LAVORO

Enciclopedia Italiana (1933)

LAVORO (fr. travail; sp. trabajo; ted. Arbeit; ingl. labour, work)

Augusto GRAZIANI
Luigi BARZETTI
Giuseppe DE MICHELIS
Giovanni BALELLA
Roberto MONTESSORI
Nicola JAEGER
Luigi CAROZZI
Nicolò CASTELLINO
Ulisse GOBBI
Romeo Vuoli

Il lavoro, dal punto di vista economico, è l'applicazione diretta delle facoltà umane alla produzione della ricchezza; alla quale produzione debbono convergere in modo sistematico, con una serie regolare di operazioni, con fine esplicito e in guisa immediata, non col fornire soltanto mezzi esteriori; proprietarî e capitalisti, che apprestano forze di natura e strumenti di capitale, sono così produttori, ma non lavoratori. Le energie umane che non sono rivolte direttamente alla produzione, come quelle che mirano alla scoperta del vero (attività scientifica), al mantenimento dell'ordine, alla perfezione etica, qualunque sia il grado della loro eccellenza, non costituiscono lavoro in senso economico. Il lavoro economico non è mai disgiunto da sensazioni penose, implica fatica o almeno sforzo o tensione, sia perché è connesso sempre a disciplina e a determinazione di durata, sia perché è considerato come mezzo per lo scopo ulteriore della soddisfazione di bisogni presenti o futuri, e il dolore incontrato è preferito al dolore più forte dell'inappagamento. La pena del lavoro dipende da una serie di circostanze, ma uno degli elementi più importanti, cui si connette, è il tempo. Nell'inizio v'è un senso di sforzo forse più grande di quello che si verifica nel periodo immediatamente successivo, poi segue un periodo in cui lo sforzo appare costante, e indi si verifica un aumento di questa disutilità. È certo variabile da lavoro a lavoro, da occupazione a occupazione, da individuo a individuo, questo incremento di penosità; ma per tutti a un dato momento si attenua l'energia muscolare e mentale, e la sofferenza implicita nel lavoro rapidamente cresce. D'altra parte le quantità successive della ricchezza di cui si può disporre grazie al lavoro presentano, al di là di un dato ammontare, un grado di utilità decrescente, e allorquando l'intensità della fatica si equilibra con l'utilitȧ del prodotto, il lavoro tende a cessare, perché un'attività ulteriore non troverebbe adeguato compenso. Né prima di questo momento d'equilibrio sarebbe conveniente la cessazione del lavoro, poiché la sua prestazione continua a dare un beneficio, benché inferiore a quello delle ore precedenti. Ciò è esatto in linea tendenziale, nell'ipotesi in cui si tratti di lavoro compiuto liberamente per conto proprio. Ma l'operaio che lavora per conto d'altri non può determinare unilateralmente l'orario del lavoro, così che può mancare la corrispondenza fra la disutilità nell'ultima ora di lavoro e l'utilità dell'ultima frazione di salario. Inoltre nell'apprezzamento di questa disutilità avranno efficacia molte circostanze, e un lavoro penosissimo potrà essere affrontato per una mercede relativamente tenue, quando la mancanza di questa cagionasse l'insoddisfazione di bisogni molto gravi e urgenti. Sarà tuttavia impossibile che il complesso dell'opera sostenuta dia all'agente economico una pena valutata subiettivamente in grado maggiore della pena che sarebbe inerente alla mancanza di disposizione totale della ricchezza con cui viene retribuito.

Le facoltà umane, benché in varia misura, sono tutte in atto nella produzione: quelle organiche, essendo necessaria un'attività fisica; quelle intellettuali, dovendo la mente guidare tale attività; quelle morali, consistenti nella volontà d'incontrare i sacrifici inerenti al lavoro. Nella funzione produttiva del lavoro si distinguono tre stadî: il lavoro di chi scopre e attua i progressi tecnici, quello di chi coordina e organizza nella loro più pratica estrinsecazione gli elementi della produzione, il lavoro di chi eseguisce i prodotti. La riuscita della produzione dipende, in gran parte, dal coordinamento di queste funzioni: ideazione, organizzazione, esecuzione. Le facoltà intellettuali e muscolari concorrono, a dir così, in proporzioni diverse nei varî lavori, ma le prime non sono assenti quasi nemmeno nei lavori più umili, benché naturalmente la prevalenza delle une e delle altre sia diversa, secondo le industrie, i tempi, i luoghi. Il progresso tecnico cospira a modificare queste condizioni e proporzioni, accrescendo l'importanza del lavoro intellettuale. L'introduzione sempre più estesa delle macchine e in genere di perfezionamenti ha determinato infatti l'esigenza di lavoro più abile, di sforzo intellettuale maggiore, di cognizioni più larghe sulla natura dei processi tecnici e di senso più squisito di responsabilità nell'operaio, un errore del quale può addurre a conseguenze funeste. Certo rimane pure in larga sfera il bisogno di lavoro meno esperto, e la diversità fra le qualità di lavoro, ma nella gerarchia delle funzioni la distanza fra le une e le altre tende ad attenuarsi, specie nei gradi che si potrebbero dire intermedî fra le più eccelse e le infime, e ciò per un processo di elevazione del livello generale della produzione. Le differenze fra queste diverse prestazioni di lavoro sono notevoli e non riducibili a un'unità esatta omogenea di misura. Già Adamo Smith osservava (La ricchezza delle Nazioni, I, cap. 5): "difficile è sovente accertare la proporzione fra due differenti quantità di lavoro. Il tempo speso in due differenti specie d'opera non può solo sempre determinare tale proporzione. I differenti gradi della fatica patita e dell'abilità impiegata debbono parimenti essere tenuti in conto. Vi può essere più lavoro in un'opera difficile di un'ora, che in un'opera facile di due ore; o nell'applicazione di un'ora a una professione che costa dieci anni di lavoro d'apprendimento, che nell'industria di un mese in un mestiere ordinario e ovvio. Ma non è facile il trovare alcuna accurata misura della fatica o dell'abililà. Per vero nel cambiare le differenti produzioni delle differenti specie di lavoro, qualche conto si tiene comunemente di quello. Nulla di meno non se ne fa l'aggiustamento con alcuna accurata misura, ma col contrasto e dibattito del mercato, secondo quella specie di eguaglianza all'ingrosso, che benché non esatta, pure è sufficiente per condurre gli affari della vita comune". Anche D. Ricardo (Principles, cap. I, sez. 11) dice "che l'estimazione in cui le varie quantità di lavoro sono tenute è per il mercato accertata agli effetti pratici con sufficiente precisione, ed il rapporto non si modifica per lungo volger di tempo". E poiché essi si occupavano dei rapporti delle quantità di lavoro come elementi del costo di produzione relativo ai varî prodotti e non pretendevano giungere a una determinazione aritmetica precisa, si soddisfacevano della riduzione del lavoro qualificato a quello meno qualificato, secondo il coefficiente del valore di mercato. Altri hanno cercato di costruire un'unità di misura, mediante il dispendio di forza vitale, considerando la cosa dal punto di vista subbiettivo, ma, come asserisce il Nicholson, non possiamo andare al di là dell'enumerazione delle principali cause di variazione, anche per quel che riguarda l'efficacia del lavoro, della quale la misura in chilogrammetri nulla aggiunge alla descrizione delle condizioni diverse della densità di esso e dei modi con cui viene prestato. Si possono classificare i lavori in grandi gruppi entro i quali, come ha particolarmente chiarito J. Cairnes, per ragione di qualità d'opere e di preparazione, la scelta e la concorrenza è effettiva, mentre fra gruppo e gruppo la competizione, senza essere esclusa, presenta difficoltà maggiore.

E veniamo più specificamente all'efficacia oggettiva o produttività del lavoro. Si sogliono distinguere le cause che influiscono sulla capacità da quelle che influiscono sulla volontà di lavorare, per quanto talune abbiano efficacia così sull'una come sull'altra. Le forze fisiche (salute, robustezza e destrezza) e la loro conservazione dipendono anche da condizioni igieniche generali e a questo riguardo è cospicuo il progresso odierno nei paesi più colti. È nota la frequenza nel Medioevo e anche nei primi secoli dell'età moderna delle grandi pestilenze, e quella, pure, delle carestie che cagionarono la perdita di tanta parte della popolazione e che concorsero a determinare un indebolimento fisico e morale delle società umane. Ancora nel sec. XVIII a Londra la mortalità era dell'8% più elevata negli anni in cui il grano saliva fortemente di prezzo. Ora la morte per fame nei paesi civili è assolutamente eccezionale, benché la povertà tuttora sia causa di depressione, di minore sviluppo organico e di minore resistenza agli attacchi morbosi. Negli ultimi decennî la mortalità generale è in diminuzione notevole. In Italia da 27,5 per 1000 abitanti nel 1888 è scesa a 21,9 nel 1899, a 21,2 nel quinquennio 1907-11, a 18,2 nel 1912 e dopo la guerra ha ripreso a decrescere (nel 1918 era salita a 32,97, anche a causa della pandemia influenzale), scendendo a 19,2 nel I919 e raggiungendo i minimi dopo l'anno 1926, 16,1 tanto nel 1927, quanto nel 1928, 16,5 nel 1929, e 14 nel 1930. Per molta parte, oltre che alle migliorate condizioni igieniche e sociali, la riduzione di mortalità è dovuta alla più efficace azione profilattica esercitata dalle autorità sanitarie contro le malattie infettive (cfr. Compendio statistico del 1931).

Rispetto alla vigoria fisica ha particolare importanza non l'energia occasionale, ma quella regolare, consuetudinaria, nella quale il Darwin afferma la superiorità dell'uomo civile: secondo le esperienze di Péron al principio del sec. XIX la forza delle reni e delle mani sarebbe stata maggiore in media nell'Inglese di fronte agli abitanti selvaggi della terra di Van Diemen. È evidente l'importanza di abitudini d'ordine e di previdenza del lavoratore. E sull'integrità fisica del lavoratore, come pure sulla continuità e vigoria della prestazione, influiscono anche vantaggiosamente le discipline attinenti agli apparecchi di protezione contro gl'infortunî e quelle regolanti l'impiego delle donne e dei fanciulli. Quanto alla forza intellettuale abbiamo già accennato che una preparazione è necessaria anche per i lavori comuni, ma abilità crescente si richiede a misura che il lavoro diviene più qualificato. Certo quest'abilità (skill) è elemento del tutto relativo: per es., la cognizione dell'alfabeto, la quale, in paesi dell'Oriente, conferisce tuttora superiorità notevole a chi la possiede, in altri, ove è quasi universale, come in Inghilterra, Germania, Svizzera, o abbastanza diffusa, come in Italia negli ultimi decennî, è elemento vantaggioso, ma non di qualificazione specifica. Inoltre, dice A. Marshall, "nei distretti, nei quali ebbero sede per lungo tempo le manifatture, diviene comune a tutti una certa attitudine di responsabilità, di attenzione e di prontezza nel maneggiare macchine e materiali costosi ed allora gran parte del lavoro di attendere alle macchine viene qualificato come lavoro assolutamente meccanico ed inabile". Ma in realtà è probabile che non una decima parte della popolazione attuale della terra abbia le facoltà mentali e morali, l'intelligenza e la padronanza di sé che per quel lavoro si richiedono e forse non una metà di essa potrebbe venire posta in grado di compierlo bene, mediante un'educazione continuata per due generazioni, e anche in una popolazione residente in distretti tradizionalmente manifatturieri solo una porzione è capace di compiere parecchie parti del lavoro, che sembrano assolutamente macchinali. La tessitura a macchina, per es., sebbene sembri facilissima, si divide in gradi superiori e inferiori, e la maggior parte di quelli che lavorano nei gradi inferiori non ha in sé la capacità che ci vuole per tessere con parecchi colori; le differenze sono anche più grandi nelle industrie in cui si lavorano materiali duri, come il legno, i metalli e le ceramiche. Certo, sistemi adeguati d'istruzione e educazione professionale concorrono a determinare la produttività maggiore del lavoro degli operai: e questa istruzione preparatoria, sia di carattere generale sia specializzata, assicura indubbî vantaggi che si riflettono pure nell'elevazione morale dell'operaio, elemento anche questo di prim'ordine dell'efficacia del lavoro.

La libertà giuridica del lavoratore è condizione essenziale dell'elevata produttività del lavoro. Chi è sospinto al lavoro solo dal timore delle pene, non compie tutto ciò che può produrre, ma solo il minimo che non può non compiere. Dagli osservatori della schiavitù nell'antichità e nelle colonie è stata constatata la mancanza di versatilità dello schiavo e l'impossibilità di affidargli strumenti delicati. È l'impulso stimolante della speranza, che suscita l'energia morale in alto grado; con la libertà del lavoro ciascuno può scegliere la professione più adatta, ed essa concorre quindi a distribuire i compiti secondo le attitudini. E ciò che sospinge al grado massimo l'energia lavoratrice è la prospettiva di godere interamente ed esclusivamente del risultato del lavoro; l'alacrità spiegata dal contadino-proprietario del terreno è concordemente ritenuta insuperabile. La retribuzione prevalente nell'industria moderna è il salario; ve ne sono però varie specie e vi ha la tendenza non a sostituire, ma ad integrare la parte fissa con premî proporzionati alla maggiore attività. Alcune di queste forme sono connesse alla razionalizzazione o organizzazione scientifica; il criterio fondamentale di tali metodi è questo: affidato a un operaio un certo lavoro si parte da una base media di prodotto per rimunerare in misura più alta chi supera questa media. Ciò che ha importanza per l'operaio è la misura e la certezza della retribuzione e la proporzionalità relativa alla quantità e qualità del lavoro. Senza entrare nell'esame di queste forme, basti rammentare che sono cessate le controversie sul salario a compito, non più generalmente avversato né da coloro che temevano si risolvesse in mezzo indiretto di prolungamento del lavoro, né da altri che ritenevano desse a talune schiere di operai saggi più alti di retribuzione, incompatibili del resto con la concorrenza. L'altezza del saggio del salario è coefficiente di intensificazione del lavoro, ma questa che fu detta teoria degli alti salarî va considerata con criterio di relatività. Un tenore di vita confortevole giova certo a rinvigorire l'operaio nella forza muscolare e mentale, ma non si può affermare che questa forza continui sempre ad aumentare in rapporto più che proporzionale all'incremento dei salarî. Non abbiamo menzionato in quest'enumerazione delle circostanze influenti sulla produttività i fattori etnologici, poiché, a prescindere dalla difficoltà o impossibilità di sceverare specificamente le singole razze, questi elementi che paiono differenziare i varî popoli si connettono a rapporti sociali e si riferiscono allo sviluppo storico e attuale dei varî paesi. Quando si è affermata la tenacia del lavoratore inglese, il gusto del francese, la prontezza di percezione dell'italiano, non si sono rilevate le ragioni prime dell'una o dell'altra; tali qualità possono risultare da circostanze più profonde passate e presenti, e possono riannodarsi alla stessa entità del salario e non avere carattere permanente. L'inferiorità degli operai irlandesi che si cibano di patate è a torto attribuita a inferiorità o degenerazione di razza; essa scompare quando si adotta l'alimentazione azotata degl'inglesi. "L'indolenza e l'imprevidenza dei crofters celtici sono state troppo spesso attribuite al carattere della razza - dice il Nicholson (Principles, libro I, capo 5°) - senza tener conto del fatto che quella stessa gente nella colonia ha formato degli eccellenti emigranti. Sembra pure probabile che in una generazione o due i nativi delle regioni temperate perdano la loro energia caratteristica, quando sono trasportati sotto i tropici; se contiamo per secoli la supremazia industriale della razza inglese è stata stabilita da poco".

Divisione del lavoro.

La divisione del lavoro nella scienza economica significa la scomposizione di operazioni complesse in operazioni semplici compiute in serie. L'espressione "operazione complessa" è presa nel senso più generale, in modo da indicare tanto la fabbricazione di uno spillo, quanto la provvista complessiva dei mezzi per la vita della popolazione.

La divisione del lavoro è un procedimento tecnico, grazie al quale si riduce notevolmente il costo necessario per un dato prodotto: in ciò consiste la sua importanza economica. Il procedimento presenta due fasi: la prima consiste nella scomposizione in operazioni semplici, la seconda nell'associazione o combinazione dei risultati delle operazioni semplici per formare il prodotto complesso. La espressione "divisione del lavoro" indica la prima, sottintendendo la seconda; indicando questa e sottintendendo la prima si dice "associazione del lavoro", distinguendola in semplice o associazione di lavori eguali, e complessa o associazione di lavori diversi. Per lo più si considerano sinonimi associazione complessa e divisione del lavoro; ma anche nell'associazione semplice si ha una divisione del lavoro complessivo in lavori parziali diretti a un risultato unico.

L'associazione semplice consente risultati superiori a quelli degli sforzi isolati, e talora impossibili ad ottenersi altrimenti; ma il grado del lavoro collettivo non può superare quello alla portata del più scadente dei lavoratori riuniti, non potendosi utilizzare che le attitudini comuni a tutti. Tuttavia l'imitazione sviluppa talora un aumento di attitudini. Con l'associazione complessa ogni elemento di un'operazione complessa viene separato da quelli di altra specie e riunito ad altri della stessa specie, dando luogo a una serie di operazioni eguali. Lo schema può essere dato a questo modo. Sono da eseguirsi molti prodotti di cui ciascuno richiede le operazioni elementari a, b, c,...., quindi:

Se si trattasse di sommare dei numeri si otterrebbe lo stesso totale facendo prima le somme parziali sia per linee sia per colonne: invece, eseguendo le operazioni per serie di elementi eguali, cioè per colonne, e poi combinando i risultati parziali, si ottiene un risultato totale superiore. Le ragioni principali di ciò si possono riassumere così: 1. la specificazione dalle funzioni permette di utilizzare le circostanze di tempo e di luogo e le varie capacità delle persone; 2. l'esecuzione in serie di operazioni eguali fa risparmiare tempo; procura alle persone quel grado di abilità che deriva dall'esercizio continuo e crea così una nuova specificazione di attitudini; rende più facile la sostituzione delle macchine al lavoro umano.

La divisione del lavoro conduce a formare prodotti preparatorî che serviranno: a) come materie prime del prodotto definitivo; b) come: α) capacità personali acquisite; β) strumenti, macchine, ecc., per le lavorazioni successive. Dai prodotti preparatorî a quello definitivo si passa: a) o sottoponendo la materia a successive fasi di lavorazione; b) o combinando gli elementi ottenuti da lavorazioni separate.

La divisione del lavoro si applica:

A) Rispetto al tempo: a) destinazione di intervalli distinti: 1. al lavoro industriale; 2. al godimento della vita; 3. al riposo. La distinzione è più o meno netta secondo che il lavoro industriale sia piacevole o penoso; b) distribuzione delle operazioni, specie nell'agricoltura, secondo le stagioni; c) esecuzione di seguito di lavori eguali per risparmiare tempo.

B) Rispetto al luogo: a) cosiddetta divisione territoriale del lavoro per cui i varî paesi si specializzano in particolari rami di produzione; b) in ogni paese la distinzione fra città e campagna; c) localizzazione delle industrie, in base a condizioni naturali, sociali, politiche; d) nell'agricoltura, destinazione di determinate zone di terreno a speciali colture; e) distribuzione di operazioni nello spazio per ragioni di ordine.

C) Rispetto alle persone: a) distinzione di funzioni determinata dal sesso e dall'età; b) distinzione dei rami d'industria e delle professioni; questa è di varî gradi secondo le specializzazioni che si formano in ciascun ramo. Trapporti fra imprenditori dello stesso ramo sono talora di concorrenza, talora di divisione del lavoro (come fra ristoranti di lusso ed economici, ferrovie principali e secondarie) in quanto servono diverse località o diverse categorie di consumatori; c) divisione detta tecnica, ossia in ogni stabilimento (nel senso più generale di unità d'organizzazione di un'industria o di un'attività considerata dall'aspetto industriale) distinzione di reparti con lavorazioni speciali, e in ogni reparto assegnazione di speciali operazioni a distinti gruppi di lavoratori. La divisione tecnica del lavoro è il primo passo verso l'organizzazione scientifica o razionalizzazione del lavoro. Si parla anche di divisione di primo grado per indicare quella professionale e industriale, e di secondo grado per indicare quella tecnica.

Partendo dal gruppo di operai addetti a una lavorazione elementare, si sale al reparto dello stabilimento a cui essi sono addetti, allo stabilimento, all'industria particolare, alla categoria d'industria (agricoltura, industria manifattrice, amministrazione pubblica, ecc.), passando per gradi di divisione del lavoro subordinati l'uno all'altro: la distinzione poi si intreccia con quella delle diverse mansioni (contadini e operai, impiegati, imprenditori, ecc.) che rappresentano pure funzioni specifiche ma coordinate. La divisione tecnica del lavoro richiede una determinata proporzione fra il numero degli operai assegnati alle varie operazioni semplici, le quali sono fra loro complementari. Essendo poi essa collegata con la produzione in serie, i vantaggi della sua applicazione sono tanto più sensibili quanto maggiore è la quantità dei prodotti complessi da ottenersi.

D) Rispetto agli strumenti: preparazione di strumenti e macchine specializzate per particolari operazioni. Questa è considerata come compresa nella divisione tecnica del lavoro fra le persone.

Il più importante vantaggio (dice il Nicholson, Principles of Political Economy, I, p. 111) della divisione del lavoro è connesso col fatto che essa è una condizione essenziale dell'impiego delle macchine, o, più in generale, del capitale ausiliario, come, p. es. nell'applicazione della chimica e dell'elettricità. Con l'introduzione delle macchine, come osservò V. Pareto (Cours d'éc. pol., n. 828) "la différenciation continue et s'accentue, mais elle porte sur les machines plutôt que sur l'homme qui les surveille".

La combinazione dei prodotti parziali per ottenere il risultato complesso può aver luogo con due tipi d'organizzazione. A) Mediante la subordinazione dei varî lavoratori a una direzione unica: 1. nella famiglia; 2. in uno stabilimento industriale: qui si ha una coordinazione tecnica determinata fra i varî lavori; 3. nello stato, per le prestazioni obbligatorie a cui i cittadini sono tenuti. Questa sarebbe la forma unica in una società a tipo collettivista. B) Mediante lo scambio dei prodotti o dei servigi personali di ciascuno con quelli degli altri. La coordinazione mediante lo scambio è prevalente per la divisione industriale e professionale, ed è la regola per la divisione territoriale del lavoro fra le varie nazioni. Questa è in parte basata su condizioni geografiche, ma in parte su condizioni storiche le quali possono venire modificate anche influendo sulla convenienza degli scambî internazionali mediante la politica doganale.

La divisione del lavoro va contemperata con una certa varietà di occupazioni: A) rispetto al tempo: per ogni occupazione l'esperienza insegna come il prolungarla oltre una certa durata sarebbe dannoso; B) rispetto al luogo: la divisione territoriale del lavoro va contemperata col bisogno di avere in ogni paese la varietà di produzioni che consenta il pieno sviluppo delle attitudini della popolazione; inoltre è necessario preoccuparsi del pericolo che certi prodotti non si possano avere dall'estero in tempo di guerra; C) rispetto alle persone: se è necessaria la specializzazione per approfondire le cognizioni e per acquistare l'abilità che deriva dall'esercizio e dal contatto con le difficoltà che non si conoscono se non s'incontrano nell'azione, dall'altro lato il modo di pensare e di agire, caratteristico di chi è interamente assorbito in una data occupazione, costituisce un difetto da cui importa difendersi con occupazioni accessorie.

Danni della divisione tecnica sono il carattere noioso che prende il lavoro uniforme continuamente ripetuto, le malattie che possono derivare dal persistere in una posizione forzata; la mancanza di sviluppo armonico delle proprie facoltà. Il rimedio consiste nella diminuzione della durata giornaliera del lavoro, completata dalle occupazioni del dopolavoro.

La difficoltà di cambiare occupazione non sempre è accresciuta dalla divisione del lavoro; spesso anzi viene diminuita per la semplicità delle operazioni e per la somiglianza fra quelle da compiersi in industrie diverse. I vantaggi della divisione del lavoro sono accresciuti dallo studio delle attitudini per la scelta dell'occupazione da assegnare a chi inizia una professione (studio dell'orientamento professionale).

Bibl.: Fin dall'antichità furono indicati i vantaggi della divisione del lavoro: si ricordano in proposito passi delle opere di Senofonte, Platone, Aristotele. Ma un'analisi più approfondita venne fatta solo nel sec. XVIII dal Ferguson, dal Beccaria e principalmente da Adamo Smith che dedicò il primo capitolo della Inquiry into the nature and causes of the Wealth of Nations (1776), a uno studio accurato della divisione del lavoro a cui gli pareva di poter attribuire i più grandi miglioramenti nella potenza produttiva del lavoro. Il tema è stato poi ripreso in tutti i trattati d'economia.

Organizzazione scientifica del lavoro.

Anche per il singolo individuo l'utilizzazione appropriata del tempo e delle cose, la scelta dell'ambiente e degli strumenti di lavoro, l'eliminazione di cause negative o perturbatrici, rappresentano l'impostazione e la soluzione del problema organizzativo del suo lavoro. È evidente che questo problema diviene infinitamente più complesso e vario con l'ingrandirsi degli organismi produttivi e con la partecipazione a essi di un numero sempre maggiore d'individui. Di qui il crescente affermarsi, da circa trenta anni, di teorie e nozioni relative all'organizzazione del lavoro.

Il primo sorgere del problema risale agli studî che, verso il 1900, un ingegnere americano, F. W. Taylor (1856-1915), compì sul rendimento degli operai e sul coordinamento delle attività aziendali. L'azione di lui diede luogo a critiche non lievi, anche perché nelle sue manifestazioni si rilevava un'eccessiva tendenza alla soluzione del problema organizzativo attraverso un più rigoroso impiego della mano d'opera; dopo di lui un altro ingegnere americano, F. B. Gilbreth, coadiuvato più tardi anche dalla moglie, affermò la necessità della cooperazione tra tutti gli elementi della impresa per il successo di questa e impostò quindi il problema organizzativo sulla intelligente collaborazione tra le varie categorie e sul razionale impiego delle energie fisiche, ai fini non solo del rendimento, ma anche della salute delle maestranze. Indipendentemente da questi studî, quasi nella stessa epoca, A. Mosso diede impulso in Italia alle ricerche sulla "fatica", per una più opportuna utilizzazione delle energie fisiche dell'uomo. Di più, H. Fayol e H. Le Chatelier, dedicarono rispettivamente le maggiori cure al problema dell'amministrazione e a quello della funzione direttiva nelle aziende. Intervenuta la ricerca sperimentale, a sussidio delle osservazioni dettate dall'esperienza, e considerato il carattere necessariamente sistematico delle indagini e degli studî che si riferiscono alla materia, per cui l'organizzazione è innanzi tutto "soluzione di metodo", la materia medesima è stata compresa nella definizione di organizzazione scientifica del lavoro.

L'organizzazione scientifica del lavoro, che in quest'articolo è considerata nel significato più estensivo, comprende l'insieme dei suggerimenti che derivano dalla ricerca sperimentale e dalla pratica moderna per l'utilizzazione massima dei fattori che contribuiscono al rendimento del lavoro, in tutti i campi. Essa interessa così il ramo tecnico come quello amministrativo, e incide sul risultato economico come sul risultato morale e sociale.

Esagerando forse molto circa la sua portata, e confondendo l'organizzazione con il progresso tecnico generale, e specialmente col progresso meccanico, si è voluto talvolta attribuire a essa gran parte della responsabilità delle difficoltà verificatesi nel campo della mano d'opera o nell'andamento dei mercati, per effetto della superproduzione. Si è anche ritenuto che l'organizzazione scientifica del lavoro portasse come conseguenza naturale un eccessivo automatismo del lavoro umano, con conseguenti dannosi fenomeni di monotonia, e con il logoramento eccessivo delle energie individuali. Può essere che in taluni casi l'imprenditore abbia spinto il rendimento delle maestranze oltre limiti equi, come può essere che abbia elevato la produzione oltre i quantitativi suggeriti dalle possibilità di assorbimento dei mercati, ma l'una e l'altra cosa non hanno alcun rapporto con l'organizzazione scientifica del lavoro, perché di questa si può parlare soltanto nel caso in cui l'impresa raggiunga l'optimum di rendimento. Le formule di applicazione del lavoro debbono essere, cioè, formule "razionali". Di qui il sinonimo di organizzazione razionale.

È perciò da notare che i criterî e i metodi di organizzazione variano a seconda delle dimensioni, della struttura e delle esigenze di ciascuna impresa o di ciascun ramo di attività. Non può esservi una regola fissa per conseguire il massimo coefficiente di rendimento in tutte le industrie, e tanto meno in tutti i paesi. Ove, per esempio, si avrà sovrabbondanza di mano d'opera, occorrerà risolvere in particolar modo i problemi che si riferiscono a questa; ove la mano d'opera scarseggerà, occorrerà un estremo limite di meccanizzazione. Le condizioni ambientali, la distanza dei mercati di consumo, le esigenze di ciascuna lavorazione, saranno pure fattori determinanti dei metodi da seguire.

In quasi tutti i paesi d'Europa, oggi, oltreché negli Stati Uniti d'America e in Giappone, esistono istituti o comitati nazionali che hanno lo scopo di promuovere ricerche e iniziative propagandistiche a favore dell'organizzazione scientifica del lavoro e della razionalizzazione in genere. In Italia, l'istituto più importante è l'Ente nazionale italiano per l'organizzazione scientifica del lavoro (E.N.I.O.S.). Gl'istituti e i comitati nazionali fanno capo all'Institut international d'organisation scientifique du travail, che ha sede a Ginevra. Accanto a questi istituti di carattere generale, sono molti centri di studio e organizzazioni che si occupano dei problemi tecnici (come quelli per l'unificazione e per la standardizzazione dei prodotti), dei problemi amministrativi e commerciali (come quelli per lo studio della distribuzione) e in particolare dei problemi relativi al fattore umano (centri di ricerche psicotecniche). In America esiste la più antica associazione, che ha il nome di Taylor Society.

Aspetti dell'organizzazione tecnica. - L'ambiente. - Esso esercita la propria influenza nei riguardi della determinazione delle condizioni di lavoro, tendenti ad agevolare lo svolgimento delle singole attività. Nell'ambiente sono da esaminare gli aspetti generali: la distribuzione della luce, la aerazione, la ventilazione, la struttura e la disposizione dei banchi o delle sedie, la disposizione degli utensili e il collegamento con i pezzi o con il materiale da lavorare.

