LATINI

Enciclopedia Italiana (1933)

LATINI

Giuseppe CARDINALI

Dalle origini alla fine della monarchia romana. - È il nome del popolo che in tempo storico abitava la vasta pianura chiamata Lazio (v.). La sua lingua appartiene al ceppo indoeuropeo, e più specialmente alla famiglia delle lingue italiche propriamente dette, le quali lingue, secondo l'analisi linguistica, si distinguono in due rami: il ramo latino-falisco e il ramo umbro-sabellico od osco-umbro. Discendevano dunque i Latini da una tribù italica, che si era stanziata nella penisola in epoca preistorica. Quando? Non soltanto è impossibile stabilirne sia pure soltanto approssimativamente la data, ma è stato ed è oggetto di infinite discussioni tra archeologi e storici quale sia lo strato preistorico che seguì il momento del loro arrivo; in quale, cioè, delle epoche preistoriche esso si sia verificato. Soltanto par certo che esso non possa essere avvenuto prima dell'alba dell'età dei metalli, di quello, cioè, che si chiama il periodo eneolitico, perché il confronto delle lingue, delle religioni e delle istituzioni dei popoli indoeuropei ci persuade che la loro nazione originaria, prima della scissione e dell'irradiazione per il mondo, doveva essere in condizioni relativamente elevate di civiltà, e doveva già aver conoscenza del rame, prima che alcune sue genti pervenissero nelle sedi europee. Ma, se per ciò la discesa degl'Italici propriamente detti in Italia non può essere anteposta all'alba dell'età dei metalli, è questione quanto mai controversa se essa sia avvenuta entro l'orbita di questo periodo o dopo.

Il problema dell'attribuzione degli uni o degli altri strati archeologici agl'Italici s'intreccia intimamente con l'analogo problema relativo agli Etruschi, e molti sono i sistemi di attribuzione proposti sinora. Secondo alcuni, gl'Italici sarebbero da identificare coi palafitticoli-terramaricoli, e gli Etruschi sarebbero discesi poi nella penisola dal Nord, introducendo la civiltà detta di Villanova, cioè della prima età del ferro (Helbig, Pigorini, Undset, Gsell, Martha); secondo altri, questa civiltà si sarebbe sviluppata spontaneamente da quella terramaricola, dovuta sempre agl'Italici, e gli Etruschi sarebbero approdati dall'Oriente sulle coste dell'Etruria nel corso dell'età villanoviana, e loro apparterrebbero le tombe a fossa della Toscana (Ghirardini, Körte); secondo altri, gl'Italici sarebbero da identificarsi coi Villanoviani, e gli Etruschi sarebbero annunciati nella Toscana soltanto dalle tombe a camera (Brizio, Pellegrini, Mariani); secondo altri finalmente, gl'Italici sarebbero giunti in Italia nell'età eneolitica prima degli Etruschi, e questi si dovrebbero identificare con i palafitticoli-terramaricoli arrivati dopo, ma sempre nel corso del periodo eneolitico (De Sanctis).

Tra i diversi sistemi, sebbene non sia possibile uscire dal campo congetturale, sembra preferibile l'ultimo, almeno in quanto esso postula la venuta degl'Italici nel periodo eneolitico, essendo questa determinazione corroborata dal considerare che quando i Greci giunsero in Sicilia nella prima età del ferro, la trovarono occupata da Siculi e Sicani, che tutto fa credere fossero di stirpe italica, sciamati nell'isola quando già i loro padri avevano occupato la parte meridionale della penisola; e l'esplorazione preistorica ha dimostrato che la civiltà con la quale vennero allora a contatto i Greci, la civiltà, cioè, siculo-sicana, si ricollega, senza soluzione di continuità, alla precedente civiltà eneolitica, onde par lecito inferire che questa civiltà in Sicilia appartenesse già agl'Italici, e che questi, a maggior ragione, fossero arrivati nella penisola nel corso dell'età eneolitica.

Si noti che Siculi e Sicani molto probabilmente appartenevano al gruppo latino-falisco, come sembra si possa indurre dalla formazione stessa dei loro nomi e da resti delle loro lingue passati nella parlata dei Greci colonizzatori, e quindi allo stesso gruppo noi dovremmo assegnare gli Enotrî dell'Italia meridionale donde si erano diramati gl'Italici che passarono in Sicilia, come a esso appartenevano pure gli Ausonî della Campania. A tutte queste stirpi si sovrapposero poi genti del gruppo umbro-sabello, che occuparono appunto già in piena luce di storia la Campania, e poi la Lucania e il Bruzzio. Si può quindi ritenere certo che le genti di stirpe latina fossero nella remota antichità molto più largamente diffuse sul versante occidentale della penisola, che non nel solo Lazio.

