Le civiltà precolombiane. La Scienza nel mondo precolombiano

Storia della Scienza (2001)

Le civilta precolombiane. La Scienza nel mondo precolombiano

Anthony F. Aveni

La scienza nel mondo precolombiano

I popoli delle Americhe

In origine, il continente americano era abitato da popolazioni nomadi provenienti dall'Asia centrale, le quali avevano attraversato l'istmo verso l'Alaska nel tardo periodo pleistocenico, almeno 14.000 anni fa. Questi popoli primitivi migravano con le stagioni, cacciando e raccogliendo il cibo nel corso degli spostamenti; la loro diffusione si estese capillarmente fino alla punta dell'America del Sud intorno al 9000 a.C., come è attestato dalla scoperta sul posto di un tipo caratteristico di punta di lancia, noto come 'punta scanalata'. Studi recenti sul DNA (Powlidge 1996) suffragano la teoria che tutto questo sia avvenuto in una singola migrazione paleoindiana piuttosto che in una serie di tre ondate migratorie risalenti fino a 30.000 anni fa, come sembra suggeriscano tanto la morfologia ossea della bocca quanto i modelli linguistici che individuano il periodo in cui i vari linguaggi si separarono dalle lingue madri. La dispersione adattativa (la specializzazione economica che deriva dall'invenzione umana di varie tecniche atte a dominare ambienti differenti) ebbe luogo fin dal 7000 a.C. nei diversi ecosistemi dell'America del Nord e del Sud, quali le pianure tropicali, il deserto costiero, l'alta sierra e l'altipiano. Intorno al 2500-2000 a.C., nella Mesoamerica, la regione delimitata a nord approssimativamente dal Tropico del Cancro ed estesa a sud fino a El Salvador e Honduras centrale, fiorirono sacche isolate di civiltà sedentarie e si diffuse un sistema agricolo basato principalmente sul mais. In questo periodo ebbero inizio anche la lavorazione della ceramica e l'espansione di un modello di commercio organizzato nell'ambito del villaggio.

È impossibile sapere esattamente quando i popoli delle Americhe abbiano raggiunto quella sofisticata condizione della società umana che noi chiamiamo 'civiltà'; tanti sono i fattori implicati nella definizione di questo termine, quali, per esempio, la specializzazione dell'orticoltura, l'arte della ceramica, la tessitura, l'irrigazione e altre competenze tecniche culminanti nell'urbanizzazione, nelle opere d'arte e nei programmi di edilizia monumentale. Nella Mesoamerica gli archeologi datano l'inizio della 'civiltà' al 2500 a.C. ca., con la produzione dei primi manufatti ceramici. In questo periodo, nel cuore della regione olmeca, lungo la foresta tropicale sulla costa del Golfo nella Mesoamerica meridionale, aveva cominciato a svilupparsi la vita stanziale, insieme a un'agricoltura basata su cereali, fagioli e zucche; arte ceramica e coltivazione di manioca e zucche sono state documentate infatti nell'America del Sud a partire dal 4000 a.C.

L'arte olmeca, fortemente stilizzata, e l'architettura della costa del Golfo influenzarono notevolmente la nascente civiltà maya; intorno al XII sec. a.C. fiorirono grandi centri cerimoniali, come Tres Zapotes, La Venta e San Lorenzo, e in alcuni di essi sorsero piramidi alte fino a 30 m, strutture enormi ‒ alcune avevano una superficie di base fino a 20.000 m2 ‒ che presto divennero i punti focali dei complessi cerimoniali sacri. Inoltre, fin dalla metà del II millennio a.C., grandi tumuli furono eretti nelle valli costiere dell'antico Perù; uno dei centri cerimoniali più imponenti di questo tipo, Cerro Sechín, consiste di una piattaforma quadrata rivestita di pietre, alta 36 m e con i lati lunghi 300 m, che circonda piazze allineate e corti incassate. Pittogrammi indecifrati, scolpiti sui monoliti che fiancheggiano il muro, raffigurano guerrieri armati alternati a parti di corpo smembrate. La civiltà di Chavín, che iniziò a fiorire intorno all'800 a.C. e subì anch'essa forti influenze olmeche, produsse strutture anche più grandi. Proprio come i Maya si basarono sugli Olmechi, così la cultura inca ebbe il proprio fondamento in Huari e Tiwanaku, gli imperi del Sudamerica montuoso che immediatamente la precedettero. Durante il XII sec., questi stati del Sud, un tempo potenti, furono ridotti dalla siccità e da un'errata gestione dell'ambiente a comunità meno rigidamente controllate e in competizione reciproca; dal loro disfacimento, appena un secolo prima del contatto con gli Spagnoli, emerse l'Impero inca, che crebbe rapidamente fino a comprendere una regione, lunga 5400 km e vasta 610.000 km2, che si estendeva approssimativamente da Quito, in Ecuador, a Santiago del Cile.

