Lavoro nelle cooperative

Diritto on line (2014)

Carlo Zoli

Abstract

Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa viene esaminato nei suoi profili dogmatici e pratico-applicativi, prendendo le mosse dall’evoluzione della relativa normativa. Sono approfonditi i diversi profili di specialità che tale rapporto presenta alla luce del collegamento funzionale col contratto associativo, con particolare riguardo alla necessaria sussistenza di un contratto di lavoro accanto a quello associativo, ai diritti sindacali, al trattamento economico ed all’estinzione del rapporto. Da ultimo viene affrontata la questione dell’individuazione del giudice competente e del rito applicabile, che nonostante i numerosi interventi legislativi è rimasta a lungo controversa.

L’evoluzione della normativa in tema di socio lavoratore di cooperativa e la l. n. 142/2001

La genesi del movimento cooperativo, anticipata dalle società di mutuo soccorso, risale alla seconda metà del XIX secolo quando persone rimaste senza occupazione si unirono non più in una logica meramente “assistenzialistica”, bensì in una dimensione mutualistica e solidale che, nel caso delle cooperative di produzione e lavoro, era finalizzata a reperire, distribuire e organizzare il lavoro.

Il movimento cooperativo «si pone, accanto alle altre forme di associazionismo, come uno dei centri di potere e di rappresentanza nella realtà politica, economica e sociale durante il lungo processo di trasformazione dell’Italia» (così Laforgia, S., La cooperazione e il socio lavoratore, Milano, 2009, 12, cui si rinvia per un’ampia ricostruzione sulle origini del fenomeno), unitamente ai sindacati ed ai partiti politici, ma ben presto si adatta al mercato e “si fa impresa”.

Tuttavia, sin dalle origini esso non conosce una regolamentazione giuridica ad hoc ed anche successivamente il legislatore italiano raramente adotta una normativa speciale, se si esclude la fase del riformismo giolittiano cui segue un progressivo revirement ad opera del legislatore fascista.

Il codice civile del 1942 e l’art. 45 della Costituzione disciplinano e riconoscono al massimo livello il fenomeno della cooperazione, anche se la normativa appare piuttosto disorganica e per numerosi aspetti insoddisfacente, fino a rendere tutt’altro che agevole persino ricostruire concetti “cardine” quali “mutualità” e “scopo mutualistico”, se si considera che al modello costituzionale ha finito per essere ricondotta persino la cooperazione spuria o non perfettamente mutualistica. Il tutto sino alla riforma di inizio anni 2000 (l. 3.10.2001, n. 366 e d.lgs. 17.1.2003, n. 6), che ha introdotto una disciplina generale delle società cooperative.

Particolarmente controversa si è rivelata anche la ricostruzione della figura giuridica del socio di lavoro e la conseguente individuazione delle regole ad esso applicabili. Da un lato, si erano ormai da tempo affermate, specie ma non solo in giurisprudenza, le tesi monistiche secondo cui gli interessi della società e dei soci avevano un unico centro di imputazione, cosicché risultava improponibile il cumulo tra i due contratti, societario e di lavoro (cfr. C. cost., 12.2.1996, n. 30). Peraltro, nella scia di alcune autorevoli opinioni dottrinali, che avevano sottolineato l’inesistenza in via di principio dell’incompatibilità tra l’essere socio e lavoratore dipendente (cfr. Biagi, M., Cooperative e rapporti di lavoro, Milano, 1983), gli stessi giudici di legittimità avevano ammesso la stipulazione di un contratto di lavoro ulteriore rispetto a quello societario in presenza di una volontà esplicita delle parti in tal senso (cfr. Miscione, M., Il lavoro dei soci di cooperativa di produzione e lavoro, in Miscione, M., a cura di, Il lavoro in cooperativa, Milano, 1996, 31 ss. e Fiorai, B., Il nuovo lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2002, 181 ss., spec. 206 ss.).

D’altro lato, si era affermato un sia pure parziale processo di estensione della tutela propria del lavoro dipendente ai soci lavoratori delle cooperative: un processo che aveva trovato svolgimento tanto sul piano legislativo (cfr. Montuschi, L., Introduzione. Una riforma attesa, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato. Commento alla legge 3 aprile 2001, n. 142, Torino, 2002, 1 ss.), quanto su quello negoziale e della prassi, considerato che in molte realtà anche ai soci venivano applicati i contratti collettivi stipulati per i lavoratori dipendenti delle cooperative.