Erano dunque probabilmente pervenuti i Latini nel Lazio sin dall'età eneolitica e sembra che a loro appartengano le tombe di inumati di quell'età non meno che le necropoli albane, del principio dell'età del ferro o della fine di quella del bronzo, che rispecchiano una civiltà esterna che ha somiglianze con quella villanoviana, ma insieme molte sopravvivenze del periodo eneolitico: il rito dell'inumazione vi è costantemente sostituito dal rito della cremazione, ma il cinerario non ha la forma biconica tipica dell'ossuario di Villanova, bensì quella a foggia di capanna che si riscontra anche nell'Etruria e che certamente ha avuto origine dal concetto, al quale s' ispirarono in varie forme i popoli litici ed eneolitici, che il sepolcro debba imitare l'abitazione dei vivi. In pari tempo nei vasi accessorî che accompagnano l'urna a capanna si sorprende spesso l'imitazione di fogge villanoviane e terramaricole: pare dunque che i materiali archeologici dimostrino che non vi sia nel Lazio soluzione di continuità fra l'età eneolitica, quella del bronzo e la prima età del ferro, e che la trasformazione del rito mortuario, da inumazione a cremazione, sia avvenuta senza intervento di nuovi invasori.

Della grande antichità dello stanziamento dei Latini nel Lazio è traccia anche nella tradizione.

La quale raccontava nella sua vulgata che il Lazio fosse stato originariamente abitato da Siculi cacciati poi dal sopraggiungere degli Aborigeni e dei Pelasgi, che vi fosse quindi approdato Evandro, che avrebbe fondata una città sul Palatino e vi fosse poi passato Ercole di ritorno dall'Occidente con i buoi del gregge di Gerione, e finalmente vi fosse giunto Enea sbarcando presso Laurento. Questi, accolto benevolmente da Latino regnante allora sugli Aborigeni, ne avrebbe tolto in moglie la figlia Lavinia e fondato in suo onore la città di Lavinio; Ascanio suo figlio avrebbe poi fondato sul Monte Albano Alba Longa sulla quale avrebbero regnato parecchi re della dinastia di Enea, i quali appunto avrebbero fondato, a una a una, le città dei Prisci Latini, sino a quando Amulio cacciò dal trono il fratello Numitore, costringendone la figlia a farsi vestale, e questa ad opera di Marte divenne madre di Romolo e Remo.

Confluiscono evidentemente in questa tradizione elementi indigeni ed elementi greci, alcuni antichi e di carattere leggendario, altri recenti e di carattere erudito: gli uni e gli altri sono stati assai bene individuati e approfonditi dall'analisi della critica moderna. Si può pertanto ritenere accertato che il filone indigeno originale della tradizione considerava Latino come l'eroe eponimo dei Latini e questi come autoctoni del paese che abitavano in tempo storico; in uno stadio successivo, superata la concezione eponimica del problema delle origini, Latino fu trasformato in semplice re: fu allora necessario indicare con quale nome i Latini si fossero chiamati prima di lui, e si creò a tal fine il nome di Aborigeni, che è nome di evidente formazione tarda e artificiosa, e null'altro significa se non autoctoni, confermando in tal guisa l'antichità dello stanziamento dei Latini nel Lazio. Ma altre versioni di origine greca, e forse derivate dalle analogie tra la lingua e i costumi dei Latini e dei Siculi, consideravano questi ultimi come originarî del Lazio, e allora per fondere questa versione con le leggende degli Aborigeni, fu necessario trasformare questi da autoctoni in invasori, e si associarono a loro i Pelasgi, popolo creato dalla fantasia e dalla riflessione erudita dei Greci, senza riscontro nella realtà, e portato in giro per tutto il mondo antico, prima in Oriente e poi in Occidente, per ragioni ormai chiare alla critica (v. pelasgi). È altrettanto certo che la tradizione indigena primitiva doveva limitarsi a considerare Romolo come fondatore di Roma con il consueto procedimento eponimico, laddove i Greci presto mirarono a ricollegare le origini di Roma col mondo greco-orientale, mettendo in circolazione parecchie favole, tra le quali prevalsero quelle che, ricollegandosi col mito delle peregrinazioni di Enea, attribuivano la fondazione dell'urbe all'eroe troiano. I Romani accolsero presto questa leggenda che assicurava loro un illustre albero genealogico, ma, per fonderla con quella indigena di Romolo, dovettero trasformare questo in figlio o nipote o comunque discendente di Enea. Intanto si erano sviluppate anche delle leggende che consideravano le città latine come colonie fondate da quelli che erano stati i due principali centri politico-religiosi del Lazio, e cioè il santuario di Venere tra Lavinio e Ardea e quello di Giove sul Monte Albano, e, per fondere queste leggende con quelle della venuta di Enea, si fece accogliere questo in Laurento dal re Latino, gli si attribuì la fondazione di Lavinio, e al fiġlio di lui quella di Alba Longa. Quando finalmente gli eruditi antichi si accorsero che parecchi secoli dovevano essere intercorsi tra la presunta data della distruzione di Troia nel sec. XII a. C. e quella della fondazione di Roma, perché questa, sulla base della lista dei sette re, non si poteva anticipare di più che due o tre secoli rispetto al principio della repubblica, che cadeva, secondo i fasti consolari, verso la fine del sec. VI a. C., escogitarono, per riempire l'intervallo, la lista dei re Albani.

