerito, fondandosi sull'esame dei volumi. Alcuni chimici dichiararono di impiegare la teoria atomica, senza, tuttavia, credere nella sua validità. Questa sorta di agnosticismo era una caratteristica distintiva dei chimici francesi che, sotto l'egida di Marcelin Berthelot (il grande fautore di una 'sintesi totale' degli elementi volta a demolire il vitalismo), insegnarono tale materia fino alla fine del XIX sec. senza fare ricorso all'ipotesi atomica. La monumentale Chimie organique fondée sur la synthèse (1860) di Berthelot e la più maneggevole Synthèse chimique (1876) divennero presto obsolete per quanto riguardava alcuni dettagli, come per esempio le formule HO e H2O2 per l'acqua, C6H6 per il propilene e KO per la potassa caustica e certi curiosi simboli barrati, ma il loro messaggio ebbe vasta risonanza fino alla fine del secolo. La sintesi era destinata a divenire la chiave della conoscenza in campo chimico e quando, alla fine del secolo, François-Auguste-Victor Grignard (1871-1935) scoprì che il magnesio reagiva con alcuni alogenuri organici formando reagenti dotati di un'immensa capacità di sintesi, l'armamentario dei chimici si arricchì di uno strumento fondamentale.

Era evidente che nel mondo della chimica animale e vegetale i processi di sintesi avevano luogo non solo in condizioni molto blande, ma anche per fasi: il risultato finale era ottenuto attraverso stadi intermedi, nel corso di una serie di reazioni, molte delle quali potevano essere reversibili. I chimici del XIX sec. sapevano che anche le loro sintesi avrebbero dovuto, nella maggior parte dei casi, essere realizzate per gradi e non con una sola operazione. Uno dei primi grandi lavori sistematici di sintesi fu quello effettuato tra il 1850 e il 1856 da Alexander W. Williamson (1824-1904) sugli eteri (oggi chiamati esteri). Interpretando la chimica come una scienza dinamica, che aveva a che fare con le forze più che con l'esatta determinazione dei pesi, egli illustrò strutture, composizioni e meccanismi di reazione in un lavoro che assunse un valore paradigmatico per i suoi colleghi. Benché a Parigi fosse stato in stretto contatto con il filosofo positivista Auguste Comte, Williamson non abbracciò il positivismo, ma divenne uno dei maggiori esponenti della teoria atomica nel corso dei dibattiti che ebbero luogo a Londra negli anni Sessanta dell'Ottocento e nel periodo successivo. L'etere, a volte chiamato etere solforico e usato come anestetico sin dagli anni Cinquanta, era sintetizzato dall'alcol con l'impiego dell'acido solforico. Williamson dimostrò che l'acido in effetti eliminava l'acqua senza alterarsi e studiò le fasi di questo processo fino a sintetizzare un'intera famiglia di eteri costituiti da radicali differenti.

Fino ad allora i chimici erano stati orgogliosi di praticare una scienza induttiva, e si erano tenuti lontani da quelle che Lavoisier percepiva come speculazioni metafisiche, caratteristiche dei sistemi del XVIII sec.; a questo punto però si trovarono a fare i conti con i limiti dell'inferenza induttiva. Nel suo trattato Méthode de chimie (1854), un ex collega di Dumas, Auguste Laurent li esortò ad adottare l'approccio ipotetico-deduttivo fino ad allora considerato caratteristico della fisica. Era impossibile dedurre strutture e formule in modo non ambiguo, mentre nulla impediva di proporre una struttura e poi verificarla con una serie di esperimenti. Alcuni fisici, per esempio John Herschel, avevano percepito la chimica come una sorta di audace arte culinaria, ma nel 1860, quando a Karlsruhe si svolse il I Congresso internazionale dedicato alla disciplina, la chimica era ormai una scienza matura, dotata di un metodo e di una teoria di grande ricercatezza, pronta a produrre numerosi risultati e con un bagaglio di sintesi sempre più complicate. Tuttavia non sempre queste operazioni produssero i risultati previsti: nel 1856 William H. Perkin tentò di sintetizzare la chinina nel laboratorio di August Wilhelm von Hofmann, ottenendo invece il primo colorante sintetico, al quale attribuì il nome di 'malva'. Nel 1880 Adolf von Baeyer sintetizzò l'indaco e, alla fine del secolo, il suo allievo Hermann Emil Fischer riuscì a preparare sinteticamente diversi tipi di zuccheri, alcuni dei quali fino ad allora sconosciuti. In seguito, i prodotti furono perfezionati e i costi ridotti, e si elaborarono materiali di partenza migliori e procedimenti a basso consumo energetico, per scopi industriali e di studio. Il conseguimento di questi grandi risultati richiese l'impegno di un vero e proprio esercito di chimici che lavoravano in laboratori ben attrezzati, diretti da scienziati lungimiranti. Da sempre, la chimica non era facilmente conciliabile con la teologia naturale perché tendeva a perfezionare il mondo e non a contemplarlo (come l'astronomia): ora si schiudevano le porte di un nuovo mondo, in cui non soltanto si isolavano metalli e farmaci dai prodotti naturali, ma si preparavano sostanze prima di allora sconosciute. È in conseguenza di ciò che oggi viviamo in un mondo fatto di plastica e di altri materiali sintetici; ai nostri giorni, i chimici sono molto simili ad architetti che progettano e costruiscono molecole.

