La semplificazione dei riti civili

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

La semplificazione dei riti civili

Antonio Carratta

Il contributo esamina le novità sopravvenute per effetto del d.lgs. 1.9.2011, n. 150, che, in attuazione della legge delega di cui all’art. 54 della l. 18.6.2009, n. 69 ha proceduto a raccogliere in un unico testo normativo alcuni riti speciali già presenti in diverse leggi speciali e destinati alla risoluzione di specifiche categorie di controversie, riconducendoli al rito del lavoro o al procedimento sommario di cognizione o, infine, al rito ordinario. Ciò con l’obiettivo – di fatto fallito – di ottenere una «semplificazione e riduzione» dei riti speciali civili.

La ricognizione. La “tutela giurisdizionale differenziata”

Con il d.lgs. 1.9.2011, n. 150, contenente Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69, il Governo ha dato attuazione alla legge delega per la riduzione e semplificazione dei riti civili speciali presenti in diverse leggi speciali e destinati alla risoluzione di specifiche categorie di controversie. La legge delega nasceva dalla chiara volontà del Parlamento di “cambiare rotta” rispetto al comportamento seguito negli ultimi anni, ma poneva – come vedremo – non pochi limiti all’operato del legislatore delegato. In effetti, una delle strategie adottate dal legislatore negli ultimi decenni, soprattutto a partire dagli anni ’70, è stata proprio quella di far proliferare i riti speciali a cognizione piena, utilizzati come una sorta di «corsia preferenziale» per alcuni settori del contenzioso civile.

Il ricorso a processi di cognizione speciali è fenomeno risalente nel nostro sistema processuale. A partire dagli anni ’70, infatti, il legislatore ha giustificato la predisposizione di nuovi riti «speciali» (a cognizione piena o sommaria) con la particolare «natura» delle controversie che essi erano diretti a risolvere, nella convinzione che il principio di uguaglianza sostanziale dell’art. 3, co. 2, Cost. e quello di effettività della tutela giurisdizionale, ricavabile dall’art. 24, co. 1, Cost., non solo tollerassero, ma addirittura imponessero al legislatore ordinario il ricorso a forme di “tutela giurisdizionale differenziata”, adattate alle peculiarità sostanziali delle situazioni giuridiche tutelande.

Oltre che all’introduzione di nuovi riti speciali di cognizione, nel corso degli anni il legislatore ha fatto ricorso, per determinati settori del contenzioso civile, anche al procedimento in camera di consiglio disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c., ideato dal legislatore del 1942 come rito proprio per l’esercizio della giurisdizione cd. volontaria ed impropriamente utilizzato, quale «contenitore neutro», come rito anche per l’esercizio della giurisdizione cd. contenziosa, per la sua accentuata deformalizzazione, essendo le forme del procedimento cameral-sommario rimesse pressoché integralmente alla discrezionalità del giudicante (art. 738 c.p.c.)1.

Di conseguenza, il fatto che il nostro legislatore si sia avveduto del problema e abbia cercato di correre ai ripari con la legge delega dell’art. 54 l. n. 69/2009 va senz’altro apprezzato. Ma il risultato conseguito con il d.lgs. n. 150/2011 sembra ben lontano da quello auspicato.

1.1 L’ambito di intervento della legge delega

Alcuni dei limiti che emergono dal d.lgs. n. 150/2011 trovano la loro ragion d’essere nella stessa legge delega2. Ed infatti, nonostante l’ampia formula utilizza dalla rubrica dell’art. 54 l. n. 69/2009 (Delega al Governo per la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili), la delega aveva di mira un obiettivo ben più limitato: l’eliminazione solo di alcuni riti speciali di cognizione (nell’ambito della giurisdizione contenziosa), autonomamente disciplinati dalla legislazione speciale fuori dal codice di procedura civile e dal codice civile, e la loro riconduzione ad uno dei riti a cognizione piena (rito ordinario o rito del lavoro) o sommaria (procedimento sommario) disciplinati dal codice di procedura civile. Stabiliva, infatti, il co. 1 del citato art. 54 che «Il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell’ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legislazione speciale». E la lett. b) del co. 4 del medesimo art. 54 aggiungeva che il riferimento era ai «procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale».

Sulla base di questa prima indicazione, dunque, non erano interessati dalla legge delega e non potevano essere presi in considerazione dal legislatore delegato: a) i processi speciali di cognizione disciplinati direttamente dal codice di procedura civile e dal codice civile; b) i processi speciali di cognizione non «autonomamente regolati dalla legislazione speciale», in quanto regolati mediante il semplice rinvio alla disciplina codicistica; c) i procedimenti di natura volontaria o comunque non contenziosa; d) i procedimenti cautelari; e) i processi esecutivi.

D’altro canto, occorre anche considerare che nel co. 4, lett. d), dell’art. 54 l. n. 69/2009 venivano espressamente esclusi dall’applicazione della legge delega i riti speciali (pure regolati dalla legislazione speciale) in materia di: a) procedure concorsuali; b) famiglia e minori; c) cambiale, vaglia cambiario, assegno bancario e assegno circolare; d) cd. statuto dei lavoratori (l. 20.5.1970, n. 300); e) codice della proprietà industriale (d.lgs. 10.2.2005, n. 30); f) codice del consumo (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).

Se si tiene conto di tutte queste limitazioni è facile rilevare come restasse fuori dagli obiettivi della legge delega la maggior parte dei processi civili speciali.

1.2 I «principi e criteri direttivi»

Per quanto riguarda, poi, i «principi e criteri direttivi» fissati per l’esercizio della delega, il co. 4 del citato art. 54 stabiliva che, nell’esercizio della delega, il Governo avrebbe dovuto:

A) tener fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente (quando, evidentemente, il rito speciale «di derivazione» coinvolgesse anche tali profili);

B) prendere in considerazione «i procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale», i quali avrebbero dovuto essere ricondotti ad uno dei seguenti modelli processuali previsti dal c.p.c.:

1) a quello del rito del lavoro, nel caso in cui prevalessero, nel rito speciale “di derivazione”, «caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione»;

2) a quello del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss. c.p.c., nel caso in cui prevalessero, nel rito speciale “di derivazione”, «caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa», restando comunque esclusa in tal caso la possibilità di conversione nel rito ordinario (prevista dall’art. 702 ter, co. 3, c.p.c.);

3) negli altri casi, a quello dell’ordinario processo a cognizione piena del libro II del codice (senza, peraltro, che il legislatore delegante orientasse la scelta fra il rito previsto per le cause di competenza del tribunale in composizione collegiale o in composizione monocratica e quello previsto per le cause di competenza del giudice di pace).