Erano i Latini un forte e denso popolo, che con mirabile tenacia diede opera alla coltivazione del suolo vulcanico dei Monti Laziali e dell'Agro Romano, superando grandi difficoltà specialmente per il prosciugamento del terreno in gran parte friabile; essi vivevano, non in casolari isolati in mezzo ai fondi da coltivare, ma in villaggi su alture salubri, difesi, prima che dalle mura cosiddette ciclopiche, che nel Lazio non sono anteriori al sec. VI, da rozzi argini di terra e di pietra, e poiché la pianura laziale era da ogni lato, meno che dalla riva del Tevere, aperta agl'invasori, e frequenti dovevano essere le incursioni specialmente da parte dei montanari della Sabina, i Latini furono costretti a darsi per tempo vigorosi ordinamenti di guerra e a derivare sollecitamente da Greci e da Etruschi stimolo al perfezionamento delle opere di difesa e delle armi. E alle lotte coi montanari della Sabina, che si potevano considerare come lotte contro lo straniero, s'intrecciavano quelle tra gli stessi comuni latini, che portarono all'assorbimento di molti comuni minori da parte dei maggiori. Uno dei maggiori, appunto, era presto divenuto quello di Roma, sorto da un lungo processo di raggruppamento delle diverse stazioni dei Colli Tiberini e di lotta contro gl'immediati vicini. Infatti il territorio del comune di Roma, nel periodo più antico, al quale ci è dato risalire, abbracciava già un centinaio di chilometri quadrati, onde è da presumere che avesse raggiunto questa estensione mercé l'incorporamento di più d'uno dei comuni vicini. Di fronte a Roma stavano le altre città laziali, parecchie delle quali, tra le più importanti, sorgevano sui colli vulcanici che circondano Monte Cavo e i laghi di Albano e di Nemi: Alba Longa, Tusculo, Ariccia, Lanuvio. Altri centri notevoli erano Tibur, Preneste, Gabi, Pedo, Fidene, Ardea e Laurento. Tendevano naturalmente queste città ad accrescere la loro ricchezza e ad ampliare il loro territorio, onde erano chiamate a reciproca rivalità, ma la comunanza delle istituzioni religiose e civili ricordava loro permanentemente l'origine comune, e solevano radunarsi nei santuarî più venerati. Tra i quali acquistò grande importanza quello di Iuppiter Latiaris sul Monte Albano, che divenne centro di una lega religiosa delle città latine, che in primavera vi celebravano le feriae Latinae. Ne ebbe la direzione Alba, ma la lega aveva carattere essenzialmente religioso.

Delle città che ne avrebbero fatto parte in origine si ha un elenco in Plinio (Nat. Hist., III, 69), sotto il titolo di triginta carnem in monte Albano soliti accipere populi Albenses. Il numero di trenta (che potrebbe divenire trentuno soltanto se Albenses, anziché come attributo generale di città albane, lo si volesse intendere come nome di un singolo comune) corrisponde alle trenta colonie che sarebbero state fondate da Alba (Liv., I, 52, 2; Dionys., III, 31, 4; cfr. Lykophr., 1253 segg.). I nomi sono per lo più di città sconosciute o mal note, o comunque di scarsissima importanza, e ciò ha fatto pensare che fossero stati desunti da un documento autentico e antichissimo, in cui sarebbero rispecchiate le condizioni del Lazio e la costituzione della lega albana in un momento assai remoto: soltanto dopo la lega sarebbe stata allargata ad altri centri, tra cui quelli più importanti del Lazio storico, che nella lista pliniana mancano, mentre multe delle cittadine primitive sarebbero state parte distrutte parte private della loro autonomia. Ma poiché è difficile pensare a un momento nel quale della federazione religiosa albana non avessero fatto parte città quali Ariccia, Tusculo e Lanuvio, città, cioè, tra le più antiche dei Colli Albani, altri hanno creduto che l'elenco pliniano, pur derivando da un catalogo ufficiale, non lo avesse riprodotto integralmente, ma ne fosse semplicemente un estratto fatto da Plinio con il criterio soggettivo di numerare soltanto i comuni che non gli constava fossero sopravvissuti, che è quanto dire di eccettuare quelli di cui già egli aveva fatto menzione tra i comuni della prima regione augustea (III, 57; III, 63 segg.), col che Plinio avrebbe creduto di ricostruire la lista originaria della federazione albana; altri finalmente fanno derivare addirittura la lista pliniana da un raffazzonamento di qualche antiquario o di qualche annalista, che si sarebbe prefisso di ristabilire appunto l'estensione della federazione albana prima della fondazione di Roma. Nelle prime due ipotesi, venendo riconosciuta alla lista pliniana base documentale, essa sarebbe importantissima per la ricostruzione della carta urbana del Lazio antichissimo, ma pur nella terza ipotesi la lista conserverebbe una notevole importanza, essendo da escludere che i nomi sconosciuti o incerti fossero inventati e dovendosi invece riconoscere al redattore originario della lista dottrina e zelo. Un altro elenco abbiamo in Dionigi di Alicarnasso (V, 61) per la federazione dei popoli latini al tempo della battaglia del lago Regillo, ma esso fu certamente raffazzonato da qualche tardo annalista, e la sua importanza sta solo nei confronti che si possono istituire con la lista pliniana; altrettanto si dica dell'elenco che Diodoro (VII, 5,9) dà delle 18 città che sarebbero state fondate dal re albano Enea Silvio. Molta importanza ha invece l'elenco che è dato da Catone (fr. 58 Peter) dei popoli costituenti la federazione che aveva il suo centro nel luctis Dianius in nemore Aricino, ma esso si riferisce a tempo posteriore (v. appresso).

