Le Italie del cinema: centralità di Roma, immaginari locali e decentramenti produttivi

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Le Italie del cinema: centralità di Roma, immaginari locali e decentramenti produttivi

Emiliano Morreale

La storia del cinema italiano del dopoguerra, in particolare due suoi momenti decisivi (dal dopoguerra al boom economico, e dalla fine degli anni Ottanta ai giorni nostri) sarà analizzata in questo saggio attraverso il rapporto tra la centralità di Roma, luogo di produzione quasi esclusivo a partire dagli anni Trenta, e la rappresentazione delle diverse realtà regionali. Insieme alle varie immagini delle regioni, si identificheranno anche i tentativi, per lungo tempo sporadici, di decentramento della produzione: solo negli ultimi vent’anni, infatti, questi tentativi hanno assunto un carattere di qualche rilievo.

Nel dopoguerra, la presenza delle regioni italiane sullo schermo è sostanzialmente riflessa, legata alle iniziative di registi e produzioni romane in trasferta. Le immagini dell’Italia del dopoguerra sono filtrate attraverso le esigenze e lo sguardo di un’industria centralizzata, anche se almeno fino agli anni Cinquanta non va sottovalutata l’importanza di una ‘subcultura produttiva’, quella napoletana, con un suo pubblico e una sua storia economica, per quanto povera, che si intreccia in vario modo a quella del cinema ‘nazionale’. I tentativi di produzione decentrata, nell’ambito del cinema popolare (Francesco Alliata e Pino Mercanti a Palermo, Giorgio Venturini a Torino) o d’autore (la casa di produzione 22 dicembre a Milano, negli anni del boom), saranno episodi isolati e non sopravviveranno che qualche giro di anni.

Solo a partire dagli anni Novanta, in concomitanza con una riscoperta delle regioni, si assiste alla nascita di case di produzione con base lontano da Roma, e all’ascesa di una generazione di registi nati e operanti altrove: Napoli, Sicilia, in parte Milano. Una fase ulteriore e importantissima, nella prima decade degli anni 2000, vedrà infine lo sviluppo di una serie di Film commission regionali: dapprima quella del Piemonte e poi, tra le altre, la Puglia, il Friuli, e così via.

Oggi il panorama del cinema italiano, caratterizzato da una notevole incertezza economica a livello centrale (il duopolio RAI-Mediaset si è incrinato), si basa sempre più su forme di intervento locali o indirette. Ma soprattutto, l’immaginario cinematografico nazionale comprende ormai gran parte del Paese, grazie al lavoro di autori di ricerca e documentaristi, ma anche del cinema popolare (si pensi alla Puglia del fenomeno Checco Zalone). Sul versante del cinema d’autore, d’altro canto, si è assistito a una ricerca sempre più approfondita e veridica di realtà locali con un valore universale. Basti pensare alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012, in cui di sei film italiani in concorso la metà erano parlati in dialetto e parzialmente o completamente sottotitolati in italiano (È stato il figlio di Daniele Ciprì, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, Bellas mariposas di Salvatore Mereu). In definitiva, se il cinema di oggi sembra trovare le proprie strade maestre lontano da Roma, che come centro propulsore della cultura ha perso incidenza, un certo decentramento produttivo sembra causato piuttosto dal complessivo ridimensionamento del sistema-cinema, e dalla necessità, per gli artisti più rigorosi, di ricorrere a forme di finanziamento e di produzione poco compatibili con la produzione ‘romana’ tradizionale.

Ma oltre che sul versante della produzione artistica, si ritiene che per rendere efficacemente il tema delle Italie del cinema sia indispensabile considerare anche un versante meno frequentato dalla storiografia: quello del pubblico. Qui si è tentato di muoversi su piani differenti, per meglio delineare, attraverso una varietà di fonti, questo continente di difficile esplorazione. Per una descrizione del pubblico in genere, ci si è rivolti alle statistiche regionali sulla presenza delle sale cinematografiche sul territorio, mentre per l’analisi di un pubblico più settoriale si sono brevemente ripercorse le vicende della storia dei cineclub.

Il dopoguerra: dal neorealismo al miracolo economico

Il cinema italiano nasce policentrico. Nel primo decennio del Novecento, i grandi centri di produzione sono Torino, Roma, Napoli e in misura leggermente minore Milano. Sarà solo con l’avvento del sonoro, nei primi anni Trenta, e con la rifondazione di una politica industriale cinematografica organica da parte del fascismo, che Roma diventa la capitale indiscussa della produzione cinematografica, posizione che manterrà fino a oggi. Negli anni della Direzione generale per la cinematografia, istituita nel 1934 sotto la direzione di Luigi Freddi, un progetto coerente unisce il potenziamento dei cinegiornali Luce, la creazione di una scuola di cinema (il Centro sperimentale di cinematografia, 1935) e la costruzione degli studi di Cinecittà, inaugurati nel 1937. In seguito, con la crisi del regime, sarà poco rilevante il tentativo di costruire una cinematografia repubblichina a Venezia, negli ex studi Scalera: i film prodotti saranno pochissimi, e la gran parte degli uomini di cinema riusciranno in vari modi a rimanere, o a fuggire, al di sotto della Linea gotica. Da ricordare negli ultimi anni di guerra l’esplosione del cosiddetto cinema calligrafico legato a una casa di produzione milanese, la Artisti tecnici associati di Antonio Mambretti Sonzogni Juva, diretta dal giovane Carlo Ponti. Tra i titoli più noti prodotti: Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, Sissignora (1942) di Ferdinando M. Poggioli, Giacomo l’idealista (1943) di Alberto Lattuada.

All’indomani della Liberazione, Cinecittà è trasformata in un campo profughi, e gli altri stabilimenti di rilievo (come quelli della Tirrenia film, poi Pisorno, tra Pisa e Livorno) vengono chiusi. Pur senza voler esagerare con l’immagine di un neorealismo come cinema girato ‘per strada’, il cinema del dopoguerra è senza alcun dubbio meno girato in studio e meno centralista di quello del periodo fascista. Il neorealismo dunque apre alle varie realtà regionali: Alberto Farassino ha ricordato «L’operazione che esso compie di esplorazione su larga scala del paese, la nuova cartografia nata dal dopoguerra e dalla Liberazione che esso vuole disegnare. Non c’è solo il gran viaggio in Italia di Paisà, c’è tutto uno spostamento di sguardi e di iniziative che porta i cineasti italiani a percorrere per il lungo la penisola, attraversando nei due sensi la frontiera caduta della Linea gotica, per giungere con occhi nuovi nei luoghi che da Roma restavano invisibili o dove finora non si era riusciti a vedere abbastanza» (in Neorealismo, 1989, p. 23).

Se un cinema regionale fa parte della tradizione italiana, interrotta ma mai totalmente dal fascismo, il neorealismo più innovativo è spesso transregionale. Subito dopo la Liberazione i romani Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Massimo Mida si trasferiscono a Milano, a fare la rivista «Film d’oggi» ma anche a elaborare progetti cinematografici. Il genovese Pietro Germi e il produttore torinese Luigi Rovere si dedicheranno al cinema siciliano e meridionalista. I romani Luigi Zampa e Mario Bonnard andranno a girare sulla frontiera jugoslava realizzando rispettivamente Cuori senza frontiere, 1950, e La città dolente, 1949. I milanesi Luchino Visconti e Luigi Comencini gireranno in Sicilia o a Napoli (Proibito rubare, 1948, di Comencini). Roberto Rossellini, che era stato il primo a spostarsi, finirà per varcare le frontiere, realizzando a Berlino il film Germania, anno zero (1948), oppure girerà a Stromboli con l’attrice svedese Ingrid Bergman (Stromboli ‒ Terra di Dio, 1950).

Il centro, però, rimane saldamente l’asse Roma-Napoli, a cominciare dai titoli fondativi di Rossellini (Roma città aperta, 1945) e Vittorio De Sica (Sciuscià, 1946; Ladri di biciclette, 1948) con pochi spostamenti a Milano (Miracolo a Milano, 1951), Torino (Il bandito, 1947, di Alberto Lattuada), in Toscana (la Tombolo ‘americana’ di Tombolo paradiso nero, 1949, di Giorgio Ferroni e Senza pietà, 1948, di Alberto Lattuada) e soprattutto in Sicilia (La terra trema, 1948, di Visconti; Anni difficili, 1948, di Zampa; In nome della legge, 1949, di Germi), che proprio in quella fase stabilisce il proprio status di luogo simbolico dell’ingiustizia e del sottosviluppo, anche a causa dell’influenza di uno scrittore come Giovanni Verga (1840-1922) sulla formazione di una generazione di intellettuali e artisti.

Anche il tema della Resistenza è rappresentato nel cinema soprattutto in ambito romano e napoletano, con l’eccezione di due film prodotti direttamente dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ANPI (Il sole sorge ancora, 1946, di Aldo Vergano, e Pian delle stelle, 1946, di Giorgio Ferroni).

Il sogno iniziale di un ‘vento del Nord’, con l’ipotesi di centri di produzione a Milano, rimarrà sulla carta, anche se nella prima fase del neorealismo va ricordato un ‘filone padano’ che dal precursore Ossessione, 1943, di Visconti giunge a certi film del suo allievo De Santis (Caccia tragica, 1947, e Riso amaro, 1949): ma anche il Po di De Santis, come ha scritto Lizzani, è un paesaggio curiosamente ‘meridionale’, che prende corpo in «una forma a volte iperbolica che è più vicina ai rituali del Mezzogiorno» (C. Lizzani, “Riso amaro” di Giuseppe De Santis, 1978, poi in Id., Attraverso il Novecento, 1998, p. 174).

La cosa è particolarmente evidente agli occhi degli spettatori dell’epoca. Rispondendo qualche anno dopo all’inchiesta di «Cinema nuovo», Il cinema italiano nel cinema e nella narrativa, sul neorealismo narrativo e cinematografico, Italo Calvino parla proprio di questo, cioè della supremazia di Roma e Napoli sullo schermo: «due città pochissimo interessanti [...] ci sono città molto più belle, moderne ed emozionanti: che so io Voghera, Savona, Grosseto, Rovigo, ecc.» («Cinema nuovo», 1953, II, 10, p. 26). Di fatto il cinema neorealista è fondamentalmente ‘metropolitano’, nonostante la netta predominanza della reatà contadina fatta di piccoli centri che in questi anni caratterizza la società italiana. Assai ridotta, per es., è in questo periodo la presenza di Milano, che ritroveremo in una fase leggermente successiva in una fiaba ormai piuttosto lontana dal neorealismo come Miracolo a Milano di De Sica (1951).

Ecco un sommario elenco dei film più rilevanti ricondicibili all’area neorealista, ambientati tra Napoli, Roma e le relative zone circostanti: Il miracolo, episodio di L’amore, 1948, di Rossellini; O sole mio, 1946, di Giacomo Gentilomo; Due lettere anonime, 1945, di Mario Camerini; La vita ricomincia, 1945, di Mario Mattoli; Il canto della vita, 1945, e Avanti a lui tremava tutta Roma, 1946, di Carmine Gallone; Il testimone, 1946, e Gioventù perduta, 1948, di Germi; Umberto D., 1952, di De Sica; Roma città libera, 1948, di Marcello Pagliero; Proibito rubare, 1948, di Comencini; Vivere in pace, 1947 e L’onorevole Angelina, 1947, di Zampa; Napoli milionaria, 1950, di Eduardo De Filippo; Cielo sulla palude, 1949, di Augusto Genina; Sotto il sole di Roma, 1948, e Due soldi di speranza, 1952, di Renato Castellani; Non c’è pace tra gli ulivi, 1950, di De Santis.

Un discorso a parte merita, anche per questo aspetto, il percorso di Rossellini, che dopo aver realizzato con Roma città aperta un film esemplare per la riscoperta visiva della capitale (girato quasi tutto in esterni, e oltretutto ambientato in gran parte in periferia, nel quartiere Prenestino), in Paisà (1946) costruisce una consapevole visione d’assieme della Resistenza e dell’avanzata delle truppe angloamericane, attraverso un viaggio che in cinque episodi parte dalla Sicilia e tocca Napoli, Cassino, Firenze e il delta del Po. In un percorso che appare sempre più radicale dal punto di vista estetico e della visione tragica del presente, il titolo successivo è ambientato nella Berlino postbellica (Germania anno zero).