In un tale contesto evolutivo è intervenuta la l. 3.4.2001 n. 142, di riforma della posizione del socio lavoratore, novellata dall’art. 9, l. 14.2.2003, n. 30 che si è collocata nel solco delle acquisizioni più recenti, ma è giunta ad optare per la soluzione dualistica “più dirompente” (così Fiorai, B., op. cit., 210) in base alla quale il perseguimento dello scopo mutualistico si realizza attraverso la previsione che al patto associativo si affianca quello “ulteriore” di lavoro (art. 1, co. 3). In definitiva, benché con l’ingresso in cooperativa e lo svolgimento della prestazione di lavoro il socio realizzi lo scopo comune, il legislatore prende atto che anche nel lavoro associato emerge un debito di lavoro adempiuto alle dipendenze e sotto la direzione di altri.

La duplicità dei rapporti associativo e di lavoro

Nella sua versione iniziale l’art. 1, co. 3, l. n. 142/2001 prevedeva che «il socio lavoratore stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro». Fin da subito si sanciva, come unanimemente sottolineato, un collegamento funzionale fra i due rapporti, ma non appariva del tutto chiaro sino a che punto esso potesse spingersi, ed in particolare se «l’inedito concetto di mutualità» (così Montuschi, L., op. cit., 3) elaborato dal legislatore rendesse il rapporto di lavoro accessorio rispetto a quello sociale fino a giustificare deroghe alla disciplina propria del rispettivo tipo contrattuale, al di là di quelle espressamente previste dal legislatore o deducibili dal giudizio di compatibilità con la posizione del socio lavoratore delle disposizioni dettate «da altre leggi o da qualsiasi altra fonte» (art. 1, co. 3).

Con la soppressione dell’inciso «e distinto» riferito al rapporto di lavoro, nel 2003 il legislatore non ha modificato la fattispecie delineata dalla riforma del 2001, ma ha sancito in modo più netto la centralità del rapporto sociale rispetto a quello di lavoro, accentuando i profili di specialità del contratto di lavoro del socio di cooperativa (cfr. Zoli, C., Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Carinci, M.T., a cura di, La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 2003, 287; Laforgia, S., op. cit., 81). Peraltro, tale conclusione probabilmente non sarebbe stata di per sé foriera di alcuna conseguenza in termini di disciplina applicabile, se il legislatore non fosse intervenuto direttamente sugli effetti. Infatti, l’assoggettamento al filtro di compatibilità per l’applicazione della normativa propria del contratto di lavoro tipico o ordinario, in particolare di quello di lavoro subordinato nell’impresa lucrativa (art. 1, co. 3, l. n. 142/2001), così come l’attribuzione del carattere di specialità ad un determinato contratto, non hanno in generale mai sortito conseguenze significative in termini di diversificazione delle discipline (cfr. Zoli, C., Gli effetti della qualificazione del rapporto di lavoro, in Nogler, L.-Tremolada, M.-Zoli, C., a cura di, La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civ., 2002, 377 ss.). In ogni caso l’art. 9, l. n. 30/2003 ha introdotto discipline speciali con riguardo all’estinzione del rapporto di lavoro, all’esercizio dei diritti sindacali, all’estensione della normativa contrattuale inderogabile, oltre che al riparto di competenze tra giudice civile e del lavoro.

La dottrina è, comunque, divisa in ordine alla portata del collegamento negoziale dei rapporti associativo e di lavoro tra coloro che ritengono che esso esplichi i propri effetti in senso unidirezionale, vista la prevalenza del rapporto associativo (cfr. Dondi, G., La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in Argomenti dir. lav., 2004, 61 ss.) e chi opta per la reciprocità del collegamento negoziale, cosicché i vizi di un rapporto si trasmetterebbero all’altro (cfr. Gragnoli, E., Collegamento negoziale e recesso intimato al socio-lavoratore, in Lav. giur., 2007, 446 ss.; De Luca, M., Il socio-lavoratore di cooperativa: la nuova disciplina, in Foro it., 2001, IV, 241).

Resta in ogni caso fermo che la normativa speciale di cui alla legge n. 142/2001 trova applicazione soltanto nei casi di vera cooperazione, non cioè quando vengono costituiti rapporti associativi fittizi, contrariamente a quanto disposto dall’art. 1, co. 2, l. n. 142/2001 (cfr. spec. Imberti, L., Il socio lavoratore di cooperativa, Milano, 2012, 83 ss.).

