Le politiche di immigrazione in Italia dall’unità a oggi

Dizionario di Storia (2010)

Le politiche di immigrazione in Italia dall’unità a oggi

Luca Einaudi

Negli ultimi quarant’anni l’Italia è diventata, dopo la Spagna, la seconda maggiore destinazione di immigrati in Europa, dopo un secolo di emigrazione massiccia. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione totale in Italia è passata dallo 0,9% nel 1989 al 7,1% a fine 2009. L’effetto congiunto della prosperità finalmente raggiunta, della globalizzazione, dell’ampliamento dell’Unione europea, del calo della natalità e dell’invecchiamento della popolazione hanno ridotto l’emigrazione e suscitato immigrazione in tutta l’Europa meridionale. Questa trasformazione inizialmente è stata poco percepita e dunque poco governata dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. A partire dal 1990 sono state sperimentate in Italia sia forme di apertura sia di chiusura all’immigrazione per lavoro, con una crescente polarizzazione e politicizzazione delle politiche dell’immigrazione a dispetto della natura strutturale del fenomeno. Il centrosinistra tende a enfatizzare integrazione e diritti degli immigrati e il centrodestra il mantenimento dell’identità tradizionale e i timori per la sicurezza. Il ciclo politico è stato smorzato dalle mediazioni legate alla logica di coalizione e all’intervento di Chiesa e sindacati, come pure dai vincoli imposti dal quadro comunitario, dal sistema giudiziario, dalla necessità di ottenere la cooperazione dei Paesi di origine per gestire espulsioni e ingressi legali. Un altro fattore di freno ai cambiamenti delle politiche pubbliche è stata la limitatezza delle risorse, sia finanziarie sia in termini di capacità amministrative, che ha limitato l’attuazione delle decisioni prese a livello politico.

Dall’Italia liberale alle leggi razziali (1861-1945)

L’Italia unita era caratterizzata da una presenza straniera limitata (0,4% della popolazione nel 1861) ma spesso incisiva in termini di investimenti e capacità imprenditoriali, progressivamente inaridita tra le due guerre mondiali. In assenza di una specifica politica di immigrazione, nell’Italia del periodo liberale gli stranieri erano soggetti a forme di sorveglianza analoghe agli italiani e a norme specifiche limitate e poco osservate che permettevano il respingimento al confine in assenza di documenti validi o mancanza di mezzi di sussistenza e l’espulsione in caso di condanna penale o per motivi di ordine pubblico.

Il consolidamento del regime fascista nel 1926-31 produsse una stretta e una generalizzazione dei controlli di polizia con l’adozione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1926 che creò gli uffici provinciali della polizia politica, incaricati anche di controllare gli stranieri. Successivamente fu creato l’Ufficio centrale per la registrazione degli stranieri e furono introdotti l’obbligo del visto per l’ingresso degli stranieri in Italia, l’obbligo di notifica di arrivo e domiciliazione e il permesso di soggiorno.

Mentre le leggi degli anni Venti rientravano in parte in una tendenza europea generalizzata verso maggiori controlli delle persone, a partire dalla Prima guerra mondiale, le leggi razziali (1936-45) hanno rappresentato una rottura molto più radicale. A seguito dell’invasione dell’Etiopia, nel 1936 furono adottate misure contro il «meticciato». Nel 1938 furono introdotte le leggi antiebraiche, che escludevano gli ebrei dal pubblico impiego, dalle scuole e dall’università, «arianizzavano» le attività economiche e disponevano l’espulsione degli ebrei stranieri. Dal 1940 gli ebrei stranieri presenti in Italia furono internati nel campo di Tarsia (Cosenza), che tuttavia non diventò mai un campo di sterminio. Dal 1943 invece, nel Nord Italia la RSI consegnò ebrei italiani e stranieri ai nazisti. Le clausole dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati abolirono le leggi razziali già alla fine del 1943.

La normativa repubblicana postbellica (1946-1986)

Nel periodo postbellico furono sanciti nella Costituzione i principi di non discriminazione e i diritti umani in base a norme e trattati internazionali, mentre fu mantenuta la normativa per il controllo degli stranieri introdotta fino al 1931. Non fu però introdotta una legislazione organica sul tema, considerando che l’Italia era un Paese di emigrazione (ancora all’inizio degli anni Sessanta partivano oltre 300.000 emigranti verso l’estero ogni anno). Servivano solo misure a tutela dell’occupazione degli italiani, con deroghe per i cittadini OCSE e CEE (libera circolazione introdotta nel 1969 per quest’ultimi).