Sintesi intellettuali

La specializzazione aveva portato non solo all'acquisizione di una grande perizia tecnica e alla realizzazione di rapidi progressi, ma anche alla riduzione delle materie di indagine e alla perdita di una visione d'insieme, poiché si accresceva costantemente la conoscenza di fenomeni sempre più limitati. La sintesi dell'indaco era un grande evento in quanto dimostrava che un gruppo di ricercatori diretto da un valido scienziato poteva riprodurre in un grande laboratorio i processi che si verificavano nelle piante dell'indaco o del guado, e quindi, in ultima analisi, escludere dall'industria tintoria i coltivatori indiani di queste piante. Tuttavia per gli studenti la conoscenza della chimica si basava sia sul possesso di una serie di pratiche, sia sull'apprendimento di una grande mole di nozioni, cosa che costituiva un grave problema. Le cognizioni da assimilare aumentavano di anno in anno; se la geometria era importante, come, del resto, l'algebra dei pesi, ci si chiedeva quali fossero le regole di combinazione. Dopo aver studiato farmacia a Lancaster, nel 1845 Edward Frankland (1825-1899) si recò a Londra e successivamente in Germania, dove lavorò con Hermann Kolbe e Liebig, per poi tornare in Inghilterra, dove intraprese una brillante carriera, prima a Manchester e successivamente a Londra. Se i radicali erano analoghi agli elementi, allora doveva essere possibile isolarli e, nel 1849, impiegando lo zinco e alcuni alogenuri organici, Frankland preparò i primi composti metallorganici, e poi quelli che riteneva fossero radicali simili all'etile. Questa errata convinzione (in seguito, infatti, Hofmann e altri chimici gli dimostrarono che si trattava di paraffine con un alto numero di atomi di carbonio) condusse Frankland all'idea secondo la quale il potere di combinazione dell'elemento attraente "[…] è sempre soddisfatto dallo stesso numero di atomi". Egli impiegò il termine 'atomicità' per indicare il numero degli atomi con cui un elemento era in grado di combinarsi, creando una certa confusione, soprattutto perché usava i pesi equivalenti; così dopo il 1865 si iniziò a utilizzare a tal fine il termine 'valenza'. Il lavoro di Frankland fu sviluppato da un altro grande sintetizzatore intellettuale, Friedrich August Kekulé (1829-1896).

Il fatto di aver studiato in vari paesi, a contatto con stili e tradizioni ben distinte tra loro, fu estremamente importante per Liebig e Frankland, come, del resto, per Kekulé che, frequentando l'Università di Giessen, dove intendeva dedicarsi allo studio dell'architettura, finì per rimanere affascinato dalla chimica e dalla tassonomia. Nel 1854-1855 Kekulé si recò a Londra, dove, lavorando con Williamson, si dedicò a stabilire la reale costituzione delle molecole. Nel 1859 egli ampliò il lavoro di Frankland grazie a un'idea di incalcolabile importanza, ossia che gli atomi del carbonio formavano una serie di catene. Per Frankland, la valenza poteva essere variabile e quindi un elemento poteva mostrare più di un valore ma, per Kekulé, la figura era fissa e ben definita. Egli, tuttavia, si espresse con una certa cautela, anche riguardo all'effettiva esistenza degli atomi che aveva immaginato incatenati tra loro e, in questa fase, non rappresentò graficamente alcuna formula.