Come da più parti sottolineato, il rapporto sociale deve essere integrato da uno di lavoro, strumentale rispetto al primo e destinato a realizzarne gli obiettivi mutualistici. Donde la configurabilità di un obbligo per la cooperativa a negoziare (più che a contrarre) la stipulazione di un contratto di lavoro con il socio, il quale è peraltro tenuto a dare risposta alla proposta contrattuale della società (cfr. anche per ulteriori riferimenti bibliografici Laforgia, S., op. cit., 76 e 83).

Per espressa previsione dell’art. 1, co. 3, l. n. 142/2001 il contratto di lavoro del socio può assumere «qualsiasi forma», e non soltanto quella della subordinazione, optandosi tra i tipi ed i sottotipi previsti dall’ordinamento, senza che si possa derogare al principio di rango costituzionale della indisponibilità del tipo contrattuale a prescindere da quanto previsto dal regolamento della cooperativa (v. infra § 3). Al riguardo non si è revocata in dubbio la possibilità che siano stipulati contratti non stabili, come quello a termine, dato che la durata del rapporto associativo e di quello di lavoro non devono per forza coincidere. Controversa è soltanto la necessità che anche i contratti di collaborazione coordinata e continuativa debbano essere a progetto (cfr. per la soluzione negativa Pedrazzoli, M., Tipologie contrattuali a progetto e occasionali, in Il nuovo mercato del lavoro. Commentario, Bologna, 2004, 736 ss.; Tremolada, M., Lavoro a progetto e posizione del socio lavoratore di cooperativa, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, op. cit., 109 ss.; per quella affermativa Passalacqua, P., La nuova disciplina del lavoro autonomo e associato, Torino, 2012, 168).

La disciplina applicabile e la funzione del regolamento interno della cooperativa

Se si passa ad esaminare la normativa applicabile al rapporto di lavoro subordinato del socio, l’art. 1, co. 3, 2° periodo, l. n. 142/2001 prevede che «Dall’instaurazione dei predetti rapporti associativi e di lavoro in qualsiasi forma derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti giuridici rispettivamente previsti dalla presente legge, nonché, in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, da altre leggi o da qualsiasi altra fonte».

Al riguardo, come anticipato (v. supra § 2), la verifica di compatibilità, che pur implica una valutazione rimessa alla discrezionalità dell’interprete, la quale tenga conto della contestuale posizione di socio del lavoratore, non sembra consentire deroghe rilevanti in ordine alla disciplina applicabile al tipo lavoro subordinato, se si eccettuano probabilmente alcune disposizioni dirette ad incidere sulla costituzione del rapporto di lavoro (ad es., art. 25, l. 23.7.1991, n. 223 e l. 12.3.1999, n. 68) (cfr. Zoli, C., Gli effetti della qualificazione, cit., 379; Barbieri, M., Cinque anni dopo: il rapporto di lavoro del socio di cooperativa tra modifiche legislative, dottrina e giurisprudenza, in Curzio, P., a cura di, Lavoro e diritti a tre anni dalla legge 30/2003, Bari, 2006, 540; Passalacqua, P., op. cit., 176).

Inoltre, la legge n. 142/2001, benché non abbia disposto in modo meccanico l’estensione della normativa generalmente applicabile ai contratti di lavoro subordinato, ha esplicitamente introdotto soltanto alcune limitate deroghe alla stessa. Esse per lo più non attengono all’an e al quantum, bensì semplicemente al quomodo della tutela. È con ogni probabilità quanto può evincersi dal riferimento alla contrattazione collettiva per la determinazione di forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali (art. 2; v. infra § 4): una formula che ben altro significato acquista per i lavoratori autonomi, ai quali non è esteso direttamente l’intero statuto dei lavoratori (l. 20.5.1970, n. 300), bensì, con una previsione pur decisamente innovativa, alcune sue norme (artt. 1, 8, 14, 15), cosicché è rimessa all’autonomia collettiva l’introduzione di ulteriori, più elevati standard di tutela. Nella stessa logica sembra collocarsi anche l’art. 3, co. 1, che, a fini di determinazione della retribuzione, introduce parametri di riferimento vincolanti per il giudice ed inderogabili per le parti, ben al di là di quanto disposto dall’art. 2099 c.c. (cfr. anche infra § 5): si tratta, infatti, di una soluzione che specifica la portata precettiva dell’art. 36 cost. in chiave anti-elusiva rispetto ad eventuali fenomeni di dumping, a tutela della concorrenza.