Di questa federazione religiosa fece parte certamente anche Roma, che in origine, con un'area di poco più che venti ettari e con un territorio, come abbiamo visto, di un centinaio di chilometri quadrati, non fu punto superiore a parecchie altre città latine, ma che poi crebbe rapidamente in floridezza, perché, sorgendo in vicinanza del mare sull'unica grande arteria fluviale dell'Italia centrale, in posizione atta a dominare le vie del traffico tra l'Etruria e il mezzogiorno, la costa e l'interno, divenne l'emporio naturale del commercio laziale. Cresciuta in benessere e in popolazione, essa cominciò ad assoggettare i comuni vicini: Antemnae, Caenina, Politorium, Ficana, Tellene; si assicurò il possesso delle bocche del Tevere, fondandovi il porto di Ostia, e finalmente, venuta in lotta con Alba Longa, la conquistò e la distrusse, riportando un successo di grande valore morale e materiale, in quanto che essa poté subentrare ad Alba nel possesso del M. Albano e nella direzione del santuario e delle ferie latine, e seppe sfruttare questa eredità di primato religioso a favore delle sue mire politiche: un nuovo sacrario federale fu fondato, secondo la tradizione, dal re Servio Tullio, sull'Aventino, e apposite norme furono stabilite circa i rapporti che dovevano intercedere tra le città federali, stabilendosi pienezza del diritto reciproco di commercio e di connubio.

La distruzione di Alba portò all'incorporamento del suo territorio in quello romano, e mercé questo e altri ampliamenti, che non si possono seguire passo passo, il territorio di Roma crebbe nel periodo monarchico da quel centinaio di chilometri quadrati, che possedette in origine, a un'estensione otto o nove volte superiore. Questo ingrandimento, la successione ad Alba nella direzione della lega, lo sfruttamento di questa a mire politiche e saggi accordi separati con le singole città assicurarono a Roma il primato su tutto il Lazio, se non addirittura un vero alto dominio effettivo, come vorrebbe la tradizione. A esso molto probabilmente Roma sarebbe pervenuta, se l'opera della monarchia nazionale non fosse stata interrotta dagli Etruschi, che combatterono prima, poi vinsero e soggiogarono Roma e una parte maggiore o minore del Lazio, per un secolo o poco più tra la metà del sec. VII e la seconda metà del sec. VI a. C.

Dal principio della repubblica allo scioglimento della Lega latina. - Qualche tempo dopo la caduta del dominio etrusco, il governo monarchico fu in Roma sostituito da quello repubblicano, e nei primi anni del nuovo regime vediamo i Romani impegnati in lotta contro i Latini per riconquistare il primato che doveva essere stato scosso o durante il dominio etrusco o nei torbidi seguiti alla caduta della monarchia. Pare che nell'una o nell'altra occasione si fosse costituita fra i Latini quella nuova lega, il cui santuario federale era l'ara di Diana in nemore Aricino e dei cui membri: Tusculo Ariccia, Lanuvio, Laurento, Cora, Tibur, Pomezia, Ardea, con esclusione di Roma, è conservata la lista in Catone (fr. 58 Peter), che la desunse dalla dedica originale del santuario, fatta dal dittatore latino Egerio Levio; le assemblee della lega erano tenute presso le sorgenti dell'Acqua Ferentina, sulla cui ubicazione si è molto discusso. La lotta dei Romani per riconquistare il primato nel Lazio culminò nella battaglia del lago Regillo, che la tradizione assegna ai primi anni del sec. V a. C. e, forse artificialmente, collega con le leggende relative alla cacciata dei Tarquinî. E la tradizione aggiungeva che, qualche anno dopo quella vittoria dei Romani, e più precisamente essendo console Sp. Cassio (si deve alludere al consolato del 493) era stata stretta una nuova alleanza tra Roma da un canto e la lega latina dall'altro: cioè il famoso foedus Cassianum, che sanciva la pace tra Romani e Latini, assicurava aiuti reciproci nelle guerre difensive, divisione alla pari delle terre e del bottino in esse guadagnato e alternanza tra Romani e Latini nel comando degli eserciti federali, sì che questo spettasse a turno ai sommi magistrati romani, e al dittatore, che era il magistrato supremo della lega. Di questo trattato alcuni critici hanno impugnato l'autenticità, altri ne hanno abbassato la data, sin verso la metà del sec. IV o addirittura al principio del III, ma con ragioni non convincenti, onde è meglio credere alla sua autenticità sostanziale ed accettarne, come approssimativa, la data voluta dalla tradizione. Romani e Latini furono indotti a troncare con quel foedus la lotta ad oltranza, per i pericoli che ormai incalzavano sul Lazio da parte dei Volsci e degli Equi, e alla lega romano-latina aderirono pochi anni dopo gli Ernici, di guisa che Roma poté contrastare l'espansione dei comuni nemici e poi debellarli con l'aiuto di tutte le forze del Lazio.

