La storiografia napoletana tra Umanesimo e Barocco

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Storia e Politica (2013)

La storiografia napoletana tra Umanesimo e Barocco

Aurelio Musi

Dalla politica alla cultura: Giovanni Pontano

Giovanni (in seguito Giovanni Gioviano) Pontano (1429-1503) giunge a Napoli, al seguito di Alfonso d’Aragona, nel 1448. Successivamente è, con Antonio Beccadelli, detto il Panormita, in missione diplomatica a Firenze e a Venezia. Al servizio di Ferrante d’Aragona, lo accompagna nei suoi spostamenti sia durante la guerra contro gli Angioini, sia contro i baroni ribelli. Regio consigliere dal 1462, cittadino napoletano dal 1471, entra nella Regia Camera della Sommaria, il maggiore organismo finanziario del Regno, nel 1475. Tra il 1475 e il 1482 è al servizio del duca di Calabria e di Ippolita Sforza. È il maggiore ispiratore della pace di Bagnolo nel 1484, ennesimo tentativo di restaurare le condizioni della pace di Lodi. Durante la seconda congiura dei baroni, è ambasciatore presso papa Innocenzo VIII e uno dei protagonisti della pace del 1486. Dopo l’esecuzione di Antonello Petrucci, uno dei leader della congiura antiaragonese dei baroni, passa a ricoprire la carica di capo della segreteria di re Ferrante d’Aragona, del quale celebra le gesta nella sua opera storica più importante, il De bello neapolitano. Nel 1494, alla morte di Ferrante, è segretario di Alfonso II. All’arrivo di Carlo VIII a Napoli, Pontano consegna al re francese le chiavi delle fortezze della capitale.

A partire dal 1495 si svincola dalla vita politica attiva. Quella di Pontano, come del resto altre di suoi contemporanei, è una carriera esemplare che dall’amministrazione e dalla politica si dirige verso la cultura: egli anzi inaugura questo percorso di rapporti fra politica e cultura destinato a durare a lungo nella storia del Mezzogiorno. Benedetto Croce scrive che

in Napoli la cultura ebbe il suo vero centro nell’accademia, che fin dal 1443 il re Alfonso raccoglieva nella sua biblioteca di Castelnuovo, ed era diretta dal Panormita e fu la prima in Italia, famosa con il nome che più tardi le fu dato di Pontaniana (Croce 1992, p. 130).

Anche su questo versante Pontano svolge una funzione pionieristica: perfeziona un organismo come l’accademia destinato a produrre e a mettere in circolazione le opere più importanti dell’Umanesimo napoletano. L’Accademia pontaniana riunisce in un sodalizio un gruppo intellettuale, formato da personalità come Tristano Caracciolo, Pandolfo Collenuccio, Iacopo Sannazzaro, accomunato da un progetto storico-politico alternativo agli obiettivi della congiura baronale. Quel progetto era teso a realizzare la pace e il consolidamento del Regno di Napoli sotto un sovrano nello schema internazionale della «libertà d’Italia» e nello schema interno dell’alleanza tra nobiltà e monarchia nazionalizzata. Anche per questo il trauma del 1494 risulterà più doloroso e bruciante.

L’autocoscienza della nazione napoletana: da Di Costanzo a Summonte

Il fine della storiografia napoletana tra 16° e 17° sec. è quello di costruire l’autocoscienza di una nazione napoletana che, pur tra motivazioni e spinte di natura ideologica diverse, presenta alcuni caratteri ben definiti e ricorrenti: la centralità e il primato della capitale come rappresentazione e sintesi dell’intero Regno; la fedeltà dinastica; la ricerca di uno spazio politico autonomo e omogeneo, capace di legittimare e difendere l’unità e la relativa autonomia dello Stato di appartenenza nei confronti della potenza dominante o egemonica. La prospettiva nazionale, nei termini suindicati, è presente soprattutto negli storici che, a partire dalla metà del Cinquecento, riflettono sul cambio di dinastia e sul governo spagnolo nel Regno. La prima fase è quella che può essere rappresentata nell’ideale della nazione aristocratica. Nelle opere storiche di Angelo Di Costanzo (1507-1591), soprattutto nella sua Historia del Regno di Napoli (pubblicata parzialmente nel 1572, 1a ed. completa 1581), in quella di Camillo Porzio (1526/1527-1580), La congiura de’ baroni (1565), nelle opere di Giulio Cesare Caracciolo, di Scipione Ammirato (1531-1601), di Giovanni Battista Carafa (1495-prima del 1572) possono variare i riferimenti ideali: la propensione nostalgica di Di Costanzo per gli Angioini più magnanimi in fatto di concessioni al potere feudale; il pregiudizio favorevole di Porzio verso il periodo aragonese. Ma l’omogeneità del blocco culturale appare in tutta la sua forza allorché si rende esplicito l’obiettivo di questa storiografia: Ammirato afferma il principio che il sovrano è obbligato a non alterare l’ordinamento di un regno conquistato con il patto di rispettare i privilegi dei sudditi; Porzio rivendica ai napoletani gli uffici e benefici del tempo dei re Aragonesi; da tutti viene ribadita un’idea di autonomia, diffusa anche presso giuristi del tempo come Marino Freccia (Frezza) e Matteo D’Afflitto, intesa come custodia gelosa e rispetto delle libertà tradizionali della nobiltà. Di Costanzo si spinge oltre: non difende solo il punto di vista aristocratico, ma individua anche la nascita della storia patria napoletana nel ducato longobardo di Benevento. Riesce dunque a stabilire l’origine a quo di un’unitaria evoluzione storica della propria nazione e a presentare l’aristocrazia come unica depositaria della coscienza nazionale.