Questo passo in avanti fu compiuto da Archibald S. Couper e da un suo amico, il russo Aleksandr Michailovič Butlerov, due chimici che avevano lavorato a Parigi con Charles-Adolphe Wurtz. Altri studiosi avevano già espresso alcune relazioni per mezzo di 'tipi' ideali che potevano sembrare molto simili a formule di struttura; tuttavia, nel 1858, Couper propose vere e proprie strutture, legando i suoi atomi con linee prima tratteggiate e quindi continue. Nessuno tuttavia gli prestò attenzione e persino Butlerov, in un primo momento, si mostrò critico nei suoi confronti. Nel 1861, però, lo stesso Butlerov in Russia e Alexander C. Brown in Gran Bretagna riproposero l'idea di Couper in autorevoli pubblicazioni e, nel 1864, Brown inserì i simboli degli elementi in cerchi collegati da linee. Ora, i chimici disponevano di strumenti di carta molto più efficaci e, nel 1865, Hofmann presentò alla Royal Institution di Londra alcuni modelli molecolari ‒ le 'formule glittiche' ‒ basate sull'uso di palle da croquet e corde metalliche. Nello stesso anno, Kekulé propose il suo sorprendente modello ad anello del benzene (forse concepito in un sogno), descrivendolo come una fila di salsicce. La forma esagonale (già usata da altri chimici, per es., Laurent, anche se in contesti diversi) fu divulgata da Hofmann dal 1866.

La chimica organica, caratterizzata da radicali, tipi e famiglie, era più facile da dominare rispetto alla chimica inorganica, in cui si aveva a che fare con numerosi elementi e con i loro diversi composti; nel 1868, tuttavia, il chimico russo Dmitrij Ivanovič Mendeleev (1834-1907), mentre si dedicava alla stesura di un manuale, Osnovy himii (Principî di chimica), riuscì a definire una tavola periodica sintetica degli elementi a partire da un'enorme mole di informazioni, offrendo così agli studenti di chimica un vasto quadro d'insieme. Mendeleev non era uno 'scopritore' e, a dire il vero, neppure un grande sperimentatore: la sua impresa ‒ successiva al Congresso di Karlsruhe e all'accettazione della formula dell'acqua (H2O) messa a punto da Stanislao Cannizzaro e dei conseguenti pesi atomici ‒ era consistita nel disporre gli elementi su una tavola, in modo che quelli tra loro simili apparissero l'uno accanto all'altro, nella prima versione, e poi incolonnati, nella seconda. Grazie a questa tavola i chimici che la conoscevano a fondo riuscivano a stabilire in anticipo le proprietà di ogni elemento a partire da quelle degli elementi vicini in alto e in basso, così come in senso orizzontale e diagonale. Il peso e la valenza erano le variabili critiche della disposizione. In un primo momento, la maggior parte dei chimici non considerò la tavola di Mendeleev: si riteneva che, nonostante alcuni vantaggi fortuiti, fosse fondamentalmente un gioco privo di senso. Mendeleev però aveva lasciato una serie di spazi vuoti destinati agli elementi che dovevano ancora essere scoperti, preannunciandone le proprietà. Così, quando nel 1875 Paul-Émile Lecoq de Boisbaudran scoprì un nuovo metallo, attribuendogli il nome di 'gallio', Mendeleev lo identificò con uno degli elementi mancanti nella sua tavola e dimostrò di conoscerlo meglio del suo scopritore. In seguito alla scoperta del gallio e a quelle successive dello scandio e del germanio, la tavola periodica iniziò a essere presa sul serio da tutti i chimici e, in particolare, da William Crookes (1832-1919) che, negli anni Settanta, ne promosse la diffusione nei paesi di lingua inglese pubblicandola sul "Chemical news". Ben presto la tavola fece bella mostra di sé nelle aule universitarie e nei laboratori e quando, al volgere del secolo, William Ramsay isolò i gas nobili o inerti, quali l'elio, l'argo, e la loro famiglia, anche questi ne entrarono a far parte. In quei simboli e nella loro disposizione tabulare erano esposte in forma sintetica innumerevoli conoscenze chimiche.