I Volsci dalle loro sedi tra il Liri e il Sacco erano scesi per la valle dell'Amaseno sulle sponde laziali, occupandone il tratto da Terracina ad Anzio; poi per l'alta valle dell'Ufente avevano cercato d'avanzare sui Monti Lepini, e avevano fondato Velletri dividendo la città di Cora dal restante della lega latina. A questo punto intervennero i Romani e i Latini, conquistando Velletri e deducendo le colonie latine di Norba, in forte posizione nel territorio pontino, e, più a nord, di Signia a guardia della valle del Sacco e delle comunicazioni con gli Ernici; ma sembra che a questo punto i Volsci riuscissero a riprendere Velletri e a minacciare Ardea, dove infatti i Romani avrebbero dedotto una colonia, secondo una notizia che da qualcuno è giudicata poco attendibile o per lo meno anticipata. I successi dei Volsci dipesero, pare, dal rincalzo che essi ebbero dagli Equi che verso la metà del sec. V a. C., dalle loro sedi tra il lago di Fucino e le vicinanze di Rieti, sui Monti Simbruini e nelle alte valli dell'Imella e dell'Aniene, si avanzarono sino ad accamparsi sull'Algido, spargendo di qui il terrore fino alle porte di Tusculo e di Roma, e impadronendosi di alcune città latine, come Labici, Bola, Carvento; ma poi riuscì ai Romani scacciarli di là, e togliere temporaneamente ai Volsci Velletri, soggiogando in pari tempo Satric0 occupando Circei e raggiungendo Terracina.

Di particolari intorno alle guerre dei Romani nel sec. V a. C. contro Volsci ed Equi abbonda la pseudostoria romana di quel tempo, ed esse si rispecchiano nelle belle leggende di Coriolano e di Cincinnato, intrecciandosi in queste e nella tradizione in genere con le lotte sociali interne; ma della continua veglia d'armi e del continuo alternarsi di vittorie e di sconfitte è possibile fissare solo i momenti salienti sopra indicati.

A queste guerre si aggiunsero quelle contro Veio e Fidene, dalla strage dei Fabî presso il Cremera, che la tradizione assegna al 477 a. C., alla vittoria di A. Cornelio Cosso, che debellò Fidene intorno al 428, e finalmente alla lunga e mortale lotta, che sul finire del sec. V e il principio del IV a. C. portò alla distruzione di Veii, alla presa di Capena e al soggiogamento di Sutri e di Nepi. In conseguenza di queste lotte il territorio della lega latina, mercé le annessioni di Signia, Norba, Nomento, Pedo e quindi di Sutri, Sezia e Nepi raggiunse più di 2500 kmq., e quello di Roma con le annessioni di Labici, Bola, Carvento, Ortona un po' meno, ma la lega latina molto aveva perduto in coesione quando l'avanzata dei Volsci e degli Equi ne aveva spezzata temporaneamente la contiguità territoriale. L'iniziativa delle guerre si era ridotta interamente nelle mani di Roma e il comando degli eserciti federali quasi sempre in quelle dei consoli, di guisa che di fatto, se non di diritto, sul principio del sec. IV, si era ristabilita l'egemonia di Roma sul Lazio, e l'antica lega a parità di diritti si era svuotata di contenuto. Quando Roma fu occupata dai Galli, la lega si trovò effettivamente disciolta, ma, riavutisi dalla catastrofe, i Romani la ricostituirono una trentina d'anni appresso, dopo una serie di guerre di cui nella tradizione non è memoria netta. Fedeli rimasero Ariccia, Ardea, Lavinio, Lanuvio, Cora, Norba, Signia, Sezia; si dovette invece combattere, oltre che con le città volsche occidentali: Anzio, Satrico (che fu distrutta) e Velletri, con Tibur e con Preneste, che era rimasta fuori dalla lega del sec. V, e con Tusculo, di cui i Romani incorporarono il territorio, conferendo agli abitanti la cittadinanza romana (secondo alcuni però Tusculo mantenne la latinità sino alla guerra latina). La nuova lega non fu che strumento della rinnovata egemonia di Roma sul Lazio, e non ebbe più a supremo magistrato il dittatore, ma, a somiglianza di Roma, due pretori, che negli eserciti federali furono subordinati ai comandanti romani.