Aggiungeva, infine, l’art. 54, co. 4, lett. c), che «la riconduzione ad uno dei riti di cui ai numeri 1), 2) e 3) della lettera b) non comporta l’abrogazione delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che attribuiscono al giudice poteri officiosi, ovvero di quelle finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile».

E dunque, quale che fosse il “rito di destinazione” prescelto seguendo i criteri finora indicati, il legislatore delegato avrebbe dovuto comunque assicurare la salvezza delle disposizioni previste dalla legislazione speciale che, con riferimento al rito “di derivazione”, attribuivano al giudice poteri officiosi (più ampi – evidentemente – di quelli previsti nell’ambito del “rito di destinazione”) ovvero producevano effetti non conseguibili con le norme processuali codicistiche.

1.3 L’approccio “minimalista” del d.lgs. n. 150/2011 e la sua scarsa (se non nulla) incidenza pratica

Dovendo necessariamente confrontarsi con i limiti posti dalla legge delega, certo il compito del legislatore delegato non era semplice. Ma l’impressione che si ricava dal d.lgs. n. 150/2011 è che, per come impostato, esso non riuscirà a determinare un’effettiva riduzione dei riti speciali contenziosi. Anzi – come emergerà nel prosieguo – esso potrebbe sortire proprio l’effetto opposto3. La stessa Relazione illustrativa del decreto ammette che l’intervento «non può ritenersi esaustivo delle esigenze di semplificazione e di razionalizzazione del sistema processuale civile, in conseguenza delle rilevanti delimitazioni contemplate dalla legge di delega, che ha escluso la possibilità di intervenire sulle disposizioni processuali in materia di procedure concorsuali, di famiglia e minori» e altre.

In effetti, il d.lgs. in esame si presenta come una sorta di «testo unico» di alcuni riti speciali, in precedenza contenuti in diverse leggi speciali e che dal nuovo testo normativo sono ricondotti, a seconda delle loro peculiarità, ai tre modelli processuali codicistici indicati dalla legge delega, ma con l’aggiunta di specifiche disposizioni speciali, le quali, peraltro, non sembrano pienamente in linea – come meglio vedremo in seguito – con i «principi e criteri direttivi» della delega.

È sicuramente apprezzabile la scelta di preferire alla tecnica della novella legislativa la compilazione in un unico testo legislativo di tutta la normativa processuale speciale interessata dalle modifiche, sostituendo le norme previste dalle singole leggi speciali con richiami al nuovo testo legislativo, come fanno gli artt. 34-36 del d.lgs. n. 150/2011. Ma non sembra essere questo l’obiettivo alla base della legge delega.

Questo risultato è il frutto di una ben precisa scelta di fondo compiuta dal legislatore delegato, che merita di essere evidenziata. A ben vedere, infatti, il legislatore delegato ha raccolto la delega con riferimento ai modelli processuali da utilizzare, ma ha ritenuto opportuno – una volta individuato il «rito di destinazione» per ognuno dei riti speciali da superare – dedicare una disciplina speciale integrativa di quella generale dello stesso «rito di destinazione» contenuta nel codice. E quindi, fermi i modelli di riferimento (rito del lavoro, procedimento sommario di cognizione, rito ordinario), di fatto le diverse norme che compongono il d.lgs. in esame non sono altro che «norme-contenitore» della speciale disciplina processuale da applicare ad ognuna delle categorie di controversie interessate dall’intervento normativo. Il risultato è che i procedimenti speciali presi in considerazione vengono riscritti e impostati ai tre modelli di riferimento indicati dalla legge delega, ma non vengono sostituiti dai tre riti del codice, che nelle intenzioni del legislatore delegante, invece, sarebbero dovuti rimanere come gli unici riti di cognizione. Così operando, si ottiene una riduzione dei modelli processuali utilizzati, ma non una riduzione dei riti, che era, invece, l’obiettivo della legge delega.

Ed a tal proposito vale la pena rilevare, in termini generali, che tradizionalmente la specialità del rito ricorre sia quando la sua disciplina sia integralmente autonoma e differenziata, sia quando – pur con riferimento ad un unico modello processuale – si introducano singole disposizioni processuali speciali, che in qualche modo integrano o modificano la disciplina generale del modello processuale di riferimento.

La focalizzazione. I procedimenti improntati al modello del rito del lavoro “adattato”

Nel capo II del d.lgs. n. 150/2011 vengono, anzitutto, individuati i procedimenti regolati dal rito del lavoro o – per meglio dire – improntati al modello del rito del lavoro.

Gli artt. da 6 a 13 elencano le materie che devono essere decise seguendo il rito del lavoro (sia pure “adattato” da ciò che prevede l’art. 2), nonché le norme che, di volta in volta, derogano alla disciplina codicistica di tale rito.

In particolare, questo vale per le controversie in materia di: opposizione all’ordinanza-ingiunzione (art. 6); opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada (art. 7); opposizione alle sanzioni amministrative in materia di stupefacenti (art. 8); opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato (art. 9); applicazione delle disposizioni del cd. codice sulla privacy (art. 10); f) controversie agrarie (art. 11); impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti (art. 12); opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato (art. 13).