Ma qui interessa soprattutto ricordare la produzione sucessiva, che ruota, a rivederla, intorno a una complessa rilettura del mito del Sud. In una dimensione che si confronta direttamente con le grandi aporie della società occidentale, da un punto di vista dei rapporti umani e della crisi delle ideologie, il Meridione d’Italia diventa un luogo dell’utopia, contribuendo in maniera determinante a un’idea di cinema come apertura al disvelarsi del reale che inaugura una nuova concezione della modernità filmica. Dalla Costiera amalfitana dell’episodio Il miracolo e di La macchina ammazzacattivi (iniziato nel 1948, uscito solo nel 1952), al percorso di Ingrid Bergman verso l’accettazione del mondo in StromboliTerra di Dio, fino al percorso dei due coniugi inglesi in Viaggio in Italia (1954), il cui miracolo finale è anche la metafora di una possibilità di un nuovo sguardo sul reale. Ma cosa ne sarà delle Italie riscoperte del neorealismo, nel cinema degli anni Cinquanta? Negli anni successivi la raffigurazione più costante e articolata del territorio italiano verrà dal melodramma di ambientazione contemporanea, che fiorisce fino alla metà degli anni Cinquanta sulla scia del trionfo di Catene (1949) di Raffaello Matarazzo. Nel film fondativo del genere rimangono forti i legami con la tradizione del cinema napoletano (addirittura di quello d’anteguerra, simboleggiato dal padre del produttore Goffredo Lombardo, Gustavo, nome di punta della produzione degli anni Venti). Come scriverà Vittorio Spinazzola riguardo al cinema melodrammatico e al comico, «il Mezzogiorno proponeva sugli schermi la propria duplice immagine al popolo italiano: sia la farsa sia il melodramma d’appendice esprimevano un analogo rifiuto degli istituti e valori fondamentali dell’industrialesimo capitalistico.» (1974, p. 80).

La città del melodramma, d’altro canto, ha una sua geografia ben precisa. Il mélo privilegia il tessuto urbano, o al limite ‘microcittà’ come fattorie, frazioni, cascine. I luoghi sono il contrario della flagranza neorealista. Le città sono fatte di pochi elementi, contratti e significativi: stazione o porto, per i quali si va a piedi o in tram, viali alberati e panchine, e non c’è via di mezzo tra le pensioni squallide e il grand hotel. Eppure si nota una singolare attrazione per la provincia e la periferia: il mélo degli anni Cinquanta non è così tanto romanocentrico come il comico. Se da un lato, nel filone napoletano, esso ha almeno un’altra capitale, questo genere, che punta in maniera particolare al pubblico della provincia, mostra comunque una mappatura di luoghi inediti: oltre a una certa presenza di Milano, Torino e Genova, ci sono tra l’altro Carrara (I figli di nessuno, 1951, di Raffaello Matarazzo), Perugia (Bufere, 1953, di Guido Brignone), Lucca (La provinciale, 1953, di Mario Soldati), la Sicilia (La peccatrice dell’isola, 1952, di Sergio Corbucci), il Sannio (Maddalena, 1954, di Augusto Genina), Civitavecchia (Noi cannibali, 1953, di Antonio Leonviola), il confine con la Francia (Alina, 1950, di Giorgio Pàstina), Venezia (Pietà per chi cade, 1954, di Mario Costa; Ombre sul canal Grande, 1951, di Glauco Pellegrini), Padova (Una grande ombra, 1957, di Claudio Gora). È la dimensione borghese ad aprire la strada alla riscoperta di alcune città come Milano (Cronaca di un amore, 1950) e Torino (Le amiche, 1955) da parte di Michelangelo Antonioni, esponente, in questa fase, di un nuovo mélo problematico e freddo, finalizzato all’esplorazione di personaggi femminili moderni e di una borghesia in evoluzione.

Un movimento inverso invece compirà la successiva evoluzione verso la commedia, con il cosiddetto neorealismo rosa. Considerato all’epoca spregiativamente, il termine indicava un fenomeno di cui si vollero vedere le prime avvisaglie in Due soldi di speranza, 1952, di Renato Castellani (ambientato a Boscotrecase, presso Napoli) e che trionfò con due film ambientati in una provincia buffa e bonaria, in cui i contrasti sociali e di genere si stemperavano amabilmente: la serie inaugurata da Don Camillo (1952) di Julien Duvivier, e la trilogia che si apre con Pane, amore e fantasia (1953) di Comencini. A questi film si unirà poi la Roma popolare del filone inaugurato da Poveri ma belli (1957) di Dino Risi, ma nella prima fase è largamente predominante una dimensione provinciale, una sorta di ‘Arcadia’ in cui peraltro si rispecchia agevolmente un’Italia, come si è detto, ancora largamente contadina.

Tracce di decentramento produttivo nel cinema del dopoguerra

Nell’immediato dopoguerra il collasso di Cinecittà, causerà per qualche anno una dispersione produttiva che sarà, in parte, anche geografica, e che rientrerà già dal 1948-49, con una risistemazione del mondo del cinema supportata anche dalle nette politiche del governo in questo settore. Il giovane sottosegretario allo Spettacolo Giulio Andreotti, infatti, sostenne la riattivazione di Cinecittà, inaugurando il 21 luglio 1948 i nuovi stabilimenti ricostruiti; con la l. 29 luglio 1949 nr. 448 fece introdurre la tassa sul doppiaggio dei film stranieri e con la l. 29 dic. 1949 nr. 958 favorì la produzione cinematografica nazionale concedendo un abbuono del 20% sui diritti erariali. Il mondo della produzione italiana rimarrà tuttavia sempre piuttosto dispersivo, con centinaia di case di produzione che a volte non arrivano a produrre nemmeno un titolo, ma al suo interno si delineano alcuni centri forti. Per es. la Lux di Riccardo Gualino (di ascendenze torinesi ma con sede a Roma), dove inizieranno la loro attività Carlo Ponti e Dino De Laurentiis, che segneranno i decenni successivi, ma anche la Titanus di Goffredo Lombardo e la Cineriz di Angelo Rizzoli. Da notare che molti produttori (Giuseppe Amato, De Laurentiis, Lombardo) provengono da Napoli, e nel mondo del cinema muto napoletano degli anni Venti hanno le loro radici. Il cinema, comunque, rimane a Roma, e rimane fortemente legato alle politiche governative. I tentativi di decentramento rimarranno isolati e di breve durata. Come ricorda Eitel Monaco, presidente dal 1949 al 1971 dell’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini), nel 1945 erano prodotti a Roma 25 film su 32 (78%), nel 1946, 38 su 43 (88%), nel 1948, 45 su 54 (83%), nel 1949, 50 su 60 (83%), nel 1950, 91 su 97 (94%), nel 1951, 102 su 112 pari al 91% (L’industria cinematografica a Roma, «L’eco del cinema e dello spettacolo», 1952, 24, ripubblicato in Storia del cinema italiano, a cura di L. de Giusti, 8° vol., 1949-1953, 2003, p. 584).

Assai interessante è il tentativo di Venturini prima a Milano e poi a Torino, ricostruito tempo fa da Lorenzo Ventavoli (1992). Già direttore per la cinematografia della Repubblica sociale italiana, nella sua tappa alla milanese ICET (Industrie Cinematografiche e Teatrali) Venturini ebbe modo di rodare una fidata compagnia di collaboratori, dall’operatore Arturo Gallea allo scenografo Giancarlo Bartolini Salimbeni. Oltre a vari film in costume (Guglielmo Tell, 1946, di Pàstina; La mano della morta, 1949, di Carlo Campogalliani) si segnalano titoli più o meno ascrivibili a un’area politica intermedia, tra il qualunquismo e la ‘zona grigia’, come Abbiamo vinto (1951) di Robert Adolf Stemmle, Ha fatto 13 (1951) dell’umorista Carlo Manzoni, Gente così (1949) di Fernando Cerchio, alla cui sceneggiatura collabora Giovanni Guareschi. Venturini in seguito rilevò a Torino gli studi della Fert (attivi negli anni Dieci e soprattutto negli anni Venti e poi sempre meno utilizzati negli anni dell’accentramento della produzione a Roma) realizzando un efficace sistema produttivo di cinema di genere, basato sul rapporto con i distributori indipendenti regionali mediante il sistema degli anticipi, su un rapporto di coproduzione paritaria con un distributore francese, e soprattutto su un sistema di lavoro che in pratica permetteva di girare contemporaneamente due film in due teatri di posa, utilizzando le stesse scenografie, gli stessi tecnici e gli stessi costumi. Furono realizzati in questo modo le coppie di film Il figlio di Lagardère di Fernando Cerchio e Il boia di Lilla di Vittorio Cottafavi (1952), Il mercante di Venezia di Pierre Billon e I piombi di Venezia di Gian Paolo Callegari (1953), I misteri della giungla nera di Callegari e Ralph Murphy e La vendetta dei Thugs del solo Callegari (1954). A segnare la crisi della Fert di Venturini, la cui stagione più proficua durò effettivamnte 4-5 anni, sarà, sullo sfondo di una crisi generale del settore (in quegli anni chiusero case di produzione come la Minerva e la Excelsa, e altre più piccole come la Diana, la ICS, la Zeus, la Taurus, la Vox), il singolare accordo con una major, o una ex major, d’oltreoceano come la RKO. Per questa casa, le produzioni di serie B avevano un ruolo strategico, e gli americani credettero di trovare nel piccolo e decentrato produttore torinese un metodo a loro congeniale. Il che era corretto, ma l’inevitabile lievitazione dei costi delle due coproduzioni messe in cantiere causò una crisi del modello produttivo, a cui si deve forse aggiungere una generale mutazione nei gusti del pubblico.

Senza grandi sviluppi, ma significative forse anche per questo le due esperienze produttive partite nel dopoguerra da Palermo. La Panaria film di Alliata si afferma con alcuni documentari con pionieristiche riprese sottomarine, e passa al cinema di finzione con Vulcano (1949) di Willem Dieterle con Anna Magnani, film ‘rivale’ del coevo Stromboli ‒ Terra di Dio di Rossellini. In seguito, Alliata produrrà tra l’altro La carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir, Vacanze d’amore (1954) di Jean-Paul Le Chanois e Sesto continente (1954) di Folco Quilici. Mercanti, con la Organizzazione filmistica siciliana, fondata nel 1945 con l’aiuto del Banco di Sicilia, esordisce alla regia con Malacarne (1946) e si segnala con un paio di film ispirati ai romanzi popolari di Luigi Natoli, Il principe ribelle (1947) e I cavalieri dalle maschere nere (1948, su soggetto originale, ma vicino alle atmosfere di Natoli). Esperienze spurie, si dirà, tali da confermare il radicamento romano dell’industria cinematografica, che vedrà proseguire il percorso di accentramento produttivo inaugurato dal fascismo.

Eppure, almeno un fenomeno regionale (e in parte macroregionale) segna in maniera inequivocabile il cinema italiano del dopoguerra: il film-sceneggiata napoletano che, gloriosamente in auge negli anni Venti, poi piuttosto inviso al fascismo, risorgerà immediatamente nel dopoguerra. Mentre a Roma Rossellini gira Roma città aperta, a Napoli Armando Fizzarotti, con pellicola a quanto pare sottratta al Psychological warfare branch, realizza Malaspina (1947). Il risultato finale è poverissimo, ma il successo enorme. Da allora seguiranno decine di titoli l’anno, quasi sempre limitati al mercato centro-meridionale, ma con risultati di assoluta rilevanza nazionale. Secondo l’analisi tempestiva che ne fa Spinazzola, gli elementi del genere erano «il giovane povero che raggiunge la celebrità mediante una dote naturale, il canto; l’amore ostacolato dalla disparità di condizioni sociali; il gioco del destino che dapprima divide ma poi definitivamente ricongiunge gli amanti; il rivale ricco ma perfido e disonesto; la pietosa consolatrice, donna di teatro sì ma buona e pronta a sacrificio» (1974, pp. 58-9). Gli elementi di questi film, derivati in maniera più o meno diretta dalla sceneggiata, sono un moderato uso del dialetto (che era stato bandito o tenuto a freno nel cinema fascista) e di attori locali, le riprese dal vero in ambienti reali, la distribuzione locale (ma che arrivava fino alla bassa Toscana), i personaggi comici di contorno, e il bassissimo costo. Elementi, come si può notare, condivisi in parte con il cinema neorealista.