Gl'impianti e i servizî. - Oltre all'accurata disposizione dei reparti, hanno molta importanZa la determinazione e la scelta del macchinario, l'organizzazione dei trasporti, la distribuzione dell'energia, e la scelta degli strumenti personali di lavoro, in modo che questi integrino come meglio è possibile la capacità fisica dei lavoratori.

Ciclo di lavoro. - Esso involge naturalmente i problemi più numerosi dell'organizzazione aziendale. Sono da rilevare in particolar modo quelli relativi: 1. al programma di produzione, che costituisce la base preliminare; 2. alla predisposizione del lavoro, che comprende l'elaborazione del compito di ciascun reparto, di ciascun servizio, e anche di ciascun operaio; 3. al ciclo di lavoro vero e proprio, che è il susseguirsi delle operazioni necessarie alla realizzazione della produzione, e che dà luogo alla determinazione di un congegno di rapporti e di movimenti, per cui la meta prefissata si consegue per la via più breve e con un ritmo di regolarità. In alcune lavorazioni, e specialmente nell'industria meccanica, è possibile prevedere un andamento obbligato del lavoro, seguendo la velocità delle macchine e specialmente dei trasportatori meccanici. Quando una fase dell'operazione determina l'obbligatorietà immediata e ritmica delle operazioni successive, si ha il cosiddetto lavoro a catena, di cui è tipico esempio l'industria automobilistica.

Nel ciclo di lavorazione, l'organizzazione scientifica del lavoro tende principalmente all'eliminazione degli sprechi d'energia e di materie prime, i quali sono sempre possibili in un lavoro non accuratamente predisposto e controllato.

Diagrammi di direzione. - La direzione è chiamata a indirizzare soddisfacentemente il funzionamento delle industrie, anche in situazioni di difficoltà crescenti, e le sue determinazioni debbono essere fondate non soltanto su fatti accuratamente provati, ma anche su un esauriente apprezzamento dell'importanza del momento in cui tali fatti si sono svolti o si debbono svolgere. Molti diagrammi rispondono a queste esigenze. Notevoli gli armonogrammi di Adamieki e i grafici di Gantt.

A titolo esemplificativo accenniamo alla struttura di quest'ultimo diagramma. Per tracciare un grafico Gantt è necessario aver formulato un piano di lavoro. In questo grafico una divisione dello spazio rappresenta insieme una quantità di tempo e la quantità di lavoro che deve essere eseguita durante questo tempo. Linee orizzontali tracciate attraverso questo spazio mostrano il rapporto tra le quantità di lavoro eseguito e quelle previste. In tal modo si hanno sott'occhio questi elementi: a) divisioni uguali di tempo; b) quantità variabili di lavoro previsto; c) quantità variabili di lavoro effettuato.

Riportiamo un disegno esplicativo del grafico in modo da permettere la comprensione dei suoi elementi costitutivi. Il foglio di carta è diviso in tante colonne uguali, rappresentanti ognuna il tempo relativo a ciascun giorno lavorativo. Il piano di lavoro preventivato ci darà la quantità di lavoro che dovrà essere giornalmente effettuata. Per quel che è stato detto prima, lo spazio orizzontale rappresenterà anche questa quantità di lavoro. Si scrive la cifra che rappresenta questo valore a sinistra dello spazio di ciascun giorno (fase 1). Così 100, 125, 150, 150, 150 sono le quantità di lavoro previste nei singoli giorni. Segmenti orizzontali sottili sono tracciati attraverso lo spazio di ciascun giorno, nella lunghezza rappresentante il rapporto tra la quantità di lavoro prevista e quella realmente effettuata. Così se, p. es., il lunedì il lavoro effettuato è stato 75 mentre quello previsto era 100, si traccerà un segmento che rappresenti il 75% dello spazio, ecc. (fase 2). Per poter paragonare l'insieme del lavoro fatto in una settimana con quello globale previsto, le cifre rappresentanti il lavoro previsto nella successiva progressione (somme) sono scritte a destra di ciascuno spazio. Una linea orizzontale grossa è tracciata per mostrare il rapporto tra il lavoro globale fatto nei 5 giorni e il lavoro globale previsto (fase 3). La linea grossa mostra ad esempio che il venerdì sera il lavoro effettuato è in ritardo rispetto a quello previsto (al piano di lavoro) di 2/3 di giornata. Così il diagramma mostra la correlazione della previsione con il tempo, del lavoro eseguito in ciascun giorno con il tempo e la previsione e del lavoro globalmente eseguito con la previsione e col tempo.

Tempi di lavoro. - Non si può negare l'equità della tendenza che vuole proporzionare il compenso al rendimento; metodo di rimunerazione che, oltre a giovare al singolo prestatore d'opera, giova anche all'economia dell'azienda. A questo proposito fondamentale è la considerazione dell'elemento tempo.

Lo studio dei tempi o cronometraggio, giova anche a compiere l'analisi dei metodi e degli strumenti più adatti per l'esecuzione d'un determinato lavoro. Eseguito con serietà, lo studio dei tempi non può assolutamente prescindere da una rigorosissima valutazione di tutti i coefficienti più o meno ponderabili che influenzano il rendimento dei lavoratori, e, solamente in base al tempo cronometrato e insieme a questi coefficienti. potrà essere fissato con una certa sicurezza il "tempo tipo". Il "tempo cronometrato" (A) si determina cronometrando l'operaio al lavoro, e valutando la velocità dei singoli movimenti per riportarli poi tutti a una base comune. Fissato A e tenuto conto dei possibili errori provenienti dall'equazione individuale dell'osservatore e dagli strumenti di misura (B), avremo il "tempo per lavoratore normale" (C), il quale indica il tempo minimo in cui un lavoratore normale può compiere quel determinato lavoro in condizioni normali, astrazione fatta da qualsiasi considerazione relativa a necessità ammesse, al bisogno di riposo fisico e a tempi passivi. Al tempo C bisognerà fare varie maggiorazioni per le ragioni ora accennate (D). Saremo così giunti con un mezzo semplice a stabilire il "tempo minimo normale" (E). Il tempo minimo normale è il tempo che un operaio adatto, abile e attivo può teoricamente mantenere per anni senza pregiudizio per la sua salute. Da queste valutazioni si potrà anche trarre il "tempo tipo" (standard) su cui si stabiliscono le basi della rimunerazione.

Uno studio dei tempi ben fatto ci permette così di seguire molto dappresso gl'indici di rendimento dei singoli individui e dei varî reparti. Lo studio dei tempi, in pratica, è un mezzo straordinariamente efficace e uno stabilimento industriale moderno non può più prescindere da esso.

Metodi di rimunerazione. - Sotto l'aspetto organizzativo, sono razionali quei metodi di rimunerazione che stimolano l'attività degl'individui o delle squadre senza logorazione rapida delle energie fisiche, che orientano l'impiego più utile di questa attività in rapporto alle esigenze tecniche del lavoro, con vantaggio del lavoratore e dell'azienda (v. salario).

Unificazione o standardizzazione. - L'unificazione di un determinato oggetto si basa sull'esame delle caratteristiche costruttive dei numerosi tipi in uso, sull'eliminazione di quelli irrazionali, e sull'adozione di quelli migliori dal punto di vista tecnico ed economico. L'unificazione orienta così la fabbricazione verso i pochi tipi ritenuti migliori. Per l'industriale, essa ha l'effetto di ridurre i costi di produzione, per la maggiore estensione della lavorazione in serie, di consentire rapidità, semplificazione dei magazzini, diminuzione dei capitali immobilizzati, aumento degli affari. Per il commerciante, ha l'effetto di eliminare equivoci nelle ordinazioni e di permettere concorrenza su basi più oneste, riduzione delle giacenze in magazzino e utilizzazione piena di capitali. Per il consumatore ha l'effetto di ribassare i prezzi, di facilitare l'acquisto di pezzi di ricambio, e di diminuire oneri per interruzioni.

Si sa che il problema fondamentale dell'industria è sempre quello del costo di produzione. Si può così dire, in via di massima, che lo sviluppo industriale d'un paese è strettamente legato al progresso e all'estensione della lavorazione in serie, salvi i tipi di prodotto nei quali abbiano valore prevalente le caratteristiche di qualità. L'unificazione crea appunto le condizioni più favorevoli per l'estensione delle lavorazioni in serie. L'unificazione rappresenta peraltro il sacrificio delle iniziative dei singoli nel campo dell'ideazione di nuovi tipi di oggetti, per conseguire, in compenso, una più economica produzione. L'unificazione promuove anche la collaborazione fra le varie officine; prepara gli strumenti, l'intelaiatura, le condizioni indispensabili per la cosiddetta razionalizzazione delle industrie. Essa è in certo senso anche manifestazione d'ordine e di disciplina di carattere collettivo. Mentre nella terminologia tecnica di alcuni paesi, l'unificazione dei tipi riguarda più propriamente gli elementi costruttivi di macchine e strumenti di lavoro, la riduzione del numero dei tipi di prodotti (o semplificazione) dà luogo alla cosiddetta standardizzazione del prodotto, ossia alla produzione in serie d'un determinato articolo.

Aspetti dell'organizzazione amministrativa e commerciale. - I sistemi di controllo. - Il controllo facile, sicuro, continuamente attivo è uno dei capisaldi dell'organizzazione del lavoro. Attraverso il meccanismo dei controlli, si debbono individuare gli sprechi delle energie e delle materie prime e la regolarità del funzionamento di ciascun servizio. Attualmente, oltre ai mezzi consueti (rappresentati da bollette di carico e scarico, da rendiconti e da registri) vanno sempre più diffondendosi i diagrammi di direzione, dei quali si è già parlato.

Analisi dei prezzi di msto. - In passato, le aziende non sapevano esattamente quanto costava ciascuno dei loro prodotti. Oggi tutte le aziende bene organizzate classificano accuratamente le spese, dirette o indirette, che concorrono a determinare il costo del prodotto e possono quindi dedurre elementi precisi per giudicare quali lavorazioni siano più convenienti.

Organizzazione acquisti e vendite. - Qualsiasi industriale abbia un prodotto da fabbricare o da vendere, ha interesse a conoscere e seguire i principî dettati dall'esperienza circa i modi più economici e più efficaci per assicurare al prodotto lo smercio più largo possibile. Prima di lanciarsi nella produzione d'un articolo è indispensabile un esame attento delle possibilità di vendita perché su queste soltanto può essere fondato un programma razionale di fabbricazione.

È necessario che si raccolgano sulla situazione del mercato informazioni bastevoli per rispondere, almeno in via di massima, ai seguenti quesiti: 1. quali e quanti possano essere approssimativamente i consumatoii; 2. quale bisogno sia presumibilmente da soddisfare; 3. se il bisogno che l'articolo soddisfa sia o no reale, o se sia un bisogno momentaneo; 4. se il prodotto sia unico nel suo genere oppure abbia già concorrenti; 5. se il costo previsto sia tale da rendere possibili acquisti da parte dei consumatori; 6. se la domanda del prodotto possa essere continua o uniforme durante tutto l'anno oppure periodica e ineguale; 7. se si tratti di prodotti tali da poter incontrare il favore del pubblico, e adattarsi abbastanza alle tendenze e alle abitudini della massa; 8. se il pr0dotto da lasciare giustifichi o no la previsione di una richiesta durevole e uniforme. Il segreto per organizzare e sviluppare la vendita è semplice nella sua enunciazione teorica e le difficoltà sorgono nella sua attuazione pratica. La soluzione dei problemi consiste essenzialmente: 1. nel determinare mediante l'esame del prodotto, quali siano le categorie dei consumatori; 2. nell'identificare chi siano, e dove si trovino questi clienti; 3. nella scelta dei mezzi migliori; 4. nel contatto con i clienti già acquisiti; 5. nella ricerca di sempre nuovi acquirenti.

I metodi di vendita finora attuati nella pratica sono: 1. vendita di tutta la produzione in blocco, a un solo concessionario; 2. vendita per tramite di commissarî o di rappresentanti esclusivi regionali, presso grossisti; 3. vendita per tramite di grossisti; 4. vendita per tramite dei dettagl-ianti; 5. vendita diretta del fabbricante al consumatore. Il metodo di vendita migliore, per un dato articolo, è quello che assicura la più completa distribuzione. Una delle deficienze più comuni nella gestione commerciale di molte imprese consiste nel fatto che la vendita viene condotta senza un programma d'insieme abbastanza preciso, che stabilisca in anticipo ciò che si farà nell'esercizio in corso. Un programma di vendita, per essere completo e razionale, deve prevedere una costante espansione negli affari e predisporre tutti quei mezzi che valgono a fare sviluppare le vendite da un anno all'altro.

Le funzioni d'un ufficio vendite si possono suddividere in due categorie: da un lato quelle che hanno carattere di controllo e di normale attività amministrativa; dall'altro lato quelle che hanno prevalentemente un carattere ideativo e costruttivo, in quanto contribuiscono a sviluppare le vendite; ambedue questi gruppi di attività sono utili. Quando si cerca di perfezionare l'organizzazione interna d'un ufficio vendita, è facile oltrepassare i limiti del buon rendimento dell'ufficio. Non bisogna mai perdere di vista che tra l'organizzazione d'ufficio e l'organizzazione di vendita, propriamente detta, deve sempre esservi proporzione.

I fattori fondamentali della vendita sono sempre gli stessi: 1. una pubblicità generale a svolgimento continuo, la quale ha un triplice scopo: a) creare la notorietà; b) sviluppare il consumo; c) provocare richieste dirette; 2. un'organizzazione di rivenditori o di agenti in maniera da assicurare una distribuzione adeguata del prodotto; 3. un corpo di viaggiatori bene selezionati; 4. una rete di informatori o propagandisti esiesa a tutti i centri; 5. una propaganda diretta metodicamente; 6. un sistema di controllo che permetta di seguire e di valutare nel suo svolgimento e nei suoi risultati l'attività dei viaggiatori e dei rivenditori.

Organizzazione pubblicitaria. - Pur essendo legata, come si è detto, all'organizzazione dell'ufficio vendite, la pubblicità ha oggi una fisionomia, un'importanza particolare. Essa deve trarre ispirazione dalle situazioni contingenti dei mercati, dalle caratteristiche della produzione e dalla psicologia dei consumatori e poggia soprattutto sull'abilità personale, sulla fantasia e sulla genialità degl'impiegati che vi sono preposti.

Controllo budgetaire. - È il controllo delle previsioni che si possono fare, sia nell'economia privata sia nella pubblica, dall'individuo come dall'impresa. All'amministrazione basata sull'intuito, sull'opportunismo, si sostituisce l'amministrazione ponderata, basata su elementi positivi, ossia l'amministrazione razionale. Così inteso, il budget diventa un importante strumento di razionalizzazione nella vita delle aziende. Per l'introduzione del budget in pratica, bisogna distinguere le aziende a seconda delle difficoltà che si oppongono alla introduzione stessa. In complesso l'introduzione del sistema chiama i dirigenti e i capi servizio a una più stretta collaborazione fra di loro. Per l'attuazione del sistema del controllo budgetaire si rende anche talvolta necessaria la costituzione di apposite commissioni. Queste lavorano per la fissazione degli standards, la determinazione dei coefficienti, l'esame del bilancio, ecc. Si asserisce che il budget di vendita costituisce il punto di partenza per tutti gli altri budget dell'azienda. L'elaborazione dei due budget di vendita e di produzione deve procedere di pari passo in modo da armonizzarli.

Il campo di applicazione del controllo budgetaire investe tutti i gruppi di fenomeni economici della vita dell'impresa. I vantaggi principali sono: 1. efficace controllo preventivo; 2. razionalizzazione interna; 3. migliore stabilizzazione della vita aziendale; 4. suddivisione e assegnazione delle responsabilità ai singoli, per più equo apprezzamento e compenso dei meriti di ciascuno; 5. maggiore collaborazione di tutti gli addetti fra loro; 6. esatta valutazione dell'azienda in sede di finanziamento.

Utilizzazione del personale. - Questo è un problema che può rientrare a volta a volta nell'organizzazione tecnica o nell'organizzazione amministrativa dell'azienda. L'utilizzazione razionale del fattore umano ha dato però luogo, nel volgere del tempo, a un ampio sviluppo di ricerche sperimentali e di osservazioni sistematiche, per cui si può dire che, in tutto il campo dell'organizzazione razionale del lavoro, questo sia il settore che più specificamente assume un aspetto scientifico. Attraverso gli studî sul personale si mira non soltanto al rendimento assoluto ma anche alla tutela delle energie fisiche e psichiche del lavoratore.

Nell'azienda, hanno naturalmente molta importanza la direzione, la struttura gerarchica e l'attribuzione dei compiti ai singoli componenti il personale. La direzione cresce di valore nelle industrie moderne, anche per la forma anonima delle società, e riunisce in sé compiti che non sono spesso solo economici e tecnici, ma anche politici. La struttura gerarchica deve essere dunque tale da consentire armonia di rapporti e di utili collegamenti tra i singoli servizî e uffici, e piena rispondenza di ciascun settore alle esigenze generali dell'impresa. L'utilizzazione del personale deve tener conto delle attitudini dell'individuo e delle esigenze del lavoro. Da ciò scaturiscono due ordini d'indagini, quelle che si riferiscono alla selezione e quelle che si riferiscono all'orientamento professionale. Le une e le altre sono comprese nella definizione di "psicotecnica".

Il problema fondamentale della psicotecnica è quello di far sì che l'individuo risponda al proprio mestiere in modo da: 1. produrre di più; 2. dare prodotti più perfetti e più omogenei; 3. faticare meno.

I punti di vista da cui si può guardare il problema della psicotecnica sono: quello della selezione e quello dell'orientamento. Può darsi infatti che si tratti d'indicare la carriera, la professione più adatta, e allora si fa opem di orientamento; oppure che si voglia vedere quali individui siano più adatti per una data professione, e allora si fa della selezione. I rapporti tra l'individuo e la professione, si valutano normalmente per tre vie: mediante l'interrogatorio del candidato e delle persone a contatto con esso; con l'osservazione diretta; con l'esperimento. Nella ricerca obiettiva, più che la fisionomia del candidato giova l'esame antropologico. Si analizzano per mezzo di opportuni reattivi psicologici le attitudini sensoriali, motrici, intellettuali, ecc. L'esame medico è cosa troppo tecnica perché se ne possa trattare in questa sede. Più delicato è l'esame psicologico dei soggetti, esame che è stato favorito dalla scoperta e dalla diffusione sempre maggiore della pratica dei reattivi mentali. I reattivi professionali partono dallo studio della costituzione e del meccanismo di una data professione, mentre i reattivi psicologici si basano sulla struttura psichica dei candidati. L'Italia, con le opere del Mosso, del Patrizi, del Ferrari, del Kiesov, del Niceforo, del Loriga, del Ponzo, del Pende e di altri, ha portato agli studî sulla fatica umana e sulla selezione professionale un contributo originale e importante.

Bibl.: Tra le pubblicazioni dell'E.N.I.O.S., notevoli: A. Fontana, L'organizzazione scientifica del lavoro agricolo, Roma 1927; W. Clark, Il diagramma Gantt. Uno strumento di direzione, Roma 1927; M. Fossati, L'organizzazione scientifica del lavoro in una officina meccanica, Roma 1927; R. Malinverni, La rilevazione dei costi, Roma 1927; F. Mauro, Le osservazioni di un ingegnere negli Stati Uniti d'America, Roma 1928; H. Le Chatelier, La filosofia del sistema Taylor, Roma 1929; C. Ferrari, Aspetti moderni dell'organizzazione del lavoro con particolare riferimento al fattore umano, Roma 1930; L. Palma, Aspetti pratici ed elementari dell'organizzazione scientifica del lavoro, Roma 1930; V. Zignoli, I trasporti meccanici e la loro organizzazione razionale nelle industrie, Roma 1932; E. Filene, L'era della macchina, Roma 1932; K. Hegner, La determinazione preventiva dei tempi per le lavorazioni meccaniche, Roma 1932; V. Magliocco, La pubblicità in America, Roma 1932; C. C. Hopkins, I miei successi in pubblicità, Roma 1932; L. Walter, Tecnopsicologia del lavoro industriale, Milano 1932. V. inoltre Atti del III Congresso di Organizz. scient. del lav., Roma 1928; e le riviste: L'Organizzazione scientifica del lavoro, Casa e Lavoro, L'Agricoltura razionale.

Tra le pubblicazioni straniere: F. W. Taylor, A piece rate system E. A note on Belting, Conferenza A. S. M. E. 1895; F. B. Gilbreth, Motion study (serie di articoli comparsi in Industrial Engineering), New York 1910; id., Fatigue study, New York 1926; F. W. Taylor, Shop Management, New York-Londra 1911; id., Principles of scientific management, New York-Londra 1915; C. B. Thompson, Scientific management, Cambridge 1918; Marshall, Business administration, Chicago Illinois 1921; F. B. Copley, F. W. Taylor, New York e Londra 1923; W. D. Scott e R. C, Clothier, Personnel management, Chicago-New York 1923; L. P. Alford, Management's Hand-book, New York 1924; H. Fayol, Administration industrielle et générale, Parigi 1925; C. S. Myers, Industrial psychology in Great Britain, Londra 1925; H. C. Metcalf, Scientific soundations of business administration, Baltimora 1926; id., Business management as a profession, Chicago-New York 1927; id., The psychological foundations of management, Chicago-New York 1927; E. D. Jones, The administration of industrial entreprises, New York-Londra 1926; E. E. Hunt, Scientific management since Taylor, New York 1927; R. D. Lansburgh, Industrial management, New York 1927; W. Wallace, Business forecasting, Londra 1928; Institute of industrial psychology (pubblicazione trimestrale).

L'organizzazione internazionale del lavoro.

L'Organizzazione internazionale del lavoro nacque nel 1919 dai trattati di pace, sul solco di un movimento di idee, che si era affermato nel cinquantennio precedente, a favore della legislazione internazionale del lavoro. La guerra aveva visto sorgere una nuova situazione: l'adesione a questo movimento del proletariato organizzato, che prima ne era rimasto estraneo. A Leeds nel 1916, a Stoccolma nel 1917, a Berna nel 1918, i delegati dei lavoratori dei paesi alleati, poi quelli dei paesi neutri, domandarono che i trattati di pace assicurassero alla classe operaia di tutti i paesi "un minimo di garanzie di ordine morale e materiale relative al diritto del lavoro, al diritto sindacale, alle migrazioni, alle assicurazioni sociali. ecc.". Queste richieste trovarono l'appoggio dell'opinione pubblica e dei governi, ed ebbero un'immediata conseguenza nella costituzione dell'Organizzazione, ai cui lavori partecipò a Parigi, nella Commissione della pace, la rappresentanza diretta del mondo operaio organizzato. Poiché la volontà degli autori della parte XIII del trattato di pace, sull'Organizzazione internazionale del lavoro, era quella di dare un pegno di rinnovamento al mondo operaio, si venne incontro al voto già da questo espresso, di introdurre nel nuovo istituto una rappresentanza degl'interessi professionali padronali e operai (carattere corporativo dell'Organizzazione).

Nella sua seduta del 25 gennaio 1919, la Confeienza dei preliminari di pace decise di costituire una commissione di quindici membri "per fare un'inchiesta sulle condizioni d'impiego dei lavoratori considerate dal punto di vista internazionale, esaminare i mezzi internazionali necessarî per assicurare un'azione comune nelle materie riguardanti le condizioni d'impiego dei lavoratori, e proporre la forma di un'istituzione permanente destinata a continuare l'indagine e l'esame sopraindicati in cooperazione con la Società delle Nazioni e sotto la sua direzione". Così, prima ancora di sapere quale forma avrebbe preso la Società delle Nazioni, la Conferenza dei preliminari di pace aveva studiato la creazione di un'istituzione particolare che doveva essere congiunta alla società. La commissione incominciò i suoi lavori nel febbraio 1919. Varî progetti furono discussi, fra i quali uno presentato dai delegati italiani, E. Mayor des Planches e A. Cabrini. Dopo 35 sedute, l'11 aprile si poté presentare alla Conferenza dei preliminari di pace un progetto di convenzione concordato, creante un'Organizzazione permanente per la disciplina internazionale del lavoro. Questo progetto fu adottato dalla conferenza, con qualche emendamento. Esso costituisce le prime due sezioni della XIII parte del trattato di Versailles. I quaranta articoli compresi nella prima sezione costituiscono lo statuto propriamente detto dell'O. I. L. Essi regolano la sua costituzione, il suo funzionamento e gli obblighi assunti dagli stati membri. Questo statuto è preceduto da una dichiarazione che spiega le grandi correnti di idee e le tendenze generali che sono all'origine dell'Organizzazìone internazionale del lavoro.

I metodi e i principî per il disciplinamento delle condizioni del lavoro si trovano definiti nella sezione seconda (art. 427), nei termini seguenti: 1. Il principio direttivo che il lavoro non deve essere considerato semplicemente come una merce o un articolo di commercio. 2. Il diritto di associazione in vista di tutti gli scopi non contrarî alle leggi, tanto per i salariati quanto per i datori di lavoro. 3. Il pagamento ai lavoratori di un salario che assicuri loro un livello di vita conveniente, come ciò s'intende nel loro tempo e nel loro paese. 4. L'adozione della giornata di otto ore o della settimana di quarantotto ore come fine da raggiungere dove non è stato ancora raggiunto. 5. L'adozione di un riposo settimanale di ventiquattro ore almeno, che dovrebbe comprendere la domenica, sempre quando fosse possibile. 6. La soppressione del lavoro dei fanciulli e l'obbligo di ridurre nei limiti del necessario il lavoro dei giovani di ambo i sessi, onde permetter loro di continuare l'educazione ed assicurare il loro sviluppo fisico. 7. Il principio del salario uguale, senza distinzione di sesso, per un lavoro di eguale valore. 8. L'assicurazione di un trattamento economico equivalente a tutti í lavoratori residenti legalmente nel paese. 9. L'organizzazione in ciascuno stato di un servizio d'ispezione, che comprenda delle donne, per assicurare l'applicazione delle leggi e regolamenti sulla protezione dei lavoratori.

Gli stati membri. - Una delle maggiori preoccupazioni dell'Organizzazione internazionale del lavoro, fin dalla sua nascita, è stata quella di aumentare, più che fosse possibile, il numero dei suoi membri e di accentuare il suo carattere di universalità, non solo quanto alle nazioni partecipanti, ma anche quanto alle tendenze politiche e sociali da accogliere e agli interessi da proteggere. Ai termini dell'articolo 387 del trattato di pace, i membri originarî della Società delle Nazioni sono membri originarî dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Attualmente, dopo il ritiro della Germania (ottobre 1933), 56 paesi sono aderenti all'O. I. L. Gli stati che ancora non sono membri sono: Afghānistān, Costa Rica, Egitto, Ecuador, Stati Uniti, Hedjaz (al-H gāz), U. R. S. S. Tre degli stati che si erano iscritti come membri originarî della Società delle Nazioni non lo sono mai diventati: Hedjaz, Ecuador e Stati tniti.

Per ciò che concerne l'U. R. S. S. essa non ha cessato di essere ostile all'O. I. L. Qualche contatto era stato preso in occasione delle conferenze di Ginevra e dell'Aia nel 1922 ma, in seguito, i dirigenti dell'U. R. S. S. sono ritornati alla loro intransigenza primitiva. Dal punto di vista dell'ufficio esecutivo dell'Internazionale sindacale rossa, l'O. I. L. è "un'agenzia riformista dell'imperialismo mondiale", con cui non si deve collaborare, neppure scientificamente.

La Conferenza internazionale del lavoro. - L'Organizzazione internazionale del lavoro si compone di due organi: la Conferenza internazionale del lavoro e l'Ufficio internazionale del lavoro, diretto da un consiglio d'amministrazione. La conferenza si riunisce in sessioni almeno una volta l'anno. Ciascuno stato membro dell'Organizzazione ha il diritto di farsi rappresentare da quattro delegati, che sono nominati per la durata della sessione. Due di essi rappresentano i governi e gli altri due, sebbene nominati egualmente dai governi, rappresentano, rispettivamente, i datori di lavoro del proprio paese da una parte e i lavoratori dall'altra. Ciascun delegato può essere accompagnato da consiglieri tecnici, in numero di due, al massimo, per ogni materia iscritta all'ordine del giorno della sessione. Questi consiglieri tecnici possono, se necessario, agire in qualità di supplenti dei loro delegati. I delegati e consiglieri tecnici non governativi devono essere nominati dal governo "d'accordo con le organizzazioni professionali più rappresentative del paese". Partecipando ai lavori della Conferenza, questi delegati possono agire indipendentemente e anche, quando lo ritengano necessario, contro l'indirizzo dei delegati rappresentanti gl'interessi governativi veri e proprî; essi si sentono legati dalla cosiddetta solidarietà di gruppo: del gruppo dei delegati padronali da una parte, e del gruppo dei delegati operai dall'altra.

L'Italia ha avuto a capo della delegazione, nella prima sessione, il sen. E. Mayor des Planches (1919) e, dal 1920 in poi, ininterrottamente il sen. G. De Michelis. Come delegati padronali: nel 1919 F. Quartieri (suppl. E. Baroni), nel 1920 il prof. D. Brunelli; e dal 1921 in poi l'on. G. Olivetti. Come delegati operai: nel 1919 l'on. G. Baldesi, nel 1920 l'on. G. Giulietti, nel 1921 l'on. G. Baldesi, nel 1922 l'on. L. D'Aragona, dal 1923 al 1928 l'on. E. Rossoni e, da allora in poi, l'on. L. Razza; e nella sessione marittima del 1930 l'on. I. Magrini. Secondo delegato governativo è stato: nel 1919 l'on. A. Cabrini (suppl. G. Di Palma-Castiglione), nel 1920 P. Fedozzi, dal 1921 al 1923 L. Solinas, nel 1924 e 1925 G. Marolla, nel 1926 e nel 1930 il generale G. Ingianni, dal 1927 al 1929 I. Giordani e, da allora, A. Anselmi.