Anzitutto, proprio con riferimento ai procedimenti speciali che nel capo II del d.lgs. in esame sono ricondotti al rito del lavoro il legislatore delegato sembra aver trascurato uno dei limiti imposti dalla legge delega a proposito della necessità di prendere in considerazione i soli riti speciali regolati «autonomamente» dalla legislazione speciale. Come abbiamo visto, la lett. b) del co. 4 dell’art. 54 l. n. 69/2009 faceva esplicito riferimento ai soli «procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale». Il riferimento ai riti autonomamente regolati ha un valore ben preciso: i riti speciali che il legislatore delegato avrebbe potuto prendere in considerazione erano soltanto quelli regolati in maniera autonoma dalla legislazione speciale. Se si trattava di riti speciali che, pur previsti nella legislazione speciale, non si presentavano regolati autonomamente ma rinviavano già ad uno dei riti presi in considerazione come «riti di destinazione» dalla legge delega, non erano (non potevano essere) interessati dal d.lgs. La ragione dell’esclusione è evidente: se la legislazione speciale richiama già uno dei riti disciplinati dal codice presi in considerazione come “riti di destinazione”, la scelta è stata già compiuta dal legislatore a favore di uno dei riti prescelti e non c’è bisogno di ritornarci sopra ulteriormente, non essendo in presenza in questo caso di un vero e proprio rito speciale di cognizione nel senso indicato dalla legge delega.

Sulla base di quest’indicazione, dunque, non avrebbero dovuto essere interessati dalla delega i processi speciali che risultavano regolati mediante il semplice rinvio alla disciplina codicistica. Ma così non è stato ed il riferimento è sia al cd. rito agrario, già regolato mediante il rinvio integrale alla disciplina del rito del lavoro (art. 47 l. 3.5.1982, n. 203 e art. 9 l. 14.2.1990, n. 29), sia al procedimento di impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti (art. 4, co. 4, l. 12.2.1995, n. 77), per il quale già veniva espressamente previsto che «per il procedimento si osservano, in quanto applicabili, le norme di cui agli artt. 414 a 438 c.p.c.».

Si potrebbe obiettare che, in fondo, questi procedimenti, anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, continuano ad essere ricondotti, come in precedenza, al rito del lavoro.

Ma occorre tener presente – per comprendere la rilevanza che assume la discutibile scelta del legislatore delegato (in contrasto con l’art. 76 Cost.) – che negli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 150/2011 vengono introdotte disposizioni modificative proprio di alcuni aspetti caratterizzanti della disciplina del rito del lavoro. In questo modo, di conseguenza, il legislatore delegato, prendendo in considerazione riti speciali, che la legge delega voleva rimanessero fuori dalla delega, modifica la stessa disciplina processuale di alcuni procedimenti (come, in particolare, quello agrario e quello sui protesti) in evidente contrasto con la voluntas del legislatore delegante e incidendo direttamente sull’applicazione che finora si è avuta del rito del lavoro in queste controversie.

Ed infatti, oltre ad individuare le controversie da sottoporre al rito del lavoro, il d.lgs. n. 150/2011 procede, sempre con riferimento a queste controversie, a selezionare le disposizioni codicistiche di tale rito ad esse non applicabili.

Stabilisce, infatti, l’art. 2 che, in tal caso, non si applicano (a meno che non siano espressamente richiamati) «gli articoli 413, 415, settimo comma, 417, 417 bis, 420 bis, 421, terzo comma, 425, 426, 427, 429, terzo comma, 431, dal primo al quarto comma e sesto comma, 433, 438, secondo comma, e 439 del codice di procedura civile». Nelle stesse controversie, poi, l’ordinanza prevista dall’art. 423, co. 2, c.p.c. può essere concessa su istanza di ciascuna parte e l’art. 431, co. 5, si applica alle sentenze di condanna a favore di ciascuna delle parti. Inoltre, stando sempre all’art. 2 d.lgs. n. 150/2011, «salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori previsti dall’articolo 421, secondo comma, del codice di procedura civile non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile» (co. 4).

La riconduzione, dunque, non è al rito del lavoro disciplinato dal codice, ma a quello “adattato” dallo stesso d.lgs., ovvero privato delle disposizioni indicate dall’art. 2. E dunque, siccome il rito del lavoro si presenta già di per sé come “rito speciale” rispetto al rito ordinario a cognizione piena, dobbiamo ritenere che la sua specialità venga dal legislatore declinata in maniera diversa a seconda che trovi applicazione il rito del lavoro “codicistico” o quello “adattato” del d.lgs. n. 150/2011. Realizzando, quindi, un rito del lavoro sui generis, e dunque, a sua volta, speciale rispetto al rito del lavoro codicistico. Un ulteriore elemento che smentisce l’affermata «semplificazione e riduzione dei riti civili».

Per molte di queste disposizioni codicistiche del rito del lavoro, l’inapplicabilità si può facilmente giustificare col fatto che esse sono collegate alla presenza di una controversia individuale di lavoro. Per questa ragione alla medesima esclusione si sarebbe pervenuti anche in via interpretativa, in assenza dell’elencazione dell’art. 2 d.lgs. n. 150/2011.

Discutibile è, invece, la scelta del legislatore delegato di ammettere l’applicabilità dell’art. 421, co. 2, per quanto riguarda i poteri istruttori del giudice, ma prevedendo – come abbiamo visto – che tali poteri non possono essere esercitati al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile (quindi, nella sostanza, il co. 2 dell’art. 421 c.p.c. non troverà applicazione). Gli ampi poteri istruttori ufficiosi, previsti da tale disposizione, non costituiscono un favor per il lavoratore, potendo essere esercitati anche a vantaggio del datore di lavoro. Non si comprende, dunque, di quale indicazione della legge delega si sia avvalso il legislatore delegato per giustificare una simile soluzione e per consentire di superare il dubbio che qui abbia operato in eccesso di delega.

E lo stesso discorso deve valere per l’esclusa applicabilità degli artt. 426 e 427 c.p.c., in caso di errore nella scelta del rito in primo grado, e 439, per l’errore di scelta del rito rilevata in appello. Anche in questo caso siamo in presenza di disposizioni del rito del lavoro che nulla hanno a che vedere con la specificità delle controversie individuali di lavoro, ma che – più semplicemente – sono parte integrante della disciplina di tale rito.