Bisogna però distinguere tra le piccole produzioni specializzate nel genere, spesso improvvisate, e una realtà strutturata come la Romana film di Fortunato Misiano (nato peraltro a Messina), con sede a Roma, che tenta un rapporto più mediato e allargato con questo tipo di pubblico. La Romana produce almeno quattro titoli l’anno. Negli anni Cinquanta, per così dire, è la major del cinema napoletano. Tra le case di produzione locali, la maggiore è invece la Sud film di Roberto Amoroso, che aveva prodotto Malaspina e cavalca l’onda con titoli simili: Madunnella (1947) di Ernesto Grassi, Nennella (1948) di Renato May, La figlia della Madonna (1949) di Roberto Bianchi Montero, Zappatore (1950) di Rate Furlan, e tenta anche produzioni importanti come Due soldi di speranza (1952) di Castellani. Le altre case, invece, presentano un percorso decisamente avventurose. Enzo Di Gianni, compositore di canzoni e sceneggiate, nel 1948 porta al cinema Monaca santa insieme a Misiano (regia di Brignone) con enorme successo. La SAP (acronimo di Sant’Antonio Proteggimi) di Natale Montillo alias Nat Montiel produce tra l’altro il grande successo Calamita d’oro (1948) e Luna rossa (1951) entrambi di Fizzarotti. E varie altre case fioriscono nel periodo, spesso per un film o due. La stagione d’oro del filone napoletano si chiude già a metà del decennio, anche se (ibridandosi con il filone dei ‘poveri ma belli’) coglierà importanti successi fino alle soglie del boom (Guaglione, 1957, di Giorgio Simonelli). Nel 1960, all’indomani dei successi della Dolce vita di Fellini, in un panorama completamente mutato, la rivista «La fiera del cinema», organo con cui la Titanus cerca di promuovere una politica culturale di ammodernamento dei gusti del pubblico, si interroga ancora sulla sopravvivenza di questo genere. L’articolo, firmato da Roberto Gavioli, è intitolato 41mo parallelo, linea che secondo l’autore divide nettamente il pubblico settentrionale da quello meridionale, il secondo più rozzo e legato al cinema napoletano, «con una linea di demarcazione Nord-Sud che passa all’incirca sotto la Toscana, comprendendo Viterbo ed Ancona» (in Le fortune del melodramma, a cura di O. Caldiron, 2004, pp. 105-15).

Scilla e Cariddi del boom

Nel 1963, l’annuario del cinema italiano intitolato appunto «Film 1963», che Spinazzola curava per Feltrinelli si apre con due saggi, uno su Milano e uno sulla Sicilia, firmati rispettivamente da Umberto Simonetta e da Leonardo Sciascia. La scelta dei due luoghi rispecchia in effetti la geografia del cinema dell’epoca. Nella grande stagione del cinema d’autore degli anni Sessanta (che segna, insieme al neorealismo, e forse ancor più, il massimo prestigio del nostro cinema) l’immagine dell’Italia rimane saldamente ancorata a Roma, con due poli che definiscono una secca opposizione Nord-Sud: Milano da un lato, la Sicilia dall’altro. In proporzione, per es., hanno molto meno spazio realtà pur centrali in quegli anni come Torino, e in fondo la stessa Napoli, nonostante film come Il giudizio universale (1961) di De Sica e soprattutto Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, oltre a titoli di minor impatto (Leoni al sole, 1961, di Vittorio Caprioli) o, in seguito, un paio di film fortunati di De Sica con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni (Ieri oggi e domani, 1963, Matrimonio all’italiana, 1964). A parte il film di Rosi, l’immagine di Napoli rimane fortemente segnata dai rischi oleografici, logorata anche dalla forte tradizione locale del film-sceneggiata.

L’articolo di Simonetta, autore di riviste, fresco esordiente nel romanzo Lo sbarbato e autore di un paio dei maggiori successi di Giorgio Gaber, La ballata del Cerutti e Il Riccardo, è un cahier de doléances riguardo ai fraintendimenti che il cinema offre sulla città di Milano. Pelle viva (1962) di Giuseppe Fina, due episodi di Boccaccio 70 (1962, Renzo e Luciana di Mario Monicelli e Il lavoro di Visconti), Una storia milanese (1962) di Eriprando Visconti, Il disordine (1962) di Franco Brusati, Il posto (1961) di Olmi, La notte (1961) di Antonioni vengono analizzati duramente, per la loro imprecisione nell’uso del dialetto e dei luoghi, mentre si salva in parte solo Rocco e i suoi fratelli (1960) e la conclusione è paradossale: «La Milano più autentica, più sincera è proprio quella apparsa ne Il generale Della Rovere: un film girato in venti giorni negli studi romani» (Milano e il cinema, «Film 1963», 1963, pp. 44-45). Soprattutto, a infastidire Simonetta è l’identificazione di Milano come una città grigia e disumana, patria di tutti i difetti possibili dell’età del boom, una città immaginaria e non reale:

Ho la sensazione che di simili pellicole camuffate da ‘milanesi’, ne subiremo parecchie, alcune credo siano già in lavorazione. L’idea non mi rallegra. È probabile che ci toccherà assistere a brani altamente drammatici con sottili sottofondi polemici e spreco di conflitti tra società e individuo e, ci si può scommettere tranquillamente, non verrà trascurata l’alienazione collettiva sullo sfondo del neocapitalismo lombardo, e già me le immagino le scene: Alba. Lunghe attese cariche d’angoscia repressa ai capolinea di un tram che arriva strapieno, con i protagonisti immersi nella nebbia; l’allucinante inseguimento di Lui che cerca invano di rintracciare Lei: ma tutto è inutile perché Lei è inghiottita nel vortice della Rinascente; il disperato e commovente ultimo tentativo del Giovane Buono e Sano d’iscriversi alle scuole serali che s’infrange contro il rifiuto del Preside ‒ il cui viso ricorda quello del cardinale Montini ‒ che cinicamente gli vieta l’ingresso ai corsi perché in questa feroce metropoli le scuole serali fanno orario di mattina e quindi niente da fare dato che il Giovane Buono e Sano la mattina lavora alla filanda, e via di questo passo, tetramente, con la prospettiva che la comune tematica favorirà inevitabilmente il sorgere e l’affermarsi di una moda, perciò prepariamoci. (pp. 44-45 ).

A coronare questa visione in toni più sarcastici, aggiungiamo La vita agra (1964) di Lizzani dal romanzo di Luciano Bianciardi, che forse coi suoi toni acri non sarebbe granché piaciuto a Simonetta. Ma in realtà l’ondata di film neocapitalisti non arriverà mai (e per la verità già l’elenco di Simonetta si riferisce per lo più a piccoli film d’autore, di non grande successo). Piuttosto, negli anni successivi Milano sarà teatro di un nuovo filone di violento noir urbano.

Di ben altro livello teorico il saggio di Sciascia, che affronta in una vertiginosa divagazione l’intera produzione cinematografica della/sulla Sicilia, a partire dai film del catanese Nino Martoglio, e identifica con geniale schematismo tre filoni che raggruppano l’intero immaginario filmico sulla Sicilia, derivati tutti e tre da scrittori isolani: «Vittorini, Brancati e Quasimodo offrirono, più o meno direttamente, i tre diversi temi siciliani al cinema. La Sicilia come “mondo offeso”; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e verità» (La Sicilia e il cinema, «Film 1963», pp. 11-34, ripubblicato in La corda pazza, 1970). Quest’ultimo filone, aggiunge Sciascia, è il più rischioso, quello che meno ha prodotto opere significative (anche se sembra di potervi tacitamente ascrivere L’avventura, 1960, di Antonioni), mentre al filone erotico Sciascia ascrive Stromboli o Divorzio all’italiana (1961) di Germi e al primo In nome della legge, La terra trema (1948) di Visconti e Salvatore Giuliano (1962) di Rosi. Il quale gli sembra l’esito migliore che la Sicilia avesse ispirato fino al quel momento sullo schermo. Ma, in conclusione di un altro suo celebre saggio, lo scrittore racconta anche di aver avuto la fortuna di vedere il film di Rosi in mezzo a dei contadini analfabeti di un paesino della Sicilia, i quali per eccesso di identificazione, davanti a scene drammaticissime come il pianto della madre, scoppiavano a ridere. «Le risate che sottolineavano certi momenti, certi passaggi, certe battute del film di Rosi, esprimevano dunque omaggio alla verità rappresentata: il più competente elogio, tutto sommato, che poteva toccare a un film di così prodigiosa verità» (La corda pazza, p. 284). Eppure l’adesione quasi isterica dei contadini all’apparizione di loro stessi sullo schermo non è solo una reazione ingenua, ma anche la spia di una contraddizione intima, se non del film, quantomeno del suo rapporto col pubblico: «Una possibilità di equivoco, di ambiguità, doveva dunque trovarsi in parte nel film: e a noi parve di scoprirla nella “invisibilità” di Giuliano. Per Rosi, crediamo, l’invisibilità era una specie di dato immaginifico del giudizio: non Giuliano contava, ma le forze, gli interessi, le persone che lo muovevano. Per il nostro spettatore l’invisibilità diventava invece un dato mistico: Giuliano come idea della rivolta contro lo Stato, della vendetta sociale, della redenzione del povero» (p. 285).

Il saggio di Sciascia, che attendeva perplesso l’uscita del Gattopardo di Visconti (1963), si conclude con un film che è anche un ponte ideale tra le due facce del boom: Mafioso (1962) di Lattuada. Il film racconta con toni neri e grotteschi la vicenda di un caporeparto siciliano di una fabbrica milanese che, mentre si trova in vacanza nel paese natale, viene incaricato di compiere un omicidio addirittura oltreoceano. Lattuada, sulla scia di un soggetto di Marco Ferreri e Rafael Azcona, sottolinea sarcasticamente la possibilità di una ‘integrazione’ tra i modelli mafiosi e quelli del capitalismo italiano. Sciascia, che all’epoca è legato a un’idea di mafia rurale e spera nelle possibilità di una evoluzione del costume e della società legati all’industria (in quello stesso anno scrive il commento per il documentario Gela antica e nuova di Giuseppe Ferrara, che guarda con interesse all’arrivo del petrolchimico), è diffidente. Col senno di poi, anche se può sembrare strano, le considerazioni sulla mafia svolte dai milanesi Lattuada e Ferreri appaiono, nella loro paradossalità, più profetiche di quelle di Sciascia, che pure parlava con maggior cognizione di causa.

Roma, dunque, rimane il centro della produzione e dell’immaginario cinematografico, come lo era del neorealismo, anche del cinema d’autore e della commedia italiana degli anni Sessanta. Titoli che fissano per sempre l’immagine della città, come La dolce vita di Fellini o L’eclisse (1962) di Antonioni, fino alla scoperta del mondo delle periferie, con uno sguardo lontano dal neorealismo e che diventerà un modello per tutti i registi a venire, da parte di Pier Paolo Pasolini (a cominciare da Accattone, 1961). Ugualmente importante sarà la capitale nei film della commedia all’italiana, da Monicelli (I soliti ignoti, 1958; Risate di gioia, 1960) a Risi (Una vita difficile, 1961; I mostri, 1963) ad Antonio Pietrangeli (Io la conoscevo bene, 1965). Una città che attraverso i due tòpoi del cinema e dell’epoca, l’automobile e la spiaggia, si prolunga fino al litorale tirrenico, come nell’esemplare Il sorpasso (1962) di Risi. Una città che si sposta sempre più verso i quartieri nuovi, Monte Mario, Portuense (Io la conoscevo bene) o l’Eur (L’ombrellone, 1965, di Dino Risi), abbandonando progressivamente i quartieri popolari. È questa la geografia della Roma del boom, e in fondo resterà questa per tutti i maggiori cantori dell’Urbe, i più singolari dei quali sono forse due autori diversissimi come Dario Argento (il quartiere Flaminio di L’uccello dalle piume di cristallo, 1970, il quartiere Coppedè di Inferno, 1980) e, come vedremo, Nanni Moretti. Ricordiamo che all’epoca l’Eur è anche un tipico set da film di fantascienza, come nei film di Antonio Margheriti (Space men, 1960), Elio Petri (La decima vittima, 1965) e nell’horror apocalittico L’ultimo uomo sulla terra (1964) di Ubaldo Ragona.