Singolare è dunque il carattere dell'Organizzazione internazionale del lavoro: diplomatico per l'origine statale di tutti i delegati, ma corporativo per il modo di funzionamento. Fondamentale è tuttavia questo fatto: ch'essa è un'organizzazione i cui membri sono gli stati e la cui finalità è il compimento di un'opera che riguarda le funzioni dello stato e che quindi non può essere realizzata che dagli stati. La novità della parte XIII consiste nell'avere organizzato un sistema per mezzo del quale negli organi internazionali incaricati di elaborare i progetti di convenzione e le raccomandazioni relative alla legislazione internazionale del lavoro, l'opera dei governi può svolgersi con l'utile collaborazione di persone specialmente qualificate per esprimere i punti di vista degl'interessi padronali e operai. Ma questa presenza di rappresentanti professionali è stata organizzata dalla parte XIII in modo da mantenere fermo il carattere ufficiale e interstatale dell'Organizzazione del lavoro. Ogni delegato padronale e operaio alla conferenza fa parte della rappresentanza di uno stato membro ed è nominato da un governo. I redattori della parte XIII, pur associando all'opera dell'Organizzazione internazionale del lavoro i rappresentanti delle classi interessate, hanno voluto salvaguardare il carattere ufficiale e governativo dell'Organizzazione, dando ai delegati governativi, sia nella conferenza sia nel consiglio d'amministrazione dell'Ufficio internazionale del lavoro, una situazione preponderante. Essi videro che l'opera dell'Organizzazione internazionale del lavoro sarebbe riuscita infeconda se non avessero avuto una parte decisiva i governi responsabili, che soli possono portare a effetto le deliberazioni della conferenza. Contro questi principî ha prevalso, nei primi anni di funzionamento dell'organizzazione, la cosiddetta autonomia di gruppo, sia del gruppo padronale, sia di quello operaio; con manifestazioni più gravi in questo ultimo gruppo, animato dall'affermazione esclusiva di una particolare tendenza politica, quella socialista riformista. L'Italia ha dovuto durare lunghi sforzi per richiamare l'Organizzazione ai principî, contro queste e altre tendenze degenerative.

L'ordine del giorno della Conferenza è stabilito dal consiglio d'amministrazione. Le deliberazioni della Conferenza sulle questioni iscritte all'ordine del giorno prendono la forma di progetti di convenzioni o la forma di raccomandazioni. Esse sono obbligatoriamente sottoposte dai governi di ciascuno stato membro, nel termine di un anno (diciotto mesi in casi eccezionali), alle autorità competenti rispettive (in generale il parlamento) per poter procedere alla ratifica delle convenzioni e all'applicazione delle raccomandazioni. I progetti di convenzione diventano convenzioni fra gli stati che li hanno ratificati. Quando uno stato ha ratificato ufficialmente un progetto di convenzione, esso ha provveduto a mettere la sua legislazione in armonia con le disposizioni della convenzione e ad assicurarle un'applicazione effettiva. Esso deve, d'altra parte, presentare tutti gli anni un rapporto sulle misure prese a questo riguardo. Questi rapporti sono sottoposti all'esame di una commissione della conferenza. L' Ufficio internazionale del lavoro pubblica ogni mese un prospetto sulla situazione di ciascun paese in materia di ratifiche e delle loro applicazioni. Per le raccomandazioni non esiste ratifica, ma le misure prese per la loro applicazione devono essere comunicate al segretario generale della Società delle Nazioni.

L'ufficio internazionale del lavoro. - All'ufficio è assegnato nella Organizzazione un compito analogo a quello che ha il segretariato della Società delle Nazioni nei riguardi di questa. Esso ha sede in Ginevra. Il suo direttore è nominato dal consiglio d'amministrazione. Primo direttore, dal 1920 al 1932, è stato Albert Thomas, già ministro delle Munizioni della repubblica francese e deputato. Dopo la morte di lui (7 maggio 1932) gli è succeduto Harold Butler, di nazionalità britannica, che aveva ricoperto la carica di vicedirettore fin dalla creazione dell'ufficio. Il personale comprende 400 persone circa.

Le attività principali dell'U. I. L. sono le seguenti: 1. Prepara l'ordine del giorno del consiglio d'amministrazione e della Conferenza e assicura l'esecuzione delle loro decisioni. 2. Esegue accurate ricerche nel campo dei problemi economici e sociali: condizioni di lavoro (contratto di lavoro, durata di lavoro, salarî, ecc.), disoccupazione, migrazioni, igiene e assicurazione, lavoro agricolo, insegnamento tecnico, statistiche operaie, ecc. 3. Mantiene continue relazioni con le associazioni e le istituzioni che si occupano dei problemi del lavoro; raccoglie informazioni sugli avvenimenti di attualità nel movimento sociale mondiale e le mette a disposizione degli stati e di altri organismi interessati. 4. Cura l'edizione di pubblicazioni periodiche o altre contenenti informazioni sui problemi sociali e del lavoro, e di studî comparativi sui diversi aspetti di questi problemi.

Il consiglio d'amministrazione controlla l'attività dell'U. I. L., nomina il direttore, stabilisce il bilancio dell'Organizzazione, fissa l'ordine del giorno delle sessioni della conferenza ed esercita altre funzioni; come, p. es., l'istruzione di ricorsi per la mancata applicazione delle convenzioni ratificate. Si riunisce, in generale, quattro volte l'anno. Si compone di 24 membri di cui otto rappresentano gli stati che hanno un'importanza industriale maggiore (Belgio, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, India, Italia, Giappone). L'Italia vi è stata rappresentata nel 1920 dal sen. Mayor des Planches e dal 1920 in poí, ininterrottamente, dal sen. De Michelis. Quattro membri sono nominati dai governi dei quattro stati designati a questo scopo ogni tre anni dai delegati governativi alla conferenza, e scelti fuori degli otto stati suddetti. Infine sei membri sono eletti, ogni tre anni, dai delegati padronali e sei membri sono eletti dai delegati operai alla conferenza. Fra i delegati padronali è stato finora sempre eletto un italiano. I quattro stati designati dal gruppo governativo, al momento dell'ultima rielezione del consiglio (nel giugno 1931) sono: il Brasil-, la Danimarca, la Spagna, la Polonia. I rappresentanti padronali e operai attualmente in carica appartengono alle seguenti nazionalità: Padroni: Cina, Francia, Danimarca, Italia, Impero Britannico, Germania. Operai: Impero Britannico, Canada, Svezia, Francia, Belgio, Germania. Tra i delegati padronali eletti dalla conferenza è stato incluso fino al 1921 il dott. A. Pirelli, e da allora in poi, ininterrottamente, l'on. G. Olivetti. È in via di ratificazione un emendamento dell'articolo 422 del patto, che porterà il numero dei componenti il consiglio da 24 a 32; e cioè 16 governativi, 8 padronali e 8 operai. Il primo presidente del consiglio è stato il francese A. Fontaine, che tenne la carica per 11 anni, fino alla sua morte (1932). Ora la carica è data per turno ai membri governativi del consiglio e dura un anno.

Allo scopo di aiutare l'Ufficio internazionale del lavoro nell'adempimento dei suoi compiti sono state istituite delle commissioni e dei comitati. I principali fra essi sono: commissione paritetica marittima, istituita nel 1920 (composta di rappresentanti degli armatori, dei marinai, e del consiglio di amministrazione dell'U. I. L.); comitato di corrispondenza per le assicurazioni sociali, istituito nel 1921 (composto di esperti); commissione consultiva mista agricola, istituita nel 1922 (composta di rappresentanti del consiglio di amministrazione dell'U. I. L. e del comitato permanente dell'Istituto internazionale di agricoltura, assistiti da esperti); comitato di corrispondenza per l'igiene industriale, istituito nel 1922 (composto di esperti); sottocomitato, incaricato di studiare specialmente i problemi della sicurezza del lavoro, mentre un certo numero di specialisti si occupa delle questioni relative alla fatica industriale; comitato del lavoro indigeno, istituito nel 1920 (composto di esperti); commissione dell'art. 408, istituita nel 1927, e incaricata di esaminare i rapporti sull'applicazione delle convenzioni, presentati in virtù dell'art. 408 del trattato di Versailles dagli stati che le hanno ratificate (composta di esperti); commissione consultiva dei lavoratori intellettuali, istituita nel 1927 (composta di rappresentanti del consiglio di amministrazione dell'U. I. L., della commissione internazionale di cooperazione intellettuale e delle organizzazioni dei lavoratori intellettuali, assistiti da esperti); commissione consultiva degl'impiegati, istituita nel 1929 (composta di rappresentanti del consiglio di amministrazione dell'U. I. L., delle organizzazioni degl'impiegati e delle organizzazioni di datori di lavoro); commissione delle migrazioni, istituita nel 1929 (composta di rappresentanti del consiglio di amministrazione dell'U. I. L. e di esperti); comitato di corrispondenza per la prevenzione degl'infortunî (esperti), incaricato di studiare specialmente le questioni di sicurezza; comitato di corrispondenza per lo studio delle condizioni di lavoro delle donne, creato nel 1932.

Allo scopo di mantenere un contatto diretto permanente coi diversi paesi, l'U. I. L. ha istituito degli uffici di corrispondenza in Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, India, Italia (on. A. Cabrini), Giappone. Vi sono pure dei corrispondenti ufficiali nelle seguenti capitali, dove non esistono uffici di corrispondenza: Belgrado, Bruxelles, Bucarest, Buenos Aires, Madrid, Praga, Rio de Janeiro, Varsavia e Vienna.

Competenza dell'Organizzazione internazionale del lavoro. - Tutto ciò che è chiamato lavoro può rientrare nella competenza regolatrice dell'Organizzazione. Si è sostenuto che le questioni economiche in generale non siano di sua competenza. Vi sono molte questioni di economia applicata che non sono questioni di lavoro, ma queste sono così intimamente unite a tante questioni economiche, che sarebbe di fatto impossibile separarle. Tuttavia, questo principio è stato contestato, quando si è trattato di sapere se il lavoro agricolo rientrasse nella sfera d'azione dell'Organizzazione. La questione portata dal Consiglio della Società delle nazioni, su domanda del governo francese, davanti alla Corte permanente di giustizia internazionale nel 1922, è stata da questa risolta positivamente. Uguale contestazione e con lo stesso risultato si è avuta a proposito del regolamento del lavoro stesso dei padroni, quando quel regolamento può essere necessario per proteggere il lavoro dei salariati. L'Organizzazione internazionale del lavoro è stata d'altra parte riconosciuta competente, senza contestazioni, a occuparsi dei lavoratori intellettuali, degl'impiegati, dei mutilati, degli emigranti.

Sanzioni. - Ai termini dell'art. 408 del trattato di Versailles ogni stato membro dell'Organizzazione s'impegna a presentare all'U. I. L. un rapporto annuale sulle misure prese per mettere in esecuzione le convenzioni che ha ratificate. L'obbligo di presentare questo rapporto può già essere considerato come un principio di sanzione, poiché lo stato che lo presenta è già tenuto a osservare gli obblighi che ha contratti. Gli articoli 409 e 410 del trattato regolano la procedura in caso di reclami. Questi possono essere fatti all'U. I. L. da un'organizzazione professionale operaia o padronale. Il consiglio di amministrazione decide se il reclamo deve essere trasmesso allo stato membro interessato e se questo deve essere invitato a "fare sulla materia quelle dichiarazioni che crederà opportune". Se nessuna risposta giunge o se questa risposta non sembra soddisfacente, il consiglio di amministrazione ha il diritto di rendere pubblico il reclamo ricevuto e, in caso, la risposta data. La lagnanza può venire da un membro che ha ratificato la convenzione, ma può anche essere formulata di ufficio dal consiglio di amministrazione o da un delegato alla conferenza. Il consiglio, dopo avere impiegato la procedura di conciliazione sopra indicata, può richiedere una commissione d'inchiesta. Questa commissione viene designata dal segretario generale della Società delle nazioni su una lista composta di persone indicate da ogni stato in numero di tre e verificata dal consiglio. Il rapporto della commissione d'inchiesta non si limita alla constatazione dei fatti, ma comprende "delle raccomandazioni sulle misure da prendere per dare soddisfazione al governo reclamante". Esso indica anche le sanzioni d'ordine economico che dovrebbero, secondo la commissione, essere applicate al colpevole dagli altri governi. Dopo avere ricevuto comunicazione del rapporto, ogni governo deve dichiarare se accetta le raccomandazioni della commissione e se desidera sottoporre la controversia alla Corte permanente di giustizia internazionale. La Corte può confermare, emendare o annullare le conclusioni della commissione e ordinare altre sanzioni. I mezzi giuridici di coercizione sono scarsamente efficaci. In tredici anni di attività dell'Organizzazione, non si è verificato alcun caso di ricorso. Allo stato delle cose si deve contare sull'influenza morale di certe regole di rapporti internazionali, appena sussidiata dalle scarse sanzioni giuridiche suaccennate.

L'opera legislativa. - Durante le diciassette sessioni, che ha tenute dal 1919 al 1933, la conferenza ha adottato, o fatto suoi, progetti di convenzione che stabiliscono specialmente i seguenti principî: Prima sessione, 1919:1) Le ore di lavoro nell'industria non devono essere più di otto per giorno e quarantotto per settimana. 2) Obbligatorietà del sistema di uffici di collocamento pubblico e gratuito. 3) Le donne non devono essere impiegate nell'industria o nel commercio nelle sei settimane precedenti e nelle sei settimane seguenti il parto; esse devono ricevere durante questo periodo una speciale indennità. 4) Le donne non devono essere autorizzate a lavorare di notte nell'industria. 5) Non devono essere impiegati nell'industria i fanciulli che abbiano meno di 14 anni. 6) Il lavoro notturno è interdetto per tutti i giovani che abbiano meno di 18 anni. Seconda sessione (sessione marittima), 1920. 7) Non devono essere impiegati a bordo delle navi i ragazzi che abbiano meno di 14 anni. 8) I marinai devono ricevere un'indennità di disoccupazione in caso di perdita per naufragio della nave su cui erano imbarcati. 9) Devono essere messi a disposizione dei marinai uffici di collocamento gratuiti. Terza sessione, 1921: 10) I fanciulli che abbiano meno di 14 anni non devono essere impiegati nell'agricoltura, se la loro assiduità alla scuola possa soffrirne. 11) Gli operai agricoli devono godere degli stessi diritti di associazione e di coalizione degli operai industriali. 12) I lavoratori agricoli devono essere contemplati dalle leggi che riguardano l'indennità per gl'infortunî sul lavoro. 13) L'uso della biacca è proibito nei lavori di pittura interna degli edifici. 14) Tutti i lavoratori industriali devono godere di un giorno di riposo per settimana. 15) Nessuno al di sotto di 18 anni deve lavorare a bordo dei bastimenti come carbonaio o fuochista. 16) I giovani che abbiano meno di 18 anni, impiegati a bordo dei bastimenti, devono ogni anno provvedersi di un certificato di attitudine fisica. Quarta, quinta e sesta sessione, 1922-1924: in queste sessioni la conferenza ha adottato soltanto delle raccomandazioni, per dare agli stati il tempo di esaminare le convenzioni adottate precedentemente e di prendere disposizioni al riguardo. Settima sessione, 1925: 17) In caso d'infortunî sul lavoro, gli operai devono ricevere un'indennità. 18) Gli operai devono ricevere, in cas0 di malattia professionale, un'indennità. 19) I lavoratori stranieri in caso d'infortunî sul lavoro devono avere lo stesso trattamento dei lavoratori nazionali. 20) Deve essere proibito il lavoro notturno nelle panetterie. Ottava sessione, 1926: 21) L'ispezione degli emigranti a bordo deve essere semplificata. Nona sessione (sessione marittima), 1926: 22) Il contratto d'impiego dei marinai deve essere sottoposto a regole uniformi circa la sua conclusione e la sua esecuzione. 23) I marinai sbarcati durante o alla fine del contratto devono essere rimpatriati. Decima sessione, 1927: 24) Un sistema di assicurazione-malattie obbligatoria deve essere adottato per i lavoratori industriali e del commercio e per i domestici. 25) Un sistema di assicurazione-malattie deve essere adottato per gli agricoltori. Undicesima sessione, 1928: 26) Un meccanismo di fissazione dei salarî minimi dev'essere stabilito per le industrie a bassi salarî. Dodicesima sessione, 1929: 27) I grossi colli trasportati dai bastimenti devono portare l'indicazione del loro peso. 28) Gli operai occupati al carico e allo scarico delle navi devono essere protetti contro gl'infortunî. Tredicesima sessione (sessione marittima), 1929: durante questa sessione la conferenza ha sottoposto a un primo esame, e ha deciso di mettere all'ordine del giorno in una delle sue prossime sessioni, quattro questioni concernenti il lavoro marittimo. Quattordicesima sessione, 1930: 29) Il lavoro forzato e obbligatorio degl'indigeni nei territorî coloniali deve essere soppresso. 30) La durata di lavoro degl'impiegati di commercio e di ufficio deve essere di 48 ore per settimana e di 8 ore per giorno. Quindicesima sessione, 1931: 31) La permanenza nelle miniere sotterranee dì ogni operaio non deve superarle sette ore e 45 minuti per giorno. Sedicesima sessione, 1932: 32) I ragazzi inferiori ai 14 anni non possono essere ammessi al lavoro nelle professioni non industriali. 33) La conferenza ha fatto una revisione su qualche punto del progetto di convenzione n. 28 votato nel 1929. Diciassettesima sessione, 1933: 34) Nel termine di tre anni devono essere soppressi gli uffici di collocamento a pagamento che hanno fine di lucro; e si devono stabilire delle licenze per gli uffici che fanno pagare una tassa, pur non avendo fine di lucro. 35) Deve essere istituita l'assicurazione-vecchiaia obbligatoria dei salariati delle imprese industriali e commerciali, delle professioni liberali, dei lavoratori a domicilio e dei domestici. 36) La stessa assicurazione dev'essere stabilita per i salariati delle imprese agricole. 37) Deve essere istituita l'assicurazione-invalidità per i salariati delle imprese industriali e commerciali, delle professioni liberali, dei lavoratori a domicilio e dei domestici. 38) La stessa assicurazione dev'essere stabilita per i salariati delle imprese agricole. 39) Dev'essere istituita l'assicurazione-decesso per i salariati delle imprese industriali e commerciali, delle professioni liberali, dei lavoratori a domicilio e dei domestici. 40) La stessa assicurazione dev'essere stabilita per i salariati delle imprese agricole. Durante queste diciassette sessioni, che si sono tenute dal 1919 al 1933, la conferenza ha adottato inoltre 42 raccomandazioni. Al 1° giugno 1933 le ratifiche dei progetti di convenzione registrate erano 505 e provenivano da 34 paesi. L'Italia fu chiamata due volte alla presidenza della conferenza: Genova 1920 (sen. Mayor des Planches); Ginevra 1933 (sen. G. De Michelis).

Il lavoro d'informazione. - Oltre l'opera legislativa, l'Organizzazione internazionale del lavoro ha la funzione di raccogliere e distribuire tutte le informazioni possibili circa il regolamento delle condizioni dei lavoratori e del regime di lavoro. La distribuzione delle informazioni si presenta sotto due forme principali: da una parte, la risposta alle domande di informazioni particolari, dall'altra, numerose pubblicazioni periodiche (Rivista internazionale del lavoro, Informazioni sociali, Bibliografia di igiene industriale, Cronaca della sicurezza industriale, Serie legislativa, Raccolta internazionale di giurisprudenza del lavoro, Bollettino ufficiale, Bibliografia dell'organizzazione internazionale del lavoro, Annata sociale, Documenti della conferenza internazionale del lavoro, ecc.) e non periodiche (Studî e documenti, Studî speciali, Pubblicazioni diverse). Quest'attività è tale da promuovere per la sua parte l'opera legislativa.

Alle relazioni fra l'Italia e l'Organizzazione internazionale del lavoro provvede il delegato permanente del governo nel consiglio di amministrazione; egli è tramite di tutte le comunicazioni tra l'Organizzazione e le amministrazioni del regno, e cura la trattazione e l'esecuzione delle pratiche inerenti allo svolgimento dell'attività della O. I. L. nei riguardi dell'Italia. Presso il Ministero degli affari esteri è istituito un comitato interministeriale per la legislazione internazionale del lavoro, presieduto dal ministro degli Esteri; l'ufficio di segreteria è affiancato dalla consulenza permanente del R. Delegato nel consiglio di amministrazione del B. I. T.

Problemi di attualità. - L'opera legislativa dell'Organizzazione internazionale del lavoro copre ormai tutto il campo della tradizionale legislazione di protezione operaia. Si è venuto ormai a costituire in proposito un diffuso tipo internazionale, capace di promuovere il progresso di questa legislazione, perché fissato secondo la risultante di interessi riformatori operai e di interessi conservatori padronali, di tendenze governative di paesi ad alta evoluzione industriale e di paesi a evoluzione industriale più lenta. Questo livello medio di compromesso assicura l'elevazione dei più arretrati regimi industriali, e difende senza ritardarla l'evoluzione di quelli più avanzati, protetta dall'eguaglianza internazionale di condizioni di lavoro contro la concorrenza economica. La prima direzione alacre di Albert Thomas ha assicurato all'Organizzazione internazionale del lavoro questi cospicui risultati legislativi, nonostante le gravi difficoltà che il mondo economico e sociale ha attraversate nello stesso primo decennio dell'istituzione. E tuttavia non si è mancato di vedere i problemi nuovi posti sul terreno dell'Organizzazione, soprattutto per impulso del rappresentante dell'Italia, portatore dello spirito delle nuove esperienze sociali nazionali. Alludiamo specialmente ai problemi che sono al centro della vita del lavoro: le forme e le regole dell'associazione sindacale, la contrattazione collettiva, la soluzione pacifica dei conflitti del lavoro; problemi da cui dipende, ben più che dalla tradizionale norma protettiva del singolo, l'inserzione del lavoro nella vita della produzione e dello stato. Intanto la crisi economica ha incalzato. Anche per questo verso, problemi ardui si sono proposti all'azione internazionale nel campo del lavoro: rimedî alla disoccupazione operaia, e, risalendo alle cause di questa, apprestamento di un nuovo regime di lavoro adeguato ai rapidi progressi della tecnica. È entrata rapidamente nella fase preparatoria di soluzioni legislative internazionali la proposta italiana di un'ulteriore riduzione dell'orario settimanale di lavoro, non solo come rimedio di emergenza contro la disoccupazione, ma come prima approssimazione a un assetto della durata del lavoro conforme alle nuove esigenze. Una conferenza tecnica, proposta dall'Italia, si tenne appositamente a Ginevra nel gennaio 1933 e le sue conclusioni favorevoli sono state portate alla conferenza generale dello stesso anno che ha deciso d'iscrivere la questione alla sessione del 1934.

È risultata sempre più evidente negli ultimi anni, sul terreno nazionale e sul terreno internazionale, l'interdipendenza, più che la semplice connessione, fra l'elemento economico e quello sociale. Anche l'Organizzazione internazionale del lavoro, grazie agli ammonimenti della rappresentanza italiana, è venuta ad acquistare questa consapevolezza e ad agire in conseguenza. Un'applicazione, fra tante, di questo principio si è promossa sul terreno internazionale, per iniziativa di G. De Michelis presso la Società delle nazioni, e interessa tanto la S. d. N. in generale, quanto particolarmente l'Organizzazione del lavoro: non si possono elevare le condizioni del lavoro nel mondo, e quindi le condizioni delle società umane, se non redistribuendo le possibilità di lavoro, cioè le possibilità d'impiego delle terre e dei capitali a beneficio del lavoro dell'uomo, rifatto libero di muoversi per produrre nelle migliori condizioni per sé e per la collettività nazionale e umana.

Bibl.: A. Thomas, Rapports à la conférence internationale du travail, 1920 à 1932, Ginevra; id., International Labour Organisation, in The Encyclopaedia Britannica, 14ª ed., 1929; E. Mahaim, L'Organisation permanente du travail, Parigi 1923; T. Perassi, Lezioni di Diritto Internazionale, Napoli 1924 seg.; C. Arena, Problemi italiani di lavoro. La tutela internazionale del lavoro, Roma 1927; Dieci anni di Organizzazione internazionale del lavoro, Roma 1930; G. De Michelis, L'Italia nell'Organizzazione internazionale del lavoro, Roma 1930; Conférence internationale du travail, session I à XVI, Ginevra.

Datore e Prestatore di lavoro.

Nella famiglia primitiva, nella tribù, nel clan, l'uomo lavora già alle dipendenze di un capo; ma la figura vera e propria del datore di lavoro appare quando, disciolti i clan, accanto ai capi di famiglia che possiedono terre e schiavi, si hanno degli uomini - diseredati a causa del diritto di primogenitura, schiavi fuggiti dal proprio padrone, piccoli proprietarî rovinati, avventurieri in cerca di fortuna - i quali nulla posseggono all'infuori delle loro braccia e del loro talento. In conseguenza dei maggiori e nuovi bisogni che per l'avvenuta trasformazione della società sono andati creandosi nei singoli proprietarî come nel corpo sociale, il lavoro di questi uomini liberi, che viene a compensare la deficienza o l'insufficienza della mano d'opera schiava, è generalmente accettato e ricercato.

Così s'inizia nella storia il libero commercio, la compravendita dell'energia lavoro. E su questo primitivo mercato di lavoro, formatosi per processo naturale sulle rovine delle comunità patriarcali, le figure del datore e del prestatore di lavoro si rivelano nella loro forma rudimentale. Il lavoro salariato s'inizia anzitutto nella pastorizia e nell'agricoltura, e anche nel commercio o, per meglio dire, nella navigazione. Sono anzitutto dei padroni di casa, dei proprietarî, che al numero dei proprî familiari e dei proprî schiavi aggiungono degli ausiliarî; solo con il progredire dell'urbanesimo sorge e si fa sempre più frequente il datore di lavoro dell'industria o, per meglio dire, dell'artigianato.

Nei primi tempi il datore di lavoro è in ogni caso anch'egli un lavoratore e condivide diuturnamente l'opera comune coi proprî dipendenti, differenziandosi da loro unicamente per la sua superiorità economica e gerarchica. La sua caratteristica peculiare sta nei poteri illimitati di cui egli dispone sull'operaio libero.

L'esodo dei grandi proprietarî dalla campagna alla città, e più tardi il sorgere delle grandi società finanziarie che lavorano a proprio conto o per conto dello stato, allontanano e differenziano dovunque sempre più il datore dal prestatore di lavoro; anzitutto nell'agricoltura, poi nella navigazione, nel commercio, e nell'industria. E con la crescente divisione del lavoro la figura del datore di lavoro viene ad assumere nei riguardi del lavoratore libero una molteplicità e una complessità d'aspetti in tutto simile a quella che anche oggi si riscontra. Allora lo stato viene a interporsi fra il datore di lavoro e i lavoratori liberi, regolandone variamente i rapporti.

Dal diritto babilonese come dal diritto greco si apprende che la prestazione di lavoro contro retribuzione da parte di liberi lavoratori avveniva, all'inizio, a simiglianza diretta della locazione di schiavi da parte del loro padrone; ossia per lo più sotto forma di locazione (o compra) di un uomo libero, che in tal modo cedeva non solo il suo lavoro, ma sé stesso. Spesso si trova anche impiegata una certa finzione di schiavitù, mediante l'asservimento spontaneo per un certo tempo. Questa concezione forma il passaggio al vero e proprio contratto di lavoro libero che già nel secondo periodo della repubblica troviamo fissato nel diritto romano, il quale sottopose il lavoro, ossia l'energia di lavoro, al concetto di locazione, come un bene reale di cui l'operaio cedeva al datore di lavoro, contro pagamento, l'uso (se et operas suas - locatio operarum) o il risultato (locatio operis). Va notato che con la crescente divisione del lavoro e col conseguente bisogno di mano d'opera qualificata, nell'industria o, più precisamente, nell'artigianato, il datore di lavoro antico, preoccupandosi del buon andamento della propria azienda, comincia già ad assumere, accanto ai lavoratori liberi, dei giovani inesperti che egli s'impegna a istruire nel proprio mestiere contro un corrispettivo pagatogli dalle rispettive famiglie. Così, sin dall'antichità, il datore di lavoro viene ad acquistare anche quella fisionomia di maestro, che per molti secoli rimane ad esso inscindibilmente legata nelle arti e nei mestieri.

Caduto l'impero romano, mentre in Oriente si conserva il regime prevalentemente statale instaurato nell'epoca imperiale, in Occidente l'economia ritorna alle primitive condizioni dell'epoca patriarcale. La prestazione di lavoro ricomincia allora la sua evoluzione per tappe simili a quelle osservate nel mondo antico.

In tutto il periodo del basso Medioevo, fin dal sec. XI, nelle famiglie, nei feudi, nei monasteri si produce solo per quel tanto che basta ai proprî bisogni, con mano d'opera generalmente non libera. La servitù della gleba toglie al proprietario agricolo ogni carattere di datore di lavoro; ma anche sui rari lavoratori liberi che rimangono, il datore di lavoro può sempre valersi, come in antico, del proprio prepotere; talché la libertà di questa classe di lavoratori non è in realtà che una mezza schiavitù. A partire dal sec. XI, col rifiorire del commercio, s'inizia il movimento di emancipazione dalla servitù in cui sino ad allora vivevano il mercante e l'artigiano; movimento che viene ad avere il suo compimento tra il sec. XIII e il XIV. Con la libertà del lavoro tornano allora a comparire le vere e proprie figure del datore di lavoro e del prestatore d'opera, ma con caratteri ormai diversi da quelli che esse presentavano nel mondo antico. La schiavitù e la servitù, se pure non completamente abolite, non formano più la base della società; e un nuovo concetto della prestazione del lavoro per terzi è ormai radicato, poiché il lavoro al servizio di un padrone non è più, come nel mondo antico, considerato cosa degradante, bensì cosa degna dell'uomo libero.

Il datore di lavoro medievale caratteristico è l'artigiano o piccolo industriale, il quale lavora nella sua bottega coadiuvato da apprendisti e operai salariati, secondo il bisogno. L'essere padrone di bottega, ossia datore di lavoro, rappresenta, in tutto il Medioevo, un certo privilegio, che si acquista con il titolo di maestro dell'arte mediante una prova di capacità professionale sostenuta alla fine del periodo di tirocinio obbligatorio, e che si mantiene solo sotto l'osservanza di certe regole di onore professionale.

A questo datore di lavoro fa riscontro, come figura tipica del prestatore d'opera del Medioevo, il compagno, ossia l'operaio che dopo avere compiuto il tirocinio obbligatorio non abbia sostenuta la prova di capacità professionale o che, avendola sostenuta, non disponga dei mezzi necessarî per aprire bottega. Oltre che essere salariato, il compagno entra spesso, al pari dell'apprendista, a far parte della famiglia del datore di lavoro, che lo nutre e lo alloggia.

L'ambiente dell'economia domestica patriarcale continua così a riflettersi, durante il Medioevo, nei rapporti fra datore e prestatore di lavoro, sotto l'aspetto di diritti e doveri reciproci che esorbitano dal campo del puro e semplice rapporto di lavoro, e che vengono anche a stabilire una vera e propria scala gerarchica, in cui il compagno sta al secondo gradino, tra l'apprendista e il maestro.