È singolare, poi, che l’applicabilità di queste ultime disposizioni del codice venga esclusa solo perché il legislatore delegato ha ritenuto opportuno introdurre una nuova disciplina del mutamento del rito nell’art. 4 del d.lgs. in esame, che vale solo per le controversie in esso richiamate. Ed anche in questo caso senza che, per operare in tal senso, si riesca a rinvenire nella legge delega il necessario supporto, che consenta di fugare il dubbio dell’eccesso di delega nell’operato del legislatore delegato.

2.1 I procedimenti improntati al modello del procedimento sommario di cognizione “adattato”

Nel capo III del d.lgs. vengono individuati, invece, i procedimenti speciali improntati al modello del procedimento sommario di cognizione regolato dagli artt. 702 bis, ter e quater c.p.c.

Si tratta delle controversie in materia di: liquidazione degli onorari e diritti degli avvocati (art. 14); opposizione al decreto di pagamento delle spese di giustizia (art. 15); immigrazione, riconoscimento della protezione internazionale e ricongiungimento familiare (artt. 16-20); trattamento sanitario obbligatorio (art. 21); contenzioso elettorale (artt. 22-24); riparazione a seguito di illecita diffusione di intercettazioni telefoniche (art. 25); provvedimenti disciplinari a carico dei notai e dei giornalisti (artt. 26 e 27); discriminazione (art. 28); opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (art. 29); attuazione delle sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria (art. 30).

Anche in questo caso, tuttavia, si ritrovano alcune differenze rispetto alla disciplina del procedimento sommario di cui agli artt. 702 bis-702 quater, e dunque anche con riferimento a questo rito occorre distinguere fra il modello “codicistico” e quello “adattato” del d.lgs. n. 150/2011. Infatti, alle differenze rispetto al procedimento sommario “codicistico”, che emergono dalle singole disposizioni sulle diverse categorie di controversie sottoposte a tale rito dal d.lgs. n. 150/2011 (artt. da 14 a 30), vanno aggiunte le specifiche disposizioni indicate dall’art. 3, che riguardano la generalità delle controversie sottoposte a questo modello processuale. Quest’ultimo, infatti, stabilisce che «nelle controversie disciplinate dal capo III, non si applicano i commi secondo e terzo dell’articolo 702 ter del codice di procedura civile», ovvero la possibilità di dichiarare inammissibile la domanda (ove non rientrante nell’ambito di applicazione del procedimento sommario) e la possibilità per il giudice di disporre mutamento del rito da sommario in procedimento a cognizione piena ed esauriente.

Mentre l’inapplicabilità del co. 3 dell’art. 702 ter c.p.c. è una conseguenza della legge delega, che imponeva di non prevedere la possibilità di conversione del rito sommario in rito ordinario, l’esclusione del co. 2 dello stesso art. 702 ter si giustifica solo con la scelta del legislatore delegato di disciplinare in modo diverso il mutamento del rito in caso di errore nella scelta del rito applicabile.

Inoltre, ad ulteriore modifica della disciplina codicistica sul procedimento sommario il legislatore delegato nel co. 2 del citato art. 3, adatta in qualche modo l’applicazione del rito in questione alle controversie di competenza del giudice collegiale ed aggiunge che «quando la causa è giudicata in primo grado in composizione collegiale, con il decreto di cui all’articolo 702 bis, terzo comma, del codice di procedura civile il presidente del collegio designa il giudice relatore. Il presidente può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio».

Sennonché, è proprio la scelta di utilizzare il procedimento sommario anche per controversie di competenza del tribunale in composizione collegiale che appare discutibile. E questo, tenendo conto, da un lato, del fatto che l’art. 702 bis c.p.c. limita l’applicazione di tale procedimento, proprio per le caratteristiche di semplificazione che presenta, alle sole controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica e, dall’altro lato, del fatto che l’opzione del legislatore a favore della competenza del tribunale collegiale (art. 50 bis c.p.c.) sembra essere di per sé un indice dell’assenza del criterio fondamentale della «semplificazione della trattazione o dell’istruzione», che la legge delega del 2009 indicava come criterio al quale ispirarsi nel selezionare le controversie da sottoporre al procedimento sommario (v. supra, § 1.2).

2.2 I procedimenti ricondotti al rito ordinario

Infine, il capo IV del d.lgs. n. 150/2011, indica le controversie «regolate dal rito ordinario» (art. da 31 a 33), ovvero le controversie in materia di rettificazione e di attribuzione di sesso (art. 31), le opposizioni sulle riscossioni delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici (art. 32) e le controversie in materia di liquidazione degli usi civici (art. 33). In realtà, in questi casi, l’intervento del legislatore delegato è del tutto inutile, visto che le controversie prese in considerazione, già sulla base della previgente disciplina, erano sottoposte al processo ordinario di cognizione di cui agli artt. 163 ss. c.p.c.4

I profili problematici. La prevista inappellabilità, in taluni casi, dell’ordinanza sommaria

Numerosi sono i profili problematici che emergono dal nuovo testo normativo, alcuni dei quali anche di rilevanza costituzionale.

Anzitutto, con riferimento ai procedimenti richiamati nel capo III del d.lgs. n. 150/2011 e regolati secondo il modello del procedimento sommario di cognizione, il legislatore delegato ha inopinatamente previsto (con soluzione di dubbia legittimità costituzionale5, alla luce degli artt. 3, 24, co. 2, e 111, co. 2, Cost. e delle motivazioni addotte a sostegno di questa soluzione)6 che, per alcuni procedimenti l’ordinanza con la quale si chiude il primo grado del rito sommario sia inappellabile. Questa scelta riguarda, in particolare, i procedimenti in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato (art. 14), quelli di opposizione a decreto di pagamento delle spese di giustizia (art. 15) o quelli in materia di espulsione degli stranieri non appartenenti all’Unione europea (art. 18). Ai quali, evidentemente, vanno aggiunti anche i procedimenti che si svolgono in unico grado davanti alla corte d’appello (come, ad es., quelli di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità dell’art. 29). Tale soluzione ci pare si ponga in evidente contrasto con la volontà del legislatore delegante, sia anch’essa viziata da eccesso di delega e soprattutto contrasti sia con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sia con l’effettività del diritto di difesa e del contraddittorio di cui agli artt. 24, co. 2, e 111, co. 1 e 3, Cost.7

Nella Relazione illustrativa la scelta viene giustificata con l’esigenza di conservare «quanto stabilito dall’attuale disciplina quale effetto processuale speciale, in ossequio alle previsioni della legge di delega (art. 54, 2° comma, lettera c della legge n. 69 del 2009)».