L’interferenza tra i due rapporti, così ricostruita con riguardo alla fase costitutiva, giustifica in buona misura le deroghe più rilevanti, attinenti alla fase estintiva, in relazione alla quale sono sancite l’esclusione dell’art. 18, l. n. 300/1970 «ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo» (art. 2) e l’automatica estinzione del rapporto di lavoro a seguito del recesso o dell’esclusione del socio (art. 5, co. 2; cfr. infra § 6).

Il carattere innovativo della l. n. 142/2001 si manifesta altresì in tutta la sua portata con riguardo ai contratti di lavoro diversi da quello subordinato, in ordine ai quali le novità assumono una valenza sistematica particolarmente significativa tanto per i rapporti caratterizzati da continuità, quanto per quelli occasionali: ciò sia sul piano del contratto individuale, sia su quello dei rapporti collettivi, nonché sul versante processuale, con la generale competenza del giudice del lavoro, riconosciuta al di là di quanto disposto dall’art. 409 c.p.c. (art. 5, co. 2).

Sulla normativa applicabile non può incidere in modo significativo il regolamento della cooperativa, cui pure la l. n. 142/2001 attribuisce funzioni rilevanti, in particolare di sostanziale «accordo quadro» per la stipulazione dei successivi contratti di lavoro (cfr. Di Rienzo, M., I regolamenti sullo svolgimento dell’attività mutualistica, in Abbadessa, P., Portale, G.B., diretto da, Il nuovo diritto delle società, Torino, 2007, 622), oltre che di strumento volto a realizzare la partecipazione dei soci alle decisioni della società. L’eventuale certificazione del regolamento non può avere altra valenza che quella di attestare la congruità della previsione dei vari tipi o modelli di contratti rispetto all’organizzazione della cooperativa (cfr. Barbieri, M., op. cit., 572; Laforgia, S., op. cit., 100 e Passalacqua, P., op. cit., 170). Del resto si è unanimemente escluso che il regolamento possa acquisire efficacia derogatoria rispetto a quanto previsto dalla legge, a maggior ragione in ordine alla qualificazione dei contratti di lavoro, tanto che il riferimento ai contratti collettivi, che in esso deve essere contenuto ai sensi dell’art. 6, co. 1, lett. a), l. n. 142/2001, deve considerarsi meramente ricognitivo (cfr. Maresca, A., Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, op. cit., 25 s.), se si esclude la possibilità di incidere sugli istituti retributivi integrativi (v. anche infra § 5), di superare il divieto di distribuzione degli utili, nonché di prevedere forme di apporto anche finanziario dei soci per la soluzione delle crisi (cfr. anche per ulteriori riferimenti Passalacqua, P., op. cit., 173).

La mancata adozione del regolamento non è sanzionata dal legislatore ed al riguardo sono state prospettate soluzioni discordanti specie in ordine alle conseguenze che possono prodursi sui contratti di lavoro stipulati tra la cooperativa e i soci. La soluzione prevalente, specie in giurisprudenza, opta comunque per la inevitabile applicazione della l. n. 142/2001, considerato che l’efficacia delle norme di legge non può essere rimessa all’autonomia privata, cosicché non si può sostenere che i rapporti di lavoro vengano meno e siano ricondotti esclusivamente al rapporto associativo in mancanza di regolamento. Né pare condivisibile l’assunto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali secondo cui le conseguenze si produrrebbero sui rapporti di lavoro autonomi, da convertire in rapporti di lavoro subordinato (Circ., 17.6.2002, n. 34), dato che manca un’espressa previsione in tal senso.

I diritti sindacali

La peculiarità della fattispecie costituita dalla sussistenza di un doppio rapporto, di lavoro e associativo, trova conferma anche in tema di diritti sindacali, benché proprio l’accoglimento della teoria del cumulo introduca, o quanto meno rafforzi, l’idea stessa della contrapposizione di interessi tra socio e impresa cooperativa, che sta alla base del riconoscimento della libertà sindacale e dell’attribuzione dei diritti sindacali ai soci lavoratori e alle loro rappresentanze collettive.