A partire dal sec. XIV, quando, con l'intensificarsi del commercio di esportazione, cominciò a formarsi quella prevalenza economica di azienda, d'industria su industria, che il regime corporativo aveva invece mirato a evitare, il privilegio di diventare padrone di bottega fu circondato di norme sempre più rigorose. Allora, per essere datore di lavoro, si richiesero, oltre agli esami, alcune particolari condizioni economiche, nonché il pagamento di elevati diritti pecuniarî; i garzoni, oltre gli anni prescritti come tirocinio, furono tenuti a servire per un certo numero di anni come semplici operai, prima di avere il diritto di aprire bottega per proprio conto; le prove di capacità professionale furono rese maggiormente difficoltose per tutti quelli che non facevano parte della famiglia del maestro.

Col fiorire del grande commercio internazionale e con la conseguente formazione di grandi capitali, accanto al datore di lavoro artigiano si sviluppa progressivamente e si afferma, già nel Medioevo, anche la figura del datore di lavoro capitalista. Sorta anzitutto nell'industria della lana e della seta, a Gand, a Ypres, a Lilla, a Douai, ad Amiens, a Firenze, questa nuova figura di datore di lavoro, tra il sec. XII e il XV, si estende rapidamente ad altre industrie, come l'industria dei metalli lavorati, delle ceramiche, delle vetrerie, la tipografica, e infine anche alla grande metallurgia.

Il primo datore di lavoro capitalista non è altro che un mercante, il quale acquista la materia prima e l'affida per la lavorazione a singole botteghe di artigiani o direttamente a singoli operai e artigiani che lavorano a domicilio. Spesso, per liberarsi dagli ostacoli creati dal regime urbano e dal sistema corporativo, egli concentra la sua industria nelle campagne, dove può anche usufruire delle minori esigenze della mano d'opera campagnola.

Tra il datore di lavoro capitalista e gli operai vediamo allora inserirsi per la prima volta, nel sec. XV, una figura intermedia, come un direttore d'impresa, a cui il datore di lavoro consegna la materia prima e dà incarico di sorvegliare il lavoro e la produzione nei singoli laboratorî. Così l'allontanamento e la marcata differenziazione del datore di lavoro dal lavoratore, la separazione fra capitale e lavoro torna a ripetersi, come nell'epoca antica, e s'inizia, può dirsi, il sorgere di quella grande industria che caratterizzerà l'epoca contemporanea. Nel secolo XV si cominciano già a organizzare veri e proprî stabilimenti industriali: ad Amiens un'azienda tessile ha 120 operai, e altrettanti ne conta a Norimberga una tipografia.

In conseguenza di questo sviluppo, il datore di lavoro artigiano va progressivamente perdendo d'importanza: o rimane limitato al piccolo commercio, o torna man mano ad assimilarsi nuovamente agli operai artigiani indipendenti; mentre la figura del datore di lavoro capitalista, continuando la sua evoluzione nel nuovo mondo del lavoro in formazione, viene via via ad assumere nell'evo moderno caratteristiche sempre più marcate e complesse. In quest'epoca, infatti, sotto la nuova spinta delle riconosciute necessità dell'economia nazionale, vediamo il datore di lavoro capitalista organizzare quasi regolarmente quella prima vera e propria azienda industriale in grande stile che va sotto il nome di fabbrica disseminata, in quanto il datore di lavoro fornisce agli artigiani e operai a domicilio, che lavorano al suo salario, l'attrezzatura completa che è resa necessaria dalle prime invenzioni meccaniche. È il primo passo verso la generalizzazione della fabbrica accentrata, a cui la fabbrica dissemimta dovrà cedere definitivamente il passo.

In questo periodo che va dal sec. XVI al XVIII, con l'aumento del numero e dell'importanza delle imprese manifatturiere, sorge, alle dipendenze del datore di lavoro capitalista, tutta una schiera d'intermediarî, direttori, ispettori, controllori, che separano definitivamente il datore di lavoro dalla massa anonima degli operai. E lo stesso avviene nell'economia agricola, dove i fittavoli e mezzadri vengono a interporsi sempre più fra il grande capitalista fondiario e la massa dei braccianti che è andata formandosi con l'abolizione della servitù.

Con lo sviluppo progressivo dei mezzi meccanici, il prestatore d'opera caratteristico del Medioevo, il compagno, viene ora a scomparire dinnanzi alla moltitudine della mano d'opera non qualificata che l'industria richiede in quantità sempre maggiore per la sua nuova organizzazione. La più ferrea disciplina regola il lavoro collettivo; e tale disciplina si estende anche fuori della fabbrica, imponendo delle regole di vita all'operaio. Nella seconda metà del sec. XVIII con la riconosciuta libertà di lavoro e d'industria, e con il progredire delle invenzioni e della tecnica, le figure del datore di lavoro e del prestatore d'opera si avviano decisamente, in ogni branca della produzione, verso quella complessità di aspetti che è la loro caratteristica nell'epoca contemporanea.

Ai nostri giorni, accanto all'artigiano, al piccolo commerciante, al piccolo agricoltore, che lavorano personalmente e che nei confronti dei proprî dipendenti rivestono la figura giuridica e sociale insieme del datore di lavoro; accanto al datore di lavoro che unicamente dirige e amministra l'azienda di sua proprietà, talvolta di considerevole entità e potenza economica, abbiamo i grandi enti collettivi in cui, sotto l'aspetto giuridico, la figura del datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, spesso numerosissimi, è rivestita dall'ente, spesso attraverso gli organi che lo rappresentano legalmente. In generale però le funzioni del datore di lavoro sono per lo più esercitate dai dirigenti dell'azienda, i quali, specialmente nella grande industria, sono quasi sempre dipendenti nei confronti dell'azienda stessa, sia pure occupandone i più alti gradi della gerarchia.

Quanto al prestatore d'opera, esso è venuto differenziandosi, ai nostri giorni, nelle due grandi categorie generali d'impiegati e operai, che per gli estremi e crescenti sviluppi dell'economia, della divisione del lavoro, della tecnica, della razionalizzazione vengono a suddividersi alla loro volta in numerose sottocategorie professionali e specializzazioni. Va inoltre rilevato che la dipendenza del prestatore d'opera dal datore di lavoro è andata definitivamente circoscrivendosi al puro e semplice campo del rapporto di lavoro, mentre per il resto, dopo che lo stato ha assunto fra i suoi compiti principali la protezione delle classi lavoratrici, il prestatore d'opera appare sullo stesso piede d'eguaglianza giuridica e sociale del datore di lavoro.

L'espressione datore di lavoro, solo di recente adottata largamente dalla dottrina italiana e ancora più di recente usata comunemente nella legislazione, è la traduzione letterale dell'espressione tedesca Arbeitgeber, a cui nel linguaggio originario si contrappone, per indicare l'altro soggetto del contratto di lavoro, l'espressione Arbeitnehmer (prenditore di lavoro), ormai concordemente adottata in Germania. Questa seconda espressione non ha però generalmente incontrato, come la prima, il favore della dottrina e della prassi giuridica italiane, perché essa può prestarsi indubbiamente all'equivoco: infatti a prima vista sembrerebbe naturale che prenditore di lavoro sia colui a cui il lavoro è prestato, e che quindi, in un certo senso, "prende quel lavoro", non già - secondo il significato che l'espressione riceve nella dottrina e nella prassi germanica - colui che presta il lavoro.

In verità, ciò che si dà e si prende, secondo le due espressioni di origine tedesca, non è il lavoro ma l'occasione di lavoro. Questa terminologia tiene evidentemente presente un momento preparatorio del rapporto contrattuale, e precisamente quello che precede immediatamente la stipulazione del contratto di lavoro; e il seguito che l'espressione datore di lavoro ha avuto specialmente nella lingua italiana non si spiega altro che con la difficoltà di trovare una parola che, a somiglianza della francese employeur e dell'inglese employer, indicasse chiaramente la posizione giuridica ed economica di colui che assume alle proprie dipendenze il lavoratore (employé in francese, employee in inglese) nei confronti, appunto, di quest'ultimo.

Nei sistemi giuridici come l'italiano, che, non scostandosi dalla tradizione romanistica, vedono nel contratto di lavoro la figura di un contratto di locazione di opere, la denominazione delle parti nel contratto stesso dovrebbe essere di conduttore e di locatore d'opere. Ma il significato delle due parole, nel diritto romano, varia a seconda che si tratti di locatio operarum o di locatio operis, cioè di contratto di lavoro subordinato o di contratto di lavoro autonomo. Nel primo caso, infatti, il conductor era il creditore di lavoro, cioè il datore di lavoro; nel secondo, conductor operis era il lavoratore, mentre il committente che ordinava l'opus era chiamato locator (v. locazione).

Comunque, una notevole tendenza moderna si è manifestata nel senso di unificare la terminologia nelle due forme di contratto di locazione, e cioè di chiamare conduttore la persona per cui il lavoro è fatto o l'energia lavorativa è prestata, e locatore la persona che eseguisce il lavoro o presta la propria energia lavorativa.

Prima della legislazione sindacale fascista la dottrina e la giurisprudenza italiana non erano neppure univoche e sicure sulle espressioni da usarsi per designare i due soggetti del contratto di lavoro. Così, mentre vi erano autori che chiamavano debitore del lavoro in genere il datore e creditore del lavoro il lavoratore, altri, in senso diametralmente opposto, sosteneva essere più propria la designazione creditore del lavoro per colui che ha diritto di pretendere dall'altro contraente la prestazione del lavoro e quella di debitore del lavoro per chi ha l'obbligo di attuarla. Altri infine preferiva la designazione locatore delle opere per il lavoratore subordinato e locatore dell'opera per il lavoratore autonomo.

Nelle varie leggi sociali ìl conduttore (conductor operarum) è individuato con le denominazioni più svariate: industriale, esercente industrie, proprietario, gerente, impresario, imprenditore, capo d'imprese o d'industrie, aziende, e così di seguito; mentre il locatore (locator operarum) è individuato ugualmente con diverse denominazioni, come: salariato, operaio, commesso, e altro.

Si presentava quindi la necessità, fatta più intensa in occasione dell'emanazione delle leggi sull'ordinamento corporativo dello stato, di usare delle locuzioni ben chiare e precise, e soprattutto costanti, per indicare i due soggetti del contratto di lavoro in senso lato o di locazione d'opere in genere, ma più specialmente per il contratto di lavoro in senso stretto (subordinato) o di locazione delle opere.

Per quel che riguarda il debitore di lavoro in tale contratto, scartate per le ragioni suesposte le espressioni locatore di opere e prenditore di lavoro, rimaneva da prendersi in considerazione l'espressione favoratore, largamente ricevuta dalla dottrina italiana. Ma è chiaro ch'essa non risponde pienamente allo scopo poiché nella sua più lata accezione essa designa in genere chi lavora anche per proprio conto e non per altri, e cioè per proprio consumo, oppure per vendere i prodotti; mentre d'altra parte l'uso comune, in un senso molto più limitato, riserva quella espressione ai salariati subordinati il cui lavoro è prevalentemente materiale, escludendola generalmente per il lavoro autonomo.

Comunque, la legge 3 aprile 1926 e il regolamento relativo hanno ampiamente adottato la locuzione lavoratori per designare coloro che prestano la propria opera subordinata, e quella di liberi esercenti un'arte o una professione per indicare coloro che spiegano la propria attività professionale indipendentemente da un vincolo di subordinazione a un datore di lavoro. Non è poi infrequente il caso che in tali testi legislativi la locuzione generica lavoratori si riferisca in senso comprensivo e all'una e all'altra delle categorie sopraindicate, mentre alcune altre disposizioni scendono talvolta a una precisazione ulteriore parlando di lavoratori manuali e di lavoratori intellettuali a seconda della diversa natura delle prestazioni. Di fronte alla terminologia suddetta, disposizioni legislative posteriori, e più largamente ancora la prassi giuridico-sindacale, hanno preferito l'espressione prestatore d'opera o di lavoro, come quella che più delle altre si presta terminologicamente a una designazione largamente comprensiva di tutte le varie forme attraverso le quali il lavoro subordinato può essere impiegato a profitto di altri.

D'altra parte, la parola imprenditore, con cui spesso si designa colui che ha generalmente alle proprie dipendenze dei lavoratori, si palesava inadatta, sia perché il concetto d'impresa è, teoricamente almeno, indipendente da quello di datore di lavoro, potendo l'imprenditore non avere dipendenti; sia perché la parola imprenditore, considerata in rapporto ai soggetti del rapporto di lavoro, non dà affatto l'idea del creditore di lavoro, bensì del debitore di lavoro; tanto è vero che il cod. civ. chiama appunto, e giustamente, imprenditore colui che loca la propria opera in una forma di locatio operis.

Quanto alla parola italiana corrispondente alle citate espressioni inglese e francese, impiegante, pure da qualcuno usata, essa non si prestava allo scopo, sia per ragioni estetiche di lingua, sia perché l'espressione correlativa, impiegato, ha nel nostro linguaggio comune un significato particolare e ristretto, mentre nelle lingue straniere, e specialmente nell'inglese, la parola employee indica il lavoratore in genere e comprende quindi gli operai.

Ecco pertanto la ragione precipua che ha fatto adottare nel linguaggio giuridico e sindacale italiano più recente la dizione datore di lavoro per indicare il creditore di lavoro o conduttore nel contratto di lavoro subordinato o locatio operarum che dir si voglia. Veramente, dal punto di vista teorico, e secondo il significato attribuitole dalla dottrina tedesca, l'espressione datore di lavoro sta a indicare il creditore di lavoro, tanto nel contratto di locatio operarum, quanto nel contratto di locatio operis; ma in Italia nel linguaggio comune e in quello giuridico sindacale, essa indica solo una delle parti nel contratto di locatio operarum, non si direbbe mai, infatti, datore di lavoro il cliente di un avvocato o di un medico, o il committente che incarica di un lavoro un artigiano.

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Diritto di coalizione del lavoro.

Per coalizione del lavoro s'intende l'azione concertata e diretta di un certo numero di lavoratori o di datori di lavoro, per la difesa o l'affermazione di un diritto o di un interesse professionale. In generale le coalizioni del lavoro si rivolgono direttamente: quelle dei lavoratori, contro i datori di lavoro, quelle dei datori di lavoro, contro i lavoratori. Il loro scopo è quello d'influire sui rapporti di lavoro (salarî e altre condizioni di lavoro, punizioni, licenziamento o riassunzione di operai, ecc.). Possono tuttavia agire anche nei confronti della pubblica autorità, per ottenere o impedire provvedimenti legislativi o amministrativi riguardanti o meno i rapporti di lavoro, o, comunque, per influire sulla volontà o sulle decisioni dell'autorità stessa.

Il mezzo ultimo, più potente, per cui la coalizione cerca di conseguire il proprio fine è, da parte dei lavoratori, l'abbandono del lavoro (sciopero), da parte dei datori di lavoro, la chiusura degli stabilimenti (serrata), rinforzati più o meno, l'uno e l'altra, da mezzi accessorî intesi ad assicurarne il miglior esito: come, specialmente da parte dei lavoratori, il picketing o sorveglianza nei pressi dello stabilimento o dell'abitazione dei singoli operai; il rattening o sottrazione degl'indumenti o degl'istrumenti di lavoro; il sabotaggio o azione diretta a impedire il funzionamento degli stabilimenti. Altri mezzi, di cui la coalizione può servirsi per il conseguimento dei proprî fini, sono: il boicottaggio, che si propone d'impedire la vendita dei prodotti dello stabilimento antagonista; il label che, specialmente in uso negli Stati Uniti, si propone, all'opposto, di favorire la vendita dei prodotti degli stabilimenti solidali: la messa all'indice, le liste nere o, per contrapposto, le liste bianche, ossia gli elenchi delle persone o degli stabilimenti con cui, rispettivamente, i lavoratori o i datori di lavoro devono rifiutare o possono accettare di avere relazioni di lavoro.

Taluni considerano senz'altro come coalizione del lavoro ogni associazione di lavoratori o di datori di lavoro in vista della difesa dei rispettivi interessi. La coalizione si distingue però dall'associazione non solo perché questa, pur proponendosi la difesa degl'interessi professionali di una categoria di produttori, può non implicare necessariamente alcuna azione diretta, come è proprio invece specialmente della coalizione; ma anche perché, mentre l'associazione ha un carattere relativamente stabile e permanente, la coalizione può essere un raggruppamento accidentale e temporaneo e dissolversi appena raggiunto o fallito lo scopo.

D'altra parte, l'espressione diritto di coalizione viene generalmente usata, in senso lato, per indicare anche il diritto o la libertà di sciopero o di serrata. In linea di principio, però, la coalizione si distingue anche dallo sciopero e dalla serrata, in quanto che, se la coalizione è una condizione necessaria di questa e di quello, l'uno e l'altra non sono che una conseguenza possibile ma non assolutamente necessaria e inevitabile della coalizione. Ma in pratica, come si è accennato, i due termini diritto di coalizione del lavoro e diritto di sciopero o di serrata si fanno spesso coincidere. Si noti tuttavia, a questo proposito, che generalmente le varie leggi penali, se non puniscono lo sciopero, non lo tutelano specificamente, come tutelano invece la libertà di lavoro. Salvo qualche eccezione, il diritto di coalizione e di sciopero non è infatti che la libertà risultante dall'abolizione pura e semplice delle disposizioni che precedentemente punivano, appunto, la coalizione e lo sciopero.

All'inizio del sec. XIX - se si fa astrazione dagli Stati Uniti, ove la coalizione è sempre stata ammessa come un diritto naturale, consacrato dalla costituzione del 1787 - nessuna legislazione riconosceva ancora il diritto di coalizione: questa costituiva anzi tuttora un fatto punibile. Non solo lo sciopero e la serrata, ma ogni intesa, ogni riunione concertata per la difesa degl'interessi economici erano incluse nel divieto, sì che anche il diritto di associazione professionale veniva a esserne colpito: e ciò in omaggio al principio della libertà dell'industria e del lavoro, che dovunque era stato instaurato con la soppressione delle antiche corporazioni, sull'esempio della Francia. In questo periodo il divieto di coalizione, che nei secoli passati aveva sempre preso di mira esclusivamente o prevalentemente i lavoratori, tende a colpire anche i datori di lavoro. Così la legge Chapelier non fa differenza tra coalizioni operaie e padronali.

Il movimento verso il riconoscimento del diritto di coalizione si iniziò in Inghilterra con la legge 1824-25. Le coalizioni operaie, che, a onta di ogni divieto, non avevano mai cessato di formarsi e rinnovarsi in Inghilterra, si erano venute via via rafforzando, all'inizio del sec. XIX, attraverso l'organizzazione sempre più diffusa di potenti associazioni segrete. Accettando il fatto compiuto, la legge inglese del 1824-25 abolì i Combination acts del 1799 e del 1800, per i quali ogni associazione di lavoratori o di datori di lavoro era considerata come un delitto, e venne con ciò, per la prima volta, a riconoscere, tanto ai datori di lavoro quanto ai lavoratori, il diritto di coalizzarsi, mantenendo il divieto esclusivamente per gli atti di violenza, i danneggiamenti e le minacce. Ma poiché ogni azione concertata continuava a cadere sotto le sanzioni della Common Law in materia di conspiracy, più che il vero e proprio diritto di coalizione era il diritto di associazione che per tal modo si riconosceva in Inghilterra; e ciò sino a che la legge del 1871, modificata per maggiore precisione nel 1875, non venne ad abolire il reato di conspiracy, fermo restando il divieto per gli attentati alla libertà del lavoro (picketing, ratening, ecc.). Nel 1906, poi, il delitto specifico di coalizione veniva del tutto abolito dal Trade Disputes Act, il quale stabiliva che qualsiasi atto compiuto in virtù di un accordo o di un'intesa fra due o più persone, non poteva essere oggetto di alcuna azione, se compiuto nel corso o in vista di un conflitto del lavoro, a meno che lo stesso atto, compiuto al di fuori di ogni accordo o intesa, non fosse passibile di azione.

Intanto con la legge 25 maggio 1864, anche in Francia la libertà di coalizione veniva parzialmente riconosciuta, con la soppressione del delitto di coalizione, restando però vietati non solo gli atti di violenza, i danneggiamenti, le minacce, ma anche le interdizioni, la messa all'indice, il boicottaggio. Solo la legge del 21 marzo 1884, con la quale si riconosceva anche il diritto di associazione, venne ad ammettere in pieno il diritto di coalizione.

Press'a poco la stessa via battuta dalla Francia, ma con diverse vicende, seguirono quindi, nella seconda metà del sec. XIX, i paesi europei di maggiore importanza industriale.

In Italia la storia del diritto di coalizione si ricollega, nei suoi inizî, al codice francese del 1810 (distinzione fra coalizione giusta e ingiusta a favore dei datori di lavoro), il quale non cessò d'influire sulle legislazioni dei varî stati, anche dopo il 1813. Nel Piemonte, il codice penale sardo del 1859, divenuto poi il primo codice penale del regno d'Italia, estendeva la suddetta distinzione anche alle coalizioni dei lavoratori: quindi, nel 1862, ministro il Pisanelli, s'iniziò quel ciclo di studî che, dopo lunga elaborazione, condusse, nel 1889, al codice penale Zanardelli in cui non trovavano più posto le disposizioni del codice precedente sul delitto di coalizione.

In complesso, la tutela penale prevista fin qui dalle varie legislazioni si preoccupa unicamente di garantire il libero esercizio dell'attività industriale, in relazione al lavoro, contro la violenza diretta a impedirla, ossia vuol proteggere soltanto la libertà individuale del lavoro. In quanto, poi, alla violazione del contratto di lavoro derivante dalla coalizione, essa - salvo quando si tratti per lo più di pubbliche funzioni esercitate da pubblici ufficiali - è considerata sempre, dalle varie legislazioni, come lesione di diritti o interessi meramente privati, e, come tale, soggetta unicamente alle disposizioni del codice civile. In Inghilterra la legge del 1906 esonera addirittura le Trade Unions da ogni responsabilità civile per i danni in caso di sciopero e di serrata. La questione è tuttavia viva in dottrina e in giurisprudenza, se lo sciopero e la serrata, là dove sono ammessi, rappresentino una rottura oppure una semplice sospensione del contratto di lavoro, e se e in quali casi l'associazione professionale debba essere tenuta civilmente responsabile in caso di sciopero da essa proclamato e condotto.

Data l'importanza e le conseguenze sempre più gravi che per la moderna organizzazione industriale venivano ad assumere nella vita pubblica i conflitti fra capitale e lavoro, la teoria che l'esercizio del diritto di coalizione fosse in sé stesso meramente oggetto del diritto privato, doveva dimostrarsi però sempre più insufficiente. Infatti, specialmente nel dopoguerra, al diritto di coalizione è venuto sempre più chiaramente a contrapporsi, come limite naturale insuperabile, l'interesse della collettività, sì che la coalizione sta ormai entrando generalmente nell'orbita diretta del diritto pubblico.

Così, secondo alcune recenti legislazioni, il fine della coalizione diventa illecito allorché, anziché tendere a influire direttamente sui rapporti di lavoro è rivolto contro lo stato e contro la collettività; e un esempio tipico di tale nuova concezione giuridica della coalizione si ha precisamente nella legge inglese del 1928 - promulgata in seguito alle gravi ripercussioni dello sciopero generale avvenuto nel 1927 in relazione e a sostegno dello sciopero dei minatori - la quale dichiara illegali, e quindi vieta, gli scioperi e le serrate che esorbitano dai fini di un conflitto del lavoro diretto, e tendono a esercitare una pressione sul governo, sia direttamente, sia attraverso un danno inflitto alla collettività. Similmente in Austria la legge 21 aprile 1933 punisce di ammenda o arresto coloro che partecipano a scioperi o resistenze passive di tal genere, e li tiene inoltre responsabili dei danni cagionati.

Ma un aspetto ben più importante della recente evoluzione giuridica e legislativa del diritto di coalizione si osserva nelle restrizioni più o meno ampie che sono poste al diritto stesso, e più precisamente al diritto di sciopero e di serrata, come conseguenza dell'intervento dello stato nella risoluzione dei conflitti fra capitale e lavoro. Il divieto di sciopero e di serrata a cui si giunge per tal modo nei varî stati, si presenta sotto due forme principali: divieto temporaneo, nel senso che nessuno sciopero è permesso sin tanto che sia in corso un procedimento di conciliazione, sia obbligatorio sia su accettazione di una o entrambe le parti, o un procedimento di arbitrato facoltativo; divieto assoluto, laddove la risoluzione dei conflitti fra capitale e lavoro è demandata all'arbitrato obbligatorio, o più esattamente è demandata obbligatoriamente a organi giurisdizionali appositi.

Di questa ultima forma di divieto il primo esempio si ha nella legislazione australiana e neozelandese, che ha inizio verso il 1900. Recentemente, poi, il divieto generale di sciopero e di serrata è stato sancito in Danimarca (legge 31 gennaio 1933); e il divieto di sciopero limitatamente alle aziende pubbliche e di pubblica utilità in Austria (legge 21 aprile 1933). Ma è solo nel sistema stabilito dalla legge sindacale italiana 3 aprile 1926 che una tale specie di divieto viene a inquadrarsi, nel modo più perfetto, in un sistema legislativo completo e omogeneo.

Il divieto di sciopero e di serrata sancito in queste ultime legislazioni si distingue dall'antico divieto di coalizione per una profonda differenza giuridica e morale che è necessario tenere ben presente, specialmente per quanto concerne l'aspetto più importante della questione, ossia i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori.

L'antico delitto di coalizione aveva come presupposto l'illiceità del fine proprio alla coalizione, che è quello d'influire sulle condizioni di lavoro: l'attuale delitto di sciopero e di serrata ha invece, come presupposto, l'illiceità del mezzo e precisamente di un certo mezzo (la sospensione o l'abbandono del lavoro) che la coalizione può impiegare per raggiungere il proprio fine: fine che in sé rimane lecito e che è sempre quello d'influire sulle condizioni di lavoro. L' illiceità del mezzo deriva naturalmente, come si è visto, dalla creazione dello strumento legale che permette di raggiungere il fine della coalizione: la magistratura del lavoro.

In Italia l'unica forma di coalizione possibile è l'associazione professionale legalmente riconosciuta, mentre la serrata e lo sciopero sono vietati. La materia, già regolata in un primo tempo dalla legge sindacale 3 aprile 1926, n. 5639, e dalle relative norme di attuazione emanate con r. decr. 1° luglio 1926, n. 1130, è ora disciplinata dal nuovo codice penale del 1930. L'abbandono e la sospensione del lavoro sono però oggetto di disposizioni distinte e diverse, a seconda che si tratti di aziende private (o, per meglio dire, non esercenti pubblici servizî), oppure di uffici pubblici, servizî pubblici o di pubblica necessità; il primo caso trova la sua disciplina nel titolo VIII, cap. I, Dei delitti contro l'economia pubblica, articoli 502-512; il secondo nel titolo II, Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, articoli 330-332.

Esaminiamo separatamente i due casi, che rivestono figure giuridiche diverse, incominciando dallo sciopero e dalla serrata nelle aziende private. Qui l'elemento materiale del delitto consiste, per quanto riguarda la serrata, nella sospensione totale o parziale del lavoro negli stabilimenti, aziende o uffici, la quale può essere effettuata evidentemente non soltanto mediante la chiusura del luogo di lavoro, secondo il significato etimologico della parola serrata, ma anche attraverso tutti quei provvedimenti (interruzione di forza motrice, mancata fornitura di attrezzi, di materie prime, ecc.) che mettano lo stabilimento, ecc., nell'impossibilità di funzionare. Per quanto riguarda lo sciopero, l'elemento materiale consiste nell'abbandono del lavoro, che può anche effettuarsi restando inoperosi al posto di lavoro o nel recinto dell'azienda (sciopero bianco) o nella prestazione del lavoro in modo da turbarne la regolarità o la continuità (ostruzionismo, ecc.).

Soggetti attivi del reato sono, per quanto riguarda la serrata. i datori di lavoro. Un solo datore di lavoro è sufficiente; il reato di serrata è dunque individuale, e il concorso nel reato di più datori di lavoro potrà determinare le aggravanti di cui all'art. 112 del codice penale. Per quanto riguarda lo sciopero, soggetti attivi sono i lavoratori, in numero di tre o più, i quali abbandonino collettivamente (cioè in seguito a un'intesa improvvisa o preordinata), anche se non simultaneamente, il lavoro, o lo prestino in modo ostruzionistico, ecc. Lo sciopero è dunque un reato collettivo, in quanto il concorso di più persone è necessario perché sussista il reato medesimo. L'elemento subiettivo del reato consiste non soltanto nel cosiddetto dolo generico, cioè nella coscienza e volontà dell'agente di commettere il fatto, ma anche nel dolo specifico, vale a dire nella volontà dell'agente di perseguire un fine di coazione, di lotta, di protesta. Senza questo dolo specifico, l'abbandono e la sospensione del lavoro, per quanto magari riprovevoli dal punto di vista morale e sociale, non costituiscono delitto di sciopero o di serrata, e non sono quindi perseguibili penalmente, ove non rientrino, per altre ragioni, in altre categorie di reati. Ed è appunto a seconda del fine che anima i colpevoli, che i reati di cui ci occupiamo si distinguono in quattro categorie, e precisamente in scioperi e serrate: 1. per fini contrattuali; 2. per fini politici; 3. per fini di coazione alla pubblica autorità; 4. per fini di solidarietà.