S'intende agevolmente come le città della lega, o almeno le più importanti tra di esse, mordessero il freno, e non fa meraviglia che - dopo che Capua e le città vicine per difendersi dalle mire espansioniste dei Sanniti si allearono con la lega romano-latina, e a questi riuscì di ricacciare i Sanniti dalla Campania, dopo, cioè, la prima guerra sannitica - scoppiasse nell'interno della federazione romano-latina una crisi gravissima e decisiva. La tradizione ne assegna la causa al fatto che i Sidicini, trascurati dai Romani nel trattato di pace coi Sanniti, fecero atto di dedizione a Roma per ottenerne la protezione, ma, respinti dai Romani, si allearono coi Latini e insieme minacciarono guerra ai Sanniti, provocando così l'intervento di Roma; i consoli T. Manlio Torquato e P. Decio Mure nel 340 a. C., attraverso il territorio dei Marsi e dei Peligni, raggiunsero le falde del Vesuvio, e qui presso il Veseri combatterono una grande battaglia, che fu vinta dai Romani dopo che Decio Mure, consacratosi agli dei infernali, avrebbe cercato e trovato la morte tra le schiere nemiche per aver saputo da un sogno e dagli aruspici che alla vittoria era indispensabile la morte di uno dei due duci. Dopo una seconda battaglia combattuta tra Sinuessa e Minturno, Latini e Campani si arresero, rassegnandosi alla confisca di parte del territorio, ma nell'anno appresso i Latini, irritati per questa, si ribellarono di nuovo; furono però battuti dai consoli Ti. Mamilio Mamercino e Q. Publilio Filone, ai Campi Fenectani, dopo di che i Romani cominciarono a ricevere separatamente la sottomissione dei singoli popoli latini; soltanto Pedo, aiutata da Tibur, Preneste, Lavinio e Anzio, fu espugnata non prima del 338 da L. Furio Camillo. Questo racconto pullula di falsificazioni e di errori. La pretesa dedizione dei Sidicini è falsa quanto quella di Capua all'inizio della prima guerra sannitica; la battaglia principale non può essersi combattuta haud procul radicibus Vesuvii montis (Liv., VIII, 8, 19), perché la pianura al nord del Vesuvio apparteneva ai territorî di Napoli e di Nola, le quali città non parteciparono alle guerre. E poiché Diodoro (XVI, 90) parla di una sola battaglia presso Suessa, è stato con probabilità congetturato che un'unica battaglia principale debba ammettersi, che essa sia da identificarsi con quella che in Livio (VIII, 11, 11) sarebbe stata la seconda della campagna, combattuta ad Trifanum inter Sinuessam Menturnasque, alle falde, cioè, del Monte Vescino (di qui la confusione col Vesuvio). Non degna di fede è anche la conclusione di una prima pace e della successiva defezione dei Latini; la guerra dovette invece continuare nel 339 e nel 338, come è confermato dai fasti trionfali, e debbono essere fatti veri la resistenza di Pedo e i soccorsi di Tibur, Anzio, Lavinio e Velletri.

Se la tradizione sul corso della guerra è quanto mai incerta assai meglio informati siamo invece sulle condizioni della pace, perché il Lazio dopo di allora non si sollevò più, e l'ordinamento che vi fu creato in quel tempo sussistette essenzialmente intatto sino alla guerra sociale. La lega fu sciolta, e Roma strinse singoli patti con le singole città, almeno con quelle che mantennero la loro condizione di stati formalmente autonomi e indipendenti, che furono soltanto Tibur, Preneste e Cora. Immutata rimase la condizione delle colonie latine che erano state dedotte dal principio del secolo V a. C.: Signia, Norba, Ardea, Circei, Sutri, Nepi e Sezia. Invece la maggior parte delle città del Latium vetus: Ariccia, Lanuvio, Lavinio, Nomento, Pedo, Tuscolo, ebbero la cittadinanza romana, secondo alcuni sine suffragio, secondo altri con pienezza di diritti, e il Beloch ha sostenuto che anche con queste città Roma stringesse dei foedera, per i quali esse sarebbero venute a costituire la categoria di municipia foederata. Le città volsche di Velletri, Priverno, Anzio e Terracina pare che sul momento perdessero parte del territorio, assegnato a cittadini romani, e per il resto ottenessero la cittadinanza sine suffragio; e questa l'ebbe, secondo l'ipotesi più probabile, anche Capua, in una forma però privilegiata, comprendente anche il diritto di batter moneta, ma con l'obbligo d'iscrivervi il nome di Roma. La lega latina - prescindendo dalla sua perpetuazione formale religiosa per la celebrazione delle feriae Latinae sul Monte Albano - era dunque sciolta, ma sopravviveva la nazione latina (nomen Latinum), e questa si propagò sempre più fuori del Lazio nelle colonie latine, fondate da Roma nei territorî via via conquistati e soggiogati, come sentinelle che ne assicurassero il possesso e come potente strumento di latinizzazione.