Ma curiosamente, la tardiva nouvelle vague che nascerà in Italia avrà come epicentro due tranquille cittadine padane, Parma e Piacenza (in quest’ultima, ricordiamolo, negli stessi anni nasceva una rivista fondamentale come i «Quaderni piacentini»). Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci e I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio raccontano l’inquietudine della gioventù, la lontananza dalla generazione della Resistenza, l’imborghesimento, le patologie familiari in maniera diversissima, ma entrambi saranno visti come precursori delle inquietudini di un’epoca.

Il caso milanese

Il saggio di Simonetta indagava perplesso l’apparire di una nuova immagine di Milano, che rimarrà lo sfondo tacito della sua rappresentazione per decenni, pur senza suscitare sviluppi ulteriori. Ma se Milano saltuariamente apparirà come ‘altro polo’ dell’immaginario cinematografico, la produzione, invece, sarà sempre totalmente accentrata a Roma. Milano, con l’avvento della televisione, diventerà sempre più specializzata in pubblicità (l’80% degli episodi di “Carosello” vengono girati lì), e significativo è al riguardo il percorso della ICET cui abbiamo in precedenza accennato. Francesco Corti, che rileva la società e il sito, costruisce nei nuovi studi denominati Cinelandia tra il 1960 e il 1965, specializzandosi soprattutto nella produzione pubblicitaria (ma lì vengono girati anche film come Rocco e i suoi fratelli, La notte, La vita agra, Banditi a Milano, 1968, di Lizzani, i film diretti da Olmi o quelli interpretati da Adriano Celentano). Gli studi a metà degli anni Ottanta vengono acquistati dalla Fininvest, e diventano uno dei centri della produzione televisiva privata.

Completamente diverso il percorso della 22 dicembre, fondata nel 1961 da Olmi con il 51% dei soldi provenienti dalla Edison, e il resto dai soci (lui stesso, Tullio Kezich, Alberto Soffientini, Filippo Meda). Prima di venir assorbita dalla Titanus nel 1965, la società produrrà alcuni film, spesso in coproduzione con la Galatea, praticamente mai coronati da successo di pubblico (I basilischi, 1963, di Lina Wertmüller; Il terrorista, 1963, di Gianfranco De Bosio). Si ricorda inoltre Una storia milanese di Eriprando Visconti e I fidanzati, 1963, dello stesso Olmi. E sarà solo negli anni Ottanta, con la disponibilità di nuove tecnologie (a partire dal video) e sullo sfondo della nascita delle televisioni private, che una vera produzione indipendente milanese tenterà strade consapevolmente alternative all’accentramento romano. Nel 1980 nasce la rassegna Filmmaker, organizzata da Bruno Bigoni, Silvano Cavatorta, Maurizio Zaccaro, Daniele Maggioni ed Enrico Livraghi. Con il coinvolgimento dello Studio Equatore (Gianfilippo Pedote e Cavatorta) nascerà Indigena, associazione di autori e produttori. Da lì muovono i primi passi registi come Silvio Soldini e Kiko Stella, e lì negli anni verranno presentati i primi lavori di Michelangelo Frammartino, Giovanni Maderna, Alina Marazzi. Il modello di Filmmaker e di Indigena rimane peculiare, per l’intreccio tra festival, produzione, finzione, documentario, anche se inevitabilmente è servito soprattutto ad allevare nuovi autori più che a strutturare un modello produttivo. Ma la sua persistenza (anch’essa unica) attraverso tre decenni ne mostra la giustezza e necessità. Molto in ritardo, invece, l’attività della Film commission, attiva soprattutto dopo il 2010 sul versante dei videoclip e delle pubblicità, con qualche titolo significativo di Soldini (Il comandante e la cicogna, 2012), Gianni Amelio (L’intrepido, 2013), e varie commedie prodotte da TaoDue, Cattleya, Colorado, ITC.

Nello stesso periodo, peraltro, da Milano partono anche un paio di esperienze destinate ad avere risonanza nazionale, entrambe sotto il segno di un rinnovamento della commedia che va oltre i modelli degli anni Sessanta: il teatro dell’Elfo da cui nasce il gruppo di Gabriele Salvatores, e Maurizio Nichetti, che nei suoi primi film a partire da Ratataplan (1979) propone una inedita Milano slapstick. Negli anni successivi saranno frequenti, ma sempre sporadici, i tentativi di un cinema indipendente, con l’attività di produttori attivi nel territorio come Pedote o Franco Bocca Gelsi. Ricordiamo almeno il successo locale di Fame chimica (2003) di Antonio Bocola e Paolo Vari, e l’opera delle registe Marina Spada (Come l’ombra, 2006), e Marazzi (Un’ora sola ti vorrei, 2002; Tutto parla di te, 2012).

Città violente: il poliziesco degli anni Settanta

I generi cinematografici popolari cosiddetti di profondità (dal peplum all’horror, dal western al cinema spionistico fino al giallo sulla scia di Dario Argento) del cinema italiano dagli anni Sessanta in poi manifestano una tendenza all’internazionalizzazione e all’imitazione dei prodotti americani. Si verifica però un singolare movimento nella scelta delle locations e dei modi di produzione: una linea che collega Roma all’estero (Spagna o Francia, spesso) senza la possibilità non solo di centri di produzione italiani lontani dalla capitale, ma nemmeno di locations italiane. Lo spionistico, l’horror e il thriller possono anche svolgersi all’estero, raramente a Milano o Torino. Il western o il peplum si fanno tutti nei dintorni di Roma, oppure in Spagna o in Jugoslavia, ma quasi mai nel resto d’Italia.

Negli anni Settanta almeno un genere trova invece uno dei suoi punti di forza nella rappresentazione di una nuova e inquietante realtà urbana. Il poliziesco italiano, o ‘poliziottesco’ come lo battezzò il critico Gianni Buttafava, è un genere che fin dai titoli sfrutta una nuova percezione delle città come luoghi della violenza criminale e politica. Città sospese tra centro e periferie in mutazione, tra cantieri, terrains vagues, cimiteri di macchine e tangenziali (la sopraelevata di Genova o la tangenziale est di Roma, risultano perfette per gli inseguimenti in auto) che si oppongono a squarci più riconoscibili, quasi turistici:

Il poliziottesco scopre la realtà italiana, quasi suo malgrado. Inconsapevolmente, tra una zoomata e un inseguimento, tra un pestaggio a sangue e uno stupro, tra una sparatoria e una tirata antigarantista. Una città che il neorealismo rosa (forse) intuiva, ma non esplicitava. Una delle peculiarità del genere è proprio il suo carattere cittadino. Le città avevano finalmente un nome. […] Milano, Roma, Napoli. Nomi e luoghi. Scorci e panorami, sovente quelli visti su cartoline economiche, diventano il teatro di brutali rese dei conti. Il poliziottesco eleva l’esperienza urbana quotidiana a spettacolo. (G.A. Nazzaro, Napoli, curtiello cu curtiello, in Noir in festival 1997, 1997, p. 56).

Numerosi sono ovviamente i film ambientati a Roma e Milano, città segnata da un’idea della vecchia mala, dai romanzi di Giorgio Scerbanenco (cui si ispira il capostipite Milano calibro 9, 1972, di Fernando Di Leo) e dal mito della banda Cavallero, portata sugli schermi da Lizzani qualche anno prima (Banditi a Milano). Tra le decine di film ambientati a Milano ricordiamo Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973) di Sergio Martino, Milano odia: la polizia non può sparare (1974) e L’uomo della strada fa giustizia (1975) di Umberto Lenzi, Il poliziotto è marcio (1974) di Di Leo, Mark il poliziotto (1975) e Sbirro... la tua legge è lenta... la mia no! (1979) di Stelvio Massi, La polizia ha le mani legate (1975) di Luciano Ercoli.

L’immagine di Roma invece seguirà una ulteriore torsione da un lato con l’attenzione verso un mondo borghese e dall’altro verso una contaminazione con i moduli della commedia. Anche qui i titoli sono decine. Ricordiamo almeno Roma violenta (1975) di Marino Girolami, La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975) di Di Leo, Il giustiziere sfida la città (1975), Roma a mano armata (1976), Il trucido e lo sbirro (1976), La banda del gobbo (1977) e Il cinico, l’infame, il violento (1977) di Lenzi, Il grande racket (1976) di Castellari, Il commissario di ferro (1978) e Poliziotto sprint (1977) di Massi.

Ma il mondo del poliziottesco si allarga alle altre città: Torino, per es., (Un uomo, una città, 1974, di Romolo Guerrieri; Torino violenta, 1977, di Carlo Ausino; Fango bollente, 1975, di Vittorio Salerno, Quelli della calibro 38, 1976, di Massimo Dallamano), e soprattutto Genova (Il cittadino si ribella, 1974, di Castellari; Mark il poliziotto spara per primo, 1975, di Massi; Italia a mano armata, 1976, di Marino Girolami), che diventa una delle capitali del genere, particolarmente adatta per conformazione geografica e urbanistica e per la sua «doppia natura [...], al tempo stesso scenario industriale e promessa di un’esotica dimensione mediterranea» (R. Venturelli, Genova o la lacerazione del paesaggio urbano, in Noir in Festival 1997, cit., p. 52). Tra i primi film a scoprirne le potenzialità, La polizia è al servizio del cittadino? (1973) di Romolo Guerrieri e La polizia incrimina, la legge assolve (1973) di Castellari. Ma ricordiamo anche incursioni a Bologna (La polizia è sconfitta, 1977, di Domenico Paolella), Brescia (La polizia sta a guardare, 1973, di Roberto Infascelli) o Civitanova Marche (Un poliziotto scomodo, 1978, di Massi).

La regionalizzazione del ‘poliziottesco’ si innesterà su un imprevedibile recupero del filone della sceneggiata, nella serie di film interpretati da Mario Merola e prodotti da Ciro Ippolito, a cominciare da Sgarro alla camorra (1973) di Ettore M. Fizzarotti, e che raggiunge l’apice tra gli anni Ottanta e Novanta con Napoli serenata calibro 9 (1978) di Alfonso Brescia e i tardivi Torna e Guapparia (1984) di Massi. I due filoni si intrecceranno in vari titoli, come Napoli violenta (1976) di Lenzi, Napoli spara! (1977) di Mario Caiano, e così via. Da un lato, la sceneggiata consente di mettere in scena lo scontro tra il codice della vecchia illegalità urbana e l’ascesa di una nuova criminalità identificata con l’avvento dello spaccio di droga. Dall’altro, questa tensione si ripercuote anche sulla visione della città. Come scrive Nazzaro:

Le trasformazioni architettoniche e urbanistiche di Napoli, vissute emblematicamente come sintomo di una mutazione antropologica del napoletano stesso, ossia come corruzione di un individuo ideale, leale e continuamente umiliato e offeso dalla sorte, recano l’insorgere di una nuova classe criminale che, naturalmente, non rispetta gli antichi codici d’onore camorristici e che prospera sul sacco della città. Napoli diventa in questo modo una città-corpo che, cristologicamente, esibisce le stimmate della sua violazione sul volto di Merola, giustiziere suo malgrado e epitome di quest’equazione. (G.A. Nazzaro, Napoli, curtiello cu curtiello, cit., p. 56)

All’incrocio del cinema poliziesco e del cinema politico, va ricordato il filone del ‘mafia movie’, che offre al cinema dalla fine degli anni Sessanta per un ventennio una sorta di western nostrano, attratto dapprima dai paesaggi dell’interno (Il giorno della civetta, 1968, di Damiano Damiani e A ciascuno il suo, 1967, di Petri) e poi dalla mafia urbana, che viene messa al centro tra i primi da Damiani in Confessione di un commissario di polizia a un procuratore della Repubblica (1971). Si tratta di film la cui prossimità al cosiddetto ‘poliziottesco’ è variabile, comprendendo film mossi da intenti di denuncia o di controinformazione come quelli di Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, 1970; Cento giorni a Palermo, 1983) e film come quelli di Damiani, più attenti alle dinamiche individuali e dunque a una maggiore interazione con il territorio (Perché si uccide un magistrato, 1975, Un uomo in ginocchio, 1979).