In particolare l’art. 2, l. n. 142/2001 prevede che «l’esercizio dei diritti di cui al titolo III» dello Statuto dei lavoratori trovi applicazione «compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato da accordi collettivi». L’interpretazione sul punto è controversa in quanto non si è mancato di sostenere che il suddetto esercizio è condizionato alla conclusione degli accordi collettivi (cfr. Circ. Ministero del lavoro, 18.3.2004, n. 10; Dondi, G., op. cit., 80), tanto più che diversa è la formula utilizzata per i diritti sindacali ulteriori rispetto a quelli riconosciuti dal titolo III, con riguardo ai quali è espressamente sancito che alla contrattazione collettiva è affidata la sola possibilità di prevedere «forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali». La tesi contraria (cfr. Zoli, C., Le modifiche, cit., 294 ss.), che ritiene sia parimenti affidata all’autonomia collettiva la possibilità di incidere sul quomodo, ma non sull’an, dei diritti sindacali di cui agli artt. 19 ss., l. n. 300/1970, ha ricevuto l’adesione della giurisprudenza di merito chiamata a pronunciarsi sul punto (Trib. Milano, 5.8.2005, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 738; Trib. Roma, 9.1.2007, in Guida lav., 2007, n. 25, 31), la quale ne ammette l’applicabilità una volta superato il solo filtro di compatibilità, anche in mancanza di intervento dell’autonomia collettiva. Si tratta di un’interpretazione in grado di superare eventuali censure di incostituzionalità per violazione sia dell’art. 39, sia dell’art. 3 cost., rispetto a quanto previsto per tutti gli altri lavoratori dipendenti non soci, tanto in generale al di fuori del settore cooperativo, quanto in particolare nell’ambito dello stesso.

Al contrario è pacifica l’applicabilità del procedimento di repressione della condotta antisindacale (cfr. Imberti, L., op. cit., 176 s.), quanto meno a tutela dei diritti sindacali dei soci con contratto di lavoro subordinato (cfr. Passalacqua, op. cit., p. 179, che con riguardo ai soci con contratto di lavoro autonomo ritiene esperibile le sole azioni ordinarie, compresa quella di cui all’art. 700 c.p.c.).

Il trattamento economico del socio lavoratore

Una disciplina speciale è altresì prevista per il trattamento economico del socio lavoratore, per il quale l’art. 3, co. 1, l. n. 142/2001 ha introdotto parametri vincolanti, anche nel caso in cui questi sia titolare di un semplice contratto di lavoro autonomo.

Per il socio con contratto di lavoro subordinato è, in particolare, sancito l’obbligo per la cooperativa di garantire un «trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine». Si è in proposito rilevato che tale norma non comporta la diretta applicazione del contratto collettivo determinato dalla legge (contra Vallebona, A., L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in Mass. giur. lav., 2001, 814), ma stabilisce soltanto il parametro esterno di riferimento per la determinazione della retribuzione dovuta ai soci (cfr. Imberti, L., op. cit., 181). In altre parole, si è sancito in termini vincolanti il criterio di solito seguito dalla giurisprudenza nell’applicazione del precetto di cui all’art. 36 cost. Sul punto sono state espresse opinioni divergenti in ordine all’individuazione della suddetta base minima, dato che il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali (con circ., 17.6.2002, n. 34; circ., 18.3.2004, n. 10) ed alcuni settori della dottrina hanno sostenuto che al socio vada corrisposta la retribuzione complessivamente prevista dal contratto nazionale (Barbieri, M., op. cit., 557; Zoli, C., Il corrispettivo della prestazione lavorativa, in Nogler, L.-Tremolada, M.-Zoli, C., a cura di, op. cit., 410 s.), ed anzi anche dagli accordi provinciale ed aziendale se più favorevoli, stante il richiamo dell’art. 36 st. lav. (Zoli, C., op. ult. cit., 411); altri, al contrario, hanno optato per il cd. minimo costituzionale, comprensivo soltanto della paga base, dell’indennità di contingenza e della tredicesima mensilità (Dondi, G., op. cit., 96 ss.; Maresca, A., Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Argomenti dir. lav., 2002, 624). Il tutto fermo restando che il regolamento interno della cooperativa potrebbe prevedere tanto maggiorazioni retributive (art. 3, co. 2, lett. a), quanto deroghe peggiorative, sia temporanee («riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi» o «forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori» nell’ambito di un piano di crisi aziendale: art. 6, co. 1, lett. d) ed e), l. n. 142/2001), sia stabili, con l’unica eccezione del «trattamento economico minimo di cui all’art. 3, comma 1» (art. 6, co. 2, l. n. 142/2001).