In realtà, come abbiamo già visto (supra, § 1.2), l’art. 54, co. 2, lett. c), l. n. 69/2009 faceva riferimento non alla conservazione di disposizioni della legislazione speciale previgente, che consentissero effetti processuali non consentiti dalla disciplina del “rito di destinazione”, quanto piuttosto e più ragionevolmente le disposizioni finalizzate a produrre effetti sostanziali di tutela della situazione soggettiva, che non avrebbero potuto conseguirsi con la disciplina codicistica del “rito di destinazione”. E dunque, non regge il vaglio della conformità ai criteri della legge delega la giustificazione offerta dal legislatore delegato circa la scelta di sopprimere, in taluni casi, l’appello avverso l’ordinanza che chiude il primo grado del procedimento sommario. Va, peraltro, osservato che, se anche si volesse accedere ad una diversa interpretazione del limite posto dal legislatore delegante, diventerebbe comunque difficile ammettere sul piano della ragionevolezza, e dunque del rispetto dell’art. 3 Cost., che, ad identità di rito applicabile, un determinato effetto processuale (come, nel caso di specie, l’inappellabilità dell’ordinanza sommaria) si produca per determinate controversie (nel caso di specie, la liquidazione degli onorari degli avvocati, la liquidazione delle spese di giustizia, l’opposizione al decreto di espulsione dello straniero non cittadino europeo e quelle decise dalla corte d’appello quale giudice di primo grado) e non per le altre ipotesi, alle quali il medesimo rito si applica, senza che questa differente soluzione processuale trovi una giustificazione sul piano delle peculiarità della situazione sostanziale tutelata.

Né si può sorvolare sull’incidenza che questa soluzione ha sul piano della salvaguardia del diritto di difesa e del contraddittorio. Se l’appello sui generis dell’art. 702 quater c.p.c. è da considerare – per le caratteristiche che assume il primo grado del procedimento sommario (come, del resto, ha confermato lo stesso legislatore nell’escludere proprio per il procedimento sommario di cognizione l’applicabilità dei nuovi artt. 348 bis e ter c.p.c. introdotti con il d.l. 22.6. 2012, n. 83, convertito in l. 7.8.2012, n. 134) – il rimedio idoneo ad assicurare la pienezza e l’effettività del diritto di difesa e del contraddittorio, esso non sopporta deroghe se non in violazione – oltre che dell’art. 3 Cost. – degli artt. 24, co. 2, e 111, co. 1 e 2, Cost.

Occorre, peraltro, osservare che aver escluso l’appello avverso l’ordinanza che chiude il primo grado del procedimento sommario non solo pone i già visti problemi di rilevanza costituzionale, ma comporta anche l’inapplicabilità dell’art. 702 quater c.p.c., che disciplina appunto l’appello avverso tale ordinanza. E dunque, l’inapplicabilità anche della disposizione di cui alla prima parte del co. 1 di tale art. 702 quater, laddove si prevede espressamente che solo l’ordinanza non appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione «produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c.»: se l’ordinanza non è appellabile evidentemente non è neanche idonea ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale. E, se non è idonea ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale, occorre anche riconoscere che, in questo caso, dell’ordinanza sommaria si producono solo gli effetti indicati dal co. 6 dell’art. 702 ter, ovvero gli effetti meramente esecutivi. Né è possibile forzare a tal punto il testo del co. 1 dell’art. 702 quater fino a ritenere che la produzione degli effetti di cui all’art. 2909 c.c. si abbia sia quando l’ordinanza, pur appellabile, non sia stata in concreto sottoposta ad appello, sia quando l’ordinanza non sia affatto appellabile. Ragionare in questi termini, infatti, significa tradire la volontà del legislatore del 2009, che, nell’introdurre il nuovo procedimento sommario di cognizione, pone – come già evidenziato in altra sede – la stretta correlazione fra l’esperibilità dell’appello (e dell’appello sui generis dell’art. 702 quater) e la possibilità che l’ordinanza sommaria acquisti gli effetti propri dell’art. 2909 c.c.

3.1 La disciplina “speciale” sul mutamento del rito

Come abbiamo già detto, il legislatore delegato ha anche ritenuto opportuno – senza che dalla legge delega emergesse alcuna indicazione in proposito – disciplinare in maniera del tutto autonoma l’ipotesi dell’errore nella scelta del rito applicabile e del conseguente mutamento del rito “errato” in quello “corretto”. Stabilisce, infatti, l’art. 4 del d.lgs. n. 150/2011 che, in caso di errore nella scelta del rito applicabile, il mutamento è disposto con ordinanza pronunciata, anche d’ufficio, dal giudice non oltre la prima udienza di comparizione delle parti. In questo caso, – aggiunge – «il giudice fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria» (co. 3), ma «restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento» (co. 5).

A parte i dubbi di eccesso di delega, che anche in questo caso nascono dall’operato del legislatore delegato, stante – come detto – l’assenza nella legge delega di un’indicazione che lo autorizzasse a regolare anche questo profilo in maniera diversa da come è regolato dal codice, la finalità della disposizione è di prevedere una disciplina ad hoc per l’ipotesi in cui, in una delle controversie interessate dal d.lgs. n. 150/2011, l’attore abbia errato nella scelta del rito applicabile, non applicando il rito espressamente indicato dal legislatore delegato. Stando alla formulazione dell’art. 4, cioè, per effetto dell’errore nell’individuazione del rito applicabile in concreto, è stato scelto un rito che non è quello indicato dal d.lgs. n. 150/2011. Per effetto di questa scelta, dunque, allo stato attuale il medesimo fenomeno processuale (errore di rito e mutamento) è sottoposto ad un duplice regime disciplinare: quello degli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., che riguarda l’errore nella scelta del rito nei rapporti fra processo ordinario e rito del lavoro, e quello dell’art. 4 d.lgs. n. 150/2011, che, invece, riguarda l’errore nella scelta del rito per le controversie sottoposte dallo stesso d.lgs. al rito ordinario, a quello del lavoro o al procedimento sommario di cognizione.