Le sintesi intellettuali, come del resto quelle chimiche, a volte si realizzavano per fasi successive, e la scoperta di Lecoq de Boisbaudran era fondata su un'altra sintesi, quella operata da due ricercatori, un chimico, Robert Bunsen (1811-1899), e un fisico, Gustav Robert Kirchhoff (1824-1887), una collaborazione, questa, inusuale per l'epoca. Soprattutto ad alte temperature, facilmente raggiungibili con il bruciatore a gas messo a punto da Bunsen, gli elementi lasciavano tracce di colore brillante nella fiamma; gli analisti avevano già esaminato questo fenomeno dal punto di vista qualitativo tuttavia, nel 1860, Bunsen e Kirchhoff, studiando la fiamma con uno spettroscopio, scoprirono schemi di righe brillanti che si rivelarono diversi per ogni elemento; i due proseguirono le loro indagini fino a individuare altre righe e a isolare il cesio e il rubidio, nuovi metalli simili al potassio. Spesso, nella fiamma, il giallo brillante del sodio, le cui tracce erano presenti quasi ovunque, copriva gli altri colori; nello spettro, tuttavia, tutte le diverse righe potevano essere individuate e rilevate. Si trattava del primo metodo fisico impiegato nell'analisi chimica in grado di sostituire o integrare l'apparecchio di Kipp, che produceva solfuro di idrogeno. Decisamente minaccioso per i chimici formatisi secondo i vecchi schemi, questo metodo apriva la strada a una rivoluzione strumentale che si concluse solamente nel XX sec. e consentì di identificare quantità prima di allora troppo minuscole per essere notate, se non da olfatti molto ben esercitati.

La spettroscopia presentava implicazioni ancora più importanti, che finirono per unire la chimica e la fisica in una vera grande sintesi, quella della nuova teoria atomica. I complessi schemi di righe non potevano essere generati dalle vibrazioni di sfere solide come palle da croquet. Alcuni chimici, i quali operavano nel solco della tradizione di William Prout, avevano suggerito che gli elementi erano analoghi ai radicali: era molto strano, per esempio, che due elementi tanto simili come il sodio e il potassio fossero composti da particelle completamente diverse. Ci si chiedeva allora che cosa fossero gli atomi.

Nel 1867 e nel 1869, la Chemical Society di Londra organizzò una serie di interminabili dibattiti dedicati allo status della teoria atomica, presieduti dai due principali contendenti, Williamson e Benjamin Brodie, che in quel periodo era impegnato nell'ideazione per la chimica di una forma di calcolo booleano in cui non era presa in considerazione l'esistenza degli atomi. A questi incontri furono invitati insigni fisici che si dedicavano allo studio degli atomi, come, per esempio, James C. Maxwell e John Tyndall. I chimici anglosassoni, tuttavia, sembravano aver accettato l'atomismo non su suggerimento dei fisici, ma per altre due ragioni. In primo luogo, esso facilitava l'insegnamento della chimica: questa circostanza rivestiva una grande importanza nel nuovo mondo della formazione scientifica emerso sotto l'influsso della vittoria, nel 1870, dei 'ben istruiti' prussiani sulla Francia. In secondo luogo, non si potevano non riconoscere i successi della teoria della struttura che consentiva di realizzare l'ideale deduttivo di Laurent. Le strutture, dopo tutto, prevedevano l'esistenza degli atomi.