Tuttavia già alla fine degli anni Sessanta cominciarono i primi limitatissimi insediamenti di lavoratori stranieri in Italia, attratti dall’elevato reddito raggiunto con il boom economico e dalle prime avvisaglie di «professioni rifiutate» (marinai tunisini a Mazara del Vallo, braccianti agricoli, minatori, colf). Solo alla fine degli anni Settanta il sistema politico cominciò a notare il fenomeno, incalzato da sindacati e Chiesa cattolica, senza che venisse approvata alcuna legge fino al 1986. Nel frattempo la situazione veniva tamponata con interventi ad hoc, circolari, piccole sanatorie, senza una visione d’insieme e arrivando al blocco totale degli ingressi per lavoro nel 1982, in piena crisi economica e con disoccupazione crescente, in un contesto europeo di chiusura generalizzata fin dall’inizio degli anni Settanta. Si è avviato così il binomio ingressi irregolari per lavoro per mancanza di efficaci meccanismi legali, seguito da una regolarizzazione ottenuta in media ogni quattro anni, in occasione di ogni principale intervento legislativo a partire dal 1977.

L’ascesa dell’immigrazione e la costruzione di una normativa (1986-98)

Nel 1986 cominciò la stagione dei continui cambiamenti normativi, con l’approvazione della legge Foschi, la prima adottata e l’ultima votata in modo consensuale in Parlamento. Sancì parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, anche nell’accesso ai servizi sociali e sanitari. Autorizzò i ricongiungimenti familiari, ma regolò l’ingresso per lavoro con meccanismi troppo complessi per essere attuati. La sanatoria che la accompagnò fu la prima a coinvolgere oltre 100.000 immigrati, ma la legge rimase largamente inattuata, proprio mentre l’immigrazione cresceva assieme allo sviluppo del Paese ed emergevano i primi episodi di rigetto e di xenofobia.

La legge Martelli (1990) cercò di rispondere a questi fenomeni mentre il dibattito cominciò a polarizzarsi, anche per il declino del vecchio sistema politico e l’affermazione delle leghe nel Nord. La legge Martelli estese il diritto d’asilo in Italia. Introdusse la programmazione quantitativa dei flussi di lavoratori extracomunitari tramite decreti annuali per creare un canale legale di ingresso alternativo a quello clandestino. Dopo un aspro dibattito la legge introdusse anche misure per il controllo degli ingressi e per le espulsioni di clandestini (obbligo di visto per alcuni Paesi, espulsioni con accompagnamento alla frontiera più frequenti). Per facilitare l’integrazione furono creati il Fondo per le politiche dell’immigrazione e i centri di accoglienza, e fu varata una sanatoria. Ulteriori misure per facilitare l’integrazione non furono approvate per il clima di maggiore ostilità nei confronti degli immigrati che si creò dopo i ripetuti sbarchi di albanesi nel 1991. Fu però approvata la legge Mancino nel 1993, per combattere gli episodi di discriminazione, razzismo e xenofobia. Nel 1992 una nuova legge sulla cittadinanza mirata a favorire il mantenimento della cittadinanza da parte dei discendenti degli emigranti italiani, alzò a 10 anni di continua residenza legale il termine per la naturalizzazione di extracomunitari, rendendo anche più difficile l’acquisizione della cittadinanza per i bambini stranieri nati in Italia.

Il dibattito si focalizzò su come rendere più incisiva la normativa sulle espulsioni, soprattutto su pressione della Lega Nord, ma la questione rimase controversa. Il decreto Dini nel 1995 introdusse misure in tal senso, assieme a misure per l’integrazione volute dai partiti del centrosinistra, ma non fu mai convertito in legge per contrasti tra la Lega e il centrosinistra. Rimase valida la regolarizzazione inclusa nel decreto e fu attuata per la prima volta la programmazione dei flussi legali per lavoro, anche se con limiti numerici insufficienti rispetto alla domanda del mercato del lavoro.

Questa prima fase di costruzione di una normativa organica sull’immigrazione si chiuse con l’approvazione nel 1998 della legge Turco-Napolitano da parte della coalizione dell’Ulivo. La programmazione dei flussi di lavoratori extracomunitari fu ampliata e integrata alla politica estera dell’immigrazione tramite quote privilegiate di lavoratori a favore dei Paesi che collaboravano nei rimpatri di immigrati espulsi dall’Italia. Per facilitare l’ingresso legale in maniera realistica, fu previsto anche l’ingresso per ricerca di lavoro. Fu introdotta la carta di soggiorno per stabilizzare e integrare i lungo-residenti e semplificato l’accesso ai servizi sanitari di base anche ai clandestini. La legge potenziò anche le politiche di controllo e di espulsione, considerandole necessariamente complementari a politiche d’ingresso adeguate alla domanda del mercato del lavoro e a una buona integrazione. Furono aumentati i casi nei quali gli espulsi venivano accompagnati alla frontiera dalle forze dell’ordine e furono creati i centri di permanenza temporanea e assistenza (CPT) per trattenere e identificare gli immigrati privi di documenti. Si trattava di una modalità che, pur controversa a sinistra, si stava diffondendo in Europa e che diventava necessaria per assicurare la credibilità delle politiche italiane e l’adesione agli accordi di Schengen.