Il set siciliano è utilizzato in questo senso anche in diversi film americani (The godfather ‒ part II, Il padrino ‒ parte II, 1974, di Francis Ford Coppola; The brotherhood, La fratellanza, 1968, di Martin Ritt; The Sicilian, Il siciliano, 1987, di Michael Cimino), sempre col rischio dell’oleografia. Ma questi film hanno, sulla realtà della mafia italoamericana, uno sguardo in fondo più attendibile dei film italiani sulla mafia. La scelta dei set è al riguardo illuminante: da una prima fase in cui si segue l’idea di una mafia agricola, utilizzando i paesaggi siciliani come sfondo per un western nazionale, si passa alla scelta di una ristretta gamma di luoghi che definiscono il ‘mafia movie’ urbano. Il set dominante diventa Palermo, mostrata per lo più dall’alto, nella prospettiva da ovest con i nuovi quartieri costruiti all’epoca del sacco della città, o con lunghe sortite dentro i mercati (la Vucciria o Ballarò), e l’aeroporto che simboleggia la dimensione internazionale del crimine.

Al di fuori del cinema di genere, però, va ricordata la singolare fioritura del cinema napoletano coeva al trionfo del cinema-sceneggiata di Merola. Alla fine degli anni Settanta, in un periodo di enormi contraddizioni urbane (l’ascesa della nuova camorra organizzata di Cutolo, l’epidemia di colera, le contraddizioni stesse della giunta di sinistra e delle sue politiche sulla periferia, culminate nell’edificio-simbolo delle Vele di Secondigliano, e poco dopo l’elemento scatenante del terremoto e dei fondi per la ricostruzione), il regista Salvatore Piscicelli inventa una nuova chiave di narrazione della città con due melodrammi che hanno grande eco, Immacolata e Concetta ‒ l’altra gelosia (1980) e Le occasioni di Rosa (1980). Ritratti femminili ‘freddi’, che raccolgono e capovolgono la tradizione della sceneggiata mescolandola alla lezione ‘brechtiana’ dei film di Rainer Werner Fassbinder. Il regista napoletano era stato peraltro anticipato proprio da un regista tedesco amico di Fassbinder, che in chiave di romanzo storico, tentava una strada assai simile: Werner Schroeter con Nel regno di Napoli (1978). Sul versante della commedia invece importante è l’esordio di Massimo Troisi con Ricomincio da tre (1981), che mostra una Napoli in tono minore, quasi anonima, priva di ogni sfumatura ‘turistica’. L’esempio di Piscicelli, ricordiamolo, varrà probabilmente come modello per i primi passi del cosiddetto Rinascimento napoletano, specialmente quello di Mario Martone e Pappi Corsicato.

La stagione dei sindaci

Il cinema italiano, tra gli anni Ottanta e Novanta, riemerge da un decennio almeno di crisi profonda, non solo economica ma anche creativa, e riscopre in maniera sorprendente il territorio. Per la prima volta, a questo si accompagnano dei tentativi di decentramento produttivo, specie al Sud, con l’arrivo di una generazione di autori e produttori napoletani e siciliani (e in un secondo momento pugliesi e sardi) che provano a raccontare i luoghi in prima persona. Si può leggere questa riscoperta del territorio (e quindi delle città) in parallelo con la cosiddetta stagione dei sindaci, ossia la vittoria delle giunte di sinistra in molti comuni italiani, che puntarono appunto su una riscoperta delle città, e dei centri storici in particolare. Roma stessa è soggetta a nuovi sguardi, dei quali è emblema il giro in Vespa di Nanni Moretti, dalla Garbatella al Flaminio, fino a Spinaceto e Ostia (Caro diario, 1993). Ma nello stesso periodo vaga per Roma, spesso negli stessi luoghi di Moretti, Ferreri, che realizza Diario di un vizio (1993), film di malattia e di morte quanto l’altro è vitale film di guarigione. Il cinema, peraltro, arriva in leggero anticipo sul mutamento politico: a Napoli la giunta guidata da Antonio Bassolino vince nel dicembre del 1993, quando Martone ha già realizzato Morte di un matematico napoletano (1992), Corsicato Libera (1993) e, prima ancora, Antonio Capuano Vito e gli altri (1991). La campagna elettorale Bassolino-Mussolini, peraltro, verrà immortalata nel film di Martone L’amore molesto (1995), sullo sfondo della storia di una donna che torna a impossessarsi contraddittoriamente della propria città e del proprio passato, osceno e minaccioso.

Una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza napoletana è il tentativo di decentramento produttivo, in collaborazione con Roma (la RAI, la distribuzione Lucky Red) e in questo senso è Martone la figura di maggiore rilievo, con il gruppo di Teatri uniti nato dalla fusione tra il napoletano Falso movimento e il gruppo casertano guidato da Toni Servillo. Regista e intellettuale, Martone è interessante non solo per le radici teatrali del suo lavoro, ma anche per le sinergie con il mondo della letteratura (per es. la collaborazione con Fabrizia Ramondino per la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano) e delle altre arti (come il fumetto di Gabriella Giandelli in L’amore molesto, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante). Pur se Martone, Corsicato, Capuano rifiuteranno l’etichetta di ‘scuola napoletana’, i loro rapporti saranno sempre costanti, fino a sfociare nel film collettivo I vesuviani (1997), diretto dai tre con Stefano Incerti, male accolto alla Mostra del cinema di Venezia e dallo stesso pubblico. Di tutti, era l’episodio di Martone il più programmatico, con Toni Servillo nei panni di Bassolino che si arrampica sulle falde del Vesuvio incontrando personaggi allegorici della Napoli passata e presente.

A Palermo invece si sviluppa l’esperienza dei cortometraggi autoprodotti di Ciprì e Franco Maresco, che con la serie di “Cinico TV”, ospitata da RAI3, svela agli spettatori italiani con esilarante cinismo una Palermo di macerie e di disperazione, proprio nel periodo dell’estrema escalation mafiosa e della fine dei corleonesi, dal 1989 al 1996. I loro lungometraggi, Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1998) radicalizzeranno questa visione, che è in fondo più morale e metafisica che sociale. La Palermo di Ciprì e Maresco è soprattutto quella della periferia est, da Brancaccio alla Bandita, con lo sfondo della città vista dal golfo, muretti di campagna e fabbriche abbandonate, dove si aggirano, ripresi utilizzando un bianco e nero da cinema classico, personaggi senza speranza, intenti a soddisfare compulsivamente i loro bisogni primari. E mentre anche la Sicilia dell’entroterra trova un nuovo cantore in Pasquale Scimeca, che recupera i moduli di racconto dei cantastorie (La donzelletta, 1989, Un sogno perso, 1992, e così via), l’esperienza di Ciprì e Maresco influenzerà in maniera innegabile le prime prove di Roberta Torre (dai cortometraggi al primo lungometraggio Tano da morire, 1997) e anche di Aurelio Grimaldi, non tanto nell’esordio (La discesa di Aclà a Floristella, 1992), quanto soprattutto nel film Le buttane (1994).

La cosa interessante è però anche osservare come, negli anni immediatamente successivi, lo sguardo dei registi meridionali muti. Dalla riscoperta, polemica o affascinata, dei centri storici, si passa a una messa fuori campo della città stessa, e a una riscoperta dell’hinterland: è come se la flagranza dei luoghi appena riscoperti, e la fiducia in essi, lasciasse il tempo a un ripensamento più problematico. Da Lo zio di Brooklyn a Totò che visse due volte a Il ritorno di Cagliostro (2003), la Palermo di Ciprì e Maresco diventa sempre meno visibile, con ambientazioni sempre più claustrofobiche, spesso realizzate in studio. Anche Martone con Teatro di guerra (1998) mette fuori campo Napoli chiudendosi con gli attori in un garage. Corsicato va alla ricerca di un hinterland fantascientifico con I buchi neri (1995) e poi di luoghi indefinibili con Chimera (2000). Capuano, dopo un film ancora fortemente radicato nella città come Pianese Nunzio 15 anni a maggio (1996) si sposterà verso l’Asse mediano dell’entroterra napoletano in Luna rossa (2001).

Il baricentro del Sud, poi, troverà spazio per un breve momento nella Puglia di Alessandro Piva (LaCapaGira, 1999) e di Edoardo Winspeare (Sangue vivo, 2000), e nella Sardegna di Mereu e Giovanni Columbu, ma nel primo decennio del Duemila è significativo rilevare come non sia più possibile parlare di ‘scuole’ e di percorsi comuni, per registi provenienti dalle singole regioni, del Sud o del Nord, e come i territori siano tornati a essere soprattutto ‘set’.

L’era delle Film commission

Il nuovo millennio porta, nella storia economica del cinema italiano, alcuni cambiamenti decisivi. Il primo è la nascita di RAI Cinema, nel 2000, in seguito alla cosiddetta legge Veltroni (l. 2 ott. 1997 nr. 346) che obbligava le emittenti radiotelevisive a investire una parte dei proventi nel cinema. Questo comporterà la nascita di un duopolio RAI-Medusa e una produzione industrialmente più solida, presente anche nella filiera della distribuzione, con l’ascesa di una nuova generazione di case di produzione e una certa egemonia del momento della sceneggiatura, che rischierà di normalizzare esteticamente la produzione.

In una seconda fase, la maggiore novità è costituita dal progressivo affermarsi delle Film commission regionali, enti che promuovono e sponsorizzano, con attività di sostegno, orientamento e a volte finanziamento le produzioni cinematografiche e televisive. La loro presenza sul territorio ha anche vere e proprie ricadute estetiche sull’immaginario filmico italiano, assai più vario ma nel contempo a volte legato a esigenze promozionali, o a suggestioni esteriori nelle scelte dei luoghi, condizionate più da esigenze tecniche e commerciali che da un’autentica necessità espressiva. Visto che alcune regioni importanti (Lazio, Campania, Emilia-Romagna, ma anche Lombardia e Toscana) al momento non sembrano aver investito molto nel settore, si è scelto qui si raccontare le vicende esemplari di alcune Film commission che per prime o con maggiore incisività hanno operato a partire dal primo decennio degli anni Duemila.

Piemonte

La Film commission più longeva e importante, che ha ottenuto i migliori risultati fino a segnare un territorio e un periodo con la propria attività, è quella di Torino e del Piemonte. Nata nel settembre 2000, la Film commission si trova a operare, come si è accennato, su un territorio dalle tradizioni antiche ma ormai risalenti a quasi un secolo prima, rimasto ai margini non solo della produzione, nonostante la presenza degli studi Fert e l’esperienza del produttore Venturini, e alcuni film girati in città, come per es. alcuni titoli di Dario Argento (a partire da Profondo rosso, 1975). Il film che riporta Torino al centro del cinema italiano è Così ridevano (1998) di Amelio, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia, che non ottenne tuttavia un grande successo di pubblico. Mentre nasce una nuova generazione di registi locali (Gian Luca Tavarelli, Enrico Verra, Nicola Rondolino, e prima ancora Mimmo Calopresti, che a Torino aveva girato La seconda volta, 1995, prodotto da Moretti), arrivano produzioni che, agevolate dai finanziamenti locali, scelgono la città non solo come sfondo per storie legate al luogo, ma anche come location anonima. Se una commedia come Santa Maradona (2001) di Marco Ponti nasce ancora da una certa interazione con il luogo, i titoli successivi andranno sempre più nella direzione di un suo uso puramente strumentale, arrivando a trasformare Torino, per alcuni anni, in uno sfondo neutro come era stata fino ad allora soltanto Roma. Tra i principali titoli girati in tutto o in parte a Torino o in Piemonte a partire dalla fondazione della Film commission: Due amici (2002) di Spiro Scimone e Francesco Sframeli; A cavallo della tigre (2002) di Carlo Mazzacurati; Prendimi l’anima (2003) e I giorni dell’abbandono (2005) di Roberto Faenza; Texas (2005) di Fausto Paravidino; Mio fratello è figlio unico (2007) di Daniele Luchetti; L’uomo privato (2007) di Emidio Greco; I demoni di San Pietroburgo (2008) di Giuliano Montaldo; Il divo (2008) di Paolo Sorrentino; Vincere (2009) di Marco Bellocchio; La prima linea (2009) di Renato De Maria; Noi credevamo (2010) di Martone; Maschi contro femmine (2010) di Fausto Brizzi; Quando la notte (2011) di Cristina Comencini; Il giorno in più (2011) di Massimo Venier; Il gioiellino (2011) di Andrea Molaioli; Venuto al mondo (2012) di Sergio Castellitto; Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana; Tutto mi parla di te (2012) di Marazzi; Benvenuto presidente (2013) di Riccardo Milani.