Sebbene la tesi di una diffusione culturale nelle Americhe prima del contatto con gli Europei sia ancora ampiamente dibattuta (Riley 1971), l'America indigena è ritenuta, da una vasta maggioranza di studiosi, un laboratorio culturale ermeticamente sigillato, che può consentire lo studio di questioni relative alla possibilità di uno sviluppo indigeno di sistemi di pensiero. Questo rende particolarmente rilevante lo studio sia della scienza sia della metodologia scientifica presso le culture del nuovo mondo, perché da tali indagini si possono ricavare risposte a interrogativi concernenti universali culturali, in relazione, per esempio, all'organizzazione dei sistemi di classificazione e alla descrizione delle categorie di conoscenza del mondo naturale. Tradizionalmente, l'interesse della comunità scientifica per le vie non occidentali alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni naturali è volto a verificare se tali metodi siano paragonabili alla cosiddetta 'rivoluzione scientifica', l'impresa che culminò nella concezione di una descrizione matematica dei fenomeni naturali, formulata all'interno di teorie e modelli non contraddittori e in grado di produrre specifiche previsioni verificabili empiricamente.

Tra le civiltà del nuovo mondo sulle quali si è tradizionalmente concentrato lo studio delle pratiche scientifiche, vi sono quella dei Maya della Mesoamerica meridionale, che fiorì tra il 200 e il 900 d.C., e quelle degli Aztechi delle alture centromessicane e degli Inca delle montagne del Sudamerica; si tratta di imperi gerarchicamente strutturati e di breve durata (dal 1350 d.C. al contatto con gli Europei il primo, e dal 1450 d.C. allo stesso evento il secondo). A giudicare dai resti materiali, queste tre civiltà assomigliano molto strettamente, in un modo o in un altro, a quelle della mezzaluna fertile, dell'Egitto e più tardi dell'Egeo, verso le quali la scienza contemporanea è debitrice dei sistemi di scrittura, di misurazione e di numerazione, del metodo aritmetico di previsione, della logica geometrica e, infine, dell'invenzione della teoria.

Gli studi archeologici, etnostorici e iconografici sostengono con vigore, in misura diversa, l'idea di una continuità culturale tra i popoli indigeni contemporanei e i loro lontani predecessori, e ciò è di aiuto per comprendere la scienza precolombiana, anche in relazione all'enorme mutamento culturale causato dalla resistenza indigena alle ideologie dei conquistatori. In realtà i processi di adattamento reciproco tra concezioni di origine diversa sono alla base dell'interrogativo se esistesse, o meno, una scienza precolombiana; di conseguenza, studi antropologici ed etnologici delle culture indigene contemporanee possono rivelare indizi significativi sulle visioni del mondo proprie delle culture madri prima del contatto con gli Europei e sul successivo mutamento culturale. A tale riguardo, risulta utile anche la considerevole documentazione prodotta da missionari e sacerdoti determinati a convertire gli indigeni, anche se tali resoconti (soprattutto ispanici) furono assai spesso alterati da concetti e idee proprie del Rinascimento europeo. Questa eclettica varietà di materiale cui attingere, con segmenti che affondano nelle discipline antropologiche, storiche e archeologiche, è in marcato contrasto con quella utilizzata dagli storici della scienza del vecchio mondo; nondimeno, essa costituisce l'unica evidenza materiale su cui basare lo studio delle scienze nell'America precolombiana.

Le caratteristiche della scienza precolombiana

Senza tassonomie la scienza non potrebbe esistere, in quanto l'organizzazione sequenziale di cose e fenomeni basata sul riconoscimento di caratteristiche costituisce il primo atto creativo del processo induttivo. Schemi tassonomici fondamentali sono alla base di tutte le discipline fisiche e biologiche; in tutte le culture l'ordinamento e l'organizzazione delle proprietà e dei comportamenti osservabili costituiscono i primi passi nel tentativo di rendere conoscibile la Natura. I criteri di classificazione sono generalmente lineari, con morfologia e funzione che differiscono notevolmente in ogni contesto culturale e ambientale, tanto che anche i criteri relativi a ciò che costituisce un ordine variano molto da cultura a cultura; per esempio, nelle tassonomie biologiche occidentali il criterio principale è il mutamento riconoscibile nell'aspetto tra gli stati ancestrali e quelli derivati, che ha i suoi fondamenti nella teoria evoluzionistica.