Gli scioperi e le serrate della prima categoria sono quelli che hanno per solo scopo d'influire sulle condizioni di lavoro. La serrata, in questo caso, è punita con la multa non inferiore a lire diecimila, lo sciopero con la multa fino a lire mille. La diversità della pena si giustifica sia per la diversa responsabilità sociale ed economica, sia per la diversa potenzialità economica delle due categorie di colpevoli. Mentre in questa prima categoria di scioperi e di serrate si tratta dell'illiceità del mezzo e non del fine, che in sé è lecito se perseguito per le vie legali, nelle seguenti due categorie ci troviamo invece dinanzi alla illiceità del fine. Tale è anzitutto il caso degli scioperi e delle serrate per fine politico, ossia quando essi siano rivolti comunque contro la costituzione dello stato o contro i principî sui quali poggia l'odierna società civile italiana: la serrata è allora punita con la reclusione fino a un anno e con la multa non inferiore a lire diecimila; lo sciopero con la reclusione fino a sei mesi e con la multa fino a lire diecimila. Si ha poi lo sciopero e la serrata per il fine specifico di coazione contro la pubblica autorità, quando essi si propongano di costringere l'autorità a dare o a omettere un provvedimento o d'influire comunque sulle deliberazioni di essa; e in questo caso tanto la serrata quanto lo sciopero sono puniti con la reclusione fino a due anni. La maggiore severità della pena in queste due ultime categorie di scioperi e serrate è chiaramente in relazione con la maggiore gravità che in queste ipotesi assume il delitto, specialmente in relazione ai principî della dottrina fascista dello stato. Per ultimo vengono gli scioperi e le serrate che abbiano lo scopo di protestare contro un fatto o un'idea di qualsiasi specie, e di manifestare una solidarietà a datori di lavoro o lavoratori. In questo caso le pene sono le stesse di quelle stabilite per lo sciopero e la serrata aventi fini contrattuali. La sospensione del lavoro per fini politici, per coazione contro la pubblica autorità, per solidarietà o protesta, può essere effettuata anche da esercenti di aziende industriali o commerciali, i quali non abbiano lavoratori alle proprie dipendenze, e non siano quindi datori di lavoro nel significato giuridico del termine. Risolvendo i dubbî sorti in sede di applicazione della legge sindacale, il codice penale considera tale sospensione del lavoro come reato di serrata, quando avvenga collettivamente da parte di tre o più esercenti, e la dichiara passibile delle pene che sono stabilite per i corrispondenti reati di serrata da parte dei datori di lavoro, ridotte alla metà.

In relazione ai reati sin qui considerati, va rilevato che la legge considera altresì il reato di coalizione sotto forma di boicottaggio, quando alcuno, per uno degli scopi relativi agli scioperi e alle serrate, mediante propaganda o valendosi della forza o autorità di partiti, leghe o associazioni, induca una o più persone a non stipulare patti di lavoro o a non somministrare materie o strumenti necessarî al lavoro, ovvero a non acquistare gli altrui prodotti agricoli o industriali: la pena comminata è della reclusione fino a tre anni, e, se concorrano fatti di violenze o minaccia, si applica la reclusione da due a sei anni. Si osservi perô che soggetto attivo del reato è esclusivamente chi induce altri al boicottaggio, mentre i lavoratori che a scopo di boicottaggio rifiutano di occuparsi presso un datore di lavoro, non commettono reato di boicottaggio: e analogamente per i datori di lavoro. Le pene che la legge stabilisce per ciascuno dei reati sin qui trattati, sono aumentate quando i reati stessi siano commessi in tempo di guerra, ovvero abbiano determinato dimostrazioni, tumulti, o sommosse popolari. Le stesse pene sono poi raddoppiate per i capi promotori od organizzatori; laddove la sola pena pecuniaria sia stabilita, è aggiunta la reclusione da sei mesi a due anni. La condanna per ciascuno di questi reati importa poi sempre l'interdizione da ogni ufficio sindacale per anni cinque.

Esaminiamo ora l'abbandono e la sospensione del lavoro negli uffici pubblici e nei servizî pubblici o di pubblica necessità. Data la particolare natura e le finalità d'interesse pubblico dell'attività di cui si tratta, l'abbandono e la sospensione del lavoro non potevano essere considerate alla stessa stregua dell'abbandono e della sospensione del lavoro nelle aziende private, sia per ciò che si riferisce agli elementi costitutivi del reato, sia per quanto riguarda le penalità. Infatti, per l'esistenza del reato non è qui necessario, a differenza di quanto accade per le aziende private, l'esistenza di un dolo specifico, che consiste, come abbiamo visto, nel fine di lotta, di coazione, di protesta e simili che l'agente si propone. L'interruzione del servizio o l'abbandono del lavoro, o rispettivamente la loro sospensione o prestazione in modo da turbarne la regolarità e la continuità e con la coscienza di produrre tale turbamento (nell'interruzione e nell'abbandono tale direzione soggettiva non è richiesta, in quanto l'agente non poteva ignorare le conseguenze dannose, inevitabilmente connesse col suo comportamento) costituiscono delitto in sé e per sé, in relazione alla responsabilità sociale di cui sono investiti gli agenti e alle ripercussioni dannose che il loro comportamento produce sulla collettività. Per ciò che si riferisce alle sanzioni, la necessità di una maggiore gravità in queste categorie di reati non ha bisogno di essere illustrata. Per il reato di abbandono (collettivo) del lavoro, gl'incaricati di un pubblico servizio aventi la qualità d'impiegati, i privati che esercitano servizî pubblici o di pubblica necessità non organizzati in imprese e i dipendenti da imprese di servizî pubblici o di pubblica necessità, sono puniti con la reclusione fino a due anni, e i capi, promotori e organizzatori, con la reclusione da due a cinque anni. Per il reato di sospensione del lavoro, gli esercenti di servizî pubblici o di pubblica necessità, sono puniti con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa non inferiore a lire cinquemila, e i capi, promotori e organizzatori, con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a lire trentamila. Per ambedue i reati le pene sono aumentate se il fatto è commesso per fine politico, oppure se ha determinato dimostrazioni, sommosse o tumulti.

In relazione ai reati di abbandono e sospensione del lavoro negli uffici pubblici e nei servizî pubblici o di pubblica necessità, è prevista altresì una speciale figura di reato, in quanto il pubblico ufficiale o il dirigente un servizio pubblico o di pubblica necessità, che, in occasione di alcuni dei delitti sopra illustrati, ai quali non abbia preso parte, rifiuta di adoperarsi per la ripresa del servizio a cui è addetto o preposto, oppure di compiere ciò che è necessario per la regolare continuazione del servizio, è punito con la multa fino a lire 5000.

Bibl.: L. Smith, Les coalitions et les grèves, Parigi 1886; F. Arcà, Legislazione sociale, in V. E. Orlando, Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, Milano 1912; P. Pic, Cours de législation industrielle, Parigi 1922; W. Kaskel, Koalitionenx und Kampfmittel, Berlino 1925; B. I. T., La liberté syndicale, volumi 4, Ginevra 1927-28. Particolarmente per i varî paesi: S. e B. Webb, History of trade unionism, Londra 1926; M. Muir, Trade Unionism and trade union bill, Londra 1927; W. Groh, Koalitions recht, Lipsia 1923; H. Potthof, Die Einwirkung der Reichsverfassung auf das Arbeitsrecht, Lipsia 1925; E. Lambert, Le gouverment des juges et la lutte contre la législation sociale aux États-Unis, Parigi 1921. Particolarmente per i varî aspetti: G. Galizia, Il contratto collettivo di lavoro, Napoli 1907; G. Gregoracci, Scioperi e serrate nel diritto penale, Milano 1908; C. Carrara, Il boicottaggio, Milano 1924; G. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, Roma 1927; F. Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova 1928; C. Costamagna, Diritto corporativo, Torino 1928; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino 1933. Particolarmente per il diritto positivo italiano, v. C. Saltelli e E. Romano-Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, II, i e ii, Roma 1930.

Il contratto di lavoro.

Il codice civile italiano, seguendo la tradizione giuridica romana, disciplina nel medesimo titolo, dedicato al contratto di locazione, la locazione che ha per oggetto le cose e quella che ha per oggetto le opere (art. 1568 e seg.) e considera come una delle tre principali specie di locazione di opere e d'industria quella per cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio (art. 1627, n.1).

In diritto romano le opere, che il locatore si obbligava a prestare, dovevano essere servigi modesti, che normalmente erano prestati dalle categorie inferiori di servi. I servigi degni di liberi, peraltro prestati anche dalle categorie superiori di servi, erano oggetto di altri rapporti. Il libero, locatore delle proprie opere, che si trovava presso il conduttore (operarius o mercennarius), era quasi servo sottoposto al suo potere disciplinare.

Nella vita medievale, da quando l'industria di famiglia non bastò più a soddisfare i bisogni aumentati, le corporazioni, formate mediante l'associazione degli artigiani che esercitano lo stesso mestiere nella medesima città, costituiscono il modo prevalente di organizzazione del lavoro, per il quale gli operai, finché rimangono apprendisti o compagni, lavorano alla dipendenza dei maestri. Incominciò la decadenza della corporazione, quando essa si preoccupò più di conservare il proprio monopolio, che di fare progredire la produzione. Il movimento di reazione contro le corporazioni ebbe il suo epilogo nell'editto di Turgot del febbraio 1776, che abolì le comunità di arti e mestieri. Sei mesi più tardi le corporazioni risorsero, ma per essere soppresse definitivamente dalla Rivoluzione francese (2-17 marzo 1791). L'esperienza della libertà completa del lavoro, in antitesi al regime delle corporazioni scomparso, dimostrò la necessità che lo stato intervenisse a proteggere i lavoratori contro le conseguenze della concorrenza illimitata fra gl'imprenditori, dannosa ai lavoratori stessi e in definitiva alla produzione. Ebbe inizio e sviluppo la legislazione operaia in modi analoghi nei diversi stati. Oltre l'azione dello stato, si svolse parallela l'opera di tutela da parte delle unioni e associazioni fra i lavoratori, e la legislazione degli stati civili promosse le associazioni professionali, padronali, operaie o miste. Poiché l'avvento della grande industria riunisce nella fabbrica, intorno all'imprenditore, schiere numerose di operai, soggetti per necessità a uguali condizioni di lavoro, è naturale che gli operai cerchino nell'associazione e nella stipulazione collettiva dei patti di lavoro il mezzo idoneo per ridurre o eliminare l'inferiorità economica di ciascuno di essi di fronte al contraente economicamente più forte. Ai sindacati operai seguirono quelli padronali, non solo come mezzo di difesa di comuni interessi, ma anche per la necessità o l'utilità di regolare in modo uniforme o analogo rapporti uguali o simili.

Nella moderna vita giuridica si sono distinti ognora più i varî rapporti contrattuali, che già la terminologia romana male conteneva entro l'unico schema generale della locazione-conduzione e ormai i codici e le leggi più moderne e la scienza giuridica distinguono nettamente la locazione delle cose dal contratto di lavoro e da quello di appalto. La locazione delle opere, secondo il codice civile, per cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio, è chiamata generalmente nella legislazione e dottrina contemporanee contratto di lavoro. Per effetto di tale contratto, alcuno (operaio, lavoratore, domestico, impiegato) si obbliga verso altri (imprenditore, padrone, principale), che assume sopra di sé il rischio del risultato, a prestare il proprio lavoro in cambio di una retribuzione (salario, mercede, onorario, stipendio). Poiché il rischio del risultato è assunto dal datore di lavoro, ne deriva un carattere essenziale di questa figura contrattuale, cioè la subordinazione o dipendenza di chi presta le opere verso chi ha diritto alla loro prestazione. Oggetto della prestazione può essere ogni attività dell'uomo capace di soddisfare bisogni altrui, per la quale si usi dare una ricompensa, sia, quindi, il lavoro prevalentemente manuale, sia quello prevalentemente intellettuale. Ma la natura diversa delle opere determina, per ragioni tecniche, economiche e sociali, varie specie e sottospecie di contratto di lavoro, le quali richiedono discipline particolari, oltre le norme più generali, comuni a ogni contratto di lavoro. Fra le principali specie sono: il contratto di lavoro agricolo, quello industriale, il servizio domestico, il rapporto d'impiego, pubblico o privato, l'arruolamento marittimo, il contratto di tirocinio.

Il minore di età, che non sia emancipato, non può obbligarsi a prestare le proprie opere senza il consenso del rappresentante legale, cioè del genitore o del tutore. A motivo dell'indole strettamente personale del rapporto è necessario per la validità del contratto il consenso del minore, integrato da quello del rappresentante legale. Per il contratto di lavoro relativo alla coltivazione del riso, il minore che abbia compiuto 14 anni può obbligarsi o riscuotere la mercede (art. 88 della legge sanitaria, testo unico 1° agosto 1907, n. 636). Per la stipulazione del contratto di arruolamento il minore di età, che abbia compiuto diciotto anni, si considera come emancipato (art. 73 codice marina mercantile). Il minore di età emancipato (art. 310 e seg. cod. civ.) non ha bisogno dell'assistenza del curatore. La distinzione fra gli atti di semplice amministrazione e quelli che eccedono la semplice amministrazione non trova applicazione al contratto di lavoro, perché il lavoro non costituisce un bene patrimoniale. È controverso se la donna maritata abbia capacità di obbligarsi a prestare le proprie opere, ovvero le sia necessario ottenere il consenso del marito. Ma non vi è dubbio che sarebbe nullo quel contratto, la cui esecuzione importasse inosservanza degli obblighi reciproci derivanti dal matrimonio a ciascuno dei coniugi (art. 130 codice civile).

L'errore che cade sulla persona del lavoratore produce la nullità del contratto, quando la considerazione della persona di chi deve prestare le opere sia stata la causa principale della convenzione (art. 1110 cod. civ.).

Di regola non è prescritta una forma determinata per la giuridica validità del contratto di lavoro; talvolta è richiesto l'atto scritto a pena di nullità o con altra sanzione (ad es., cod. di commercio art. 522; art. 2 della legge 7 luglio 1902 sul lavoro delle donne e dei fanciulli, modificata con legge 7 luglio 1907, n. 416; art. 88, 89 della legge sanitaria, 1° agosto 1907, per il contratto di lavoro relativo alla coltivazione del riso).

L'efficacia del contratto conchiuso può essere subordinata al buon esito di un periodo di prova, secondo il giudizio del datore di lavoro, o, nel caso di controversia, del giudice.

La disciplina del rapporto di lavoro, costituito mediante il contratto, ha le sue fonti nelle norme di legge, che siano imperative e quindi inderogabili, nel contratto collettivo di lavoro conchiuso tra le associazioni professionali o sindacati, al quale accordo collettivo il rapporto individuale sia soggetto, o nelle norme equiparate dettate dalla corporazione competente o dal magistrato del lavoro (art. 10, 16 della legge 3 aprile 1926, n. 563; 44, 56, 57 del r. decreto i luglio 1926, n. 1130), nel contratto per effetto del quale le parti si costituirono in rapporto di lavoro, nel regolamento di fabbrica o in generale dell'azienda, accettato dall'operaio o dall'impiegato, nelle norme di legge di carattere suppletivo, nell'uso o consuetudine e nell'equità. A queste varie fonti e secondo l'ordine indicato si dovrà avere riguardo per determinare gli obblighi e i diritti che derivano alle parti costituite in un rapporto di lavoro.

Contemplano il contratto collettivo di lavoro l'art. 10 della legge del 3 aprile 1926, n. 563, gli articoli 47-60 del r. decr. 1 luglio del medesimo anno, n. 1130, che è il regolamento della stessa legge, e le dichiarazioni XI, XII, principalmente, della Carta del lavoro, approvata il 21 aprile 1927. Soltanto le associazioni professionali, legalmente riconosciute, hanno capacità di stipulare contratti collettivi di lavoro. Il contratto collettivo deve assumere la forma scritta; e, poiché la sua efficacia obbligatoria supera la cerchia delle persone che, direttamente o indirettamente, vi partecipano, deve essere pubblicato mediante deposito di una copia autentica presso la prefettura e pubblicato nel foglio degli annunzî giudiziarî della provincia, se l'efficacia del contratto non si estende oltre il territorio della provincia; il deposito deve essere eseguito al Ministero delle corporazioni con la pubblicazione per estratto nella Gazzetta ufficiale del regno e per intero nel Bollettino del detto ministero, se il contratto abbia effetti in due o più provincie. In difetto di deposito e di pubblicazione il contratto non ha efficacia.

Obietto del contratto collettivo è la disciplina dei rapporti di lavoro nell'una o nell'altra branca dell'attività economica o nell'esercizio di una professione o di un'arte. Sono esclusi dall'ambito del contratto collettivo quei rapporti che siano disciplinati mediante atti della pubblica autorità per norma di legge o regolamento, clausola di capitolato o contratto. Ugualmente i rapporti per servizî di carattere personale o domestico. La fissazione del tempo per la durata dell'accordo fa parte del suo contenuto necessario. Inoltre la dichiarazione XI della Carta del lavoro e l'art. 8 del r. decr. 6 maggio 1928, n. 1251, determinano quali punti dei rapporti di lavoro devono essere regolati mediante norme dell'accordo collettivo. Questo deve indicare l'impresa o le imprese oppure le categorie d'imprese e di lavoratori soggetti all'accordo, nonché il territorio per il quale ha valore. Se questa indicazione facesse difetto, l'accordo varrebbe per tutti i datori di lavoro e i lavoratori, i quali devono considerarsi come rappresentati dalle associazioni che stipularono l'accordo, vale a dire per i datori di lavoro e lavoratori, professionisti e artisti della categoria, per cui l'associazione fu costituita, siano iscritti a essa o meno, nell'ambito territoriale dell'associazione medesima. Le clausole difformi, inserite in contratti individuali, sono sostituite ipso iure dalle norme del contratto collettivo, eccettuati i casi in cui le clausole del contratto individuale siano più favorevoli al lavoratore. È ammessa la domanda al magistrato del lavoro, perché stabilisca nuove norme per i rapporti di lavoro, pure quando non sia scaduto il termine fissato alla durata di un contratto collettivo, qualora in modo notevole sia cambiato lo stato di fatto esistente al tempo della stipulazione.

L'associazione che ha stipulato un contratto collettivo, è tenuta a risarcire i danni derivati dalla inadempienza a proprie obbligazioni col medesimo contratto assunte. Risponde per l'inadempienza da parte delle persone soggette al contratto, solo se abbia omesso di fare quanto era in suo potere allo scopo di ottenerne l'osservanza. Qualora nel contratto collettivo sia stabilito che l'associazione garantisce l'esecuzione del contratto, essa risponde in proprio come un fideiussore solidale per l'inadempienza delle persone obbligate. I datori di lavoro e i lavoratori, che nei loro rapporti non osservino il contratto collettivo cui sono soggetti, rispondono dell'inadempienza sia verso l'associazione dei datori di lavoro, sia verso quella dei lavoratori, le quali stipularono l'accordo.

La legge prevede che le associazioni fra datori di lavoro e quelle fra lavoratori siano riunite mediante organi centrali di collegamento o corporazioni. Queste riuniscono i sindacati nazionali dei fattori della produzione per un dato ramo della medesima o per una o più categorie d'imprese. Ora a tali organi centrali è riconosciuta la facoltà di stabilire norme generali per i rapporti di lavoro nelle imprese che appartengono alle associazioni collegate, qualora a ciascuna di esse, con apposita deliberazione ovvero per norma generale, contenuta nel proprio statuto, ne sia stato conferito il potere. Le norme stabilite dalle corporazioni hanno la stessa natura di quelle che derivano da un contratto collettivo.

L'obbligazione principale del lavoratore è quella di prestare personalmente e con diligenza (art. 1224 cod. civ.) le opere promesse, nel tempo, nel luogo e nel modo convenuti. Il lavoro deve essere prestato per la durata di tempo pattuita; ma il lavoratore non è tenuto al risarcimento del danno a motivo di un'interruzione o cessazione anticipata, che sia dovuta a una causa estranea, a lui non imputabile. Egli è tenuto a obbedire agli ordini che vengano impartiti dal datore o dai suoi preposti per il migliore risultato del lavoro. Deve custodire i segreti dell'azienda e non può volgere la loro conoscenza a vantaggio proprio o di terzi. Talvolta, specialmente nel rapporto di lavoro industriale, mediante il regolamento di fabbrica sono previste le inadempienze del lavoratore e stabilite clausole penali o altre sanzioni. Può accadere che alla estinzione o risoluzione del rapporto sopravviva un'obbligazione dell'impiegato o dell'operaio, se fu convenuto che questi non possa assumere presso altri un impiego o lavoro uguale o analogo, nel quale potrebbe fare concorrenza al principale o all'imprenditore che ha lasciato. Si ritiene che tali clausole siano lecite e valide quando la loro efficacia abbia limiti di tempo e di luogo; cioè dovrebbe dirsi nulla quella clausola, la quale, avuto riguardo all'oggetto, al tempo e al luogo, recasse una restrizione eccessiva e ingiustificata alla libertà e attività economica della persona obbligata. Anche nel difetto di speciale clausola, discende dalla natura stessa del rapporto di lavoro, che l'impiegato o l'operaio non possa valersi delle cognizioni acquistate, prestando servizio nell'azienda che abbandona, per muovere alla medesima una concorrenza sleale in un'azienda propria o di altri. Spesso il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore l'ambiente, gli strumenti necessarî, affinché le opere possano essere prestate, e l'ambiente di lavoro deve corrispondere alle esigenze dell'igiene e della morale. Vanno rispettati l'orario, le pause, diurne e settimanali, le ferie annuali prescritte da legge (legge 7 luglio 1907, n. 489, sul riposo settimanale nelle aziende industriali e commerciali), o da contratto collettivo, regolamento dell'azienda, consuetudine.

Il datore di lavoro deve pagare la retribuzione nella specie e misura, nel tempo e modo stabiliti. La retribuzione consiste più spesso in denaro commisurato a ogni unità di tempo (ora, giornata, settimana, mese, anno); ma può consistere in denaro e in altre cose, come il vitto e l'abitazione nel rapporto di servizio domestico. Anziché in ragione del tempo impiegato nel lavoro, la retribuzione può essere commisurata in ragione della quantità di lavoro compiuto (lavoro a fattura o a cottimo). Talvolta la retribuzione consiste in una partecipazione agli utili dell'azienda, da sola ovvero in aggiunta a una ricompensa fissa in denaro. Può avvenire che la retribuzione, in tutto o in parte, non debba essere pagata direttamente dal datore di lavoro, bensì corrisposta dai clienti di questo come regalia o mancia nella misura di una percentuale usuale o altrimenti fissata sul prezzo delle cose o dei servizî somministrati dal datore ai proprî clienti (ad es., nel rapporto fra il proprietario di un albergo o di un caffè e i camerieri).

Occorrerà riferirsi alle varie fonti di norme per la disciplina del rapporto di lavoro, già ricordate, per sapere se, nel caso di temporanea interruzione nella prestazione delle opere a motivo di una causa estranea non imputabile al lavoratore, sia dovuta ugualmente la retribuzione. Il lavoro straordinario, cioè non compreso nella prestazione normale, deve essere retribuito nella misura stabilita dalle suddette fonti del regolamento; nel silenzio delle altre fonti che la precedono, secondo equità. L'impiegato o l'operaio deve essere tenuto indenne delle spese e dei disagi straordinarî sopportati a causa del lavoro.

Tranne eccezioni dalla legge stabilite, non possono essere ceduti né sequestrati o pignorati gli stipendî, le mercedi e i compensi di qualsiasi natura, che lo stato, gli altri enti pubblici o le società che hanno assunto certi servizî pubblici corrispondono ai loro impiegati e salariati, come corrispettivo dell'opera prestata (leggi del 30 giugno 1908, n. 335; 13 luglio 1910, n. 444). I salarî e gli emolumenti spettanti ai marinai non possono essere ceduti né sequestrati, se non per causa di alimenti dovuti per legge, e per debiti verso la nave, dipendenti dal servizio della nave stessa (art. 545 cod. di comm.). Per alcune specie di rapporti di lavoro l'azione di chi ha prestato le opere per il pagamento della retribuzione è soggetta a brevi termini di prescrizione (art. 2139, 2140 cod. civ.; 924, 1° comma, 925, n.1, cod. di comm.).

L'imprenditore deve adottare tutte quelle misure di sicurezza e di igiene che valgano a proteggere il lavoratore contro il pericolo d'infortunio o di malattia, cui possa dare causa la prestazione del lavoro, ed è tenuto a risarcire il danno al lavoratore colpito da un infortunio in occasione del lavoro. Poiché la consuetudine col pericolo può diminuire la prudenza e vigilanza del lavoratore, l'imprenditore deve risarcire anche il danno derivato da infortunio cui diede causa una colpa del lavoratore. All'uopo la legge fa obbligo all'imprenditore, per la maggiore parte delle imprese agricole e industriali, di assicurare i proprî lavoratori contro gl'infortunî sul lavoro, e l'istituto assicuratore risarcisce il danno al lavoratore colpito da infortunio (v. assicurazione; infortunio). L'imprenditore è responsabile personalmente solo quando il fatto dannoso sia imputabile a lui, o alle persone preposte alla direzione o sorveglianza del lavoro, e dia causa a una condanna penale.

Vi ha un'obbligazione del datore di lavoro la quale si riallaccia all'estinzione o risoluzione del rapporto, cioè l'obbligo di rilasciare all'impiegato o all'operaio, che abbandona l'azienda, un certificato relativo alla specie e alla durata del servizio prestato (art. 526 cod. di comm., per il contratto di arruolamento marittimo; art. 16 r. decr. legge 13 novembre 1924, n. 1825).

Fra le pochissime norme dettate dal codice civile in tema di locazione d'opere o contratto di lavoro (art. 1628, 2139, 2140) è quella che vieta di locare la propria opera fuori che a tempo o per una determinata impresa (art. 1628). Il decorso del tempo convenuto o il compimento dell'impresa sono causa della fine o risoluzione del rapporto contrattuale e non è necessaria la disdetta Sennonché molto spesso le parti si costituiscono in rapporto di lavoro senza determinarne la durata. Allora il rapporto formato a tempo indeterminato può essere sciolto mediante dichiarazione di volontà di uno dei contraenti all'altro, trascorso che sia un certo lasso di tempo, fissato da una delle fonti del regolamento del rapporto, spesso da un contratto collettivo o dalla consuetudine (disdetta a termine, preavviso di licenziamento). Il rapporto di lavoro può essere risolto, per volontà di una delle parti, prima che sia decorso il tempo convenuto o sia compiuta l'impresa, supponendo un rapporto costituito per un certo tempo o per una determinata impresa, ovvero senza preavviso di licenziamento, nell'ipotesi di rapporto a tempo indeterminato, qualora sussistano giusti motivi di licenziamento in tronco o disdetta senza termine di preavviso. Poiché è ammessa la risoluzione per volontà di una delle parti, non sarà necessario ricorrere alla risoluzione giudiziale a sensi della norma dell'art. 1165 cod. civ., comune ai contratti bilaterali.

Qualora il datore di lavoro sia dichiarato fallito e le opere abbiano un carattere strettamente personale a lui o ai suoi familiari, il diritto alla prestazione delle opere può essere esercitato soltanto da lui e non dal curatore del fallimento. Ma il lavoratore avrà il diritto di sospendere la prestazione ove, a motivo del fallimento del suo contraente, eseguendo le opere corresse pericolo di perdere la retribuzione (art. 1469, 1510 cod. civ. per la compravendita). Se le opere da prestarsi non sono strettamente personali al datore di lavoro, il curatore del fallimento eserciterà il diritto di opzione tra il fare proprio del fallimento il rapporto o lasciarlo cadere. Se il curatore sceglierà il primo partito, chi presterà le opere diventerà creditore del fallimento e avrà diritto alla retribuzione nella specie e misura, nel tempo e modo convenuti (art. 805, 806, cod. di commercio per la compravendita). La dichiarazione di fallimento di chi deve prestare le opere può essere giusto motivo per l'altra parte a risolvere il rapporto, qualora nella costituzione del medesimo abbia avuto parte rilevante la fiducia o la stima del datore o per eseguire la prestazione pattuita sia necessario al lavoratore godere piena la stima di terzi. Inoltre il corso del rapporto sarebbe troncato, se la prestazione delle opere implicasse la disposizione di beni compresi nello spossessamento fallimentare.

La morte di chi deve prestare le opere è causa di risoluzione del rapporto a motivo del carattere personale della prestazione. Per la morte del datore di lavoro si scioglierà il rapporto, quando nel formarlo si abbia avuto particolare considerazione alla sua persona.

Bibl.: L. Abello, Trattato della locazione, II, 2ª ed., Torino 1922; G. Balella, Lezioni di legislazione del lavoro, I, Roma 1927; L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, 2ª ed., Milano 1915 e 1917, voll. 2; P. Jannaccone, Il contratto di lavoro, in Enciclopedia giuridica, Milano 1897; E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Roma 1906; M. Vita Levi, Della locazione di opere e più specialmente degli appalti, I: Della locazione delle opere, Torino 1876; Baudry-Lacantinerie e Wahl, Du contrat de louage, 4ª ed., Parigi 1907; Ph. Lotmar, Der Arbeitsvertrag nach dem Privatrecht des deutschen Reiches, voll. 2, Lipsia 1902 e 1908; W. Endemann, Die Behandlung der Arbeit im Privatrecht, Jena 1896; G. Rümelin, Dienstvertrag und Werkvertrag, Tubinga 1905; R. Montessori, Il diritto al certificato di servizio nel contratto di lavoro industriale, Modena 1906; id., Sui contratti di tariffa, in Riv. di dir. comm., 1906; id., Il progetto di legge sul contratto di impiego privato, in Riv di dir. comm., 1916; id., Sindacati e contratti collettivi di lavoro. Il magistrato del lavoro, Modena 1926; id., La tutela giuridica del lavoro, Modena 1932; id., Il contratto di lavoro nella giurisprudenza (anno 1931), in Riv. dir. comm., 1933; C. Vitta, L'ordinamento internazinale del lavoro e il diritto italiano, Modena 1926; P. Pic, Traité élém. de législ. industrielle. Les lois ouvrières, 5ª ed., Parigi 1922.

Legislazione del lavoro.

Sotto il nome di legislazione del lavoro si comprendono le disposizioni per la tutela del lavoro e delle classi lavoratrici.

Comunemente la legislazione del lavoro viene considerata come un aspetto della legislazione sociale, con la quale spesso viene identificata: identificazione erronea, perché la legislazione sociale è l'insieme delle disposizioni che regolano l'azione dello Stato per la tutela e per la cura del benessere generale; la legislazione del lavoro ha invece, per fine, la protezione del lavoro e dei lavoratori. La legislazione sociale inoltre è sorta con lo sviluppo dello stato moderno, con l'aumento della sua ingerenza nei rapporti sociali, e come un'esigenza generale per la crescente complessità dei rapporti umani. La legislazione del lavoro scaturì, verso la prima metà del sec. XIX, da quel movimento d'idee e di fatti che avevano determinato la rivoluzione politica dell'89 e quella industriale, cominciata in Inghilterra nella seconda metà del sec. XVIII. La rivoluzione dell'89 sciolse il ceto operaio dai vincoli della corporazione medievale, e lo lasciò solo e libero dinnanzi all'impresa. I nuovi progressi della meccanica e della chimica, tesoreggiati dall'industria, alla loro volta modificarono e accelerarono il ritmo della produzione, apportandovi, con la divisione del lavoro e con l'organizzazione industriale, una trasformazione profonda. A questi mutamenti fece seguito la nuova regolamentazione dei rapporti fra imprenditori e operai. Questo nuovo sistema di relazioni, per altro, non rispondeva al concetto naturale di libertà, ma soltanto a una particolare concezione economica della libertà, effetto dell'eguaglianza dei rapporti proclamata dalla dichiarazione del 4 agosto 1789. D'altra parte la codificazione napoleonica trascurò quei rapporti sociali che si venivano svolgendo nei nuovi ordinamenti.