In sede di prima applicazione la disposizione è stata ritenuta applicabile anche con riferimento all’ipotesi in cui l’errore nella scelta del rito abbia anche determinato una formulazione viziata dell’atto introduttivo del giudizio. Ad es., nel caso in cui sia stato introdotto un procedimento che prima del d.lgs. 150/2011 era sottoposto alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, e quindi con un atto che riprende il contenuto del ricorso camerale, e non, invece, come stabilito dalla nuova disciplina, con un ricorso avente il contenuto del ricorso ex art. 702 bis c.p.c., introduttivo del procedimento sommario di cognizione8. In effetti, è ragionevole ritenere che, laddove dall’atto introduttivo del giudizio emergano vizi dovuti al fatto che l’attore abbia errato nella scelta del rito, esigenze di economia processuale inducano a privilegiare la strada del mutamento del rito piuttosto che quella del rigetto della domanda per vizi non sanati dello stesso atto introduttivo.

Quanto, poi, al dies a quo il giudice possa pronunciare l’ordinanza di mutamento del rito di cui al citato art. 4, esso non viene fissato, mentre lo stesso art. 4 si limita a fissare il dies ad quem per tale pronuncia (rectius: per il rilievo di tale vizio), e cioè la prima udienza, con conseguente esclusione del rilievo in appello (in contrasto con quanto previsto dall’art. 439 c.p.c.). Proprio giocando sulla formulazione dell’art. 4, co. 2 («l’ordinanza … viene pronunciata dal giudice, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti») alcuni giudici di merito hanno ritenuto che il mutamento del rito in questione possa essere disposto anche prima dell’udienza9 o addirittura con lo stesso decreto di fissazione della stessa prima udienza10.

In realtà, da un lato, il richiamo dell’art. 4 alla forma dell’ordinanza (e non del decreto) e, dall’altro lato, l’esigenza di salvaguardare il contraddittorio fra le parti, ai sensi dell’art. 101, co. 2, c.p.c., anche su questo specifico profilo rilevato d’ufficio dal giudice e la circostanza che la formula «non oltre la prima udienza» utilizzata dal legislatore in altre disposizioni (ad es., nell’art. 38, co. 3, c.p.c. per il rilievo ufficioso dell’incompetenza) sia stata pacificamente interpretata nel senso che il rilievo debba avvenire comunque durante l’udienza inducono a ritenere che questa stessa debba essere la conclusione anche con riferimento al rilievo ufficioso dell’errore di rito ed alla conseguente pronuncia dell’ordinanza di mutamento.

L’art. 4, pur disciplinando in generale il mutamento del rito, non si sofferma sulle modalità di conversione del giudizio dal rito “errato” a quello “corretto”. Solo il co. 3, infatti, si limita a prevedere che «quando la controversia rientra tra quelle per le quali il presente decreto prevede l’applicazione del rito del lavoro, il giudice fissa l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria». Il fatto che l’art. 4, co. 3, si limiti a prendere in considerazione la sola ipotesi in cui il mutamento avvenga (da un altro rito) a favore del rito del lavoro lascerebbe intendere che solo in questo caso possa esserci l’esigenza di un raccordo fra il rito “errato” e quello “corretto”. Ma evidentemente così non è. Si pensi, ad es., all’ipotesi in cui il giudizio sia stato introdotto (erroneamente) con le forme del rito del lavoro e debba essere mutato nel procedimento sommario di cognizione o in quello ordinario. Per colmare la lacuna, dunque, non sembra ci sia altra strada che quella di dare rilevanza alla ratio sottesa al co. 3 dell’art. 4 e ritenere, di conseguenza, che anche negli altri casi di mutamento del rito il giudice che lo disponga debba anche fissare la prima udienza prevista per il rito corretto (a seconda dei casi, l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., se il rito corretto sia quello ordinario, o l’udienza di cui all’art. 702 ter c.p.c., se sia il procedimento sommario di cognizione) e – ove necessario – un termine perentorio per l’eventuale integrazione degli atti introduttivi.

Quanto, poi, agli effetti che determina il mutamento del rito, il co. 5 dell’art. 4 distingue fra gli effetti che esso determina per la domanda introduttiva e quelli che riguardano le preclusioni già maturate in applicazione del rito “errato”. Anzitutto, l’errore nella scelta del rito comporta semplicemente il mutamento del rito, con la piena conservazione degli effetti sostanziali e processuali dell’originaria domanda introduttiva del rito “errato”; e ciò in piena aderenza con quanto già emerge, sia pure implicitamente, dagli artt. 426 e 427 c.p.c. Con la conseguenza che – ai sensi dell’art. 39, co. 3, c.p.c. – se l’atto introduttivo del rito “errato” assume la forma del ricorso, questi effetti si producono dal suo deposito in cancelleria, se assume la forma della citazione, si producono dal momento dell’avvenuta notificazione. Ciò, peraltro, – come puntualizza anche la Relazione illustrativa del d.lgs. – «afferisce unicamente agli effetti della domanda e non può naturalmente incidere sulla facoltà della parte convenuta di provocare il mutamento del rito, con apposita istanza tempestivamente proposta».

Invece, con riferimento al regime di preclusioni applicabile in concreto nell’ipotesi in cui si sia verificato un errore nella scelta del rito e vi sia l’esigenza di disporre il mutamento, il co. 5 del medesimo art. 4 stabilisce, in termini generali, che «restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento»11.