Le molteplici categorie di altipiani e di terreni lacustri (ve n'erano 45!) descritte dai cronisti aztechi, non solo costituiscono il tipico esempio dell'aspetto pratico di schemi associati all'ordinamento delle caratteristiche della materia, ma rivelano anche la capacità analitica di questo popolo, che si serviva della consistenza, della struttura, dell'odore, dell'aderenza e del colore come criteri per determinare la suddivisione dei suoli in differenti tipi (da notare, incidentalmente, che la proprietà del colore, generalmente considerata una qualità superficiale nelle descrizioni occidentali della Natura, emerge come un indicatore di categoria nella metallurgia andina e come un indicatore di direzione nelle rappresentazioni dell'Universo presso le popolazioni dell'America centrosettentrionale).

Al contrario di quanto si verifica nella biologia occidentale, gli animali non sono classificati secondo mutamenti riconoscibili nell'aspetto e avvenuti durante un qualche astratto continuum temporale evoluzionistico. Come dimostra la disamina della classificazione degli animali tra i Pueblo, le categorie della fauna sono immaginate in relazione all'ambiente nel quale gli organismi possono essere rinvenuti o al loro essere cacciatori o cacciati. Sia tra gli Aztechi sia tra i popoli andini, i nomi delle parti del corpo acquistano sottintesi morali e religiosi in base al fondersi degli ordini divini e naturali; l'impiego di termini che denotano parti del corpo umano per denominare parti di piante, per esempio le costole di una foglia, l'utero di un fiore, la pelle di un albero, ha il suo parallelo nei sistemi botanici occidentali. In tutti i casi, o la terra è viva oppure ha un legame strettissimo con il regno dei viventi mediante la trasmutazione delle sue proprietà vitali nel mondo biologico (curiosamente, la pietra rappresenta spesso l'elemento intermedio).

I sistemi tassonomici presentati sono altamente sintetici, piuttosto che analitici. Nella cosmologia, per esempio, le quattro direzioni o, più appropriatamente, i quattro settori orizzontali dell'Universo, si trovano alla base della pianta strutturale sia della città sia del Cosmo nella Mesoamerica e nel Perù. Cuzco, la capitale inca, fu organizzata secondo un principio quadripartito, nel quale immaginarie linee di confine che delimitavano le aree della città passavano al di là delle montagne fino a raggiungere gli estremi confini dell'Universo. Il nome stesso dello Stato inca, Tahuantinsuyu, implicava quel significato e i suoi quattro settori o suyu erano individuati dalla suddivisione in due fratrie, una situata a monte e l'altra a valle del Coricancha, o Tempio del Sole, il quale sorgeva alla confluenza di due fiumi; il principio di organizzazione, dunque, aveva fondamenti sia politici sia idrologici. Tali schemi organizzativi possono trovare un loro fondamento in una particolarità del pensiero di queste popolazioni basato sul dualismo pari/dispari; un'interpretazione che potrebbe essere applicata anche all'Universo azteco.

La cosmologia quadripartita degli Hopi dà spazio ad animali, piante, tipi di montagne, acque e nubi, nonché ai colori; tale strutturazione ricorda le planimetrie del mondo dei codici mesoamericani nei quali si mostra un settore cardinale di riferimento rispettivamente per le parti del corpo, per alcuni dèi e per le divisioni del tempo, espresse nella forma dei nomi dei giorni (il Codex Fejérváry-Mayer e il Codex de Madrid, ff. 75-76, conservato presso il Museo de America di Madrid, ne costituiscono due esempi). La stratificazione verticale dell'Universo azteco ricorda forse più Dante che Aristotele, e in questo caso è possibile domandarsi in quale misura la disposizione del Cosmo raffigurata nei codici sia stata influenzata dal pensiero del Rinascimento spagnolo. Ma l'Universo azteco, stratificato e geocentrico, non era un Cosmo né eudossiano né tolemaico, nei quali la collocazione dei corpi astrali era basata sul corso del loro moto diurno o annuale; quale senso razionale poteva allora esserci nel collocare vento e polvere al di sopra della Via Lattea nell'Universo stratificato azteco? La risposta può risiedere nel fatto che, costituendo la Via Lattea la strada celeste dei morti, c'era bisogno di un accesso immediato dal regno terreno all'aldilà.