Con gli anni, il grosso della produzione si è sempre più concentrato sulla televisione (anche con produzioni di media o lunga serialità: Vivere, 1999-2008, Centovetrine, dal 2001, Elisa di Rivombrosa, 2003-05) e sulla pubblicità: inevitabilmente, a partire dai primi anni Duemila, la crisi ha cominciato a farsi sentire anche in questo campo, a causa del difficile momento attraversato dall’industria cinematografica nel suo complesso e della concorrenza di altre Film commission regionali. Torino rimane comunque al momento la città che con maggiore lungimiranza e costanza ha perseguito un progetto di inserimento del cinema in ambito culturale ed economico, puntando anche su realtà importanti come il Museo nazionale del cinema, il Torino film festival (nato nel 1982) e una serie di iniziative minori (dal Torino gay & lesbian festival, dal 1986, al Sottodiciotto film festival, dal 2000, dedicato ai ragazzi sotto i 18 anni).

Il Sud

Fondata nel 2004, la Apulia film commission si è trovata a operare in una regione assai diversificata al suo interno, e con significative ma sporadiche esperienze cinematografiche, più come luogo ospite di set che non come protagonista di esperienze produttive (Trani è stata uno dei set prediletti della commedia sexy da La liceale, 1975, di Michele Massimo Tarantini in poi), o sporadici titoli importanti come Tre fratelli, 1981, di Rosi. Ma, se va ricordata la costanza con cui è tornato nella Puglia natia un attore-regista come Sergio Rubini (fin da La stazione, 1990), la spinta decisiva sembra esser quella nata da alcuni registi che producono e operano nella regione, per cui la nascita della Film commission ha certamente fatto tesoro del grande interesse suscitato dai film del salentino Winspeare e del barese Piva. Già nel primo anno di vita sono quasi 80 le produzioni ospitate in questa regione, e nel giro di pochi anni la Puglia si trova a essere uno dei luoghi centrali dell’immaginario cinematografico del Paese, oltre che un set tra i più pratici e richiesti (tanto da venir utilizzato anche per rappresentare altri luoghi, come la Sicilia di È stato il figlio di Ciprì). Titolo decisivo è Mine vaganti (2010) di Ferzan Ozpetek, come sempre abilissimo nello scovare locations particolari (siano essi quartieri di Roma o regioni in procinto di divenire à la page); con questo film il regista scopre e valorizza le potenzialità cineturistiche del Salento (dove tornerà poi nel successivo Allacciate le cinture, 2014, girato a Lecce).

Dopo quella del Piemonte, la Film commission pugliese si mostra rapidamente come la più operativa. Tra i titoli, ricordiamo Il passato è una terra straniera (2008) di Daniele Vicari; Il primo incarico (2010) di Giorgia Cecere; Il paese delle spose infelici (2011) di Pippo Mezzapesa; ma anche una produzione francese ‘colta’ come La duchessa di Langeais (2007) di Jacques Rivette. L’evento di maggior rilievo è tuttavia rappresentato dal grande successo ottenuto dal comico Checco Zalone, nato e residente in Puglia, dove ha ambientato in gran parte Cado dalle nubi (2009), Che bella giornata (2011) e Sole a catinelle (2013), tutti diretti da Gennaro Nunziante, tutti tra i massimi successi di pubblico nella storia del cinema italiano. Tristemente esemplare, invece, il destino delle Film commission siciliane. Per alcuni anni la regione era sembrata una di quelle con maggiori potenzialità, ruolo poi assunto con più decisione dalla Puglia. In Sicilia, infatti, le Film commission regionali sono state addirittura due, entrambe dipendenti dalla Regione autonoma, fondate nel 2007, ma con budget e vertici distinti: la Sicilia film commission e Cinesicilia (quest’ultima operante fino al 2013), società in house della Regione siciliana che utilizza fondi dell’APQ (Accordo Programma Quadro) per promuoverle e sostenerle. Pur arrivando alla fine di una stagione di grande creatività registica, le Film commission avrebbero potuto avere un duplice ruolo di recupero e promozione dei talenti locali, e di valorizzazione di un territorio da sempre al centro dell’interesse del cinema. Nel 2009 veniva fondata peraltro una sezione siciliana del Centro sperimentale di cinematografia, dedicata soprattutto al documentario, presto destinata a una vita accidentata. Tuttavia, il cambio politico alla testa della regione nel 2008 dopo le dimissioni del presidente Salvatore Cuffaro (condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa) ha ritardato, se non bloccato, sul nascere il processo. All’indomani della presentazione a Venezia di Baaria (2009) di Giuseppe Tornatore, che può essere considerato il culmine di questa fase, si susseguono proclami altisonanti, come (nell’ottobre successivo) un presunto stanziamento di ben quaranta milioni di euro per il cinema a partire da fondi europei e regionali: una Hollywood palermitana, sogno ricorrente e sempre fallimentare. Il risultato, nei fatti, sarà la paralisi, con i bandi di finanziamento per i film rimasti inevasi per anni (il che li rende di fatto inoperanti: si veda il caso del regista Davide Ferrario, che nel 2014 riceve risposta per il bando del 2009, riguardante un film nel frattempo già realizzato autonomamente da tre anni). Ancora oggi, nonostante le enormi potenzialità, quella della Sicilia appare sostanzialmente un’occasione mancata e anzi sfiorata, a causa innanzitutto di una infelice combinazione tra avvicendamenti politici e burocrazia della regione autonoma.

Per molti versi sorprendente è il caso della Sardegna, che presenta una storia in tre fasi: una di sporadico set esotico, sul versante turistico (Gallura) o etnologico (da Banditi a Orgosolo, 1961, di Vittorio De Seta, a Padre padrone, 1977, di Paolo e Vittorio Taviani); poi, negli stessi anni in cui ciò avviene in Sicilia o in Puglia, l’affermarsi di una nuova leva di registi, e infine una fase di sempre maggiore attivismo della Film commission regionale. Dopo il precursore Desamistade (1988) di Gianfranco Cabiddu, e SOS Laribiancos (1999) di Piero Livi, tratto da un classico della letteratura sarda (Quelli dalle labbra bianche, 2008, di Francesco Masala), il film fondativo può essere considerato Arcipelaghi (2001) di Columbu. Entrambi i film di Cabiddu e Columbu raccontano storie di faide, a bassissimo costo e con produzioni fortemente radicate nel territorio; questi film non avranno però l’impatto che invece, per le mutate condizioni di produzione, potrà avere il cinema sardo a partire dal nuovo millennio. Se ancora Pesi leggeri (2001) di Enrico Pau rimane un esperimento isolato (anche per la sua ambientazione urbana a Cagliari, lontana dalla Sardegna rurale prediletta dalla letteratura e dal cinema), è nel 2003-2004 che il cinema sardo esplode, con Ballo a tre passi (2003) di Mereu, La destinazione (2003) di Piero Sanna, il documentario Passaggi di tempo ‒ Il viaggio di Sonos e Memoria (2004) di Cabiddu, Piccola pesca (2004) e Tutto torna (2007) di Enrico Pitzianti, Jimmy della collina (2008) di Pau. Mereu ha proseguito il proprio percorso dapprima con Sonetaula (2008), dal romanzo di Giuseppe Fiori, e successivamente con un film nato a basso costo e senza distribuzione, Bellas mariposas. Nel frattempo, dopo molti anni, usciva il nuovo film di Columbu, Su Re (2012), rilettura arcaica ma teologicamente molto sottile della passione di Cristo. L’enorme successo locale del film di Mereu (50.000 euro, con medie a copia degne dei blockbusters americani, che hanno in seguito trainato un incasso complessivo di 200.000 euro) ha poi richiamato l’attenzione sulle possibilità dei mercati locali per prodotti indipendenti e a basso costo.

La Calabria, invece, solo negli ultimi tempi sta recuperando terreno sul versante dell’ospitalità a produzioni e della nascita di produzioni locali. Si ricordano un paio di giovani autori come Fabio Mollo (Il sud è niente, 2013) e Massimiliano Mazzotta (Fiabeschi torna a casa, 2012), ma soprattutto due tra i più importanti giovani registi dell’ultimo decennio: Alice Rohrwacher, che dopo aver vissuto per un periodo a Reggio Calabria ha ambientato in questa città Corpo celeste (2010), e Michelangelo Frammartino, nato a Milano ma di origini calabresi, che ha costruito su questa esplorazione lirica e antropologica tutto il suo cinema, da Il dono (2003) a Le quattro volte (2011). Significativo che si tratti di registi che si confrontano con la regione attraverso uno sguardo per così dire ‘semiesterno’: Rohrwacher, cresciuta in Toscana da genitori tedeschi, ha conosciuto Reggio per vicende personali, e Frammartino è cresciuto a Milano da genitori originari di Caulonia (Reggio Calabria).

Alcuni elementi di riflessione sull’immagine del Sud si impongono infine osservando il singolare caso di una regione piccola come la Lucania. Essa sembra essere stata condannata per lungo tempo all’invisibilità, simboleggiata dai numerosi tentativi falliti di adattare al cinema Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, dalle numerose sceneggiature del poeta Rocco Scotellaro, e dalla prima parte ‘lucana’ di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, che fu pensata e preparata ma mai girata. In seguito la Lucania venne sempre guardata in chiave strettamente antropologica, sotto l’influenza più o meno diretta delle indagini etnologiche di Ernesto de Martino (1908-1965). Nel 1958 Luigi Di Gianni, giovane regista RAI, si mette sulle tracce di de Martino, e contatta anche il musicologo Diego Carpitella; gira così un documentario di 18 minuti, Magia lucana, cui segue poco dopo Nascita e morte nel Meridione (1959), della durata di 10 minuti, e altri ancora. Sul versante del cinema di finzione, frattanto, de Martino ispirava indirettamente una specie di horror folclorico come Il demonio (1963) di Brunello Rondi, e i sassi di Matera diventavano uno dei set del Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini. Negli anni, si può dire, la Lucania è stata il luogo ideale per un Sud indefinito, simbolo di tutti i Sud (da Non si sevizia un paperino, 1972, di Lucio Fulci, declinazione horror del ‘paradigma antropologico’, a Io non ho paura, 2002, di Salvatores), a volte con coloriture fantastiche, utopiche, messianiche (dopo Pasolini, Amelio vi ambienterà La città del sole, 1973, Di Gianni la fiaba metastorica Il tempo dell’inizio, 1975, e Mel Gibson la sua versione splatter di The Passion of the Christ, La Passione di Cristo, 2004). Di recente, anche la Lucania è diventata un set per le commedie come Basilicata coast to coast (2010) di Rocco Papaleo e si è dotata di una Film commission.

La geografia delle città italiane varia sicuramente anche grazie alla presenza e all’operato delle Film commission, ma non solo. Va qui ricordata anche la perdurante centralità dell’immagine di Napoli e del suo hinterland, legata a situazioni di degrado (Domenica, 2001, di Wilma Labate; La guerra di Mario, 2005, di Antonio Capuano; Certi bambini, 2004, di Andrea e Antonio Frazzi). Il nome più importante nella creazione di un’immagine nuova della città è indubbiamente Matteo Garrone, non solo per Gomorra (2008), ma già con L’imbalsamatore (2002) e poi con Reality (2012). Nella mappa dei luoghi italiani segnaliamo un certo rinascente interesse per Bologna (Almost blue, 2000, di Alex Infascelli; Paris, Dabar, 2001, di Paolo Angelini; Paz!, 2002, di Renato De Maria; Fortezza Bastiani, 2002, di Michele Mellara; Quo vadis Baby, 2005, di Salvatores) e per il Veneto (importante, negli ultimi venticinque anni, l’opera di Carlo Mazzacurati, che ha raccontato con sensibile originalità questi luoghi nel corso di una mutazione epocale; ma si veda anche Piccola patria, 2013, di Alessandro Rossetto).