3.2 La sospensione dell’efficacia del provvedimento amministrativo impugnato

Anche il profilo della sospensione del provvedimento amministrativo impugnato viene autonomamente disciplinato con una soluzione anch’essa problematica. Ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 150/2011, infatti, la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento (di natura amministrativa) impugnato in sede giurisdizionale è disposta (sentite le parti) con ordinanza non impugnabile quando ricorrono «gravi e circostanziate ragioni da indicare esplicitamente in motivazione»12. È questo il procedimento sospensivo “ordinario” e presuppone la preventiva instaurazione del contraddittorio fra le parti. È anche possibile, peraltro, che la sospensione sia disposta – sul modello dell’art. 669 sexies, co. 2, c.p.c. – con decreto pronunciato inaudita altera parte fuori udienza dallo stesso giudice quando vi sia un «pericolo imminente di un danno grave e irreparabile»; ma la sospensione così disposta diviene inefficace ove non sia confermata, entro la prima udienza successiva, con la prescritta ordinanza (così il co. 2 dell’art. 5).

Si tratta di una disciplina che trova applicazione in tutti i giudizi a carattere oppositivo disciplinati dal d.lgs. n. 150/201113 (salva diversa disposizione)14 ed innova significativamente, rispetto alla disciplina contenuta nei procedimenti speciali “di derivazione”, sia per quanto riguarda i termini, sia per i presupposti che sono richiesti ai fini della pronuncia della sospensione e per la procedura da seguire. Anche nei confronti di questa soluzione adottata dal d.lgs. n. 150/2011, tuttavia, è lecito nutrire dubbi di eccesso di delega, essendo evidente che, nel caso di specie, siamo in presenza di un sub-procedimento, connesso a quello principale, ma di natura cautelare, e dunque, in quanto tale, sottratto all’ambito applicativo della legge delega.

Anche nei confronti di questa soluzione adottata dal d.lgs. 150/2011, tuttavia, è lecito nutrire dubbi di eccesso di delega, essendo evidente che, nel caso di specie, siamo in presenza di un sub-procedimento, connesso a quello principale, ma di natura cautelare, e dunque, in quanto tale, sottratto all’ambito applicativo della legge delega. Né può valere, in proposito, il richiamo, che la Relazione illustrativa del d.lgs. fa all’art. 54, co. 4, lett. c), della l. n. 69/2009, che imponeva al legislatore delegato il mantenimento delle norme contenute nella disciplina speciale “di derivazione” destinate a produrre «effetti speciali che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile». Ed infatti, la necessità per il legislatore delegato di salvaguardare tali «effetti speciali» non implicava che lo stesso legislatore delegato potesse intervenire anche sui presupposti che consentono il loro prodursi, come fa, invece, l’art. 5 laddove subordina la concessione del provvedimento cautelare sospensivo alla sussistenza di «gravi e circostanziate ragioni».

Peraltro, anche ove non si convenisse sul dubbio di eccesso di delega e si ammettesse che nel caso di specie ci fosse l’esigenza di mantenere in vita la disciplina speciale “di derivazione”, resta in ogni caso difficilmente giustificabile, sul piano della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e della piena garanzia del diritto di difesa (art. 24 Cost.), anche alla luce di quanto stabilito dalla stessa Corte costituzionale nella famosa pronuncia n. 253/199415 sull’esperibilità del reclamo di cui all’art. 669 terdecies c.p.c. avverso il rigetto dell’istanza cautelare, la scelta dell’art. 5 d.lgs. 150/2011 di non ammettere la reclamabilità (ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.) dell’ordinanza che disponga sull’istanza di sospensione. E questo, nonostante l’indiscussa natura cautelare del provvedimento di sospensione e nonostante la diversa soluzione seguita in proposito sia dalla legislazione speciale “di provenienza”16, sia dall’art. 55 d.lgs. n. 104/2010 (cd. codice del processo amministrativo), che ammette l’appello al Consiglio di Stato dei provvedimenti sospensivi assunti dal giudice amministrativo. La mancata esperibilità del reclamo, infatti, oltre a determinare un’evidente disparità di trattamento rispetto alla disciplina sugli altri provvedimenti cautelari, concretizza una vera e propria «amputazione del diritto di difesa» – come hanno rilevato i giudici costituzionali nella richiamata sent. n. 253/1994 – in quanto priva le parti della possibilità di ottenere «da parte di un giudice diverso e collegiale, il controllo sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela».

3.3 La non riuscita «semplificazione e riduzione» dei riti

In conclusione, sembra sostanzialmente fallito il pur meritorio tentativo della legge delega del 2009 di avviare un processo di riduzione dei numerosi riti speciali di cognizione presenti nel nostro sistema processuale. Purtroppo, dietro l’apparente e propagandata riforma della semplificazione e riduzione dei riti, non si intravedono soluzioni in grado di incidere in maniera significativa su quest’annoso problema. È evidente che la semplificazione e riduzione dei riti non si realizza semplicemente inserendola nel titolo di un provvedimento legislativo, se il contenuto dello stesso segue una diversa (se non contraria) direzione e soprattutto se questi obiettivi espressi dal legislatore delegante vengono intesi dal delegato in maniera decisamente “riduttiva”. È facile prevedere, dunque, – anche senza considerare i numerosi dubbi di eccesso di delega che sono emersi nelle pagine che precedono ed alcune discutibili, anche sul piano del rispetto delle garanzie costituzionali, scelte operate dal legislatore delegato – la scarsa o nulla incidenza pratica che avrà un testo normativo come quello che emerge dal d.lgs. n. 150/2011. Ed anzi, paradossalmente la già sovrabbondante molteplicità e frammentazione di riti speciali aumenta proprio per effetto del nuovo intervento normativo, se si considera che, da un lato, buona parte degli articoli del d.lgs. n. 150/2011 che vanno dal 6 al 33 è destinata a regolare una serie di riti speciali diversi l’uno dall’altro, anche quando siano ispirati al medesimo modello processuale, e che, dall’altro lato, la nuova disciplina processuale interessa solo i processi di nuova instaurazione e non anche quelli già pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011 (6 ottobre 2011), ai quali continua ad applicarsi il previgente rito speciale (art. 36). A questo risultato, già di per sé poco commendevole, si aggiunge l’ulteriore “adattamento” che lo stesso d.lgs. compie della disciplina “codicistica” dei riti speciali del lavoro e sommario di cognizione: “adattamento” che, di fatto, significa duplicazione degli stessi riti di derivazione codicistica e quindi un’ulteriore proliferazione di riti speciali (anche di quelli di fonte codicistica). Con buona pace della fin troppo sbandierata (ma, nei fatti, scarsamente incisiva) «semplificazione e riduzione» dei riti civili.