La struttura ad anello del benzene proposta da Kekulé nel 1865 suscitò una serie di congetture riguardo ai suoi composti, che furono verificate attraverso procedimenti analitici e sintetici da un suo allievo, Wilhelm Körner, poi naturalizzato italiano. La tesi di Kekulé fu seguita, nel 1874, da quella di Jacobus Henricus van 't Hoff (1852-1911), secondo la quale i legami che si sviluppavano dall'atomo del carbonio non erano planari (come quelli indicati sulla carta e nei modelli di Hofmann) bensì diretti verso gli angoli di un tetraedro regolare. Questo fenomeno poteva dare origine a isomeri differenti come lo sono la mano destra e la sinistra, vale a dire a immagini speculari non sovrapponibili di molecole disposte tridimensionalmente nello spazio. Già Louis Pasteur (1822-1895) aveva scoperto che alcuni tipi di tartrati cristallizzavano in forme simili a immagini speculari e deviavano la luce polarizzata in modo diverso: tale circostanza poteva ora essere spiegata. Van 't Hoff descrisse ai lettori de La chimie dans l'espace (1875) come andassero collocate nello spazio le sfere e i fili che rappresentavano gli atomi e i legami della molecola. La sua estensione del modello alla terza dimensione si diffuse molto rapidamente, nonostante l'avversione di Kolbe che lo giudicava puramente ipotetico. La creazione di modelli sempre nuovi destinati a studiare il modo in cui una molecola di una data forma poteva adattarsi e reagire con un'altra divenne una caratteristica essenziale dello studio della chimica organica.

Anche sotto questo profilo, la chimica inorganica appariva molto diversa. Al contrario del carbonio, i metalli non formavano catene e le loro combinazioni sembravano adattarsi molto meglio alla teoria elettrica di Davy e Berzelius; si supponeva che i sali dei metalli fossero composti da molecole polari di una forma relativamente semplice. Vi erano, tuttavia, alcune complicazioni. Il solfato di rame sembrava attrarre a sé un ben definito numero di molecole d'acqua (5), come, del resto, altri composti. Così, in diversi sali, per esempio, alcuni cloruri e cianuri 'complessi', i composti 'di addizione' o 'molecolari' erano formati soprattutto con l'ammoniaca, in cui le connessioni non potevano essere costituite da ordinari legami di valenza ma erano ancora quantitative e rilevanti. L'ammoniaca entrava a far parte di queste combinazioni in un modo che lasciava perplessi i ricercatori perché molte delle sue molecole sembravano combinarsi producendo intere serie di composti stabili, solitamente incentrati su un atomo di un metallo di transizione. Nel 1891, Alfred Werner tentò di spiegare alcune serie, per esempio, CoCl3·6NH3, CoCl3·5NH3, CoCl3·4NH3 e CoCl3·3NH3. Se l'atomo centrale presentava (oltre alla sua valenza) un 'numero di coordinazione' fisso, in questo caso 6, allora queste formule si trasformavano in [Co(NH3)6]Cl3, [Co(NH3)5Cl]Cl2, [Co(NH3)4Cl2]Cl e [Co(NH3)3Cl3]. Solamente gli atomi del cloro non compresi tra le parentesi quadre potevano essere fatti precipitare dal cloruro d'argento. Ogni volta che una molecola neutra era sostituita da un atomo, la valenza del complesso veniva ridotta di uno e l'ultima sostanza indicata nell'elenco non conduceva in alcun modo l'elettricità. I numeri di coordinazione erano quasi sempre 4, 6 o 8 e le molecole o gli atomi coinvolti erano chiamati 'leganti'.

Werner considerava le sue indagini tentando di estendere la teoria della struttura alla chimica inorganica, dal momento che i legami diretti ai leganti non erano elettricamente carichi ma assomigliavano a quelli riscontrabili nella chimica organica. Egli suggerì che con 4 leganti il complesso avrebbe assunto la forma di un tetraedro o di un quadrato e con 6 leganti quella di un ottaedro; queste disposizioni come quelle della chimica organica sarebbero state distinguibili e in alcuni casi avrebbero determinato un'attività ottica. In seguito, egli confermò queste tesi con una serie di esperimenti. Werner vedeva la chimica del carbonio come un caso particolare della chimica di coordinazione, perché nel carbonio la valenza e il numero di coordinazione coincidono, essendo entrambi pari a 4. Il suo lavoro si rivelò estremamente importante sia nel campo della chimica pura sia in quello della chimica applicata, ma il fenomeno della coordinazione per il momento rimase inspiegato.

Il lavoro svolto da Werner e da altri chimici sui metalli di transizione presupponeva l'abbandono dell'assunzione semplificante di Kekulé, secondo la quale la valenza era costante. Nella tavola periodica di Mendeleev, questi elementi, quali, per esempio, il ferro, il cromo e il manganese, presentavano chiaramente valenze e serie di sali differenti; persino nella chimica organica il valore della valenza dell'azoto a volte risultava essere 3 e a volte 5. Nel 1904 Richard Abegg, che in quel periodo lavorava con Walther Hermann Nernst, enunciò la regola secondo la quale le valenze 'normali' e 'contrarie' di un elemento ammontavano a 8. Neppure questa regola però ricevette una pronta spiegazione.