Trentino, Valle d’Aosta… e Bollywood

Ovviamente il rapporto con la politica locale gioca un ruolo fondamentale nell’esistenza delle Film commission, e non sempre in maniera virtuosa. Sulla scia del Piemonte è sembrato che potesse situarsi per un certo periodo la Film commission del Friuli Venezia Giulia, specie dopo che i suoi paesaggi poco consueti per il nostro cinema erano stati valorizzati da due gialli, La sconosciuta (2006) di Giuseppe Tornatore, girato a Trieste, e La ragazza del lago (2007) di Andrea Molaioli. Ma nonostante i set friulani (e Trieste in particolare) stessero diventando particolarmente ambiti da cinema e fiction, le polemiche suscitate dalle riprese del film di Marco Bellocchio Bella addormentata (2012) sul caso di Eluana Englaro hanno rischiato addirittura di portare alla soppressione della Film commission da parte del Consiglio regionale.

Le ultime realtà a entrare nel mercato delle Film commission sono state quella del Trentino (Il volto di un’altra, 2013, di Pappi Corsicato, La prima neve, 2013, di Andrea Segre) e della Valle d’Aosta. E al riguardo è da segnalare una sorprendente novità, costituita dallo sbarco nella penisola di film di produzione indiana. Come è noto, il cinema indiano è uno dei più fiorenti del mondo, potendo contare su un enorme mercato interno, e Bollywood, ormai dalla metà del decennio, è sbarcata in Italia. Tra i primi ad arrivare, nel 2008, è stato il regista Siddharth Anand con Bachna Ae Hasseeno («Salvarsi è facile»), girato tra Capri, Roma, Venezia, Alberobello, il Gargano e Santa Cesarea. Nell’estate 2010, tra Alberobello, Santa Cesarea Terme e Polignano a Mare, sono state girate alcune parti di Jackie, 2012, di Antoinette Beumer e Dui Prithibi, 2010, di Raj Chakraborty. Ma il più grande successo della Bollywood pugliese è stato, sempre nel 2010, Housefull di Sajid Khan, superproduzione uscita anche in Inghilterra e Stati Uniti, girato in parte sul Gargano. Un film che si è rivelato il quarto incasso di tutti i tempi nella storia del cinema indiano: 100 milioni di spettatori in sala (cioè l’insieme di tutti i biglietti venduti in media in Italia in un anno) e 400 milioni alla fine dello sfruttamento commerciale complessivo. Un successo che ha provocato anche, a quanto pare, un certo afflusso di turisti indiani sulle coste pugliesi. La moda è poi continuata. Alcune scene del film Rockstar (2012) di Imtiaz Ali, sono state girate nella Verona di Romeo e Giulietta. A giugno 2012, la piazza del Duomo di Milano è stata invasa dal set di Baadsah, 2013, di Srino Vaitla, film appartenente al sottoinsieme chiamato Tollywood, cioè i film in lingua telugu, prodotti nello Stato dell’Andhra Pradesh. Un paio di mesi dopo, un altro Tollywood è stato girato a Pisa. Ma se i film che abbiamo nominato utilizzano l’Italia come luogo turistico, il nostro Paese comincia a essere usato dalle troupe indiane anche in maniera molto diversa. Non città storiche, mari e monumenti. Il set prediletto dei film indiani sono le Alpi, specie quelle della Valle d’Aosta, utilizzate come luoghi imprecisati di sogno. Nel gennaio 2012 una troupe di 30 persone ha girato in Trentino, in val di Fassa, alcune scene musicali del film Prema Kavali, 2011, di Vijaya Bhaskar. Tuttavia la svolta è avvenuta a maggio, quando a essere contattata è stata la Film commission della Valle d’Aosta. Da allora, è stato realizzato circa un film al mese, tra Aosta, il Cervino, Saint-Vincent e il San Bernardo. E altre pellicole sono già in preparazione. Con troupe (prevalentemente di indiani) che variano dalle 25 alle 70 persone. Nell’immaginario del cinema indiano, il luogo del sogno è per definizione la montagna, e le Alpi visivamente sono molto adatte: il colore e la forma le rendono perfette per rappresentare l’archetipo della montagna e inoltre esse vengono ritenute dai produttori assai simili alle montagne del Kashmir. La scelta di girare in Valle d’Aosta o Trentino delle scene di montagna ambientate in luoghi indefiniti o addirittura in India è dovuta al fatto che le montagne indiane spesso non sono fornite di infrastrutture, e di conseguenza risulta estremamente difficoltoso, se non impossibile, trasportare fino in cima le ingombranti attrezzature di queste grandi produzioni. In secondo luogo, le riprese in esterni, durante la lunga stagione dei monsoni, possono essere molto rischiose. Infine le montagne del Kashmir, come è noto, sono da almeno sessant’anni al centro di una guerra, più o meno strisciante a seconda dei periodi, con il Pakistan.

Il pubblico

La storia delle Italie del cinema è anche la storia dei loro tanti pubblici, che proprio il cinema ha contribuito a unificare, prima che lo facesse con potenza ben maggiore la televisione. Dal dopoguerra infatti il cinema ha rappresentato un autentico spettacolo nazionale, la cui forza deriva anche dal saper incamerare, a volte salvandole dall’oblio, le mille forme di spettacolo più o meno legate a realtà locali: le commedie dialettali, la sceneggiata, l’avanspettacolo. Ed è interessante osservare come, nel periodo in cui l’Italia si avviava verso il boom economico, e prima dell’ascesa del mezzo televisivo, si sia distribuita la fruizione del cinema nella penisola.

L’incremento delle sale cinematografiche dal 1948 al 1953 è del 22% nell’Italia del Nord, del 28,4 al Centro, del 22,9 al Sud, del 48,9 nelle Isole. Il che però va a coprire evidentemente un divario tra il Nord e il Centro-Sud. Nel 1948 in Italia ci sono 6551 cinematografi, l’anno dopo 7545. Di questi, 1480 (quasi il 20%, un cinema ogni 4199 abitanti) sono in Lombardia, 787 (10,4%, uno ogni 4877) in Veneto, 776 (10,3%, uno ogni 4415) in Piemonte, 728 (9,6%, uno ogni 4757) in Emilia-Romagna. Le quattro grandi regioni del Centro-Nord possiedono dunque complessivamente oltre la metà delle sale presenti sul territorio nazionale, e a seguire c’è la Toscana. Si vedano al confronto le 418 sale della Campania (5,5% del totale, un cinema ogni oltre 10.000 abitanti), le 361 della Puglia (4,8%, uno ogni 8560) e le 316 della Sicilia (4,2 %, una sala ogni 13.806): quest’ultima è la proporzione più svantaggiosa d’Italia, che sarà recuperata negli anni immediatamente successivi (dati ISTAT, in Storia del cinema italiano, 7° vol., 2003, p. 608).

In pochi anni, le sale cinematografiche aumentano in maniera vertiginosa in tutta la penisola: nel 1954 sono quasi 10.000. La Lombardia, regione più popolosa d’Italia, è anche quella con il maggior numero di sale (quasi il 20% del totale nazionale, una ogni 3408 abitanti), staccando tutte le altre regioni. Il Piemonte (1001 sale, un decimo del totale, una sala ogni 3552 abitanti), l’Emilia-Romagna e anche la Toscana hanno superato il Veneto (910 sale, 9,2%, una ogni 4201 abitanti). E ancora una volta, scendendo al Sud la densità delle sale cinematografiche per abitante cala. Nel Lazio, certo, c’è la capitale indiscussa dell’industria del settore, ma questo evidentemente non basta: i cinema sono 585 (quasi uno ogni 6000 abitanti e sarebbe stato interessante vedere i dati della regione escludendo Roma), in Campania 565 (uno ogni 7679), in Sicilia 545 (uno ogni 8168). Il maggior incremento dunque riguarda per lo più regioni con popolazione ridotta: unica eccezione, la Sicilia, che è la regione dove l’incremento di sale è più significativo, ma che era anche la più arretrata all’indomani della guerra. Il percorso è dunque di un sostanziale equilibrio, e la vera sorpresa è proprio la sproporzione che presenta Roma; quest’ultima infatti mentre si conferma la capitale dell’industria cinematografica, rimane all’undicesimo posto tra le 19 regioni, ultima tra le regioni del centro ed è superata dalla Sardegna (dati ISTAT, in Storia del cinema italiano, 8° vol., 2003, p. 641).

Nel 1959, assistiamo a una situazione di assestamento dopo la crescita degli anni precedenti (ricordiamo che nel 1954 c’è la prima crisi significativa, con la chiusura di alcune case di produzione come la Minerva). Il numero dei cinema è cresciuto di poche centinaia, e la situazione rispecchia quella del 1954: in Lombardia le sale cinematografiche sono 1958 (una ogni 3600 abitanti), 1010 in Emilia-Romagna (una ogni 3611 abitanti), 969 in Piemonte (una ogni 3876) e Veneto (una ogni 4027), 879 in Toscana (una ogni 3728), in Sicilia 698 (una ogni 6868), nel Lazio 671 (una ogni 5565). Inoltre sono disponibili le statistiche relative agli spettatori: in Lombardia si vendono 104.736.000 biglietti (15 per abitante), nel Lazio 77.843.000 (20), in Emilia-Romagna 73.205.000 (uno ogni 20), in Sicilia 69.623 (14), in Campania 62.116.000 (13).

Al riguardo è utile ricordare la pionieristica inchiesta promossa dal Centro sperimentale di cinematografia nel 1956, e realizzata in collaborazione con l’Università del Michigan e con il CEPAS (Centro per l’Educazione Professionale per Assistenti Sociali) diretto da Angela Zucconi. Si tratta di due microanalisi, realizzate una a Thiesi in provincia di Sassari e l’altra a Scarperia in provincia di Firenze. La prima consiste in interviste al pubblico dopo la proiezione di alcuni film (À nous la liberté, A me la libertà, 1931, di René Clair; Man of Aran, L’uomo di Aran, 1934, di Robert J. Flaherty; Paisà, ecc.). L’altra, più interessante per il tema qui trattato, fotografa i consumi culturali del piccolo paese della Toscana, mostrando la nascita di un nuovo pubblico, inserito nel sistema dei media che comprende la televisione e la stampa popolare (i cineromanzi): una nuova generazione, mediamente più colta e già propensa a percepirsi in termini diversi rispetto a quelle precedenti. Come la definirà la sociologa Simonetta Piccone Stella, è ‘la prima generazione’ di italiani (La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico, 1993).

Il massimo di sale cinematografiche (circa 13.000) si toccherà nel 1967, ma a questo punto il destino economico del cinema è già segnato, gli incassi sono in calo da anni e nel decennio successivo precipiteranno. Infatti il punto più basso della parabola l’Italia lo toccherà nel 1985, anno in cui si registrano in tutto 4885 sale cinematografiche, poco più di un terzo quindi di quelle rilevate 18 anni prima.

Tornando ai dati relativi al 1967, la distribuzione dei cinema nelle regioni italiane vede 886 sale in Lombardia (con circa 20.000 biglietti venduti), meno di 600 in Emilia-Romagna (con poco meno di 15.000 biglietti), 444 in Toscana (poco più di 10.000 biglietti), 389 in Veneto (8524 biglietti), 375 in Sicilia (8686 biglietti), 316 in Piemonte (11.241 biglietti), 340 nel Lazio (13.543 biglietti), 292 in Campania (7441 biglietti), 288 in Puglia (6450 biglietti). Il miglior rapporto cinema/abitanti (ovverosia i biglietti acquistati in media in un anno) lo ha l’Emilia-Romagna (3,7 per abitante), seguito da Liguria (3,2), Toscana (3), Lazio (2,7), Piemonte (2,6), Marche (2,5). Il rapporto più basso tra popolazione e biglietti venduti è in Molise (0,6), Basilicata (0,7), Calabria (1), Campania e Sardegna (1,3), Umbria, Abruzzo e Puglia (1,6), Sicilia (1,7), Trentino-Alto Adige (1,8).