Note

1 Su questo fenomeno di abuso del ricorso al procedimento in camera di consiglio come rito utilizzabile anche per la materia contenziosa rinviamo a Carratta, A., Processo camerale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, 928 ss.

2 Sulla quale v. Carratta, A., in Mandrioli, C.-Carratta, A., Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 208.

3 Per simili rilievi v. già Carratta, A., La semplificazione dei riti civili: i limiti dello schema di Decreto Legislativo presentato dal Governo, in www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti; poi Id., La «semplificazione» dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012, 18. Nello stesso senso Mandrioli, C., Diritto processuale civile, XXII ed. a cura di A. Carratta, III, Torino, 2012, cap. VI; Sassani, B., Introduzione, in La semplificazione dei riti, a cura di B. Sassani e R. Tiscini, Roma, 2011, XI; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, IV, VI ed., Milano, 2011, 104; Proto Pisani, A., La riduzione e la semplificazione dei riti (d.leg. 1° settembre 2011 n. 150): note introduttive, in Foro it., 2012, V, 73; Balena, G., I «modelli processuali», ibidem, 76; Saletti, A., La semplificazione dei riti, in Riv. dir. proc., 2012, 727; per una diversa conclusione, tuttavia, Consolo, C., Prime osservazioni introduttive sul d.lgs. n. 150/2011 di riordino (e relativa «semplificazione») dei riti settoriali, in Corr. giur., 2011, 1488; Chizzini, A., «Concinnatio». Note introduttive al d.leg. 250/11 sulla cd. semplificazione dei riti, in Giusto proc. civ., 2011, 969.

4 In proposito v. anche Carratta, A., La «semplificazione» dei riti, cit., 73; Saletti, A., op. cit., 730; Caporusso, S., Il «modello processuale» del rito ordinario di cognizione, in Foro it., 2012, V, 208.

5 Carratta, A., La «semplificazione» dei riti, cit., 49.

6 Su queste discutibili motivazioni v. Carratta, A., La «semplificazione» dei riti, cit., 49.

7 Nel senso che, con riferimento all’esclusione della possibilità di disporre il mutamento del rito, che, peraltro, era già prevista dai principi e criteri direttivi della legge delega, quando si tratti di controversie che debbano svolgersi in unico grado con le forme del processo sommario di cognizione (nel caso di specie, quelle di cui all’art. 29 d.lgs. n. 150/2011, di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità), vi sia il sospetto di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., v. App. Firenze, 8.5.2012 (in G.U. 12.9.2012, n. 36); nello stesso senso con riferimento alla medesima fattispecie App. Napoli, 13.7.2012, r.g. n. 162/2012, inedita.

8  Così, con riferimento ad una fattispecie rientrante nell’art. 30, co. 6, d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (t.u. imm.), che in precedenza era sottoposta al procedimento camerale ed ora, ai sensi dell’art. 20, co. 1, d.lgs. n. 150/2011, al procedimento sommario di cognizione, Trib. Varese, 10.11.2011, in Foro it., 2011, I, 3449 ss., con osservazioni di S. Izzo.

9  Così Trib. Varese, 10.11.2011, in Foro it., 2011, 3449 s. Lo stesso Tribunale di Varese, peraltro, in altra pronuncia sulla medesima questione ha ritenuto che i vizi dell’atto introduttivo, derivanti dall’errore del ricorrente nella scelta del rito applicabile, ancor prima di determinare l’opportunità di disporre il mutamento del rito di cui all’art. 4 d.lgs. n. 150/2011, potrebbero essere sanati dalla costituzione della parte resistente, la quale accetti il contraddittorio senza riserve, analogamente a quanto avviene secondo la disciplina dell’art. 164 c.p.c. (così Trib. Varese, 24.10.2011, in Foro it., 2011, I, 3450 ss.). Invece, nel senso che in un’identica fattispecie il giudice debba procedere all’applicazione diretta della nuova disciplina, e dunque fissare l’udienza di cui all’art. 702 ter c.p.c., senza preventiva ordinanza di mutamento del rito ai sensi dell’art. 4 citato, Trib. Prato, 8.11.2011, ibidem, 3449 ss.

10 Così Trib. Lamezia Terme, 9.11.2011, in Giur. it., 2012, 1384 con nota contraria sul punto di Cossignani, F., Note sul mutamento del rito ex art. 4 D.Lgs. n. 150/2011.

11 In argomento v. anche Carratta, A., La «semplificazione» dei riti, cit.,75 ss.; Consolo, C., Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino, 2011, 236; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, cit., IV, 110; Izzo, S., Mutamento di rito, in Foro it., 2012, V, 82.

12 Per una prima applicazione v. Trib. Varese, 1.2.2012, in IlCaso.it.

13 Lo si ritrova espressamente richiamato dagli artt. 6, co. 7; 7, co. 6; 10, co. 4; 15, co. 4; 17, co. 5; 32, co. 3, del d.lgs. n. 150/2011.

14 Come accade nell’art. 17, co. 5, d.lgs. n. 150/2011, dove, dopo aver previsto che «l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’art. 5», si aggiunge che «l’allontanamento dal territorio italiano non può aver luogo fino alla pronuncia sull’istanza di sospensione, salvo che il provvedimento sia fondato su una precedente decisione giudiziale o su motivi imperativi di pubblica sicurezza. Il giudice decide sull’istanza di sospensione prima della scadenza del termine entro il quale il ricorrente deve lasciare il territorio nazionale».

15 C. cost., 23.6.1994, n. 253, in Foro it., 1994, I, 2005 ss., con nota di B. Capponi.

16 V., ad es., l’art. 204 bis, co. 3-ter, c.d.s. (d.lgs. 30.4.1992, n. 285) che espressamente prevedeva l’impugnabilità con ricorso in tribunale dell’ordinanza sospensiva dell’esecutività del provvedimento impugnato.

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