Nel frattempo, alcune nuove idee erano emerse nel campo della chimica fisica, un'espressione usata per la prima volta da Frankland nel titolo del libro Experimental researches in pure, applied and physical chemistry, pubblicato nel 1877, anche se questa branca della ricerca scientifica fu in realtà fondata da van 't Hoff e da Friedrich Wilhelm Ostwald, che convinsero i chimici a tener conto non solo dei pesi e dei volumi, ma anche dei tempi e delle temperature. Nel 1887 i due scienziati fondarono un periodico scientifico interamente dedicato alle ricerche di chimica fisica, lo "Zeitschrift für physicalische Chemie". Il loro collaboratore Svante August Arrhenius (1859-1927) aveva rivisto e ampliato le idee sulla dissociazione elettrolitica di Davy, Berzelius e Faraday con la sua teoria ionica, enunciata a partire dal 1884. Nella tesi di dottorato ‒ Recherches sur la conductibilité galvanique des électrolytes ‒ presentata quell'anno (che peraltro ricevette una cattiva accoglienza), Arrhenius dichiarò di essere giunto alla conclusione che gli elettroliti (sostanze le cui soluzioni conducono l'elettricità) in soluzioni molto diluite erano già dissociati anche prima del passaggio di una qualsiasi corrente; più tardi, egli precisò che essi si scindevano negli ioni che Faraday aveva identificato e di cui Johann Wilhelm Hittorf e Friedrich Wilhelm Georg Kohlrausch avevano seguito le migrazioni. Tutti questi scienziati però avevano supposto che gli ioni fossero formati dalla corrente: Arrhenius pensava che un elettrolita forte come, per esempio, il sale comune, esistesse in soluzione come Na+ e Cl piuttosto che come molecole di NaCl e che anche gli elettroliti deboli, quale, per esempio, l'acido acetico, si sarebbero completamente dissociati se sottoposti a un'estrema (o persino infinita) diluizione. Per verificare queste ipotesi, van 't Hoff pensò di impiegare l'osmosi (ossia il passaggio delle particelle attraverso membrane semipermeabili) perché essa indicava quante particelle erano presenti nella soluzione; constatò così che i suoi esperimenti confermavano la supposizione di Arrhenius. Anche Ostwald rimase estremamente colpito da questi risultati e riprese le idee di Arrhenius, ma seguitò a dubitare dell'esistenza degli atomi, poiché credeva che la chimica dovesse essere fondata sull'idea di energia. Ancora una volta, un'idea che aveva a che fare con gli atomi e con le loro modalità di combinazione generava confusione e incertezza tra i chimici.

Dalla grande sintesi alla quale abbiamo attribuito il nome di legge della conservazione dell'energia era nata la fisica classica. Ora, la chimica, invece di essere considerata la scienza prima e fondamentale che, per esempio, rivendicava a sé lo studio dell'elettricità, iniziò a essere vista (e non soltanto dai fisici) come una branca della fisica. In Theoretische Chemie (Chimica teorica, 1893) Nernst esemplificò questo nuovo approccio. Ostwald, con le sue leggi della termodinamica prive di una teoria di riferimento, e Brodie, con il suo calcolo, stentavano a offrire una spiegazione facile dell'isomeria (fenomeno per cui due composti differenti hanno la stessa formula) come quella che la teoria atomica era in grado di fornire. Riconoscendo che l'analisi del moto browniano offerta da Jean-Baptiste Perrin forniva una prova diretta dell'esistenza degli atomi, Ostwald annunciò la sua conversione nel Grundriss der Allgemeine Chemie (Lineamenti di chimica generale), pubblicato nel 1908, tuttavia subito dopo abbandonò la chimica a favore della filosofia e alla fine della Prima guerra mondiale curò la pubblicazione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Josef Johann Wittgenstein. A quel tempo, nessuno dava più credito alle supposizioni di Dalton, secondo le quali gli atomi erano indivisibili o tutti gli atomi di un elemento avevano lo stesso peso, perché nel 1913 Frederick Soddy aveva pubblicato la prova dell'esistenza degli isotopi. Crookes era implicato in questa vicenda, almeno per quanto riguardava i suoi aspetti chimici.