Condizione dei Latini sino alla fine della repubblica. - Le prime colonie fondate dopo lo scioglimento della lega furono Cales e Fregelle sul Liri, la cui occupazione apparve come usurpazione ai Sanniti e fu una delle cause della seconda guerra sannitica, durante la quale i Latini furono fratelli d'arme dei Romani; i comuni pericoli cementarono la più perfetta fusione tra gli uni e gli altri, e furono, parte allora, parte poco dopo, dedotte numerose altre colonie latine: Narnia, Alba, Carseoli, Interamna al Liri, Suessa, Saticula, Luceria. Era una corona di città fortificate che assicurava, insieme con le colonie romane, i confini del territorio romano e in pari tempo procurava alla popolazione latina il modo di accrescersi proporzionatamente all'aumentare della cittadinanza romana. E questo sistema di colonizzazione continuò nelle guerre successive contro Sanniti, Etruschi, Greci, Lucani, Bruzî; basti ricordare le colonie di Adria, di Venosa, d' Isernia, di Benevento. Quando la penisola italiana fu, negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra punica, riunita tutta sotto il dominio di Roma, erano molto più numerose le colonie latine (non meno di 25) che quelle romane (7 o 8), e mentre in quelle romane si inviavano 300 coloni per ciascuna, nelle latine se ne inviavano molti di più (2500 a Cales e a Luceria, 4000 a Interamna sul Liri, a Sora e a Carseoli, 6000 ad Alba Fucente, 20.000, cifra però certamente esagerata, a Venosa).

La condizione dei Latini, così delle prische città che furono mantenute in condizione di federate, come delle colonie, appare, nel complesso dei federati italici, privilegiata, in quanto che essi furono sì privati (però soltanto transitoriamente) del vicendevole connubio e commercio, ma ebbero piena facoltà dell'uno e dell'altro con i Romani, sì da poter adottare un Romano ed esserne adottati, ereditare per testamento e possedere nel territorio romano beni stabili con diritto quiritario, e particolarmente favoriti erano nella facilità con cui potevano acquistare il diritto di piena cittadinanza romana, prendendo domicilio stabile in Roma, purché, peraltro, avessero lasciato un figlio nella città d'origine. Assai meno importante era il diritto di prendere parte, anche quando si trovavano per caso in Roma, alle votazioni, però in una sola tribù.

A mezzo milione circa pare si possa valutare la popolazione complessiva delle città e delle colonie latine così innanzi alla prima guerra punica, come poco prima della seconda, di contro a un milione e mezzo di altri federati italici, e a un milione di cittadini romani; e le forze armate che i Latini erano tenuti a mettere a disposizione di Roma sommavano, secondo la formula dei togati del 225 a. C., a 80.000 fanti e 5000 cavalli, e con ciò i Latini costituirono uno dei baluardi più saldi della potenza e dell'espansione di Roma, uno dei mezzi più efficaci della fusione tra vincitori e vinti, in quanto che alle colonie latine partecipavano insieme Romani, Latini e federati; e uno degli strumenti più acconci alla romanizzazione dell'Italia, data l'identità di nazione tra Romani e Latini.

Latine furono anche le colonie di Rimini, di Piacenza e di Cremona, la prima delle quali i Romani fondarono poco dopo le vittorie contro i Senoni del principio del sec. III a. C., la seconda e la terza dopo le grandi lotte contro Insubri, Boi e Lingoni del 225 a. C. e anni seguenti, ma, a queste colonie e ad altre nove, dedotte in seguito, i Romani credettero opportuno concedere un diritto minore, quello che Cicerone chiama lo ius duodecim coloniarum, il quale escludeva, a quanto pare, oltre il diritto di battere moneta, la facoltà di connubio, e subordinava l'acquisto della cittadinanza romana all'aver rivestito magistrature municipali nelle città d'origine. Non fa meraviglia che queste più recenti colonie si sentissero in una specie di condizione d' inferiorità, che invece non era stata sin qui sentita dagli altri Latini. Ma negli sviluppi storici del secolo II a. C. questa sensazione d'inferiorità si estese a tutti i Latini come ai federati in genere. Mentre il governo di Roma tralignava verso un'oligarchia sempre più gretta ed egoista, i federati si trovarono ogni giorno più esposti, senza difesa alcuna, agli abusi e alle prepotenze del governo centrale, e ogni giorno più si sentirono umiliati. Alla fine videro unico rimedio alla loro inferiorità l'acquisto della piena cittadinanza romana e questa loro aspirazione trovò, nelle crisi interne di Roma, inviti e stimoli in partiti e uomini politici romani. Già a Tiberio Gracco è attribuito il progetto di estendere la cittadinanza romana agl'Italici, ma ciò è assai dubbio. È invece certo che della sorte dei Latini e degl'Italici si preoccupò Scipione Emiliano negli ultimi giorni della sua vita, e anzi questo suo interessamento ne provocò forse la morte tragica. Dopo la quale i triumviri graccani pare continuassero a ventilare il progetto di allargamento della cittadinanza come mezzo per agevolare l'attuazione della legge agraria. E il fatto è che nel 126 a. C. Latinì e peregrini afluirono a Roma in numero tale da allarmare la nobiltà e da indurre il tribuno M. Giunio Penno a far votare una legge per l'espulsione temporanea di tutti quegl'intrusi dalla città; e nel 125 M. Fulvio Flacco, che era membro della commissione triumvirale, nominato console, propose una legge de civitate sociis danda, ma la proposta naufragò. Essendo così andate amaramente deluse le speranze degli alleati, corsero tra di loro intese di ribellione, a iniziativa della colonia latina di Fregelle, che di lì a poco pagò con la distruzione la sua velleità. Anche C. Gracco nel secondo anno del suo tribunato propose il conferimento della cittadinanza ai Latini e agl'Italici, atto che contribuì molto alla sua rovina.