Cosicché, se la legislazione sociale fu la deduzione logica dell'incremento delle attività e delle funzioni dello stato modermo, la legislazione del lavoro fu la conseguenza di movimenti compiutisi nell'organismo politico economico. Se i principî dell'89 attuarono la libertà economica, è pur vero che le rivoluzioni industriale e politica crearono un duplice ordine di rischi per i lavoratori: i rischi derivanti dai procedimenti tecnico-meccanici; i rischi provenienti dai nuovi patti di lavoro. Gli effetti di queste profonde trasformazioni non tardarono troppo a manifestarsi, perché il ceto operaio conseguì pochissimi vantaggi dall'incremento industriale. Ora in qual modo poteva attuarsi un sistema di norme rispondenti ai principî dell'economia liberistica e ai nuovi orientamenti dello stato moderno, il cui iniervento nei rapporti sociali si giustificava solo per coordinare e moderare gl'interessi particolari, per aiutare e supplire le energie individuali e per soddisfare i bisogni e gl'interessi collettivi?

In Italia, le prime forme dell'intervento dello stato, nei problemi del lavoro, si ebbero dopo la prima metà del sec. XIX; appena, cioè, sorse e si sviluppò la grande industria, il cui avvento, si può dire, coincide con la costituzione del nuovo regno. La legge 28 luglio 1861, n. 360, che istituì la Cassa degl'invalidi della marina mercantile per accordare pensioni o sussidî agl'invalidi iscritti nelle matricole della gente di mare, alle loro vedove e orfani, e per accordare soccorsi alla gente di mare navigante sotto la bandiera nazionale, si può considerare uno dei primi provvedimenti nel campo della legislazione del lavoro (v. anche legge 22 giugno 1913, n. 767; legge 17 aprile 1925, n. 473; legge 9 aprile 1931, n. 456; regolamento 6 luglio 1922, n. 1447).

Ma il numero sempre crescente dei rischi indusse i lavoratori a trovare un mezzo di difesa nelle associazioni mutue e nelle società operaie di mutuo soccorso. A queste ultime la legge 15 aprile 1886, n. 3818, concesse di conseguire la personalità giuridica, quando si proponessero di assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, d'impotenza al lavoro, e di vecchiaia, o di venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti (r. d. 26 ottobre 1919, n. 1996, e legge 9 aprile 1931, n. 456). Ma in pari tempo i lavoratori richiedevano, con maggiore insistenza, misure igieniche e di sicurezza contro gli accidenti per i quali s'invocava la responsabilità degl'imprenditori; l'abolizione delle multe e di ogni altra deduzione dai salarî; la proibizione del lavoro straordinario, il riposo settimanale e la riduzione della giornata di lavoro. Queste aspirazioni furono fatte proprie dalle organizzazioni socialiste, che riuscirono a trarre nella loro orbita la classe operaia e a tramutare i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori in uno strumento di lotta.

Lo stato italiano intuì subito la gravità dei problemi del lavoro e si affrettò a risolverli. La legge stessa di pubblica sicurezza, 23 dicembre 1888, n, 5888, già conteneva disposizioni per prevenire infortunî e disastri, nelle industrie insalubri e pericolose, per gli operai e domestici. Queste norme furono successivamente integrate da altri provvedimenti intesi anch'essi a prevenire infortunî e contenenti misure igieniche per il lavoro. Così dicasi della legge 30 giugno 1901, n. 278, che portò un'aggiunta alla legge di pubblica sicurezza con le norme per l'uso dell'acetilene e per gli esercizî di carburo di calcio e di acetilene (regol. 29 novembre 1906, n. 660), del r. decr. 18 giugno 1899, n. 232, per la prevenzione degl'infortunî nelle imprese che trattano materie esplodenti (regol. 21 gennaio 1906, n. 74) e del decr. min. 16 febbraio 1909 con le norme per l'impianto di nuovi edifici, per la fabbricazione degli esplodenti, modificante il r. decr. 23 agosto 1894, n. 389.

La legge 20 novembre 1859, n. 3755, aveva disciplinato il servizio delle miniere, cave, e officine; la legge 30 marzo 1893, n. 184 (regolamento 10 gennaio 1907, n. 152, che abrogò il regolamento 14 gennaio 1894, n. 19), ebbe per scopo la polizia delle miniere, cave, e torbiere. Dipoi il regolamento 18 giugno 1899, n. 231, impose l'osservanza, oltre che delle disposizioni preventive degl'infortunî, anche di alcune particolari norme nei lavori delle miniere e delle cave sotterranee. Svolgendosi la prevenzione contro gl'infortunî e applicandosi in ogni specie d'impresa si resero necessari altri provvedimenti. Il r. decr. 12 maggio 1927, n. 824, pubblicò il regolamento esecutivo del r. decr. legge 9 luglio 1926, n. 1331, concernente l'associazione nazionale per il controllo della combustione.

Il r. decr. 29 febbraio 1892, n. 55, modificato coi regi decreti 7 agosto 1892, n. 433, 17 febbraio 1893, n. 132, 24 marzo 1895, n. 101, fissò l'elenco dei colori nocivi.

Per meglio proteggere i lavoratori occupati nelle imprese e nelle industrie, il r. decr. 18 giugno 1899, n. 230, stabilì che i motori in genere e le dinamo dovessero essere installati in locali speciali o in spazî circondati da cancellate o da barriere, con la proibizione dell'accesso alle persone estranee.

Così pure per le comunicazioni ferroviarie e tramviarie, furono emanate norme particolari di polizia e di sicurezza col regol. 31 ottobre 1873, n. 1687; col r. decr. 9 gennaio 1899, n. 4; col decr. ministeriale 2 maggio 1906; col r. decr. 22 marzo 1900, n. 243; col r. decreto 7 maggio 1903, n. 209, e poi col r. decr. 23 novembre 1911, n. 1306, per la prevenzione degl'infortunî sul lavoro nell'esercizio delle tramvie extraurbane. Per quanto riguarda l'impiego dei gas tossici, vedi art. 58 testo unico leggi pubblica sicurezza del 18 giugno 1931, n. 773; e regolamento per i gas tossici, del 9 gennaio 1927, n. 147.

Ma se queste disposizioni avevano il carattere di polizia preventiva, altre ne vennero emanate in conseguenza dei sinistri sul lavoro. Si cercò allora di attenuarne le conseguenze con la legge 8 giugno 1883, n. 1473, che, approvando la convenzione stipulata il 18 febbraio 1883 fra il ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio e le Casse di risparmio di Milano, Torino, Bologna, Roma, Venezia e con il Monte dei Paschi di Siena, il Monte di Pietà e la Cassa di risparmio di Genova, col Banco di Napoli e con quello di Sicilia, fondò una Cassa nazionale per assicurare gli operai contro gl'infortunî sul lavoro.

Si ebbe poi la legge 15 giugno 1893, n. 295 (regolamento 26 aprile 1894, n. 179), sull'istituzione dei collegi dei probiviri per conciliare le controversie nascenti fra imprenditori e operai, o apprendisti, o anche fra operai. Ma l'istituzione fu soppressa con il r. decr. 26 febbraio 1928, n. 471.

Ed eccoci alla legge 17 marzo 1898, n. 80, sugl'infortunî sul lavoro, per proteggere la vita e l'incolumità degli operai, riparare le conseguenze economiche degl'infortunî. Le modificazioni introdotte in questa legge con il provvedimento 29 giugno 1903, n. 243, e il r. decr. 10 gennaio 1904, n. 4, portarono al r. decr. 31 gennaio 1904, n. 51, che approvò il testo unico della legge vigente per gli infortunî degli operai sul lavoro (regolamento 13 marzo 1904, n. 141). Anche per i contadini, e per tutti i lavoratori dei campi, venne sancito l'obbligo dell'assicurazione contro gl'infortunî sul lavoro, con il decr. legge 23 agosto 1917, n. 1450 (regolamemo esecutivo 21 novembre 1918, n. 1889).

Anche il riposo settimanale fu oggetto di attenzione del legislatore italiano. Con la legge 7 luglio 1907, n. 489, venne concesso un periodo di riposo ai dipendenti delle imprese e aziende industriali e commerciali di qualunque genere, non inferiore alle 24 ore consecutive alla settimana; e il r. decr. 7 novembre 1907, n. 807, regolò l'applicazione della legge sul riposo settimanale nelle aziende commerciali e negli esercizî pubblici; il r. decr. 8 agosto 1908, n. 599, ne regolò l'applicazione nelle aziende industriali; il r. decr. 29 agosto 1908, n. 628, stabilì le industrie ammesse ad applicare il riposo settimanale a turno. Per le aziende giornalistiche fu stabilito il riposo settimanale e festivo dal r. d. 23 giugno 1923, n. 1393, che sostituì il regolamento 14 dicembre 1919, n. 2448 (v. pure r. decr. 7 ottobre 1923, n. 2236) (estesi alle nuove provincie con r. decr. 8 luglio 1925, n. 1492). Una notevole limitazione fu introdotta nell'industria della panificazione e della pasticceria con la legge 22 marzo 1908, n. 105 (regolamento esecutivo 28 giugno 1908, n. 432), che abolì il lavoro notturno (estesa alle nuove provincie con r. decr. 8 luglio 1925, n. 1492).

Insieme con questi provvedimenti debbono essere pure ricordati quelli che furono presi per la tutela dell'igiene del lavoro e degli operai. Già la legge di pubblica sicurezza 22 dicembre 1888, n. 5888, vietò che si stabilissero manifatture, fabbriche o depositi insalubri o pericolosi, fuorché nelle località e nelle condizioni determinate dai regolamenti locali; e la legge 22 dicembre 1888, n. 5849, sull'ordinamento dell'amministrazione e sull'assistenza sanitaria (regolamento 9 ottobre 1889) aveva recato disposizioni per la macerazione del lino, della canapa, e in genere delle piante tessili, che nell'interesse della salute pubblica dovevano essere eseguite nei luoghi, nei tempi e nella distanza dall'abitato e con le cautele determinate dai regolamenti (art. 37). Il decr. min. 12 luglio 1912, sostituendo il decreto 21 aprile 1895 e modificato con decr. 14 marzo 1903, approvò l'elenco delle industrie insalubri. Questo movimento in favore dell'igiene del lavoro si svolge pure attraverso norme contemplate in varie disposizioni. Così, per l'alimentazione, la citata legge 22 dicembre 1888, n. 5849, sulla sanità sancì (art. 42) la sanzione penale contro chiunque avesse venduto, ritenuto per vendere, o somministrato come compenso ai proprî dipendenti, materie destinate al cibo o alla bevanda riconosciute guaste, infette, adulterate, o in altro modo insalubri e nocive. Detta disposizione fu poi inclusa nel testo unico del 1907, n. 636, che comprese anche le disposizioni per diminuire le cause della malaria (r. decr. 28 febbraio 1907, n. 61, e regolamento per l'esecuzione delle leggi per diminuire le cause della malaria e per la vendita del chinino di stato); nello stesso testo unico furono incluse le leggi 23 dicembre 1900, n. 505, e 19 maggio 1904, n. 209, per la vendita del chinino; 22 giugno 1902, n. 224, per la distribuzione del chinino alle congregazioni di carità; 2 novembre 1901, n. 460, per le zone malariche e per l'impianto e il funzionamento dei mezzi meccanici di difesa (v. pure circolare ministeriale 12 giugno 1902). Anche per prevenire e curare la pellagra furono emanate la legge 21 luglio 1902, n. 427 (che fu poi compresa nel testo unico 1907, n. 636) e il regolamento 5 novembre 1903, n. 451.

Così pure, per la risicoltura, fu emanata la legge 12 giugno 1866, n. 2957, sostituita dalla legge 16 giugno 1907, n. 337, che venne fusa nel testo unico 1° agosto 1907, n. 636 (r. decr. 29 marzo 1908, numero 157, regolamento per l'esecuzione della legge n. 337). Da ricordare la circolare 6 giugno 1908 del Ministero dell'interno con le istruzioni per la compilazione dei regolamenti provinciali speciali delle risaie, e il r. decr. 5 gennaio 1911, n. 41, che approvò il regolamento speciale per l'elezione, la nomina, la funzione delle commissioni di conciliazione per le controversie relative al contratto di lavoro nelle risaie.

Fra i provvedimenti di natura igienico-sociale adottati in favore della classe operaia sono da annoverarsi: la legge 24 febbraio 1904, n. 57 (art. 71 testo unico leggi sanitarie), per assicurare un ricovero igienico a quei contadini che, per ragioni di lavoro, debbono dimorare nei fondi alla cui coltivazione sono addetti; e il r. decr. legge 23 dicembre 1920, n. 1881, che vietò l'impiego del fosforo bianco nella fabbricazione dei fiammiferi; e soprattutto va ricordato il regolamento generale sull'igiene del lavoro del 14 aprile 1927, n. 530.

In difesa degli operai emigrati per lavoro furono emanate disposizioni diverse. La legge 30 dicembre 1888, n. 5860 (regolamento 10 gennaio 1889, sostituito dal regolamento 21 gennaio 1899), considerò l'emigrazione un libero fatto lasciato alla libera contrattazione delle parti, riservando allo stato il potere d'intervento su richiesta degl'interessati, solo in caso d'inosservanza dei patti stabiliti. La legge 31 gennaio 1901, n. 23 (modificata il 17 luglio 1910, n. 538), e il regolamento 10 luglio 1901, n. 375 (modif. r. decr. 14 marzo 1909, n. 130), segnarono l'inizio di una regolare disciplina del fenomeno emigratorio, che (cfr. legge 2 agosto 1913, n. 1075, e regolamento 28 agosto 1919, n. 1643) portò alla tutela giuridica degli emigranti. Col r. decr. legge 13 novembre 1919, n. 1919, fu emanato il testo unico che comprese le dette disposizioni, e il r. decreto 30 giugno 1919, n. 1185, sui servizî dell'emigrazione. Ma il r. decreto 11 febbraio 1929, n. 358, abolì le giurisdizioni speciali create dalla legge 1913, n. 1075.

Fra i provvedimenti riguardanti il regime giuridico del lavoro è da ricordare quello contenuto nella legge 14 luglio 1904, n. 396, e nel r. decr. 14 aprile 1912, n. 223, riguardante la costituzione di un sindacato obbligatorio di assicurazione mutua contro gl'infortunî del lavoro fra gli esercenti di miniere di zolfo della Sicilia (r. decr. 29 febbraio 1904, n. 590, e r. decr. 13 ottobre 1911, n. 1290), (v. anche legge 14 luglio 1907, n. 527, r. decr. 14 giugno 1908, n. 462, r. decr. 2 luglio 1908, n. 470, e r. decr. 3 dicembre 1908, n. 787. Inoltre la legge 15 luglio 1906, n. 383, recò dei provvedimenti per le provincie meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna, e alcune clausole a favore dei lavoratori furono incluse nei capitolati di appalto di opere pubbliche.

Un'istituzione veramente benefica fu la Cassa di maternità (v. assicurazione).

Lavoro delle donne. - La tutela della donna occupata negli opifici e negli stabilimenti industriali è stato uno dei compiti più importanti della legislazione sociale. Il problema della protezione fisica e morale della donna lavoratrice si presentò in tutta la sua gravità nell'età moderna. Se la creazione della grande impresa determinò la modificazione economica nei rapporti di lavoro, questa trasformazione, dando alla donna la possibilità di concorrere col proprio guadagno al bilancio domestico, o di bastare a sé stessa, nascondeva pericoli e disagi molto più gravi di quelli che potevano riscontrarsi per gli uomini. L'assenza della donna dalla casa è spesso per essa, per il marito, e per i figli, una calamità e un danno, non compensato dal guadagno che ricava dalla fabbrica. Medici e igienisti hanno dimostrato: 1. che dopo pochi mesi di lavoro la salute di gran parte delle donne impiegate nelle industrie subisce un grave deperimento; 2. che con l'intensificarsi del lavoro delle donne nelle officine, e anche nei campi, crescono gli aborti, i parti prematuri, la mortalità precoce nell'infanzia; 3. che quando le donne sono stremate dalla fatica, specie se scarsamente nutrite, e lavorano poi sino al momento del parto, si constatano spesso nel feto immaturità, debolezza congenita, peso scarso, presentazioni viziose e altre anomalie; 4. che la morbilità post partum in genere, e la ginecologica in specie, colpiscono preferibilmente le donne che lavorano durante il puerperio e non allattano; 5. che la morbilità e la mortalità dei neonati e dei lattanti sono enormi nei nati e negli allattati da madri denutrite.

Ma, nonostante questi mali, il numero delle donne nelle officine andò in tutti i paesi notevolmente aumentando; il che vuol dire che il fattore economico prevalse sopra qualsiasi considerazione igienica e morale della donna; per cui anche il suo lavoro divenne una merce, il cui valore fu regolato dalla legge dell'offerta e della domanda sulla base dell'utilità finale.

Di qui la necessità di difendere la donna da tutti i mali prodotti dal lavoro industriale. Non mancarono opposizioni a quest'azione diretta dello stato, che doveva necessariamente risolversi in una serie di limitazioni alla libertà industriale. L'industria non riteneva di consentire restrizioni nella prestazione del lavoro, dovendo tenere conto soltanto della capacità e del rendimento lavorativo. Sennonché queste particolari considerazioni non potevano prevalere sull'interesse generale avente per oggetto la difesa della salute fisica e morale del proletariato femminile: il legislatore cercò di contemperare quest'esigenza fondamentale della vita nazionale con l'interesse dell'industria. Il movimento legislativo dei paesi civili è stato, in questo campo, rapido e quasi simultaneo, poiché ovunque s'intese la necessità di vietare, in tutto o in parte, l'impiego delle donne minorenni nel lavoro notturno o nei lavori pericolosi o insalubri; di limitare la durata del lavoro giornaliero e d'impedire che le puerpere fossero addette al lavoro per un determinato periodo di tempo dopo il parto. Così la conferenza internazionale, tenutasi a Berlino nel 1890, accolse nei suoi voti queste generali aspirazioni, e per di più fece voto che per le donne minorenni la durata del lavoro non dovesse superare undici ore giornaliere; che fosse accordato alle donne minorenni un riposo giornaliero non inferiore a un'ora e mezza.

In Italia il movimento in favore della protezione della donna lavoratrice ha origini non recenti: le prime inchieste ufficiali risalgono al 1877-1879; ma già fin dal 1870-71 erano stati presentati dei disegni di legge in materia. La legge 11 febbraio 1886, n. 3657 (regol. 17 settembre 1886), recò, nell'interesse dell'igiene, alcune norme regolatrici del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e nelle miniere. Il disegno di legge del ministro Guido Baccelli sul lavoro delle donne (e dei fanciulli) fu ripreso allo stato dí relazione, e presentato il 15 marzo 1902: esso riproduceva un disegno di legge del ministro Carcano del 2 dicembre 1900. Detto progetto dovette tenere conto delle condizioni della nostra industria per non ritardarne o incepparne lo svolgimento con restrizioni eccessive; e poiché si vide che i salarî erano più modesti da noi che all'estero, e che perciò le famiglie operaie non potevano rinunciare al sollievo loro recato dal lavoro delle donne, così la legge 19 giugno 1902, n. 242, fissò il principio che le fanciulle per essere ammesse al lavoro nei varî opifici o laboratorî, dovessero avere almeno l'età di 12 anni; e vietò alle donne di qualsiasi età, tranne alcune eccezioni, i lavoii nei luoghi sotterranei. Stabilì, poi, che le donne minorenni non potessero essere ammesse nei lavori pericolosi e insalubri ancorché non eseguiti in località sotterranee; proibì il lavoro notturno alle donne di qualsiasi età dopo cinque anni dalla promulgazione della legge, concedendo che potessero esservi adibite le donne di età superiore ai quindici anni che alla data della promulgazione della legge stessa si trovassero già impiegate negli opifici industriali. Vietò alle puerpere, tranne eccezioni e dentro limiti determinati, di essere impiegate al lavoro prima che fosse trascorso un mese dall'epoca del parto; dispose che le donne di qualsiasi età non potessero essere impiegate nel lavoro per più di 12 ore, da interrompersi con uno o più riposi intermedî, di durata secondo le ore lavorative; in ogni caso che il lavoro senza interruzione non dovesse durare più di sei ore; dispose altresì che ogni settimana fosse concesso un intero giorno di riposo. Nei riguardi dei proprietarî delle officine, dei datori di lavoro, la legge 1902 stabilì che ogni anno dovessero denunziare le donne impiegate negli stabilimenti; adottare e far eseguire nei locali di lavoro, nelle stanze di allattamento, nei refettorî, provvedimenti necessarî all'igiene, alla sicurezza e alla moralità. Si fece obbligo di permettere l'allattamento alle madri occupate nelle fabbriche, sia in una camera speciale annessa, sia concedendo l'uscita dalla fabbrica oltre i riposi prescritti; ma la camera speciale di allattamento fu prescritta alle fabbriche occupanti più di cinquanta operaie. Ai proprietarî, gerenti e direttori delle aziende, e ai cottimisti assumenti alla loro dipendenza operaie, s'impose di ricevere in consegna, preventivamente, i libretti prescritti. In questi, oltre alle indicazioni volute dalla legge, si volle la dichiarazione medica che la titolare era sana e adatta al lavoro. Altre prescrizioni riguardarono il rilascio dei libretti, i regolamenti interni delle aziende, le denunce di esercizio, il registro, dal quale devono risultare le generalità complete delle donne minorenni; come pure vennero indicati nelle tabelle i lavori insalubri o pericolosi; vennero precisati gli orarî di lavoro, la durata dei riposi, le norme di sicurezza e d'igiene, per la vigilanza sanitaria, per le ispezioni e le sanzioni contro le violazioni alle norme legislative. Qualche tempo dopo si provvide a ovviare alle deficienze della legge, e ciò si fece con la legge 7 luglio 1907, n. 416 (testo unico r. decr. 10 novembre 1907, n. 818, regol. r. decr. 14 giugno 1909, n. 442). Altre modificazioni furono introdotte con la legge 3 luglio 1910, n. 425 e con la legge 6 luglio 1912, n. 883, e il r. d. l. 15 marzo 1913, n. 748 (v. anche r. decr. 31 agosto 1910, n. 665; r. decr. 31 agosto 1910, n. 698; e legge 26 giugno 1913, n. 886, sui requisiti d'istruzione per l'ammissione al lavoro negli stabilimenti industriali). A questi provvedimenti ne seguirono altri di carattere eccezionale (r. decr. 18 gennaio 1914, n. 163, che consentì l'ammissione delle donne minorenni ai lavori di arrotatura e di levigatura del vetro; r. decr. 30 agosto 1914, n. 925, che temporaneamente sospese il divieto del lavoro notturno per le donne per opere di pubblico interesse o nell'interesse diretto dello stato; r. decr. luogot. 15 marzo 1917, n. 570, per la tutela del lavoro delle maestranze femminili (e minorili) addette agli stabilimenti per rifornimenti militari durante la guerra. La legge attualmente in vigore è quella contenuta nel testo unico 10 novembre 1907, n. 818, e comprende le disposizioni delle leggi 7 luglio 1907, n. 416, e 19 giugno 1902, n. 242. La vigente legge è stata estesa alle provincie redente con rr. decreti 2 luglio 1926, n. 1132, e 4 settembre 1927, n. 1801 (regol. esecutivo 6 agosto 1916, n. 1136, che ha sostituito il regol. 14 giugno 1909, n. 442, espressamente abrogato).

La vigente legge vieta l'ammissione al lavoro negli opifici industriali, nei laboratorî, nelle costruzioni edilizie e nei lavori non sotterranei delle cave, miniere e gallerie alle fanciulle che non abbiano compiuto l'età di 12 anni. Vieta alle donne di qualsiasi età l'ammissione ai lavori sotterranei; e per i lavori pericolosi o troppo faticosi e insalubri, ancorché non eseguiti nei sotterranei, il divieto è prescritto, per le donne, fino ai 25 anni compiuti. Nel t. u. del 1907 sono ripetute le stesse norme della legge 1902 concernenti il libretto di lavoro, il certificato medico, la tutela delle puerpere, la durata del lavoro per le donne di qualsiasi età, l'interruzione del lavoro, il riposo settimanale, la camera di allattamento, le condizioni igieniche dei locali, i regolamenti interni; e sono stabiliti gli organi per l'esecuzione e l'applicazione della legge.

Il movimento di varî stati in favore della donna occupata negli opifici portò alla convenzione internazionale conclusa a Berna il 26 settembre 1906, sull'interdizione del lavoro notturno delle donne, negli stabilimenti. Detta convenzione, alla quale aderirono l'Italia, l'Austria-Ungheria, il Belgio, la Danimarca, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, il Lussemburgo, l'Olanda, il Portogallo, la Spagna, la Svezia e la Svizzera, fu resa esecutoria in Italia con la legge 29 luglio 1909, n. 583. Il r. decr. legge 15 marzo 1923, n. 748, apportò alcune modificazioni al testo unico 10 novembre 1907, n. 818, perché potesse avere piena e intera esecuzione nel regno italiano la convenzione di Washington della conferenza internazionale del lavoro, sul lavoro notturno delle donne, col divieto, tranne determinate eccezioni, del lavoro notturno alle donne di qualsiasi età. La convenzione adottata dalla sessione di Washington riprodusse, in massima parte, le disposizioni della convenzione internazionale di Berna del 1906.

Il r. decr. legge 15 marzo 1923, n. 748, apportando alcune modificazioni alla legge sul lavoro delle donne, agli effetti della legge sul lavoro delle donne e del predetto decreto, precisò il carattere di opificio industriale o di laboratorio, e intese come tale ogni luogo ove si compiono, con o senza il mezzo di macchine non mosse dall'operaio che le usa, lavori manuali di natura industriale, qualunque sia il numero degli operai salariati adibiti, senza distinzione di sesso e di età, eccettuati gli opifici e i laboratorî in cui siano occupati soltanto i membri di una stessa famiglia. In deroga di quanto dispone l'art. 5 della legge 1907, il provvedimento vietò il lavoro notturno negli opifici e nei laboratorî industriali, e nelle loro dipendenze, alle donne di qualsiasi età, tranne condizioni particolari o casi di forza maggiore. Precisò poi che il termine "notte" significa un periodo di almeno undici ore consecutive, comprendenti l'intervallo tra le ore 22 e le ore 5.

Il r. decr. 29 marzo 1923, n. 1021, diede piena e intera esecuzione nel regno alla convenzione sul lavoro notturno delle donne, adottato dalla conferenza generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro della Società delle nazioni nella prima sessione (29 ottobre-29 novembre 1919) tenuta a Washington. Inoltre il r. decr. 22 agosto 1925, n. 1563, aggiunse una voce alla tabella A, di cui all'art. 36 del regol. 6 agosto 1916, n. 1136, concernente le industrie nelle quali è vietata l'occupazione delle donne minorenni; e il r. decr. 14 aprile 1927, n. 580, approvò il regolamento generale per l'igiene del lavoro. Successivamente il r. decr. 13 maggio 1929, n. 850, recò nuove disposizioni per la tutela delle operaie e impiegate durante lo stato di gestazione e di puerperio, disponendo che nelle aziende industriali e commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere d'istituti d'insegnamento professionale o di beneficenza, e nelle loro dipendenze, non possono essere adibite al lavoro le donne durante l'ultimo mese di gestazione e nel primo mese dopo il parto, eccezion fatta per le aziende in cui siano occupati solo i membri della famiglia dell'esercente. In conseguenza, il datore di lavoro deve conservare il posto alle operaie anche nel caso che queste restino assenti dal lavoro per un periodo più lungo a causa dello stato di gravidanza o di puerperio. Altre disposizioni concernono pure le donne occupate nei lavori agricoli particolarmente gravosi; il divieto d'impiego delle donne nei lavori di mondatura nelle risaie durante l'ultimo mese di gravidanza e il primo mese dopo il parto (art. 82 t. u. 1° agosto 1907, n. 636); si fece obbligo di concedere due periodi di riposo durante la giornata di lavoro per provvedere all'allattamento, indipendentemente da quelli prescritti dall'art. 8 della legge 10 novembre 1907, n. 818, fermo restando l'obbligo per il datore di lavoro della camera di allattamento.

Il r. decr. legge 13 maggio 1929, n. 850, estese la legge 24 settembre 1929, n. 2157, sulla Cassa nazionale di maternità a tutte le operaie, alle impiegate delle aziende industriali e commerciali, escluse le impiegate la cui retribuzione mensile superi lire 800, elevando la misura del sussidio, e concedendo alle donne soggette all'obbligo dell'assicurazione contro la disoccupazione involontaria, per il periodo di astensione dal lavoro per lo stato di gravidanza o di puerperio, il sussidio di disoccupazione secondo le norme del r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3158. Sono infine comminate le sanzioni contro i contravventori alle disposizioni di legge.

Lavoro dei fanciulli. - La disciplina legislativa sul lavoro dei fanciulli riposa sopra gli stessi principî di tutela sociale che hanno dato luogo alle norme protettive del lavoro delle donne occupate negli opifici industriali, nei laboratorî, nelle arti edilizie e nei lavori non sotterranei, delle cave, delle miniere e delle gallerie. Se non che, le vive preoccupazioni intorno al lavoro dei fanciulli si manifestarono molto tempo prima di quelle per il lavoro delle donne, sebbene le disposizioni legislative abbiano in seguito disciplinato insieme l'una e l'altra categoria per l'identità degli scopi che la legge intendeva conseguire.