Ultimo presidente non laureato della Royal Society (1913-1915), Crookes si guadagnava da vivere con le attività di giornalista, consulente e inventore. Divenuto celebre grazie alla scoperta del tallio effettuata con lo spettroscopio, riprese il lavoro svolto da Faraday (il suo eroe) sul passaggio dell'elettricità attraverso i gas. Egli scoprì che i raggi catodici, muovendosi secondo una traiettoria rettilinea, proiettavano ombre ben delineate (per es., quelle di una croce maltese), erano deviati da un campo magnetico e avrebbero potuto far girare una piccola ruota a pale posta sulla loro strada; grande conferenziere, Crookes ideò spettacolari esperimenti dimostrativi per pubblicizzare queste scoperte. La sua idea che i raggi fossero correnti di particelle fu accolta favorevolmente soprattutto in Gran Bretagna e, nel 1897, Joseph J. Thomson identificò tali particelle come corpuscoli subatomici.

Tuttavia Crookes non notò i raggi X associati ai tubi catodici, che invece Wilhelm Conrad Röntgen scoprì nel 1895, usando proprio un 'tubo di Crookes'. Le deduzioni tratte dalla diffrazione dei raggi X effettuata dai cristalli, iniziate con Max von Laue e in seguito estese al campo della chimica da William Henry Bragg e da suo figlio William Lawrence (che più tardi diresse il Cavendish Laboratory, dove in seguito fu elaborata la struttura del DNA), condussero all'individuazione della posizione degli atomi nei composti. La sintesi dei Bragg conferì ai 'metodi fisici' un'importanza ancora maggiore, mentre la cristallografia basata sull'impiego dei raggi X consentì ai chimici di realizzare i sogni di coloro che li avevano preceduti sin dai tempi di Lavoisier. Molti chimici avevano pensato che la struttura molecolare e la forma del cristallo fossero l'una il riflesso dell'altra, ma le loro ipotesi erano suffragate da prove molto più indirette di quelle fornite dai raggi X: d'ora innanzi, si sarebbe potuto quasi dire che le strutture erano inferite induttivamente.

Nel 1916, alle soglie di quello che si sarebbe rivelato il secolo americano, il chimico statunitense Gilbert N. Lewis (1875-1946) combinò la teoria della valenza con quella che allora era la nuova teoria quantistica della struttura atomica in una nuova e grande sintesi, attraverso la sua teoria elettronica della valenza promossa e divulgata da Irving Langmuir. Le sintesi organiche avevano sollevato una serie di dubbi riguardo all'ipotesi secondo la quale l'affinità era di carattere elettrico. Riprendendo l'idea che gli atomi possedevano nuclei compatti ed elettroni in orbite quantizzate, Lewis, tenendo conto della stabilità dei gas inerti e della regola enunciata da Abegg, suggerì che, combinandosi, gli atomi cedevano e accoglievano, o alternativamente condividevano, elettroni dal loro guscio esterno. Nel primo caso davano luogo a legami polari, caratteristici soprattutto della chimica inorganica e nell'ultimo, a legami covalenti comunemente riscontrabili nel ramo organico di questa scienza. I composti di coordinazione presupponevano che un atomo cedesse entrambi gli elettroni: questa idea è alla base di tutte le conoscenze acquisite nel XX secolo. Una teoria basata su un modello atomico derivato dalla fisica spiegava ora non solo la tavola periodica ma anche il potere di combinazione degli atomi e le strutture dei loro composti.

Il riduzionismo in chimica

Sembrava quindi che la chimica avesse subito un processo di riduzione alla fisica. In chimica, il termine 'riduzione' suggerisce procedimenti affascinanti, come, per esempio, quello volto a estrarre uno scintillante lingotto di metallo dalla massa brunastra e informe del minerale in cui è contenuto, che di fatto è un'operazione di analisi. D'altro lato, la riduzione della chimica implica una triste e deplorevole perdita d'identità e di autorevolezza, analoga a quella subita da un argomento filosofico ridotto a un ragionamento economico o a un discorso pseudoscientifico pieno di termini psicologici. In questo caso, una grande sintesi, operata per gradi (come nella chimica organica) da Mendeleev fino a Lewis (entrambi chimici), si risolse in un'analisi che vedeva la chimica come un elemento costitutivo della fisica, di quella quantistica più che di quella classica.