L’opera di Porzio, La congiura de’ baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando primo, pubblicata a Roma nel 1565, rappresenta un contraltare a Di Costanzo. Tesi centrale di Porzio è che l’equilibrio tra la corona e il baronaggio dev’essere garantito dalla disciplina regia e dal rafforzamento del potere centrale, realizzati dall’avvento al trono napoletano di principi talmente potenti da rendere velleitari il confronto e il conflitto baronali.

Con Giovanni Antonio Summonte e la sua Historia della città e Regno di Napoli, i cui primi due volumi furono pubblicati tra il 1601 e il 1602, gli altri due postumi, hanno inizio il processo di professionalizzazione e standardizzazione dello storico, il progressivo definirsi dello statuto disciplinare, la più precisa dislocazione dell’Ars historica nella ratio studiorum. Si tratta di un punto della massima importanza che qualifica alcune forme della storiografia barocca non tanto come epilogo ormai estenuato di un tempo perduto, per così dire, quanto come apertura, passaggio decisivo verso la modernità. L’Historia di Summonte rappresenta il sentimento più compiuto dell’autocoscienza «nazionale» napoletana. Da questo punto di vista è riduttivo considerarla opera di storia locale. Essa piuttosto rispecchia il faticoso e drammatico iter di ricerca e di rielaborazione che alcuni Stati italiani d’antico regime hanno compiuto per definire e legittimare spazi di autonomia in condizioni di dipendenza politica da un’autorità monarchica non nazionale. In tale contesto di riferimento l’Historia di Summonte può essere letta come la rappresentazione di una coesistenza non pacifica tra le ragioni dell’integrazione e le ragioni della resistenza del Regno di Napoli nel sistema imperiale spagnolo: in un tempo storico, quello a cavallo tra Cinque e Seicento, in cui il sistema si trova al punto massimo della sua espansione a pochi anni dalla morte di Filippo II e non è ancora entrato nella fase del declino.

Il tema fondamentale dell’Historia di Summonte è la descrizione e la storia di Napoli capitale, la sua identificazione con la storia del Regno. Summonte elabora la formulazione classica della tradizione del primato di Napoli, a partire dai privilegi e dalle leggi angioine, passando per la ricostruzione della politica di Alfonso il Magnanimo, della crescita della capitale sotto Ferrante, della riconferma di capitoli e grazie da parte di Ferdinando il Cattolico.

Ma, immediatamente legato a questo tema, ve ne è un altro forse ben più importante e radicale: il modello politico di lunga durata, Napoli come repubblica libera. Per Summonte il modello originale e originario di Napoli è la fusione tra «aristocrazia» e «democrazia». Due le caratteristiche di Napoli repubblica libera dalla sua origine fin negli ultimi tempi di Augusto: il reggimento, il governo del territorio da parte dei «più»; la confederazione con Roma. Il mito della Napoli antica nella Napoli moderna, il modello della libera «republica napolitana» federata con Roma e relativamente autonoma dal potere centrale presero corpo nei decenni successivi alla pubblicazione dei primi due tomi dell’opera di Summonte. Uno dei veicoli fu l’Accademia degli Oziosi. Proprio dal nucleo di base costruito da Summonte e rielaborato da un altro storico, Francesco de’ Pietri, si svilupparono due «discorsi politici»: quello della monarchia mista, limitata, condizionata; quello, più radicale, del repubblicanesimo napoletano della rivolta del 1647-48. Non vi sono dubbi che entrambi i «discorsi politici» possano scoprire affinità, corrispondenze, relazioni con miti e modelli diffusi su scala europea nel tempo storico che precede la rivolta di Masaniello. Quel che qui si vuol ribadire è la radice di quei discorsi nella storia di Napoli e nella sua lettura storiografica.