Già il Lanza, nel progetto di leggi sanitarie, si occupò anche del lavoro dei fanciulli, essendosi dimostrata insufficiente la disposizione di cui all'art. 88 della legge 20 novembre 1859, n. 3755 sulle miniere, che proibì, sotto pena di un'ammenda da L. 5 a L. 50, di lasciare discendere a lavorare nelle miniere i ragazzi in età minore degli anni 10. La legge 21 dicembre 1873, n. 1733, aveva fatto divieto di affidare, o consegnare, individui dell'uno e dell'altro sesso, minori degli anni 18, per impiegarli nelle professioni girovaghe di saltimbanchi, ecc. Ma la legge di pubblica sicurezza 23 dicemhre 1888, n. 5881, vietò (articoli 48, 72-73; 113-115-116) altresì di produrre fanciulli e fanciulle di età inferiore agli anni 14 nei pubblici spettacoli in giuochi di forza, di ginnastica e di equitazione. Vero è che la legge 11 febbraio 1886, n. 3657 (regol. 17 febbraio 1886) aveva recato, nell'interesse dell'igiene, alcune norme regolatrici del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e nelle miniere. Ma questa legge non poteva raggiungere quelle finalità d'interesse sociale che per la protezione del fanciullo venivano insistentemente reclamate. Donde la legge 19 giugno 1902, n. 242, che recò provvedimenti sul lavoro delle donne e dei fanciulli (regol. 29 gennaio 1903, n. 41). Questa legge fu preceduta da numerose proposte d'iniziativa parlamentare e da varî progetti governativi, che, dopo parecchie vicende, portarono a un opportuno provvedimento legislativo. La legge 1902 (art.1) dispose, infatti, che i fanciulli dell'uno e dell'altro sesso, per essere ammessi al lavoro negli opifici industriali, nei laboratorî, nelle arti edilizie, e nei lavori non sotterranei, delle cave, delle miniere e delle gallerie, dovessero avere almeno l'età di 12 anni compiuti; che nei detti lavori sotterranei non potessero essere impiegati i fanciulli di età inferiore ai 13 anni compiuti; che i lavori ritenuti pericolosi e insalubri fossero vietati ai fanciulli d'ambo i sessi, di età inferiore ai 15 anni compiuti (art. 4).

Si proibì anche il lavoro notturno ai maschi di età inferiore ai 15 anni compiuti e alle donne minorenni (art. 5). Si dispose che i fanciulli di ambo i sessi, che avessero compiuto i 10 anni, ma non ancora i 12, non potessero essere impiegati nel lavoro per più di otto ore nelle 24 del giorno; non più di 11 ore i fanciulli d'ambo i sessi dai 12 ai 15 anni compiuti; e non più di 12 ore le donne di qualsiasi età (art. 7). Si prescrisse l'interruzione del lavoro dei fanciulli, con uno o più riposi intermedî di una durata secondo le ore lavorative, proibendosi la durata del lavoro, senza interruzione, per più di 6 ore (art. 8), e prescrivendosi per i fanciulli, fino ai 15 anni compiuti, un intero giorno di riposo (24 ore) per ogni settimana (art. 9).

Inoltre si fece obbligo ai proprietarî, direttori, impresarî e cottimisti, impieganti fanciulli, di adottare e fare eseguire tanto nei locali dei lavori e nelle relative dipendenze, quanto nei dormitorî e nei refettorî, i provvedimenti necessarî alla tutela dell'igiene, della sicurezza e della moralità, salvo le prescrizioni delle altre leggi e regolamenti (art. 10). Particolari disposizioni furono prese per il rilascio dei libretti, per l'obbligo dell'istruzione, per i regolamenti interni delle aziende, per le denunzie di esercizio, per il registro, dal quale devono risultare le complete generalità dei fanciulli occupati. Agli effetti dell'art. 4 della legge il regolamento (art. 29) indicò le industrie insalubri e pericolose in cui è vietato che siano occupati i fanciulli.

Alla legge 1902 seguirono le modificazioni dei provvedimenti: 7 luglio 1907, n. 416 (v. testo unico 10 novembre 1907, n. 818, regolamento 14 giugno 1909, n. 442); legge 3 luglio 1910, n. 425; r. decr. 31 agosto 1910, n. 665; r. decr. 31 agosto 1910, n. 698; legge 6 luglio 1912, n. 883, e legge 26 giugno 1913, n. 886, sui requisiti d'istruzione dei fanciulli per l'ammissione al lavoro negli stabilimenti industriali; rr. decr. 18 gennaio 1914, n. 163, e 30 agosto 1914, n. 925; e r. decr. legge 15 marzo 1917, n. 570.

La legge attualmente in vigore è contenuta nel testo unico r. decr. 10 novembre 1907, n. 818; e comprende le disposizioni della legge 7 luglio 1907, n. 416, e quelle della legge 19 luglio 1902, n. 242. Detta legge è stata estesa alle provincie redente, coi rr. decr. 2 luglio 1926, n. 1132, e 4 settembre 1927, n. 1801. Il regolamento esecutivo (decr. legge 6 agosto 1916, n. 1136) ha sostituito il regolamento 14 giugno 1909, n. 442, espressamente abrogato. La legge vieta l'ammissione al lavoro negli opifici industriali, nei laboratorî, nelle costruzioni edilizie e nei lavori non sotterranei delle cave, miniere e gallerie ai fanciulli d'ambo i sessi che non abbiano compiuto l'età di 12 anni. Per l'ammissione ai lavori sotterranei l'età minima dovrà essere di 13 anni compiuti, dove esiste trazione meccanica; di 14 anni, dove non esiste. I fanciulli di età minore di 15 anni (e le donne fino a 21 anni compiuti) non sono ammessi ai lavori pericolosi, troppo faticosi e insalubri, ancorché non eseguiti nei sotterranei. Nelle solfare di Sicilia possono essere ammessi nei lavori di carico e scarico dei forni fanciulli che abbiano compiuto 14 anni. Per l'ammissione ai lavori contemplati dalla legge e dal regolamento (art. 15), i fanciulli sino a 15 anni compiuti debbono essere forniti di un libretto e di un certificato medico, iscritto nel libretto, da cui risulti che essi sono sani e adatti al lavoro cui vengono destinati, e che hanno soddisfatto il precetto sull'istruzione obbligatoria. È prescritta al datore di lavoro la denunzia dei fanciulli inferiori ai 15 anni. È vietato il lavoro notturno ai maschi di età inferiore ai 15 anni. Sono stati inoltre prescritti: la durata del lavoro per i fanciulli d'ambo i sessi dai 12 ai 15 anni compiuti; le interruzioni del lavoro, il riposo settimanale, le condizioni dei locali secondo le regole dell'igiene, della sicurezza e della moralità, i regolamenti interni, gli organi per l'esecuzione e l'applicazione della legge, le sanzioni penali. La legge 3 marzo 1912, n. 214, diede piena e intera esecuzione all'accordo per la protezione dei giovani operai italiani in Francia, secondo la prescrizione della legge italiana, e dei giovani operai francesi in Italia, firmato a Parigi il 15 giugno 1910. Il r. decr. legge 15 marzo 1923, n. 748, introdusse alcune modificazioni al testo unico 10 novembre 1907, n. 818, per potere dare completa esecuzione alla convenzione di Washington sugli adolescenti nelle industrie, vietando, eccetto determinati casi, il lavoro notturno agli operai di età inferiore ai 18 anni compiuti negli stabilimenti industriali: v. anche r. decr. 29 marzo 1923, n. 1021, che dà piena esecuzione nel regno alla detta convenzione, adottata dalla conferenza generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro della Società delle Nazioni nella prima sessione (29 novembre 1919, Washington).

Il r. decr. 22 agosto 1925, n. 1563, aggiunse una voce alla tabella A di cui all'art.36 del regol. 6 agosto 1916, n. 1136, concernente le industrie nelle quali è vietata l'occupazione dei fanciulli; e il r. decr. 14 aprile 1927, n. 580, approvò il regolamento generale per l'igiene del lavoro.

Tutto questo insieme di leggi e di provvedimenti, che costituiscono la legislazione del lavoro, è stato sottoposto a continue modificazioni per adeguarla alle nuove esigenze e renderla rispondente ai suoi scopi. A tale intento la legge 29 giugno 1902, n. 242 (regolamento 29 gennaio 1903, n. 48), istituì un ufficio del lavoro presso il Ministero di agricoltura, industria e commercio, per raccogliere e coordinare tutto ciò che nel campo tecnico e legislativo potesse interessare il lavoro e i lavoratori; mentre la legge 22 dicembre 1912, n. 1361, istituì l'ispettorato dell'industria e del lavoro per accertare l'esecuzione delle leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sugli infortunî degli operai sul lavoro, sul riposo settimanale, sull'abolizione del lavoro notturno dei panettieri, sulla Cassa di maternità in tutti gli opifici, laboratorî, cantieri sottoposti alle leggi indicate, per esercitare la sorveglianza sull'esecuzione delle disposizioni legislative e regolamentari sulle caldaie e i recipienti a vapore, e per rilevare e raccogliere tutte le condizioni tecniche e igieniche delle singole industrie e trasmettere al suddetto ministero tutte le notizie riguardanti le classi operaie e la produzione nazionale.

Istituito, con r. decr. 2 luglio 1926, n. 1131, il Ministero delle corporazioni, col r. decr. 14 novembre 1929, n. 2183, l'ispettorato del lavoro venne soppresso (art. 2) e successivamente, col r. decr. legge 28 dicembre 1931, n. 1684 (legge 16 giugno 1932, n. 886), l'ispettorato, già riordinato col r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3245, costituito sul sistema corporativo, è stato modificato a carattere unitario con l'assorbimento di ogni funzione di vigilanza sull'applicazione delle leggi sul lavoro.

La legislazione del lavoro è stata specialmente curata dal governo fascista, il quale, oltre a promuovere le necessarie riforme e aggiornare le leggi vigenti, ne emanò delle nuove di particolare importanza, come il r. decr. legge 15 marzo 1923, n. 692, che stabilì la durata massima normale della giormata di lavoro per gli operai e impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura (regol. rr. decr. 10 settembre 1923, n. 1955, 1956, 1957, e r. decr. 4 settembre 1927, n. 1801, che estende i provvedimenti a Fiume); e il r. decr. legge 29 marzo 1923, n. 1492, che autorizzò il governo a dare esecuzione alla convenzione di Washington sulle otto ore.

Il governo fascista non soltanto ha provveduto alla riforma della legislazione del lavoro, ma ha avuto cura di promuovere una notevole attività d'assistenza ai lavoratori con l'Opera nazionale del dopolavoro. Quest'istituzione, creata col r. decr. 1 maggio 1925, n. 582, ha per fine di provvedere al sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori con istituzioni dirette a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali (v. pure rr. decr. 11 novembre 1926, n. 1936, e 7 aprile 1927, n. 516).

Un'importante innovazione nel regime giuridico del lavoro è costituita dalla legge 3 aprile 1926, n. 563 (r. d. legge 1° luglio 1926, n. 1130, norme per l'attuazione). Con questa legge il governo fascista ha dato la sua impronta alla legislazione del lavoro, stabilendo una nuova disciplina dei rapporti collettivi del lavoro, e risolvendo il problema dei rapporti tra capitale e lavoro, secondo la concezione dello stato fascista. È stata, di conseguenza, istituita la magistratura del lavoro, alla quale la detta legge ha demandato obbligatoriamente la risoluzione di tutte le controversie per la disciplina dei rapporti collettivi del lavoro, concernenti sia l'applicazione dei contratti collettivi o di altre norme esistenti, sia la richiesta di nuove condizioni di lavoro. Un altro notevole principio fissò la legge 3 aprile 1926, e precisamente il riconoscimento giuridico delle associazioni sindacali, pur ricordando che già col r. decr. legge 24 gennaio 1924, n. 64, il governo fascista aveva assoggettato le associazioni di qualsiasi natura, mantenute col contributo dei lavoratori, alla vigilanza dell'autorità politica della provincia. Conseguenze del principio della disciplina giuridica dei contratti collettivi, e del riconoscimento dei sindacati come persone giuridiche, sono: la rappresentanza legale di tutti i datori di lavoro, artisti e professionisti; la facoltà riconosciuta ai sindacati di promuovere l'azione per le controversie relative ai rapporti collettivi di lavoro; il divieto dell'autodifesa, e cioè della serrata e dello sciopero, in tutti i casi che sono puniti a termini di legge.

Un atto non formalmente legislativo, ma fondamentale della Rivoluzione fascista, in quanto stabilisce i diritti e i doveri di tutte le forze della produzione, è la Carta del lavoro deliberata dal Gran Consiglio Fascista il 12 aprile 1927 (Gazz. uff. 30 aprile 1927). La Carta del lavoro si compone di 30 massime: le prime dieci concernono lo stato corporativo e la sua organizzazione; undici riguardano il contratto collettivo di lavoro e le garanzie del lavoro; quattro gli uffici di collocamento, e le ultime cinque dettano i principî fondamentali della previdenza, dell'assistenza, dell'educazione e dell'istruzione. Interessante è la legge 13 dicembre 1928, n. 2832, che autorizzò il governo a emanare disposizioni aventi forza di legge per la completa attuazione della Carta del lavoro.

Altri provvedimenti degni di rilievo sono: il r. decr. 29 marzo 1928, n. 1003, sulla disciplina nazionale della domanda e dell'offerta del lavoro (v. pure rr. decr. 10 luglio 1930, n. 1190, 9 dicembre 1929, n. 2393, 6 dicembre 1928, n. 3222; r. decr. legge 9 dicembre 1928, n. 2333); il r. decr. 6 maggio 1928, n. 1151, sul deposito e la pubblicazione dei contratti collettivi; il r. decr. legge 15 novembre 1928, n. 2762, per la costituzione di fondi per l'istituzione e il funzionamento degll uffici per il collocamento gratuito dei prestatori d'opera disoccupati (v. r. decr. legge 19 novembre 1931, n. 1615, vedi pure decr. min. 26 marzo 1932, che istituì un unico ufficio nazionale per il collocamento gratuito degli addetti alla monda del riso, alla raccolta delle ulive, e alla mietitura del grano).

È da ricordare, a proposito del collocamento della mano d'opera, il r. decr. 4 marzo 1926, n. 440, che istituì un comitato permanente per le migrazioni interne, per studiare e proporre i provvedimenti per agevolare il flusso migratorio dalle provincie del regno (v. anche il r. decr. 28 novembre 1928, n. 2874, per la disciplina e lo sviluppo delle migrazioni; il r. decr. 26 giugno 1930, n. 870; e il decreto del Capo del governo, del 3 luglio 1930).

La legge 9 aprile 1931, n. 358, provvide poi alla disciplina e allo sviluppo delle migrazioni e della colonizzazione interna.

Il quadro della legislazione del lavoro, iniziatasi verso gli albori del nostro stato, vigorosamente sviluppata dal governo fascista, non è completo se non si richiamano anche tutti i provvedimenti riguardanti le assicurazioni sociali. Ma poiché di queste si parla nelle voci apposite, qui ci limitiamo a ricordare il r. decr. 30 dicembre, n. 3158 (regolamento 7 dicembre 1924, n. 2270), che rese obbligatoria l'assicurazione contro la disoccupazione involontaria; il r. decr. 30 dicembre 1923, n. 3184, che riordinò l'assicurazione obbligatoria contro l'invalidità e la vecchiaia (reg. 28 agosto 1924, n. 1422); il r. decreto legge 27 ottobre 1927, n. 2055 (r. decr. legge 8 novembre 1928, n. 2628) che stabilì l'assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi (regolamento r. decr. 7 giugno 1928, n. 1343), integrato dal r. decreto legge 14 gennaio 1932, n. 275, contenente ancora altre norme per le assicurazioni obbligatorie contro l'invalidità e la vecchiaia, per la disoccupazione involontaria, e contro la tubercolosi; il r. decr. 13 maggio 1929, n. 928, per l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali.

Infine va notato il r. decr. 14 giugno 1928, n. 1767, che istituì presso il Ministero degli affari esteri un comitato permanente di coordinamento per le questioni internazionali del lavoro.

Bibl.: G. Ricca Salerno, Del salario e delle sue leggi, Padova 1878; A. Rossi, Osservazioni e proposte per regolare il lavoro delle donne e dei fanciulli, Firenze 1880; Rolin-Jacquemins, La conférence de Berlin sur la législation du travail et le socialisme dans le droit international, in Revue de droit international, 1890; S. B. Webb, The History of Trade Unionism, Londra 1926; A. Loria, La costituzione economica odierna, Torino 1899; G. Ricca Salerno, La teoria del salario nella storia delle dottrine e dei fatti economici, Palermo 1900; G. Faraggiana, Il lavoro delle donne e dei fanciulli, Genova 1904; A. Weber, Der Kampf zwischen Kapital und Arbeit, Tubinga 1910; G. Prato, Il lavoro delle donne, Torino 1919; id., I problemi del lavoro nell'ora presente, Milani 1919; L. Duguit, Le droit social, le droit individuel et la transformation et la législation de l'État, Parigi 1922; L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino 1924; C. Supino, Le basi economiche del movimento operaio, Roma 1925; F. Marconcini, L'economia del lavoro, Milano 1926; G. Barella, Lezioni di legislazioe del lavoro, Roma 1927; R. Vuoli, Il mutuo soccorso ed il credito popolare, Milano 1928; A. Nikisch, Arbeitsrecht, Berlino 1930.

Magistratura del lavoro.

Composizione. - Istituita dalla legge 3 aprile 1926, n. 563, e regolata dalla medesima e dal r. decr. 1° luglio 1926, n. 1130, la magistratura del lavoro è costituita da una speciale sezione di corte d'appello, composta di tre magistrati, di cui un presidente di sezione e due consiglieri della corte, ai quali vengono aggregati di volta in volta per ogni singola causa due cittadini esperti nei problemi della produzione e del lavoro, scelti in apposito albo. Questo albo è compilato e riveduto ogni due anni. I requisiti per l'iscrizione nell'albo sono: la cittadinanza italiana, l'età superiore a 25 anni, la condotta morale e politica specchiatissima e illibata, una laurea universitaria o altro titolo di studio equipollente (il primo presidente può eccezionalmente iscrivere nell'albo anche chi, pur mancando del titolo di studio, abbia per esercizio effettivo di una determinata attività acquistato in essa fama di singolare perizia). Contro la formazione dell'albo le associazioni sindacali possono proporre reclamo, su cui decide la corte d'appello a sezioni unite; contro tale decisione è ammesso il ricorso per cassazione.

Ogni anno, poi, il primo presidente della corte forma fra gl'iscritti nell'albo il ruolo dei consiglieri esperti, fra i quali il presidente della magistratura del lavoro designa i due destinati a partecipare al collegio per ciascuna causa, tenendo conto del carattere della lite; la designazione può però, eccezionalmente, cadere su esperti non compresi nel ruolo o anche nemmeno nell'albo. I consiglieri esperti possono essere ricusati, oltre che per i motivi previsti dal codice di procedura civile, anche per semplici ragioni di convenienza; sulla ricusazione, come sull'astensione, decide il collegio formato dai soli magistrati togati. I consiglieri esperti partecipano alle decisioni con voto deliberativo, come i giudici di carriera; essi concorrono quindi alla formazione della volontà collegiale.

Attribuzioni. - La magistratura del lavoro ha attribuzioni giurisdizionali di secondo e di unico grado, che debbono esaminarsi separatamente perché nettamente distinte anche nel carattere.

Attribuzioni di giudice di secondo grado. - Essa giudica degli appelli proposti contro le sentenze appellabili pronunziate dai pretori e dai tribunali su controversie individuali del lavoro, e delle denunce per annullamento e per revocazione a norma dell'art. 87 del r. decr. 1° luglio 1926 contro le sentenze stesse. Conosce poi delle cause di opposizione contumaciale, di opposizione del terzo e di revocazione contro le proprie sentenze in tema di controversie individuali.

Attribuzioni di giudice di unico grado. - Si distinguono a seconda che concernono controversie individuali o controversie collettive. La magistratura del lavoro conosce infatti in unico grado anche di alcune controversie individuali, quelle fra autori ed editori per la mancata pubblicazione di opere dell'ingegno (legge 17 gennaio 1929, n. 20). Molto più notevoli sono però le sue attribuzioni in tema di controversie collettive di lavoro, che riguardino sia l'applicazione, in via generale e astratta, dei contratti collettivi e di altre norme esistenti, sia la richiesta formazione di nuove condizioni di lavoro (art. 13 della legge 3 aprile 1926); in questa materia le spetta pure conoscere delle domande di revisione delle sentenze da essa pronunziate, per mutamenti sopravvenuti nello stato di fatto (art. 89 r. decr. 1° luglio 1926).

La funzione della magistratura del lavoro nei riguardi delle controversie collettive non può qualificarsi come prettamente giurisdizionale, perché presenta molti caratteri proprî della funzione legislativa in senso materiale, soprattutto per i suoi effetti. Le sue sentenze, come del resto i contratti collettivi del lavoro, anziché costituire comandi concreti, contengono di regola una serie di comandi astratti destinati a concretarsi allorché sorgano fra i singoli i rapporti di lavoro; questi rapporti trovano nelle disposizioni della sentenza collettiva un regolamento imperativo (salvo che le clausole del contratto individuale siano più favorevoli al lavoratore), la cui osservanza da parte dei singoli è garantita con sanzioni civili e anche penali (art. 22 della legge 3 aprile 1926), mentre altre norme statuiscono una responsabilità eventuale anche delle associazioni per le violazioni di quel regolamento (art. 87 r. decr. 1° luglio 1926).

Il conferimento a un giudice del potere di formare, nel caso di dissenso fra i sindacati contrapposti di una stessa categoria di produttori, le norme destinate a regolare i rapporti di lavoro costituisce una delle più notevoli innovazioni proprie dell'ordinamento sindacale-corporativo e giustifica politicamente il divieto degli scioperi e delle serrate (oggi reati), in quanto offre, e impone, una via pacifica per la composizione dei conflitti del lavoro.

Natura giuridica. È opinione prevalente che la magistratura del lavoro sia un organo speciale della magistratura ordinaria, dotato di competenza assoluta ed esclusiva nelle materie a esso attribuite.

Procedimento. - Il processo, individuale o collettivo, è improntato ai principî dell'oralità e della concentrazione. S'inizia con la presentazione del ricorso al presidente, il quale stabilisce il giorno dell'udienza preliminare o presidenziale. Questa è destinata alla precisazione dei termini della lite, alla proposizione delle questioni pregiudiziali (a pena di decadenza) e al tentativo di componimento amichevole. Se questo non riesce, il presidente rimette le parti dinanzi al collegio a un'udienza non oltre i dieci giorni, designa i consiglieri esperti e nomina il relatore. In tale udienza hanno luogo la relazione, la discussione fra le parti e le conclusioni del pubblico ministero; quindi il collegio decide sulle questioni pregiudiziali sollevate e ordina, se del caso, i mezzi istruttorî necessarî, altrimenti decide senz'altro la causa in merito. Sono legittimati ad agire e a contraddire nel processo collettivo i soli sindacati (eccezionalmente un curatore e dei singoli intervenienti, se non vi sia un sindacato legalmente costituito): nel processo individuale i singoli soggetti del rapporto di lavoro su cui verte la lite, con l'eventuale, e sempre possibile, intervento dei sindacati. Dinnanzi alla magistratura del lavoro l'intervento del pubblico ministero è sempre obbligatorio.

Bibl.: A. Segni, I tribunali del lavoro in Italia, in Studi per Chiovenda, Padova 1927; F. Pergolesi, Diritto processuale del lavoro, Roma 1929; A. Raselli, Se la Magistratura del lavoro sia una giurisdizione speciale, in Studi senesi, XLIII (1929); F. Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, 2ª ed., Padova 1929; N. Jaeger, Le controversie individuali del lavoro, 3ª ed., Padova 1932; Corso di diritto processuale del lavoro, Padova 1933.

Igiene del lavoro.

Lo studio dell'igiene industriale è stato, in Italia, preceduto da quello delle malattie, legate alle cattive condizioni dell'ambiente o del lavoro, da quello della fatica eccessiva imposta alle donne e ai fanciulli, ecc. Coordinando i rilievi della patologia umana coi rilievi della patologia dell'ambiente, precorrendo i tempi, alcuni nostri studiosi seppero assurgere alla visione esatta dei necessarî provvedimenti igienico-sanitarî del lavoro e dei lavoratori. Da A. Bertani, che, ispirandosi alla scienza nuova, progettava ottime norme sociali, da S. Castagnola, che sentiva la necessità di proteggere il fanciullo al lavoro, da L. Pagliani, che dettava le leggi sanitarie, da G. Baccelli che voleva far convergere lo scibile medico alla difesa dei più e indirizzare l'igiene a scrutare, a controllare le grandi masse, e che, nel 1902, metteva allo studio una legge di assicurazione obbligatoria contro le malattie degli operai comunque cagionate, all'attuale regolamento d'igiene, è tutto un movimento, lento se si vuole, ma continuo, per la protezione della salute e della vita dei lavoratori. Le nuove condizioni di vita create a questi ultimi dalla grande industria, l'introduzione di nuovi processi tecnici, più che l'impiego di nuove sostanze, hanno originato o sviluppato nuove malattie o nuovi aspetti di forme morbose note. Il macchinismo e l'urbanesimo, il ritmo accelerato della vita odierna, che creano ogni giorno più nuove preoccupazioni morali ed economiche negl'individui, e non ultime le nuove forme dell'organizzazione industriale, vanno sostituendo, a mo' d'esempio, alla pellagra, alla setticemia, al tifo, ecc., tipica patologia d'un'epoca non lontana, una più grande frequenza di altre malattie, quali la tubercolosi, i tumori, la sifilide, l'alcoolismo, gl'infortunî, certe intossicazioni, le malattie di cuore, del sistema nervoso, ecc., oggetto di studio del medico del lavoro dei tempi nostri. Contrariamente a un preconcetto ottimistico, non è affatto comune il trovare fra i nostri lavoratori industriali degl'individui sani e ben conformati. Se la razza s'esprime e se lo stato di salute di un paese si misura, in modo esatto, dalla statura, il decadimento progressivo di questa, come s'è constatato nei lavoratori del braccio, è indice di sofferenza fisica, dovuta, secondo qualche studioso, alla civiltà nostra, che consuma più rapidamente la vita, mina l'integrità del nostro sistema nervoso, della nostra intelligenza e si materializza in non poche malattie della volontà e dei centri nervosi. Il lavoro delle donne e dei fanciulli, la creazione di centri manifatturieri, dove fino a ieri la popolazione si dedicava ai lavori agricoli, l'emigrazione verso le città di giovani e soprattutto di donne per lavorare negli opifici, sono tutte cause di deperimento fisico, di tubercolizzazione, d'un abbassamento costante dell'attività fisica, constatata del resto molto spesso alla visita medica delle reclute. L'operaio dev'essere considerato come elemento della famiglia, della collettività, in cui lavora: il lavoro ch'egli produce sarà tanto più redditizio quanto più sano e fisiologico è questo lavoro per chi lo effettua. Questo lavoro sano e fisiologico è ottimo rimedio per prevenire il "malessere industriale", causa non ultima di minor rendimento, e potente fattore di risparmio di morbilità e di mortalità fra gli operai. Tutto questo interviene nella genesi della patologia sociale, che s'esprime in un numero, ancora non ben precisato, di individui, poco o punto produttivi: cronici, tubercolosi, indigenti, malarici, luetici, alcoolici, ecc., totalizzando una perdita di valori umani e di produzione sociale, che non è stata mai espressa con una cifra e ancora meno adeguatamente presa in considerazione. Da un attento esame del problema, emergerebbe certo l'importanza di quella scienza che vuole migliorare le condizioni dell'ambiente e proteggere la salute e la vita di chi lavora.

Dal tronco dell'igiene generale, che studia i mezzi per mantenere l'uomo sano, che ricerca le cause generali delle malattie nella loro origine, nelle diverse condizioni del nostro ambiente, si stacca l'igiene del lavoro (igiene industriale), che s'occupa delle diverse influenze sulla salute di chi lavora e di chi vive nelle vicinanze degli stabilimenti industriali. È vero che le nozioni necessarie per la protezione dell'operaio, nell'esercizio della sua attività industriale, sono fornite dall'igiene generale; è vero che gli agenti dannosi nel campo del lavoro non sono essenzialmente diversi da quelli che la medicina e l'igiene generale già conoscono e studiano; ma è altrettanto vero che questi agenti acquistano un diverso carattere di gravità, di estensione, che dipendono quasi sempre dalle peculiare condizioni dell'ambiente o della modalità del lavoro. Donde la necessità, per il medico del lavoro, di studiare la tecnica industriale, di seguirne giorno per giorno l'incessante evoluzione. Industrie che ieri ancora erano insalubri, diventano oggi meno pericolose o quasi innocue; altre, ieri innocue, presentano domani inaspettate cause d'insalubrità. Provvedimenti che in alcune operazioni hanno dato ottimi risultati nella difesa dell'operaio o del vicinato, in condizioni apparentemente analoghe dànno invece risultati insufficienti o del tutto negativi. Donde la necessità di lunghi e minuziosi studî di tecnica, di ambiente, di modalità d'azione sull'organismo umano (che ben di rado un esperimento su animali può riprodurre esattamente), per arrivare ai mezzi razionali di protezione. Infine i provvedimenti atti a raggiungere meglio lo scopo, possono, non di rado, urtare contro ragioni economiche nazionali o internazionali, per cui il materiale di lavoro non può essere soppresso o sostituito, oppure il mezzo di difesa proposto non può essere applicato. In siffatti casi, l'igiene del lavoro deve contentarsi di misure meno radicali, che diminuiscano il rischio per l'operaio e neutralizzino l'azione di cause secondarie. La materia che forma l'oggetto dell'igiene industriale è, di conseguenza, molto estesa e per non pochi studiosi allunga le sue propaggini nei campi viciniori della patologia del lavoro e della medicina sociale. In senso ristretto, l'igiene industriale studia le influenze, sulla salute e sulla vita degli operai, dell'ambiente di lavoro, dei materiali di lavoro (polveri, gas e vapori, liquidi, ecc., ad azione meccanica, chimica, fisica, mista; in modo ora violento, ora cronico) e del lavoro delle macchine (quale agente meccanico, termico o violento: infortunî); la prevenzione tecnica di questi danni; in sostanza, la profilassi delle malattie e degl'infortunî del lavoro. In senso lato, l'igiene industriale studia invece tutto quanto riguarda la protezione dell'individuo nella fabbrica e fuori, per cui non breivi capitoli dei trattati d'igiene industriale si occupano dell'assistenza sociale (benessere; il "Welfare" o "Social Welfare" degli anglo-sassoni), organizzata nella o presso la fabbrica: servizî sanitarî (visita d'ammissione, visita periodica, pronto soccorso, ecc.), assistenza ai lattanti e alle madri nutrici, ai bambini (crèches, asili), servizî di segretariato, dopolavoro (sport, educazione, istruzione, divertimenti, ecc.), cooperative di consumo, abitazioni, mezzi di trasporto fra la casa e la fabbrica, ecc. Il problema "lavoro", così inteso, è oltremodo complesso e dà naturalmente origine a studî altrettanto complessi dei mezzi di prevenzione individuale o collettiva. Se il lavoro è insalubre o pericoloso per le condizioni d'ambiente, per le sostanze manipolate o prodotte (irritanti, caustiche, tossiche infettanti), per l'azione traumatica alla quale espone l'operaio; se è antifisiologico, cioè eccessivo per intensità e per durata o per atteggiamenti o posizioni obbligate; se troppo monotono, ecc.; si tratti di lavoro muscolare o nervoso, agricolo o industriale, mentale o manuale, l'igiene deve, in tutti questi singoli casi, dire la sua parola e necessariamente affrontare in pieno il problema che le si pone dinnanzi.