Proseguì l'agitazione italica negli anni successivi, fino a che, dopo le nuove delusioni provocate dal fallimento delle promesse di Livio Druso, scoppiò la guerra sociale. Ma in questa, fortunatamente per Roma, la maggior parte delle città latine non presero le armi ed esse poterono per ciò fruire, se vollero, della concessione della cittadinanza romana, offerta dalla legge del console L. Giulio Cesare nel 90 a. C. agli alleati che fossero rimasti sino allora fedeli e che la desiderassero. In forza di questa legge ebbero la cittadinanza romana anche le colonie latine della Gallia Cisalpina, Placentia, Bononia e Cremona, e poiché la conservarono, naturalmente, le colonie romane di Parma, Mutina ed Eporedia, si può affermare che con la guerra sociale tutta la regione cispadana ebbe il diritto di cittadinanza. Nell'anno 89 a. C. la legge del console Pompeo Strabone concesse il ius Latii o Latium alla Gallia Transpadana, nel senso che i centri comunali di quella regione vennero con una finzione giuridica trasformati in colonie di diritto latino (naturalmente del tipo di quello duodecim coloniarum, l'unico adottato dalla seconda guerra punica in poi), e altrettanto avvenne per i comuni del territorio veneto. A queste colonie furono incorporate alcune delle tribù montane, che si trovavano ancora in un livello troppo basso di civiltà per poter avere una loro organizzazione comunale autonoma. Ma le città transpadane non si contentarono della latinità, e la loro aspirazione alla cittadinanza romana fu soddisfatta da Cesare nel 49 a. C., e dopo la battaglia di Filippi vennero comprese nel nome di Italia. In conseguenza di ciò, così le città latine che avevano conservato la loro indipendenza dopo la guerra latina, come le colonie latine di più o meno recente formazione in Italia, comprese quelle fittizie della Gallia Transpadana, furono trasformate in municipî romani e subirono quella livellazione di ordinamenti, comune alle altre città della federazione italica. Se prima della guerra sociale avevano avuto magistrati vari e di vario nome: dictatores, praetores, ecc., ora si organizzarono tutti sullo schema quattuorvirale o su quello duovirale, schemi bene lumeggiati dal Beloch.

Lo ius Latii durante l'Impero. - L'esempio dato da Pompeo Strabone di attribuire il diritto fittizio di colonia latina, indipendentemente da un' effettiva deduzione, fu in appresso largamente seguito, perché Cesare lo concesse a molti, forse a tutti i comuni siciliani e ad alcune città della Narbonense, Augusto ad altre di questa stessa regione, dell'Aquitania, della Betica, delle Alpi Cozie, delle Alpi Marittime, Nerone all'intero territorio di quest'ultima provincia, Vespasiano alla Spagna intera, Adriano a tutte le Gallie. A partire dal sec. II d. C. questo diritto di latinità si poté acquistare anche entrando nel corpo degli equites singulares o in altre guise. In un certo momento fu ad alcuni comuni latini concessa la facoltà che potessero acquistare la cittadinanza romana non soltanto quei cittadini che avessero rivestito delle magistrature municipali, ma anche coloro che fossero semplici decurioni. Ciò avvenne, pare, quando sotto gli Antonini il decurionato cominciò a diventare pesante e parve opportuno lusingare i municipali a sottostarvi. Comunque, sorse così quella distinzione tra Latium maius e Latium minus, sulla quale molto fu discusso, finché la luce fu fatta con la restituzione da parte dello Studemund del passo delle Istituzioni di Gaio che la menziona: il Latium maius è la latinità che dava diritto all'acquisto della cittadinanza anche ai semplici decurioni; il Latium minus quella che limitava questo diritto a coloro che fossero stati magistrati. Con la concessione della cittadinanza romana a tutto l'impero per opera di Caracalla, queste distinzioni caddero.

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