Le province europee dell'Impero romano. Le province danubiano-balcaniche. Dacia

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

Le province europee dell'Impero romano. Le province danubiano-balcaniche. Dacia

Sergio Rinaldi Tufi
Luca Bianchi

Dacia

di Sergio Rinaldi Tufi

La Dacia è l’ultima provincia romana che costituisca una conquista duratura, in seguito alle campagne condotte da Traiano nel 101/2 e 105/6, ricordate e raccontate nel lungo fregio della colonna che quell’imperatore fece erigere nel suo foro a Roma. I primi contatti dei Daci con Roma risalivano però quasi a un secolo e mezzo prima, quando Cesare aveva tentato di elaborare un progetto di spedizione per fronteggiare la crescente potenza di Burebista, un valoroso capo che aveva aggregato queste popolazioni in un grande regno sul Danubio e che costituiva un pericolo per le antiche città greche del Mar Nero, dopo avere annientato nemici vicini come i Boi e i Taurisci. Ma la morte di Cesare nel 44 a.C. e quella, di poco successiva, del medesimo Burebista determinarono una brusca svolta negli eventi: il regno dacico si dissolse proprio nel momento in cui l’Urbe – probabilmente – avrebbe avuto maggiori difficoltà a fronteggiarlo. Augusto, qualche decennio più tardi, scrisse nelle sue Res Gestae di aver portato i confini di Roma fino al corso del Danubio e di aver assoggettato tribù daciche al di là di questo; la dichiarazione, tuttavia, sembra che vada presa con beneficio di inventario.

I Daci, comunque, tornano a costituirsi in una forte monarchia negli ultimi decenni del I sec. d.C. con un nuovo leader di grande valore, Decebalo, che sconfigge e uccide il legato della vicina Moesia, Oppio Sabino, e il prefetto del pretorio Cornelio Fusco, mentre quest’ultimo tenta un’avanzata in Dacia. Domiziano, presente nella stessa Mesia, spedisce oltre il Danubio un altro generale, Tezio Giuliano, il quale ottiene qualche successo in Transilvania; ma i risultati finali dell’operazione non sono troppo favorevoli in quanto formalmente Decebalo si riconosce re cliente, ma in realtà riesce a ottenere numerosi vantaggi, come il versamento di sussidi o l’invio di artigiani specializzati come cooperatori; inoltre, non restituisce a Roma tutti i prigionieri, come invece Domiziano si sarebbe aspettato. Negli anni successivi Decebalo tenta di promuovere una vasta alleanza antiromana, rivolgendosi a popolazioni vicine (come i Roxolani e altri gruppi germanici) e lontane (come addirittura i Parti, che però non aderiscono). Le campagne di Traiano sono lanciate proprio per fronteggiare questa situazione, mentre un altro importante obiettivo è costituito indubbiamente dalle miniere e dalle altre ricche risorse della Dacia.

Delle due campagne condotte da Traiano e dai suoi generali abbiamo una documentazione sia nei 124 episodi illustrati nel fregio della Colonna Traiana sia nei “quadri” presenti nelle metope del Trofeo di Adamclisi; quasi completamente perdute sono invece le testimonianze letterarie. L’esercito romano passa il Danubio a Viminacium; seguono dure lotte, fra cui una sanguinosa battaglia alle Porte di Ferro; Decebalo tenta di spostare le operazioni verso il basso corso del grande fiume, ma nella primavera del 102 i Romani espugnano la sua capitale, Sarmizegetusa. La tregua viene sottoscritta a condizioni assai dure per i Daci: non viene mantenuta a lungo, perché il re non rispetta quelle condizioni e perché Traiano vuole portare a termine l’impresa. La seconda guerra dacica ha inizio nel 105 e termina con una serie di battaglie intorno a Sarmizegetusa, che infine cade dopo una difesa disperata. Decebalo si suicida.