Conflitti e trasformazioni (1998-2010)

Nel decennio successivo all’approvazione della legge Turco-Napolitano si verificò un’ulteriore divergenza tra la forte accelerazione dell’immigrazione e la crescente polarizzazione del dibattito politico. La bassa natalità degli anni Settanta contribuì a una riduzione del tasso di disoccupazione malgrado la bassa crescita economica. L’aumento del numero di anziani moltiplicò la domanda di badanti private, per oltre il 75% straniere. Così il numero di stranieri legalmente residenti passò da 1,1 milioni a fine 1998 a 4,3 milioni a fine 2009, grazie a regolarizzazioni, quote d’ingresso, ricongiungimenti familiari e alla progressiva liberalizzazione degli ingressi dai 12 Paesi entrati nell’Europa comunitaria nel 2004 e 2007. Tra la fine del 2002 e la fine del 2009 il numero di residenti rumeni è decuplicato, da 95.000 a 950.000, quello di polacchi è salito da 30.000 a 107.000.

L’alternanza al governo tra coalizioni opposte portò a tentativi di rovesciamento delle politiche dell’immigrazione dopo ogni elezione, in parte neutralizzati dalla difficoltà di approvare e attuare nuove norme e dai limiti imposti dalla Commissione europea.

Nel 2002 il centrodestra introdusse la legge Bossi-Fini per cambiare norme che riteneva troppo lassiste. Fu accorciata la durata dei permessi di soggiorno per rendere più frequenti i controlli e le pratiche amministrative furono centralizzate in uno sportello unico. Fu generalizzata l’espulsione con accompagnamento alla frontiera, introdotta la rilevazione delle impronte digitali per tutti gli stranieri e aumentata la durata massima della permanenza nei CPT da 30 a 60 giorni. Come in tutti i casi precedenti la legge fu accompagnata da una regolarizzazione che diventò la più grande della storia europea (650.000 permessi rilasciati).

Nel 2007 il centrosinistra tentò di modificare le norme in senso favorevole agli immigrati, tramite il disegno di legge delega Amato-Ferrero, senza riuscirvi a causa della fine anticipata della legislatura. Il centrosinistra voleva facilitare l’acquisizione della cittadinanza per i nati in Italia, accelerare la naturalizzazione, eliminare le parti che riteneva più vessatorie della Bossi-Fini, migliorare i canali di ingresso per lavoro e rilanciare l’integrazione. Invece di far ricorso a una regolarizzazione, furono ampliate le quote di ingresso per lavoro e aumentate le possibilità di lavoro regolare anche per i nuovi cittadini comunitari, la cui espulsione era diventata comunque estremamente difficile in quanto membri dell’UE.

L’allargamento dell’UE esentò progressivamente oltre un milione di stranieri dalla normativa sugli extracomunitari. La rapidità del fenomeno creò allarme sociale e conflitti, anche in reazione a una percepita fiammata di crimini violenti. I tentativi di entrambi gli schieramenti politici di ripristinare l’espellibilità di cittadini comunitari privi di mezzi di sussistenza non ebbero esito, perché non compatibili con la normativa europea.

Nel 2008-09 il centrodestra tornò a inasprire le norme in materia di irregolarità ed espulsione con il pacchetto sicurezza Maroni. È stato allungato a sei mesi il periodo massimo di trattenimento nei CPT (ribattezzati centri di identificazione ed espulsione, CIE). È stato introdotto il reato di immigrazione clandestina, senza pene detentive ma con una multa di 5000 euro e l’espulsione immediata. È stata introdotta l’aggravante della clandestinità nei processi penali, pari a un terzo della pena. In materia di integrazione sono stati allungati i tempi per l’ottenimento della cittadinanza per matrimonio, è stata resa più difficile l’acquisizione della residenza ed è stato introdotto un accordo di integrazione a punti con l’intento di ritirare il permesso di soggiorno agli immigrati che non rispettano le regole.

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