Al fine di circoscrivere l’impatto dei cd. contratti pirata, e comunque di regolare la concorrenza all’interno del mondo cooperativo, l’art. 7, co. 4, d.l. 31.12.2007, n. 248 (convertito in l. 28.2.2008, n. 31) ha disposto in via transitoria che, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, i «trattamenti economici complessivi» che ciascuna cooperativa è tenuta ad applicare non possono essere «inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». Ancora una volta, per salvare la costituzionalità di tale disposizione, ricognitiva e interpretativa dell’art. 3, co. 1, l. n. 142/2001 (così Trib. Torino, 14.10.2010, in Dir. rel. ind., 2011, 781), si è suggerito di considerare il riferimento al contratto collettivo compiuto dalla norma quale «mero parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato» e sufficiente ai sensi dell’art. 36 cost. (cfr. Imberti, L., op. cit., 191 s., cui si rinvia per richiami giurisprudenziali in tal senso, e circ. Ministero del lavoro, 1.6.2012, n. 10310).

In sede di approvazione del bilancio di esercizio, l’assemblea può deliberare l’erogazione ai soci lavoratori di ulteriori trattamenti economici a titolo di ristorno, che esulano dalla retribuzione imponibile a fini previdenziali, purché la cooperativa applichi per intero la retribuzione prevista dal contratto di categoria (Imberti, L., op. cit., 200), ma che non vanno confusi con gli utili della cooperativa. Infatti, mentre questi ultimi sono diretti a remunerare il capitale conferito, i ristorni devono essere proporzionati alla quantità e qualità degli scambi mutualistici (art. 2545-sexies c.c.) ed eventualmente riferiti ad altri parametri oggettivi, nel rispetto comunque del principio di parità di trattamento nella costituzione ed esecuzione dei rapporti mutualistici con i soci, come previsto dall’art. 2516 c.c. (cfr. da ultimo Imberti, L., op. cit., 197 ss. e 202 ss.).

L’estinzione del rapporto di lavoro e del rapporto associativo

ll collegamento funzionale tra contratto associativo e di lavoro, ed anzi la prevalenza del primo sul secondo, emerge in tutta la sua portata nella previsione dell’art. 5, co. 2, l. n. 142/2001, come novellato dall’art. 9, l. n. 30/2003, ai cui sensi – contrariamente a quanto si poteva in precedenza sostenere (cfr. Miscione, M., Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), in Miscione, M., a cura di, Il lavoro in cooperativa, in Dir. prat. lav., 2006, n. 21, VII; De Angelis, L., L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, in Lav. giur., 2002, 606) – la fine del rapporto associativo produce l’automatica estinzione del rapporto di lavoro, senza che si debba adottare un atto autonomo di licenziamento o di dimissioni (Barbieri, M., op. cit., 544 s.; Cester, C., La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma? Alcune osservazioni sull’art. 9 della l. 14 febbraio 2003, n. 30, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, Le cooperative ed il socio lavoratore. La nuova disciplina, Torino, 2004, 23), sempre che – come anticipato (supra § 2) – non vengano in rilievo forme di falsa cooperazione (cfr. Imberti, L., op. cit., 228) e sempre che «l’atto costitutivo non preveda diversamente» (art. 2533, co. 3, c.c.).

La scelta del legislatore di accentuare la prevalenza del rapporto associativo su quello di lavoro appare evidente con riguardo al recesso della cooperativa, la cui disciplina, sia dal punto di vista delle regole sostanziali sia da quello delle tecniche di tutela e delle norme processuali, è interamente ricondotta a quella societaria.

Il novellato art. 2533 c.c. elenca in modo analitico le cause di esclusione del socio, richiamando i casi previsti dall’atto costitutivo e le «gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico» (co. 1, n. 2), le quali possono dunque riguardare anche il rapporto di lavoro.