La specializzazione aveva frantumato la vecchia visione d'insieme tipica della filosofia della Natura, ma la sintesi ne aveva riunito le singole parti, ora molto più avanzate, in una nuova visione del mondo. Tuttavia, la spiegazione chimica nei termini della fisica rimaneva estremamente generale. Le equazioni erano troppo complesse e il numero delle variabili troppo grande per poter sostituire gli strumenti di carta e i modelli molecolari con la matematica, allo scopo di prevedere o spiegare le proprietà chimiche delle cose. La straordinaria somiglianza delle terre rare, il cui status aveva suscitato una grande perplessità in Crookes, poteva essere spiegata in termini di riempimento degli strati elettronici al di sotto del livello degli elettroni di valenza, ma non si sarebbe potuto prevedere che i livelli di energia in questi grandi atomi sarebbero stati stabiliti in quel modo. Le spiegazioni fisiche erano post hoc; la chimica doveva ancora essere praticata nei laboratori, anche se questi ultimi si dotarono sempre più spesso di dispendiosi strumenti 'fisici', molto diversi dai bruciatori di Bunsen, dalle burette, dalle provette e dagli altri congegni di vetro.

Nel XIX sec., le principali innovazioni furono elaborate da chimici che lavoravano in un relativo isolamento: Dalton a Manchester, a quei tempi una città industriale priva di università, Liebig a Giessen, Mendeleev in Russia e Avogadro e Cannizzaro in Italia. Le grandi sintesi, tuttavia, furono effettuate nei laboratori affermati e ben attrezzati dei grandi centri di ricerca, dove si poteva ricorrere a squadre di assistenti o allievi laureati. Nel corso di quasi tutto il XIX sec. furono date alle stampe prevalentemente pubblicazioni scientifiche firmate da un solo autore, anche se spesso quest'ultimo si limitava a dirigere (più o meno attentamente) lavori svolti da altri, prendendone tutto il merito. Vi furono, tuttavia, alcune eccezioni, le più interessanti delle quali sono rappresentate dai casi di collaborazione tra ricercatori dotati di competenze complementari, come quello di Bunsen e Kirchhoff. Nel XX sec., tali forme di collaborazione divennero sempre più frequenti e così, dopo aver subito questa riduzione, la chimica divenne la scienza ausiliaria della quale tutti avevano bisogno. Le équipe e i gruppi impegnati in altri ambiti di ricerca richiesero la collaborazione di uno o due chimici e, in chimica, l'esperienza dei fisici e dei biologi si rivelò fondamentale per la sintesi intellettuale. La figura del chimico isolato si è quasi estinta, anche se i capigruppo possono rivelarsi egotisti quanto i loro predecessori del XIX secolo.

Nel XX sec., la pratica chimica è stata dominata da queste équipe, cui si devono grandi sintesi, come quella relativa alla definizione della struttura delle molecole che Liebig chiamava proteine e del DNA. Ai laboratori delle università si sono aggiunti quelli delle industrie e dei governi, dotati di immense risorse ma legati al raggiungimento di scopi ben definiti e a diversi livelli di segretezza. Continuano a verificarsi scoperte simultanee e, a volte, le équipe sanno di essere impegnate in una gara di priorità, e che non ci sono medaglie d'argento e di bronzo in ambito scientifico. La sintesi ha seguitato a rivestire una grande importanza: la chimica attraverso tutti questi cambiamenti e queste sintesi intellettuali, è ancora il più importante strumento a nostra disposizione per migliorare la Natura. Anche se a volte guardiamo con sospetto a certi presunti perfezionamenti, un mondo senza alluminio metallico o senza plastica sarebbe peggiore di quello in cui viviamo. Ciò significa che i chimici non devono rammaricarsi della riduzione alla fisica della loro scienza, o almeno non più degli ingegneri: nel costruire ponti oppure molecole non si possono sfidare le leggi della Natura, ma rimane comunque un grande spazio per l'ingegnosità e l'abilità sintetica.

CATEGORIE