La forte identificazione delle tassonomie con il comportamento umano e con le funzioni dell'ambiente inducono a riconsiderare gli interrogativi usuali circa la percezione che i popoli precolombiani ebbero del mondo intorno a loro; per esempio, questi popoli presero in considerazione la rotondità della Terra? Concepivano la Terra in movimento in un sistema solare eliocentrico, oppure in un Universo vasto e senza limiti popolato da stelle appartenenti a un sistema integrato, organizzato in galassie come la Via Lattea? Per prendere a prestito (e modificare) la risposta di Laplace (1749-1827) al quesito riguardante la collocazione di Dio nella sua ipotesi nebulare sull'origine del sistema solare, è possibile che non ci sia stato alcuno spazio per simili concetti in queste cosmologie; tuttavia, ciò non significa che le visioni del mondo dei popoli precolombiani non contenessero componenti scientifiche.

Il ruolo del numero nella descrizione e nella comprensione dell'Universo

Le concezioni di Galilei (1564-1642), mirate a sovvertire la filosofia pitagorica dei numeri, hanno definito l'orientamento assunto dalla scienza nei confronti del numero:

che il numero tre sia numero perfetto, ed abbia ad aver facultà di conferir perfezione a chi l'averà, non sento io cosa che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, verbigrazia, per le gambe il numero tre sia più perfetto che 'l quattro o il due, né so che 'l numero quattro sia d'imperfezione a gli elementi e che più perfetto fusse ch'e' fusser tre. Meglio dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo [di Pitagora] intento con dimostrazione necessaria, che così convien fare nelle scienze dimostrative. (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in: Opere, VII, p. 35)

Un tale orientamento può rappresentare un ostacolo alla comprensione della concezione quantitativa precolombiana del mondo naturale. Per alcuni studiosi il numero costituisce il fulcro delle ricerche sulla scienza precolombiana poiché in esso sembrano confluire i principî organizzativi centrali di questi ricchi e complessi sistemi di conoscenza. Per il popolo maya ciascun numero rappresentava una divinità personificata. Gli uomini ‒ il loro genere, la loro età, i loro corpi ‒ erano la fonte del numero. Nelle Ande, per esempio, dieci era considerato il matrimonio di due e cinque, numeri che comparivano nei sistemi di organizzazione sociale. Il 'quattro cosmico' della città di Cuzco derivava dal 'due sociale' proprio del sistema della fratria. Per i Maya il numero 260 era quello che per la fisica è la costante gravitazionale, e benché John S. Justeson dimostri nel suo saggio che esso traeva origine da due cicli minori indipendenti, è probabile che sia stato scelto fra gli altri per lo stesso motivo per cui hanno assunto importanza molte costanti occidentali della fisica, ossia poiché aveva il pregio di rappresentare la confluenza di una moltitudine di processi temporali e quantitativi, quali il periodo della gestazione umana, l'intervallo medio fra l'apparizione del pianeta Venere come stella serale e stella mattutina, e l'anno dell'eclisse. Inoltre 260 era il prodotto della moltiplicazione del numero dei livelli del cielo (13) per il numero delle dita del corpo umano (20). I principî definitori che sottendevano la struttura dell'Universo mesoamericano erano strettamente legati al concetto di numero sacro: nel caso specifico i numeri 13 e 9 (il numero dei livelli del mondo degli inferi).

Per la loro centralità negli schemi di formazione dei nomi dei numeri sembra che la mano e il numero cinque non siano lontani dall'avere quel carattere universale ricercato negli studi comparativi e transculturali sull'osservazione della Natura. La parola maya 'cinque' incorpora la parola 'mano'; e su questa base è possibile avanzare ipotesi sul fatto che il sistema astratto di annotazione costituito da punti e lineette abbia avuto origine da un modo di contare basato sulla gestualità della mano e del corpo (un'idea corroborata dalle indagini su altri sistemi numerici dell'America indigena; Closs 1986). È inoltre possibile avanzare alcune affascinanti ipotesi riguardanti l'origine dello zero simbolico nel sistema di notazione maya basato sul rapporto tra posizione e valore, e sul modo in cui il problema delle quantità non intere fosse risolto attraverso un principio di proporzione che consentiva di evitare le frazioni. È interessante notare i parametri di derivazione sociale inerenti alla mano e al corpo, utilizzati nella gestione del tempo: nel modello 'manuale' andino, il tempo scorreva infatti dal corpo verso l'esterno, dal pollice (madre) al mignolo (figlio). È possibile dimostrare inoltre come il corpo avesse un ruolo fondamentale nell'espressione di metafore temporali relative al passato (ciò che è di fronte al corpo: ciò che puoi solo vedere con l'occhio) e al futuro (ciò che è dietro: ciò che puoi solo sentire con l'orecchio), le quali contrastano radicalmente con quelle occidentali corrispondenti.