Se si considera la specifica gravità dell’inadempimento richiesto (cfr. in tal senso Cass., 5.7.2011, n. 14741) il socio lavoratore risulta tutt’altro che privo di tutele e sottoposto all’arbitrio della cooperativa. Può impugnare nel termine di 60 giorni la delibera di esclusione, la quale deve essere valida alla stregua delle regole previste dal diritto societario. Qualora venga annullata, in virtù del collegamento negoziale tra contratto associativo e di lavoro, quest’ultimo tornerà a vivere ed il rapporto di lavoro sarà ricostituito ex tunc in base ai principi generali del diritto civile (cfr. Cass., 5.7.2011, n. 14741). Paradossalmente, dopo la riforma dell’art. 18, l. n. 300/1970 compiuta dalla l. 28.6.2012, n. 92, la posizione del socio di cooperativa, il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito di una delibera di esclusione illegittima, può risultare maggiormente tutelata di quella del dipendente non socio in quanto nei suoi confronti opera sempre e comunque la reintegra (di diritto comune) e non il meccanismo indennitario introdotto dall’art. 18, co. 5-7, l. n. 300/1970.

Una minore tutela con ogni probabilità sussiste, invece, con riguardo alle regole procedurali dettate per il licenziamento disciplinare (art. 7 st. lav.) (per un ricostruzione del dibattito v. Imberti, L., op. cit., 240), per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 7, l. 15.7.1966, n. 604) e per il licenziamento collettivo (art. 4, co. 2 ss., l. n. 223/1991). Infatti, qualora sia l’esclusione a comportare la cessazione del rapporto associativo, le suddette regole non sono destinate a trovare applicazione in mancanza di previsione di segno contrario dell’atto costitutivo poiché manca, come anticipato, un licenziamento.

A diversa conclusione si deve pervenire nel caso in cui la cooperativa adotti direttamente un atto di licenziamento. Al riguardo possono verificarsi due ipotesi. Se il licenziamento non è accompagnato da successiva e consequenziale esclusione, trovano applicazione in tutto e per tutto le regole comuni del diritto del lavoro e non quelle speciali di cui alla l. n. 142/2001 (Gragnoli, E., op. cit., 451). Al contrario, se, come talora previsto dall’atto costitutivo, il rapporto associativo si estingue a causa dell’intimato licenziamento, si controverte in ordine all’operatività dell’art. 2, 1° periodo, l. n. 142/2001. Taluni, richiamando tale norma, hanno escluso l’applicabilità dell’art. 18 st. lav. (Ratti, L., Mutualità e scambio nella prestazione di lavoro del socio di cooperativa, in Argomenti dir. lav., 2008, 749; Barbieri, M., op. cit., 538; Passalaqua, P., op. cit., 191); altri settori della dottrina e la giurisprudenza di legittimità (Imberti, L., op. cit., 235 s.; Cass., 6.8.2012, n. 14143) hanno invece optato per la soluzione opposta qualora emerga che la delibera di esclusione dal rapporto societario sia invalida.

L’individuazione del giudice competente

Naturale corollario dell’impostazione sostanziale accolta dalla l. n. 142/2001 è la disciplina sulla competenza.

Il testo vigente dell’art. 5, co. 2 ha integralmente sostituito quello iniziale, che, esclusivamente dedicato alla questione della competenza, distingueva tra «controversie relative ai rapporti di lavoro» e «controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo», le prime affidate alla competenza funzionale del giudice del lavoro, le seconde a quella del giudice civile. In realtà si trattava di una questione di rito applicabile, più che di competenza. In ogni caso, a dispetto di una formula che poteva risultare chiara, erano state avanzate letture diverse in dottrina ed in giurisprudenza (cfr., da ultimo, Imberti, L., op. cit., 244 ss.).

I dubbi interpretativi sono addirittura aumentati quando, a seguito della novella dell’art. 9, lett. d), l. n. 30/2003, il legislatore ha optato per una formula, inevitabilmente in sé ambigua, che fonda la ripartizione delle competenze sulla riconducibilità o meno della controversia «alla prestazione mutualistica»: di conseguenza il giudice civile, individuato come funzionalmente competente nel «tribunale ordinario» e tenuto ad applicare il rito societario (art. 1, co. 1, d.lgs. n. 5/2003), sembra chiamato a pronunciarsi non soltanto sulle controversie stricto sensu inerenti al rapporto associativo, ma su tutte quelle appunto «relative alla prestazione mutualistica».