La provincia è istituita nello stesso 106 e il suo territorio è compreso fra i Carpazi, il fiume Tibisco (affluente di sinistra del Danubio), il Danubio stesso e il Mar Nero. Alla morte di Traiano (117 d.C.) scoppia una rivolta dei Daci; Adriano rinuncia ad alcuni territori e divide la Dacia in Superior e Inferior; successivamente sarà divisa addirittura in tre, Porolissensis, Apulensis e Malvensis (Porolissum, Apulum e Malva – il cui sito però non è stato individuato, anche se si era ipotizzato di identificarlo con Romula – erano tre dei centri principali oltre a Sarmizegetusa); nel 271/2 Aureliano rinuncia a questi territori, costituendo una provincia “di ripiego” a sud del Danubio a spese della Moesia Inferior: la Dacia Ripensis. Già scarsamente urbanizzata al tempo di Burebista e Decebalo, la Dacia conserva una forte impronta rurale anche sotto l’Impero: la produzione agricola e l’allevamento costituiscono, insieme con le miniere, la principale risorsa di una vita economica che, malgrado le tensioni proprie di una provincia di confine, si mantiene florida.

Quell’impronta rurale tuttavia non significa che, anche qui, la romanizzazione non si sia manifestata attraverso un certo grado di urbanizzazione: l’eredità della vecchia capitale di Decebalo, Sarmizegetusa, che era sulle montagne, fu raccolta subito dopo la conquista da un nuovo insediamento in pianura, Colonia Ulpia Traiana Augusta Dacica, a cui poi Adriano tornò ad aggiungere la denominazione originaria; altri centri si trasformarono prima in municipi e poi in colonie, come Napoca, Romula, Apulum, Potaissa, Porolissum, ecc. Ma la popolazione rimase in gran parte distribuita in pagi, in campagne disseminate di fora, vici, castella: una popolazione che, per sopperire al fortissimo calo determinato dalla guerre, fu rinsanguata con elementi provenienti dalle Gallie, dalle province iberiche, dalla Britannia, dalla Germania, dall’Illirico, ma anche dalle province asiatiche. La singolarità di queste situazioni e anche la durata relativamente breve dell’occupazione (meno di due secoli) non impedirono che la romanizzazione fosse profonda: è fin troppo noto che in Romania (nello stato moderno che corrisponde in parte alla Dacia antica) si parla una lingua neolatina.

Romanizzazione, vie di comunicazione, urbanizzazione

Uno dei principali strumenti della romanizzazione della Dacia era costituito dalla fitta rete di strade realizzate subito dopo la conquista: prevalgono in tale rete le direttrici sudnord, con itinerari che si dipartono dal corso del Danubio e penetrano nell’interno della regione. In particolari situazioni lungo i confini (e non con lunghi allineamenti ininterrotti come, ad es., in Britannia, Germania e Rezia), le reti stradali si articolavano in limites, con accompagnamento di castra, valla, torri di sorveglianza, di avvistamento e di segnalazione. Altri castra erano distribuiti un po’ ovunque in questa provincia fortemente militarizzata, fino a raggiungere il numero di circa ottanta.

Di particolare importanza, sul Danubio, è il centro di Drobeta (Turnu Severin), base di partenza per le campagne traianee, presso cui fu costruito da Apollodoro di Damasco il grande ponte raffigurato nella Colonna Traiana. Il castrum rimase in funzione, proprio come testa di ponte, anche dopo l’abbandono della Dacia da parte di Aureliano; subì notevoli rifacimenti con Costantino e addirittura con Giustiniano, ultimo tentativo quest’ultimo, da parte dell’Impero d’Oriente, di tenere in vita una base al di là del grande fiume. Interessanti fra l’altro un edificio termale e soprattutto l’area dei principia (quartier generale), dove ai tempi di Gallieno (253-268) fu impiantata una basilica.

Lo sviluppo da castrum a città si coglie in maniera piuttosto problematica ad Apulum, dove, accanto al campo legionario, sorgono due centri urbani, individuabili probabilmente come Colonia Aurelia Apulensis e come Municipium Septimium poi trasformato in Colonia Nova Apulensis. A Romula, dove già scavi eseguiti nel Seicento avevano condotto all’identificazione di tre castra (le rovine furono visitate alla fine del Seicento dall’erudito italiano Luigi Ferdinando Marsili), non è possibile ricostruire un quadro urbano preciso; si sono rinvenuti però avanzi di grandi terme e della cosiddetta Curia, nonché dell’area forense. Anzi, Romula è l’unica città dacica in cui tale spazio sia stato identificato, insieme alla capitale, la Colonia Ulpia Traiana Augusta Dacica Sarmizegetusa. Non è solo per il suo foro, peraltro, che questa città occupa nella provincia un ruolo del tutto particolare (merita perciò una trattazione a parte).