Nelle culture precolombiane il numero aveva un potere proprio. Presso i Maya esso determinava le regole fondamentali per la conduzione dei rituali collegati al calcolo del tempo, come si evince dalla disposizione di certe sequenze raffigurate negli almanacchi dei codici: la maggior parte di esse, infatti, sembra fondata su schemi che potevano risultare solamente dallo sviluppo di regole implicanti il numero (Aveni 1995-96). Il numero sacro, poi, aveva una funzione altrettanto rilevante nell'articolazione dell'ordinamento politico azteco e inca (Lockhart 1992; Zuidema 1977).

Materia e processo: comprendere il mondo naturale

Le proprietà osservate nella materia variano da cultura a cultura e da un ambiente all'altro, e il comportamento della materia e le caratteristiche che ne determinano la trasformazione possono essere spiegate in modi assai diversi dal senso comune occidentale. La tecnica, comunemente ritenuta più sviluppata in Occidente che nelle culture indigene, ne offre un buon esempio: la plasticità è la proprietà dei metalli sulla quale, per motivi culturali, si concentrava maggiormente l'interesse dei metallurghi andini. La ricostruzione di che cosa avvenisse, agli occhi del metallurgo indigeno a differenza di quello occidentale, a una lega di rame e argento quando era lavorata col martello, illustra in maniera eccellente la possibilità di spiegazioni scientifiche contrastanti del ruolo del processo di lavorazione. Tale processo ‒ nell'ottica andina ‒ trasmetteva un messaggio nella misura in cui il martellamento tirava fuori la 'verità' del metallo dal suo interno; quando la superficie di una lamina metallica piatta cambiava gradualmente dal rosso al bianco, dal rame all'argento, il processo di trasformazione provocato dal martellamento rivelava l'essenza del materiale, il cui potenziale era nascosto sotto la superficie. In questo caso si riteneva che il processo creativo procedesse lungo la terza dimensione, quella della profondità. Nella civiltà andina ciò valeva tanto per la tessitura quanto per l'astronomia, per entrambe le quali si riteneva che quello che accadeva sotto la superficie avesse un'influenza diretta sul risultato esteriore, osservabile. Per esempio, nell'astronomia andina la dualità verticale del Cosmo implicava il fatto che ciò che non si poteva vedere, il Sole al nadir (il punto opposto allo zenit), spiegasse quanto in definitiva si poteva sperimentare sulla Terra (l'arrivo delle piogge che segnano l'inizio della stagione della semina); così come scendeva sotto il mondo, allo stesso modo il Sole ritornava da sotto il piano cosmico per dare inizio a un nuovo ciclo di stagioni. Basandosi su tali presupposti, nelle tecniche tutto dipendeva dal modo in cui l'oggetto ‒ o il mondo ‒ veniva realizzato, attraverso l'operato sia di un dio sia di un artigiano.

Il ruolo del corpo umano nella cosmologia andina è discusso ampiamente e ciò testimonia la frequenza con cui l'argomento affiora nella letteratura sulle scienze indigene americane. Il ripristino dell'equilibrio e dell'armonia ne erano i processi chiave; proprio come le operazioni aritmetiche rappresentavano il modo per rettificare gli stati dell'essere, così anche le tre forze concepite dagli Aztechi nella loro medicina fortemente empirica e decisamente olistica operavano all'interno del corpo in base a una struttura dualistica, fondata sul genere. Nel concetto di tonalli (una forza che si credeva lasciasse il corpo durante lo stato di sonno per farvi ritorno prima del risveglio) troviamo reminiscenze delle numerose forze e degli altri spiriti invisibili che hanno avuto un ruolo centrale nella storia delle scienze, per esempio il pneuma, il flogisto, l'etere, il qi (termine cinese che indica l'energia vitale), ecc. La capacità morale del tonalli, inoltre, una sua certa legittimazione allo status di diverse classi sociali, ricorda gli umori della medicina galenica.

La concezione andina della malattia è strettamente parallela a quella azteca: nelle Ande di norma la malattia era ascritta alla hucha, una mancanza di integrità morale. L'esposizione del corpo a fenomeni naturali era ritenuta nociva per l'integrità dell'individuo, addirittura dannosa per la struttura morale che in qualche modo sostiene quella corporea: essa era dunque la causa della malattia. Il rituale, nei sistemi della Mesoamerica così come in quelli dell'America Settentrionale, era la via per l'assoluzione, una purificazione, una liberazione dal peccato, per usare un'immagine comprensibile anche nella nostra cultura.

Bibliografia

Fonti

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