Il Sud è il primo a cedere, ma sarà anche l’ultimo a conoscere la mutazione finale, quella in direzione delle multisale e dei multiplex. La prima multisala italiana è l’Arcadia di Melzo (Milano), aperta nel 1987, ma in realtà il passaggio alla moderna forma del cinema multischermo gestito da una multinazionale parte nell’autunno 1997, con l’apertura dei primi tre Warner Village, a settembre a Vicenza, in ottobre a Verona e in dicembre a Bari. I multiplex hanno definitivamente mutato il paesaggio della fruizione cinematografica: questo processo si è andato ulteriormente accentuando tra il 2013-14, periodo in cui la conversione al digitale delle sale, con gli inevitabili costi aggiuntivi che ne sono conseguiti, ha spinto alla chiusura molte sale dei centri storici e della provincia. Il cinema, da elemento fondamentale delle cento città italiane, è diventato un’esperienza dislocata, in centri commerciali lontani dal centro città, raggiungibili per lo più in automobile, in luoghi strategicamente situati presso le autostrade o le grandi vie di collegamento.

I festival e l’associazionismo

La dimensione policentrica della fruizione cinematografica ‘colta’ è stata confermata, nei decenni, dai numerosi festival che hanno costruito l’identità della critica e degli spettatori. In Italia il principale festival, l’unico che possa rivaleggiare con Cannes o con Berlino, è la Mostra del cinema di Venezia, i cui rapporti con il territorio sono stati alterni e contraddittori. Ma qui preme ricordare alcuni altri festival, in parte ancora attivi, che costituiscono un atlante storico della crescita culturale italiana. Fondamentale fu, a partire dagli anni Sessanta, la Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro (creata nel 1964 da Lino Micciché e ancora attiva), che portò in Italia il meglio delle nouvelles vagues internazionali e del nuovo cinema americano, e negli anni Settanta fu teatro di una rilettura della storia del cinema italiano (dal cinema del Ventennio fascista agli anni Cinquanta) attraverso animati convegni. Ma Pesaro non è un caso isolato, e vanno ricordati almeno due importanti festival emiliani, quello di Salsomaggiore (poi Salso Film e TV festival, nato nel 1977) e la Mostra internazionale del cinema libero di Porretta Terme (fondata nel 1960 e chiusa nel 1982), che durante gli anni Settanta propose un confronto serrato con il nuovo cinema europeo e dell’America Latina.

Oggi la situazione vede due festival di respiro internazionale, quello di Roma e quello di Torino (nato come Festival cinema giovani, noto per le retrospettive e per un concorso dedicato alle opere prime, seconde e terze), mentre il festival di Taormina, che pure ha un glorioso passato, è da anni una vetrina turistica in cerca di identità. Tra i festival nati negli ultimi decenni e che hanno avuto un rilievo nazionale vanno ricordati il Milano film festival e il Festival di Bari. Da decenni, tra i festival tematici, si sono affermati quello di Giffoni Valle Piana (Salerno) dedicato al cinema per ragazzi, quello di Courmayeur dedicato al noir, e, più antico e glorioso, il Festival dei Popoli (Firenze), fondato nel 1959 e dedicato al documentario. Ma forse l’importanza maggiore per la diffusione di una cultura cinematografica dal basso, per l’educazione di una élite di cinefili e per un radicamento nel territorio, lo hanno avuto il Bellaria film festival, che negli anni Novanta ha contribuito a rivelare alcuni talenti emergenti, e il citato Filmmaker festival. Infine, tra i festival italiani più prestigiosi a livello internazionale, seppure per un pubblico di specialisti, occorre menzionare i due dedicati al cinema del passato. Si tratta di Il cinema ritrovato, organizzato dalla Cineteca del comune di Bologna a partire dal 1986, e delle Giornate del cinema muto di Pordenone, la manifestazione più importante del settore a livello mondiale.

Per cogliere più da vicino una fotografia del pubblico italiano e in particolare della minoranza di spettatori più appassionati, un utile strumento è anche seguire le vicende dell’associazionismo cinematografico. Nel secondo dopoguerra, ereditando in parte la tradizione (per forza di cose assai diversa in molti aspetti) dei Cineguf, nascono in Italia i circoli del cinema. A mettere a disposizione i film è per lo più la Cineteca italiana di Milano, un ente privato fondato da appassionati di cinema come Gianni Ferrari, e i registi Comencini e Lattuada. All’inizio degli anni Cinquanta i cineclub affiliati alla FICC (Federazione Italiana dei Circoli del Cinema) sono 90, con 10.000 soci; nel 1952 (nonostante la scissione del 1951) erano 27.000. Nel luglio 1947 il primo convegno dei Circoli del cinema vedrà riuniti i rappresentati di 14 città del Nord, specie Lombardia e Veneto, più Roma. Ma a partire dal 1948 le vicende dei cinecircoli si intrecciano inevitabilmente con quelle politiche. Dalla FICC, bollata come filocomunista, rifondata nel 1949, si separa, nel 1951, la UICC (Unione Italiana Circoli del Cinema), cattolica e anticomunista, con forti radici per lo più in Veneto, e nel 1953 verrà avviata l’esperienza, di marca dichiaratamente cattolica, dei cineforum.

Gli anni del boom, con una nuova generazione per la quale il cinema ha un ruolo diverso nei propri consumi, presentano una situazione maggiormente fluida. Nel 1957 chiude lo storico Circolo romano del cinema, mentre alla forma del circolo (che per uno o più giorni a settimana affitta una sala cinematografica normale) si aggiunge una formula differente, ossia la sala dedicata al cinema di qualità. Nell’aprile del 1960 per la prima volta un cinema italiano, il Quirinetta di Roma, si qualifica come sala d’essai. Segue il Ritz a Milano, e a Torino il Nuovo romano gestito da Renzo Ventavoli. Nel 1962 nasce l’AIACE (Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai).

Ma la vera svolta si avrà intorno al 1968, con una nuova tipologia di fruizione del cinema: nascono le sale interamente dedicate all’attività di cineclub, la prima delle quali è, nell’ottobre del 1967, il Filmstudio 70 a Roma. Da ricordare, tra le più importanti, la Cappella underground a Trieste, il Cinema 1 a Padova, l’Occhio l’orecchio la bocca, i Sabelli e il Monte Sacro a Roma, il Filmstory a Genova, l’Obraz e poi il Brera a Milano, la Cineteca altro di Napoli, Movie club a Torino. Nel 1977, al culmine dell’esperienza, un libro bianco sull’associazionismo cinematografico intitolato L’altro schermo mette in campo i temi estetici, culturali e giuridici, e offre un ricco censimento delle associazioni distribuite sul territorio nazionale in ordine alfabetico, da Abbiate Guazzone (Varese) a Zogno (Bergamo). Sono circa 1300 associazioni, in alcuni casi associate a una delle organizzazioni riconosciute (FICC, UICC, UCCA, Unione Circoli Cinematografici Arci, Cinit, Cineforum italiano, ecc.) e dotate di una sala propria. Disposte abbastanza uniformemente sul territorio nazionale, sorprende la loro presenza capillare, nella provincia più sperduta come nei quartieri periferici delle grandi città. Certo, dall’elenco è difficile risalire alla portata di ciascuno dei circoli, ma intanto l’elenco dei comuni (dove oggi non esiste più un cinema da trent’anni) risulta sorprendente. Insieme ai 79 circoli di Roma, ai 64 di Milano e ai 48 di Torino (di gran lunga le città più attive), seguono molto distanziate Bologna e Venezia con 20 (di cui 7 a Mestre), Firenze con 18 e Cagliari con 17, Catania con 12, Bari e Napoli con 11. Tra i capoluoghi di provincia e i centri medio-piccoli è la norma che ci siano da 5 a 10 cineclub, con qualche risultato inaspettato (9 a Reggio Calabria e Padova, solo 5 a Palermo, come Macerata e Pordenone); la vera sorpresa è però la quantità di associazioni presenti nei piccolissimi centri e che costituiscono l’80% del totale. Citarli tutti è ovviamente impossibile, ma basterà ricordare che San Donà di Piave e Treviglio hanno 4 cineclub, e 3 ne hanno, fra gli altri, Acireale, Bra, Chieri, Caltagirone, Chirignago, Empoli, Fano, Iglesias, Mogliano Veneto, Schio, Torre Annunziata.

Per vedere da vicino questa fioritura, abbiamo scelto un caso eccezionale, ma che presenta, amplificate, tutte le caratteristiche della vitalità della provincia italiana: Parma. Nel 1941, in questa città, si era formato, sotto l’egida del Cineguf locale, un cineclub diretto dall giovane Attilio Bertolucci e da Pietro Bianchi che sarebbe diventato uno dei migliori critici della sua generazione; entrambi erano stati allievi del giovane insegnante Cesare Zavattini presso il collegio Maria Luigia. Il circolo vanta legami con due docenti illustri dell’Università di Bologna, Roberto Longhi e Umberto Barbaro. Nel contempo un altro parmigiano poco più che adolescente, Antonio Marchi, comincia a collaborare alle prestigiose pagine di «Cinema», incubatrice del neorealismo (e di una cellula segreta del PCI) diretta da un inconsapevole Vittorio Mussolini. Nel 1946 il cineclub di Parma risorge, ma nel contempo Marchi fonda una piccola casa di produzione di documentari, la Cittadella film, e una rivista, «La critica cinematografica» che durerà un paio d’anni. Insieme a Marchi in entrambe le imprese è un appassionato di cinema ancora più giovane, Fausto Fornari, che nel 1953 realizzerà il documentario Lettere di condannati a morte della resistenza italiana, scritto insieme a Giovanni Pirelli. In quel contesto, sarà importante il ruolo di Attilio Bertolucci, divenuto frattanto professore al collegio Maria Luigia e critico cinematografico della «Gazzetta di Parma» il quale, nel ricordo dell’allievo Fornari, racconta: «nella stessa ora parlava indifferentemente del Mantegna e di Pabst, di Murnau e di Gauguin, di Renoir padre e di Renoir figlio» (“La critica cinematografica” 1946-48. Antologia, 2005, p. 39).

Se altrove l’associazionismo cinematografico è talvolta legato all’impegno politico, specie di sinistra, e poi all’area cattolica, la particolarità di Parma sembra essere quella di un interesse verso il cinema nutrito da una élite di letterati. Come ricorda Giovanni Ronchini: «Oltre a Mario Luzi e a Oreste Macrì, orbitarono intorno a Parma […] anche Carlo Bo, Giacinto Spagnoletti e Ottone Rosai, insieme a un agguerrito manipolo di allievi di Giuseppe De Robertis, tra i quali Giorgio Luti, Francesca Sanvitale e quella che diverrà la moglie di Colombi Guidotti, cioè Isa Guastalla.» (G. Ronchini, Incantando la natura volgare. Letterati al cinema in una rivista degli anni Quaranta, in «La critica cinematografica» 1946-48, Antologia a cura di A. Torre, 2005, p. 39). Ma anche Mario Verdone, corrispondente romano della rivista che, nel 1965, vincerà a Parma la prima cattedra universitaria di Storia e critica del film, mentre a Venezia un’altra redazione locale era affidata a Francesco Pasinetti. L’esperienza di «La critica cinematografica» verrà raccolta nel 1949 dalla rivista «Sequenze» diretta da Giuseppe Calzolari e da Luigi Malerba, che durerà fino al 1951, quando Malerba e Marchi passano alla regia realizzando il lungometraggio Donne e soldati (1954). Nel frattempo era stata fondata a Parma la casa editrice Guanda che, sotto la direzione di Bianchi, inaugura nel 1951 una serie di volumi dedicati a registi contemporanei (primi titoli: Henri-Georges Clouzot, Robert J. Flaherty, Vittorio De Sica).

Da quella data la generazione, anzi le generazioni, di cinefili letterati seguiranno altre strade (proprio 1951 Attilio Bertolucci parte per Roma, e con lui anche i due figli futuri registi, Bernardo e Giuseppe). Evento simbolico finale può essere considerato il convegno sul neorealismo del dicembre 1953, ideato da Zavattini e organizzato da molti dei protagonisti della vita culturale della città (Marchi, Attilio Bertolucci, Bianchi, Malerba) col sostegno dell’industriale Pietro Barilla. Un convegno che oggi è retrospettivamente un atto di morte definitivo (l’anno dopo alla Mostra del cinema di Venezia avrà luogo la disputa tra due film ormai fuori da quell’esperienza come Senso di Visconti e La strada di Fellini). Ma quello che qui, ripercorrendo il caso di Parma, preme anzitutto sottolineare è come alcuni suoi indubbi aspetti di eccezionalità, per qualità e quantità di contributi, siano in realtà gli stessi che hanno nutrito gran parte del pubblico colto della provincia italiana e delle grandi città, per più di una generazione.

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