Analizzando, sia pure sommariamente, questo materiale di studio, troviamo: l'ambiente di lavoro: il locale con le sue diverse parti, il pavimento, le pareti, il soffitto, le finestre e le porte (la pulizia del locale non è argomento trascurabile); l'aria e la sua corruzione per i prodotti della respirazione umana o delle operazioni industriali che vi si svolgono e delle macchine in funzione (gas, vapori, polveri, fumo, ecc.); superficie e cubatura del locale in rapporto col numero delle persone presenti; temperatura e umidità dell'ambiente; luce naturale e artificiale. Il lavoro può svolgersi in ambienti che sono in condizioni molto diverse da quelle ordinarie: lavoro nelle miniere, nelle gallerie, in aria compressa (cassoni, scafandro) o in aria rarefatta (in alta montagna, in volo), ecc. L'igiene detta le norme opportune per la difesa contro il freddo o il caldo eccessivi; contro il caldo umido; fissa l'optimum per la velocità dell'aria nelle diverse condizioni di ventilazione artificiale; quello per il grado di calore o di umidità nelle diverse industrie; per attenuare o sopprimere il rischio, spesso mortale, di chi lavora sotto pressione (lavori subacquei, ecc.). Fra i materialî di lavoro, le polveri (di origine animale, vegetale, minerale o mista), che si sollevano nelle più svariate industrie, rappresentano uno dei più importanti fattori di malattia e di predisposizione all'infezione tubercolare. Il medico igienista e il tecnico difendono l'organismo contro l'azione delle polveri, raccogliendole presso l'origine della loro produzione (aspirazione localizzata), o impedendone il sollevamento nell'ambiente (macchine chiuse, inumidimento del materiale polverulento, ecc.), o precipitandole con diversi sistemi: filtrazione, precipitazione elettrostatica, ecc. Né meno importante, anche nel riguardo tecnico, è il problema della difesa contro i gas e i vapori, che esplicano un'azione generale o locale o mista e che il tecnico allontana con l'aspirazione applicata al loro punto di origine o attacca, per renderli meno nocivi, con altri procedimenti, quali la condensazione, la fissazione, la combustione, ecc., prima d'immetterli nell'atmosfera. Mezzi analoghi s'adoperano nella lotta contro i diversi materiali tossici e gli agenti biologici (disinfezione del materiale, protezione dell'individuo, ecc.). Nell'organizzazione del lavoro, l'igienista trova argomento di studio nella durata del lavoro, nella determinazione delle pause nell'orario quotidiano del riposo settimanale o annuale (vacanze); nella ricerca di misure atte a meglio difendere l'organismo contro i danni della moderna tecnica: velocità delle macchine, monotonia del lavoro, attenzione intensa, posizione coatta, ecc. Il problema dell'alimentazione dell'operaio (pasti nella fabbrica e fuori); dell'igiene individuale (lavabi, bagni, docce, spogliatoi, acqua potabile o bevande, in alcune speciali lavorazioni che provocano una sete intensa; latrine; locali per refettorio, per riposo); i problemi sollevati dall'assistenza sanitaria: visita medica, pronto soccorso; visita periodica nelle industrie insalubri o pericolose, ecc., sono pure di competenza dell'igiene industriale. La quale si deve preoccupare di completare l'opera sua di difesa istruendo gli operai delle industrie insalubri sui rischi specifici, ai quali sono esposti nel quotidiano lavoro, e in generale istruendo tutti gli operai sui mezzi più idonei per mantenere sano l'organismo e rammentando loro, con cura speciale, in che modo possono concorrere alla prevenzione degl'infortunî industriali. Infine, l'igiene industriale studia le cause dei danni che le fabbriche possono svolgere sul vicinato (vapori, fumi, acque di rifiuto, odori, rumori, ecc.) e detta le misure più adatte per rimuoverle.

Per conseguire questi molteplici scopi, il medico igienista del lavoro deve possedere cognizioni sufficienti non soltanto di tecnica industriale, di chimica, di fisica, di meccanica, di merceologia, ecc., ma deve possedere anche sufficienti cognizioni di giurisprudenza, economia politica, ecc. Siffatta larga cultura gli è necessaria, perché deve non solo sapere dettare i provvedimenti d'igiene industriale propriamente detta, per proteggere la salute e la vita dell'operaio, per salvaguardare la salute del vicinato, ma deve intervenire e collaborare nell'opera legislativa per l'organizzazione tecnica e l'assistenza medico-sociale; deve dare il suo concorso nell'attivitá degli istituti, che detta legislazione debbono applicare e controllare (ispettorato corporativo; ispettorato medico corporativo).

Bibl.: G. Sanarelli e A. Trambusti, Igiene del lavoro, Milano 1895; G. Revelli, Igiene industriale, Torino 1898; L. Carozzi, Il lavoro nell'igiene, nella patologia e nell'assistenza sociale, Firenze 1914; G. Loriga, Igiene industriale, Milano s. a.; E. Magrini, La sicurezza e l'igiene dell'operaio nell'industria, Torino s. a.; Guida per l'applicazione del Regolamento generale per l'igiene del lavoro, Min. dell'econ. nazion., Roma 1929.

Patologia del lavoro.

La conoscenza che ogni attività manuale dell'uomo può dare luogo a disturbi e malattie, risale alla più remota antichità.

In Ippocrate troviamo notizie circa i malanni cui andavano soggettii gualchierai o folloni, operai addetti a digrassare e lavare le vesti e a colorare la lana; sui disturbi cui sono esposti i sarti per la loro vita sedentaria, e anche sui malanni dei cavalcatori. Così attribuiva agli eccessivi esercizî a cavallo la frequente impotenza fra gli Sciti. Galeno descrive le sofferenze degli operai addetti, nell'isola di Cipro, a raccogliere un'acqua sotterranea contenente vetriolo. Sulle malattie dei lottatori troviamo cenni in Aezio Amideno e in Galeno stesso. Avicenna conobbe e descrisse la colica da piombo; L. Ettmüller riferì un caso di asma convulsivo in un fabbricante di vasi di stagno; L. Vedelio descrisse le malattie nei lavoratori di piccoli oggetti; Y. Diemerbroeck in tre autopsie di operai di gioielli trovò polvere di diamante nelle "vescichette polmonari". G. Baillou osservò un'oftalmia cui andavano soggetti gli operai addetti a evacuare i fanghi di Parigi, per le emanazioni che ne derivavano; J. Fernel ricorda una levatrice che contrasse cancrena della mano per aver assistito una donna affetta dal "morbo venereo". E, ancora tra gli antichi scrittori, troviamo cenni di malattie da lavoro in Leonardo di Capua, che riferisce come Paracelso e Van Helmont ammalassero preparando i loro medicamenti; in Morgagni, in Malpighi, in Eustachi, Falloppia, Cesalpino, Vesalio, ecc. È notevole il fatto che l'importanza del lavoro come causa di malattie non sfuggiva neppure ai profani, come dimostra un passo di Giovenale, che accenna alla possibilità per gli auguri di divenire varicosi perché stavano a lungo in piedi, e versi di Lucrezio sulla vita breve e precoce vecchiezza dei minatori.

La storia della medicina del lavoro s'inizia con Bernardino Ramazzini, il quale pubblicò sul principio del sec. XVIII il primo trattato di patologia del lavoro, nel quale s'occupò sistematicamente, compiutamente, delle malattie di tutte le categorie di operai. Il Ramazzini insegnava a Modena fin dal 1682 istituzioni mediche e poi medicina teorica. Nel 1700 fu chiamato all'insegnamento di medicina pratica a Padova e in quello stesso anno pubblicò la De morbis artificum diatriba, che levò gran rumore nel mondo scientifico di allora, e che ancora oggi si legge con ammirazione e anche con utílità. Quest'opera, che fu tradotta in varie lingue e che successivamente servì di guida ad altri autori, è frutto principalmente di osservazioni personali, che dimostrano quanto profondo e acuto osservatore era il Ramazzini, e anche quanta era la sua conoscenza dei classici della medicina e quale la sua cultura, perché vi sono numerosi i riferimenti delle osservazioni fatte fin dagli antichissimi tempi, e che egli sapientemente ricollega alle condizioni di lavoro dei suoi tempi, seguendo le trasformazioni delle lavorazioni e rilevandone i vantaggi e i nuovi pericoli. A Ramazzini spetta il merito di avere riconosciuto e affermato un rapporto di necessità tra danno della persona ed esercizio di una qualsiasi attività lavorativa, comunque e da chiunque effettuata. Ma al Ramazzini spetta anche la gloria di avere stabilito che il danno derivante dal lavoro deve essere soprattutto prevenuto: "longe praestantius est praeservare, quam curare, sicuti satius est tempestatem praevidere ac illam effugere, quam ipsi evadere". Quindi egli detta opportunamente le norme preventive per tutte le professioni, oltre che i rimedî per riparare o almeno attenuare il danno che deriva dal lavoro, quando riconosce che si tratta di una causa inamovibile. A. Morgagni giudicò Ramazzini "uomo di fama immortale", ma questi non ebbe continuatori. Esattamente L. Devoto ha detto che la ragione di ciò stava nell'opera stessa di lui, perché essa e l'insegnamento che ne derivava non erano del suo tempo. Due secoli dopo, per l'evoluzione dei principî sociali, che ha fatto cardine del vivere civile una compiuta legislazione che tutela e difende il lavoro e i lavoratori sotto l'aspetto economico e sotto quello della salute, l'opera ramazziniana ha il suo pieno riconoscimento, dimostrando così di quanto il Ramazzini avesse precorso i tempi. Tra i primi continuatori di Bernardino Ramazzini bisogna noverare P. Mantegazza e Angelo Mosso: questi per gli studî sulla fatica, iniziati nell'istituto di fisiologia dell'università di Torino, e continuati da un'eletta schiera di allievi; quegli per gli studî sulla fisiologia del lavoro, sulla fatica, sull'alimentazione degli operai, sull'igiene del lavoro e su alcune malattie professionali. Una memorabile orazione pronunziata da E. Maragliano per l'inaugurazione dell'anno accademico 1882-83 su La medicina nei suoi rapporti con le questioni sociali è documento ancora vivo della nuova coscienza che pervadeva gli ambienti clinici in Italia, e da cui derivò la moderna rifioritura degli studî di medicina del lavoro. A un allievo del Maragliano, Luigi Devoto, spetta il vanto di avere dato a questi studî un impulso vigoroso. Egli dettò il primo corso di malattie del lavoro nel 1901 all'università di Pavia. Successivamente ottenne che a Milano, a spese del comune, fosse edificata la clinica del lavoro, prima nel mondo, che fu inaugurata nel 1910. Frattanto a Napoli si creava un incarico d'insegnamento di medicina del lavoro, che fu affidato a Luigi Ferrannini nel 1906, cui è seguita la creazione dell'istituto di medicina del lavoro, che è stato diretto dal Ferrannini fino al 1925 e poi da Nicolò Castellino. Questi due centri di studî della patologia del lavoro hanno portato un contributo notevolissimo d'indagini e ricerche, degno della più nobile tradizione ramazziniana: il loro esempio è stato seguito da altre università, che hanno voluto istituire cattedre e svolgere corsi specializzati di medicina del lavoro. La via tracciata dall'Italia ha trovato all'estero larghi consensi: in Germania specialmente, in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, in Russia, egregi studiosi hanno dedicata la loro attività allo studio delle malattie dei lavoratori, e la loro imponente produzione scientifica, come quella italiana, dimostra l'enorme importanza economica, politica e sociale di questa branca di studî.

Il lavoro può riuscire dannoso all'uomo per varie cause: perché il lavoro stesso è eccessivo o è condotto fino alla fatica; oppure perché per esso l'operaio viene a contatto con sostanze tossiche, o anche perché l'ambiente in cui si svolge il lavoro è malsano, p. es., per eccesso di umidità, o per eccesso di pressione, o per eccesso di temperatura o per difetto; o, finalmente, perché il lavoro stesso richiede una posizione antifisiologica o si compie con movimenti uniformemente ripetuti per tutta la durata del lavoro stesso. A seconda della causa che determina la malattia da lavoro, scaturisce evidente la classificazione che oggi è da tutti accettata e secondo la quale le malattie da lavoro si distinguono in quattro gruppi principali. Essi sono: 1) malattie da lavoro eccessivo o da fatica; 2) malattie da ambiente di lavoro; 3) malattie da materiale di lavoro; 4) malattie da posizione di lavoro e da lavoro monotono e uniforme. Un'altra distinzione delle malattie da lavoro propone L. Ferrannini, precisando il concetto di causalità del fattore lavoro "in quanto gli operai ammalano non solo perché lavorano (malattie professionali dirette), ma anche perché come operai vivono in particolari condizioni di ambiente, di abitudini e igiene in genere (malattie professionali indirette, che sono essenzialmente le malattie sociali: tubercolosi, sifilide, malaria, alcoolismo, ecc.)". E tra le malattie professionali dirette bisogna distinguere ancora quelle per le quali il lavoro è vera causa efficiente (tecnopatie propriamente dette, quali le intossicazioni professionali, le pneumoconiosi, ecc.) da quelle per le quali il lavoro è solo causa predisponente (quasi tutte le malattie, che pertanto sono più frequenti tra gli operai: malattie professionali eventuali di L. Borri).

Malattie da eccesso di lavoro. - Questo gruppo comprende due sottogruppi: le malattie da sforzo muscolare e le malattie da lavoro protratto. Il lavoro, solo quando va oltre i limiti fisiologici, esaurisce e logora gli organi che lo producono e quelli che sono con questi collegati. I limiti fisiologici suddetti non sono determinabili in maniera assoluta, né sono uguali per tutti gl'individui, né per uno stesso individuo sono costanti, essendo essi in dipendenza delle condizioni somatiche dei lavoratori, condizioni che anche in un solo individuo non sono mai le stesse. Quindi noi possiamo solo affermare che esiste un rapporto proporzionale tra le forze del lavoratore e la somma di lavoro che egli è capace di esplicare, senza potere determinare esattamente quando tale proporzione viene superata, varcandosi i confini del fisiologico per entrare nel patologico. L'esagerato lavoro può comunque essere inteso, sia come lavoro più intenso nell'unità di tempo (sforzo), sia come lavoro più a lungo protratto. Per effetto del lavoro più intenso (sforzo) tutti gli apparecchi e funzioni dell'organismo sono duramente provati; l'apparecchio respiratorio, in cui si può determinare l'enfisema polmonare da sforzo; l'apparecchio circolatorio, a carico del quale possono determinarsi gravi accidenti, quali la dilatazione acuta del cuore, l'angina da sforzo, rotture valvolari, endocardite, aneurismi, rotture vasali, tromboflebiti (quantunque non sempre sia chiaro il meccanismo di produzione di alcune di queste affezioni); il sistema muscolare, nonché i reni e il sangue. Il lavoro protratto, a sua volta, sia fisico sia psichico, se non determina i fenomeni clamorosi dello sforzo, non è meno dannoso per tutti gli organi e apparecchi del lavoratore, in cui si hanno modificazioni del respiro, della pressione arteriosa, notevoli variazioni delle proprietà biochimiche del sangue, disordini del metabolismo basale, disordini a carico del sistema nervoso di relazione e del vegetativo. La fatica è una conseguenza del lavoro protratto: essa certamente non è una malattia, ma può determinare l'insorgenza di qualsiasi forma morbosa, essendo essa la causa della diminuzione di tutti i poteri di difesa dell'organismo. Anche al lavoro protratto devono addebitarsi alcuni stati di neurastenia, l'ipertrofia cardiaca idiopatica. L'arteriosclerosi riconosce spesso quale fattore etiologico il lavoro eccessivo, esiste finalmente anche una miocardite degli affaticati, da D. Cesa-Bianchi studiata e anatomopatologicamente dimostrata.

Malattie da ambiente di lavoro. - Qui si prendono in considerazione, quali cause di malattia: la luce, l'aria (e quindi: la temperatura, l'umidità, la pressione, l'elettricità, la composizione chimica, il contenuto batterico), il suolo. Anche all'ambiente di lavoro appartengono altri fattori che possono dare luogo a fastidî, quali i rumori, i cattivi odori, gli scuotimenti e le vibrazioni. La luce può agire per difetto e per eccesso. Il difetto di luce determina anemia, provoca miopia, può determinare col concorso di altri fattori anche il nistagmo, così frequente tra i minatori e più tra quelli che lavorano nelle squadre diurne. La luce eccessiva agisce sulla cute dando eritemi e pigmentazione; sull'occhio, determinando alterazioni più o meno gravi della retina, con conseguente emeralopia, nictalopia, astenopia, fotofobia, blefarospasmo, ecc. Tipica è l'oftalmia elettrica che si ha nei saldatori o fonditori di metalli per mezzo dell'elettricità, e negli operai che riparano lampade ad arco o a vapore di mercurio. Speciali alterazioni determinano sulla cute i raggi ultravioletti, e gravi lesioni possono essere determinate dai raggi X, lesioni che possono interessare la cute, i tendini, le articolazioni, le ossa, i nervi, gli organi della riproduzione. A queste lesioni vanno soggetti soprattutto i radiologi: la cute, da una lieve radiodermite, può presentare lesioni financo epiteliomatose; conseguono gravi processi distruttivi, che si manifestano specialmente alle mani, e che conducono in tempo più o meno breve alla morte. L'aria ha notevole importanza nella patologia da lavoro, sia per le sue proprietà fisiche, sia per la sua costituzione chimica e per il suo contenuto batterico. Gli eccessi di temperatura agiscono maleficamentc specialmente sul cuore: vi determinano rapida decadenza della dinamica e disordinano il ritmo; sono note anche le frequenti aortiti nei fuochisti marittimi, provocate dall'irradiazione del calore sulla parte superiore del torace. Rientrano in questo gruppo anche il colpo di calore e il colpo di sole: il primo si ha anche senza l'azione diretta del sole raggiante, purché la temperatura e l'umidità dell'ambiente siano molto elevate; il secondo si ha per l'azione diretta del sole, nei mesi estivi e nelle giornate asciutte. Le basse temperature, cui sono esposti gli addetti a ghiacciaie e a impianti frigoriferi, le guide alpine, e tutti quelli che sono costretti a lavorare all'aperto nelle giornate e notti rigide, determinano congelazioni di 1°, 2° e 3° grado, reumatismi, nevralgie, nevriti, le cosiddette nefriti a frigore, l'assideramento. All'umidità sono da addebitarsi specialmente i reumatismi, e in particolare quelli cronici che si localizzano con maggiore frequenza alle estremità e alla colonna vertebrale. Queste forme morbose sono particolarmente frequenti tra i contadini. La pressione atmosferica può riuscire dannosa, sia se è troppo bassa - il mal dì montagna e il male degli aeronauti sono dovuti all'aria rarefatta - sia se è troppo alta: tipica la "malattia dei cassoni", cui vanno soggetti tutti coloro che lavorano in aria compressa, come quelli che lavorano nei cassoni e i palombari. Lo stato elettrico, infine, va considerato sia in rapporto all'elettricità atmosferica, sia in rapporto all'elettricità industriale. L'elettricità atmosferica agisce attraverso le scariche elettriche (fulmini): l'accidente prende il nome di folgorazione. Questa può determinare la morte immediata del colpito, oppure, quando l'individuo viene investito dalla corrente laterale della scarica atmosferica, può indurre disordini di vario genere, specialmente a carico del sistema nervoso, sia d'ordine puramente funzionale, che dileguano in tempo relativamente breve, sia d'ordine organico, determinando lesioni a carico del midollo spinale e dei nervi periferici, potendosi manifestare in progresso di tempo, secondo alcuni autori, anche delle sindromi sistematizzate, come la sclerosi laterale amiotrofica, o quadri morbosi riproducenti il tipo della sclerosi a piastre. È frequente pure il caso dell'insorgenza di sindromi che rientrano nel quadro della neurosi traumatica. Effetti presso che analoghi possono produrre le scariche da elettricità industriale. Per questa però i casi di morte si sono verificati anche in circostanze in cui il voltaggio era molto basso, quando però la resistenza offerta dal corpo era anche assai ridotta. La costituzione chimica dell'aria può subire delle modificazioni importanti per la presenza di gas provenienti dall'ambiente di lavoro. Prescindendo da alcuni prodotti gassosi strettamente legati al materiale di lavoro e che perciò rientrano tra i fattori che saranno passati in rassegna nel terzo gruppo di malattie da lavoro, i gas che qui si considerano sono soprattutto quelli derivanti dalla respirazione umana e dai metodi d'illuminazione per combustione. Questi gas sono: l'anidride carbonica e l'ossido di carbonio. L'anidride carbonica s'accumula negli ambienti affollati e male aerati, si sviluppa inoltre dalla combustione del legno, del carbone e del gas illuminante, oltre che dalla fermentazione dell'uva, del luppolo; è in gran quantità nelle miniere di carbon fossile. L'anidride carbonica è dannosa alla concentrazione del 3%, dando difficoltà nel respiro; al 10% produce incoscienza. L'ossido di carbonio s'incontra in numerose industrie metallurgiche, nelle miniere dopo scoppî di grisou, negl'incendî, ecc., nelle gallerie ferroviarie molto lunghe e non ventilate. Il gas illuminante lo contiene nella proporzione del 6-15%, il gas d'acqua del 40%. Questo gas è 60 volte più tossico dell'anidride carbonica: nella proporzione di 1:7000 è già pericoloso, ed è certamente mortale all'1:500. In quanto al contenuto batterico dell'aria, non è possibile passare in rassegna tutti i pericoli cui per esso nelle industrie sono esposti gli operai: basterà ricordare soltanto la tubercolosi, una delle più gravi malattie sociali, se non la più grave, e che raccoglie in gran copia la sua triste messe soprattutto nelle classi operaie. L'ultimo fattore ambientale da considerare è il suolo: alle condizioni del suolo è legata indubbiamente la malaria; al suolo è anche legata l'anchilostomiasi: questa è dovuta all'Anchylostoma duodenalis, che nell'impresa del traforo del Gottardo fece ben 10.000 vittime.

Malattie da materiale di lavoro. - Il materiale di lavoro può riuscire dannoso sia per sé stesso, sia per germi infettivi che esso può contenere o trasportare. Le malattie dovute al materiale di lavoro, in sé stesso considerato, possono interessare soltanto alcuni organi o apparecchi, oppure tutto l'organismo. Però talune sostanze possono avere non solo un effetto dannoso locale, ma anche uno generale, e ciò a seconda della quantità, della via di penetrazione nell'organismo, della resistenza di questo, ecc. Le affezioni prevalentemente localizzate riguardano specialmente la cute, l'apparecchio respiratorio, e l'organo visivo. Le affezioni cutanee sono costituite da eritemi, eczemi, cancro professionale. Gli eritemi possono essere determinati da numerose sostanze, sia d'origine minerale (arsenico, antimonio, colori di anilina, trementina, ecc.), sia d'origine vegetale (polveri di legni esotici, chinina, polline, semi e fiori di primule, ecc.), e animale (derivanti da bruchi, mosche, api, formiche). Gli eczemi si riscontrano facilmente nelle lavandaie, nelle filatrici, nei galvanizzatori, verniciatori, fotografi, ecc. Il cancro professionale si può avere per arsenico (M. Hesse lo descrisse nei minatori dello Schneeberg), per fuliggine, allo scroto, negli spazzacamini, per catrame agli arti superiori, alla faccia e allo scroto negli asfaltisti. Anche coloro che maneggiano olî minerali e specialmente il petrolio e la paraffina vanno soggetti a comedoni, follicoliti, dermatiti pustolose, dermatiti eritematose, epiteliomi. Fra le affezioni dell'apparato respiratorio hanno particolare importanza le pneumoconiosi: tali affezioni professionali sono dovute alla continua inalazione di polveri, le quali, a lungo andare, e secondo la quantità e la qualità delle polveri inalate, determinano una peribronchite fibrosa, con consecutiva retrazione del tessuto circostante, e una polmonite interstiziale cronica, che dà il nome alla malattia.

Tutte le polveri sono dannose, ma principalmente quelle che contengono silice. Le polveri minerali sono perciò le più importanti: a seconda della polvere che determina la malattia, questa prende un nome particolare: antracosi quella da carbone, negli scaricatori di carbone e nei minatori del carbon fossile; calicosi quella da polvere di pietre calcari, negli operai delle cave, ecc.; silicosi da pulviscolo siliceo, negli spaccapietre, scalpellini, ecc.; siderosi da polveri contenenti ferro, negli operai addetti alla limatura, smerigliatura, arrotatura, ecc. del ferro, in quelli addetti alla macinatura delle scorie Thomas, ecc. Tra le polveri minerali è da notare ancora la polvere di amianto, che dà l'asbestosi. Tra le vegetali il pulviscolo di cotone dà la bissinosi, ecc.

Il capitolo più importante della patologia del lavoro è rappresentato dalle malattie da materiale di lavoro. Queste sono costituite dalle intossicazioni professionali, che sono note da moltissimo tempo. Tutte le materie prime che possono dar luogo a intossicazione figurano in questo capitolo: il piombo, che dà il saturnismo, nei tipografi, pittori, stovigliai e in numerosissime altre categorie di lavoratori; il mercurio, che dà l'idrargirismo, nei minatori che cavano il cinabro, negli operai addetti alla fabbrica degli specchi, delle cartucce al fulminato di mercurio, di lampade a incandescenza, dei cappelli di feltro, ecc.; il fosforo, che dà il fosforismo, specialmente negli operai addetti alla fabbricazione dei fiammiferi; l'arsenico, che dà l'arsenicismo in quelli che estraggono l'arsenico dal minerale che lo contiene, in coloro che usano colori a base di arsenico, ecc.; l'antimonio (stibismo), il manganese (manganismo), il cromo (cromismo), lo zolfo, che non solo può dare un'intossicazione professionale, ma anche una pneumoconiosi nei minatori delle miniere di zolfo e che prende il nome di tioneumoconiosi, il rame (cuprismo), lo zinco, l'ottone, ecc. Accanto a queste sostanze inorganiche capaci di dare intossicazioni professionali, v'è tutta una serie di sostanze organiche, sia della serie grassa sia della serie aromatica, che sono più o meno largamente usate nelle industrie: l'alcool etilico, l'aldeide acetica, l'aldeide formica, l'acido acetico, l'acido cianidrico, il benzolo, i solventi in genere, l'acetilene, l'anilina, la benzina, ecc. Tra questi ha particolare importanza il benzolo, largamente utilizzato nell'industria della gomma e che dà luogo al benzolismo, intossicazione notevolmente grave per le profonde alterazioni che determina a carico del sangue e degli organi emopoietici. Va ricordato anche il tabacco, che dà il tabagimo, negli operai addetti alla manifattura dei tabacchi. A questo terzo gruppo appartengono anche talune infezioni che l'operaio può contrarre venendo a contatto con materiale di lavoro infetto: il carbonchio, p. es., a cui sono esposti i conciatori di pelle; l'afta epizootica, a cui sono esposti gli addetti alla custodia e al governo di animali infetti, e parimenti la morva; l'aspergillosi, che si può avere in coloro che maneggiano cereali, farine, foraggi, ecc.; l'actinomicosi, nei contadini; la psittacosi, che è trasmessa dal pappagallo; il tetano, la sifilide, ecc.

Malattie da posizione di lavoro e da lavoro monotono e uniforme. - Rientrano in questo gruppo le affezioni determinate da una posizione di lavoro abnorme o anche normale, ma che debba essere mantenuta più o meno a lungo. Così lo stare seduto a lungo espone a torpore delle funzioni degli organi toracici e addominali; se in tale posizione si tiene un atteggiamento viziato, si possono avere anche delle deviazioni della colonna vertebrale (scoliosi dei sarti, calzolai, spaccapietre, degli scolari, ecc.). Lo stare in piedi può determinare il piede piatto, le varici. Prolungate compressioni degli strumenti di lavoro determinano la formazione di calli caratteristici per le varie categorie di operai, deformazioni ossee, come il torace a imbuto dei calzolai, ecc. La continua ripetizione degli stessi movimenti crea le cosiddette discinesie professionali, tra cui il classico crampo degli scrivani, dei telegrafisti, dei dattilografi, dei pianisti, ecc.

Dallo sguardo dato alla patologia del lavoro si rileva quanto vasto sia questo campo e come esso tenda sempre più ad allargare i suoi confini, col progredire delle industrie, specialmente chimiche, sicché il capitolo delle malattie da materiale di lavoro tende sempre ad aumentare; dalle poche classiche intossicazioni professionali oggi siamo arrivati ad annoverare numerosissime altre intossicazioni, di cui alcune importanti e gravi al pari delle prime, sia per la gravità delle lesioni indotte, sia per la vasta utilizzazione del prodotto per uso industriale. Di qui la notevole portata degli studî specializzati, che non solo devono tendere all'accertamento del danno, al riconoscimento del rapporto causale tra quadro morboso e sostanza incriminata, ma anche a stabilire i mezzi per prevenire il danno stesso, dettando le norme profilattiche sia d'ordine tecnico, sia d'ordine individuale, fino alla richiesta di particolari norme legislative per impedire che determinate sostanze siano impiegate nell'industria. In Italia all'uopo è stato dettato un regolamento generale d'igiene industriale, il quale tra le altre importanti disposizioni stabilisce, per ogni industria che espone al pericolo di una intossicazione, l'obbligo di visite preventive e periodiche per gli operai addetti, per far sì che il pericolo di un'intossicazione possa essere scongiurato sul nascere.

Bibl.: B. Ramazzini, De morbis artificum diatriba, Modena 1700; L. Devoto, Le malattie del lavoro, Pavia 1901; G. Allevi, Le malattie dei lavoratori, Milano 1907; L. Carozzi, Avvelenamenti ed infezioni profession., Milano 1909; E. D'Anna, La patologia dei lavoratori, Torino 1909; L. Ferrannini, Medicina del lavoro, Milano 1928.