Il popolo è e deve essere parte integrante del quadro istituzionale napoletano: è un altro passaggio chiave che colloca Summonte sulla stessa linea di altri scrittori politici come Giuseppe Imperato, Giovanni Antonio Palazzo, Camillo Tutini, autore di un’opera sull’origine dei Seggi di Napoli. Sull’antichità delle istituzioni popolari romane Summonte innesta una lunga sequenza di esemplificazioni storiche tendenti a dimostrare:

a) che la fonte più importante della legittimità del «popolo» a governare è il patto biunivoco tra sovrani e sudditi, fondato sulla loro fedeltà e disponibilità all’obbedienza verso il monarca, che riconosce in cambio il rapporto privilegiato con il «popolo»;

b) che la fedeltà è stata permanente e non ha mai vacillato; il «popolo» è quindi il miglior garante del patto tra sovrano e sudditi;

c) che il governo aristocratico risulta carente di motivazioni giuridiche proprio perché la fedeltà della nobiltà al sovrano è stata discontinua e ha subito crisi frequenti;

d) che l’alleanza dei re spagnoli con il «popolo» è garanzia di buon governo;

e) che il più ordinato «reggimento» di Napoli si fonda sull’equilibrio tra le strutture rappresentative aristocratiche e quelle «popolari», i Seggi.

La lettura dell’Historia di Summonte ci lascia percepire uno scarto evidente tra il modello politico, la ricostruzione storica e la visione della contemporaneità. La crisi che vive il Regno di Napoli alla fine del Cinquecento è ben rappresentata nell’opera. E interessanti sono i modi della sua rappresentazione, perché mettono in discussione la stessa possibilità di fondare sul mito della Napoli antica e sulla ripresa del suo modello istituzionale il destino politico della città e del Regno.

Summonte compone la sua opera in una congiuntura nella quale le ragioni dell’integrazione del Regno di Napoli nel sistema imperiale spagnolo prevalgono ancora largamente sulle ragioni della resistenza. Quello asburgico appare in tutti gli ambienti intellettuali regnicoli come l’unico ordine politico capace di garantire una linea di governo nel segno dell’equilibrio e della mediazione e la partecipazione al potere di ceti non nobili. E gli episodi dell’uccisione compiuta dalla folla dell’‘eletto del popolo’ Giovan Vincenzo Starace, i moti del 1585, minutamente descritti e con passione commentati da Summonte, e quello della rivolta campanelliana del 1599 sono più i contraccolpi interni al Mezzogiorno della crisi di fine secolo che non l’annuncio di una futura possibile rottura politica tra Regno di Napoli e Spagna. Questo rapporto di fedeltà non è mai messo in discussione da Summonte nelle sue basi di legittimità e, tutto sommato, anche di convenienza politica. Certo allo storico napoletano non sfuggono né la formazione di un nuovo equilibrio feudale nella società meridionale, né l’involuzione oligarchica delle strutture rappresentative nobiliari e popolari della capitale, né la dislocazione sempre più periferica del Viceregno entro il sistema imperiale spagnolo.

Il pessimismo contemporaneo, che circola come vena sotterranea in tutta l’opera, finisce per limitare fortemente la portata strategica di una proposta come quella di Summonte, fondata su una sintesi tra l’antico modello della Napoli repubblicana e il suo particolare statuto di autonomia riconosciuto dagli Spagnoli, un’autonomia in cui i ceti popolari avrebbero dovuto giocare un ruolo decisivo. La «nazione», la «patria» napoletana avrebbero dovuto essere la risultante di tutto questo.

Opere

G. Pontano, De bello neapolitano et De sermone, Neapoli mense Maio 1509.

C. Porzio, La congiura de’ baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando primo, in Roma 1565.

A. Di Costanzo, Historia del Regno di Napoli, Nell’Aquila 1581.

S. Ammirato, Discorsi sopra Cornelio Tacito, in Fiorenza 1598.

G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, in Napoli 1601-1602.

C. Porzio, Relazione al marchese di Mondejar, in R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1967, p. 37.

Bibliografia

E. Percopo, Pontaniana, Napoli 1902.

E. Percopo, Vita di Giovanni Pontano, Napoli 1938.

S. Bertelli, Storiografi, eruditi, antiquari e politici, in O. Cecchi, N. Sapegno, Storia della letteratura italiana. Il Seicento, Milano 1970, pp. 379-80.

E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981, pp. 286 e segg.

P. Farenga, Di Costanzo Angelo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 39° vol., Roma 1991, ad vocem.

B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano 1992.

A. Musi, Napoli spagnola. La costruzione storiografica, Salerno 2011.

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