Ne è seguita una consistente gamma di soluzioni ermeneutiche. Una prima impostazione, accolta inizialmente anche dalla Corte di cassazione (Cass., ord., 18.1.2005, n. 850), ha riconosciuto largamente la competenza del giudice del lavoro anche in caso di esclusione del socio lavoratore con contestuale estinzione del rapporto di lavoro, stante la prevalenza del rito speciale del lavoro alla luce del principio di connessione di cui all’art. 40, co. 3, c.p.c. (cfr., tra gli altri, Fiorai, B., op. cit., 211; Riverso, R., La nuova disciplina delle competenze sulle controversie tra socio e cooperativa, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, Le cooperative ed il socio lavoratore, cit., 80 s.). Sul versante opposto altri settori della dottrina e della giurisprudenza di merito hanno optato, invece, per una generale attrazione nel rito ordinario di tutte le controversie relative all’attività lavorativa del socio in quanto connesse alla «prestazione mutualistica» (cfr. Dondi, G., op. cit., 74 ss.; De Angelis, L., la disciplina del lavoro cooperativo dopo la l. 14 febbraio 2003, n. 30, in Montuschi, L.-Tullini, P., a cura di, op. ult. cit., 38 ss.). Un terzo orientamento, accolto in ultima battuta anche dai giudici di legittimità, ha riconosciuto l’applicabilità del rito ordinario alle controversie relative al momento del recesso o dell’esclusione del socio (Cass., ord., 6.12.2010, n. 24692), così come a quelle che riguardano la partecipazione agli organi sociali, al pagamento della quota associativa, alla ripartizione dei ristorni o alla divisione degli utili; al contrario, sono di competenza del giudice del lavoro le controversie che attengono in senso stretto ed esclusivo al rapporto di lavoro (ad., in tema di mansioni, di trattamento retributivo, ecc.) (cfr. Barbieri, M., op. cit., 547 ss.; Zoli, C., Le modifiche, cit., 291 ss.).

Anche la Corte costituzionale è stata investita del problema in due occasioni: nella prima ha con poche battute giudicato la questione sollevata «manifestamente inammissibile» (C. cost., ord. 28.12.2006, n. 460); nella seconda (C. cost., ord., 28.3.2008, n. 71) ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1, co. 1, d.lgs. n. 5/2003 per eccesso di delega, limitatamente alle parole «incluse quelle (ndr. le controversie) connesse a norma degli articoli 31, 32, 33, 34, 35 e 36 del codice di procedura civile», escludendo la forza attrattiva del rito societario sulle cause connesse e stabilendo che le problematiche tra riti speciali vanno risolte alla luce dei criteri previsti dall’art. 40 c.p.c. (cfr. Perina, L., La decisione della Corte costituzionale in materia di connessione e i riflessi sul rito del lavoro, in Mass. giur. lav., 2008, 726 ss.).

Successivamente l’art. 1, d.lgs. 17.1.2003, n. 5 è stato abrogato dall’art. 54, co. 5, l. 18.6.2009, n. 69, cosicché sembrava risolto il problema della coesistenza tra il rito speciale del lavoro ed il rito societario previsto da tale norma, con conseguente prevalenza del rito del lavoro in caso di connessione tra cause sottoposte a quest’ultimo e a rito ordinario (Passalacqua, P., op. cit., 200 s.). Peraltro, l’art. 3, co. 3, d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24.3.2012, n. 27, ha attribuito al Tribunale delle Imprese anche la competenza sulle cause che «presentano ragioni di connessione» con le cause e con i procedimenti concernenti l’esclusione da socio, cosicché «il panorama normativo è nuovamente e radicalmente mutato» (così Trib. Torino, 5.4.2013 ed in senso conforme Trib. Catania, 10.10.2013, inedite), anche se «la configurazione della domanda da parte dell’attore lavoratore può comunque condurre a radicare la controversia dinanzi al giudice del lavoro ex art. 409 c.p.c.» (Passalacqua, P., op. cit., 201).

Fonti normative

Art. 36 e 45 Cost.; art. 2511 ss. c.c.; l. 20.5.1970, n. 300; l. 3.4.2001, n. 142; l. 3.10.2001, n. 366; art. 1, d.lgs. 17.1.2003, n. 5; d.lgs. 17.1.2003, n. 6; art. 9, l. 14.2.2003, n. 30; art. 83, d.lgs. 10.9.2003, n. 276; art. 7, co. 4, d.l. 31.12.2007, n. 248, convertito dalla l. 28.2.2008, n. 31; art. 54, l. 18.6.2009, n. 69; art. 1, d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24.3.2012, n. 27.

Bibliografia essenziale

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