È da ricordare che ancora sotto Alessandro Severo (222- 235), ossia qualche decennio prima della fine della breve vita della provincia, la Dacia conosce un ultimo periodo di notevole prosperità con il rilancio delle miniere d’oro: mentre Sarmizegetusa assume il titolo di metropoli, Apulum viene nominata Chrysopolis. Ancora all’epoca di Valeriano e Gallieno (253-268) a Potaissa si restaura un tempio dedicato alla divinità locale Azizus. Non solo, ma appare certo che, anche dopo la rinuncia da parte di Aureliano (271/2), la vita urbana non si interrompe di colpo, specialmente per quanto riguarda la zona più vicina al Danubio: a Drobeta sorge nel IV sec. d.C. una basilica a tre navate e ancora più tardo è un edificio scoperto di recente, ma di difficile interpretazione.

Tipologie monumentali: edilizia pubblica e privata

Un’alta percentuale delle tipologie architettoniche note nella Dacia romana è concentrata a Sarmizegetusa: foro, templi e altre categorie di edifici (ad es., una aedes Augustalium) legati alla sfera del sacro. Qui e nelle altre città della provincia, sembra che abbiano avuto una certa fortuna soprattutto gli anfiteatri: se nella capitale l’edificio era imponente e aveva alle sue dipendenze anche una scuola di gladiatori, altre arene erano a Buridava, a Porolissum e – presso la linea difensiva costituita dal fiume Olt – nelle vicinanze del castrum di Micia: quest’ultimo era dunque un anfiteatro castrense, a uso della guarnigione. Una quinta arena è stata ipotizzata ad Apulum, sulla base – per la verità un po’ labile – del ritrovamento di una tegola con figura di gladiatore.

Edifici termali sono stati rinvenuti praticamente in tutti i centri di una certa importanza finora noti; non esiste però nessun impianto di grandi dimensioni e organizzato secondo disposizioni rigorosamente assiali, del tipo detto, per intenderci, “imperiale”.

Per quanto riguarda l’edilizia privata, interessanti sono i resti di un quartiere di abitazioni a Micia, con case che sembrano allineate secondo un progetto urbanistico unitario e che costituiscono un’interessante testimonianza della trasformazione del castrum in città. Mentre a Sarmizegetusa si imponeva all’attenzione la decorazione musiva di una abitazione suburbana, distrutta però nell’Ottocento, un’altra residenza suburbana, una villa situata fuori delle mura settentrionali di Romula, costruita nel II sec. d.C. ma rimasta lungamente in uso, è in pratica l’unico esempio di casa con peristilio finora noto nella provincia.

Arti figurative e artigianato

La nostra conoscenza delle arti figurative della Dacia romana si basa sostanzialmente solo sulla scultura, essendo andati pressoché totalmente perduti i mosaici e le pitture. Erano certamente attive nella provincia botteghe di marmisti che, sfruttando il materiale di buone cave locali (come quella di Bucova presso Sarmizegetusa), eseguivano copie di tradizione accademica.

Si conosce una firma, quella di Claudius Saturninus, autore di una copia, per la verità un po’ impoverita (lo si può constatare nel panneggio), di un originale classico assai noto: la cosiddetta Venere Genitrice; tale copia è stata rinvenuta a Sarmizegetusa ed è conservata nel Museo di Deva. Nello stesso filone, che segue episodicamente e alla lontana influssi dell’arte “colta” urbana, si possono inserire numerose statue maschili (togati) e femminili (nello schema delle cosiddette Ercolanesi); alcune statue loricate di Apulum, che raffigurano in qualche caso imperatori del III secolo (in due di esse sono stati ipoteticamente individuati Macrino e Pertinace), testimoniano che quei marmisti erano attivi anche nella produzione “ufficiale”. Più complesso il caso di opere di bronzo come il Decio di Sarmizegetusa e il Gordiano III di Nicopoli: si pensa che si tratti di pezzi importati.

Le sculture votive raffigurano in prevalenza divinità del Pantheon greco-romano, anche se, nel caso di Silvano o di Libero e Libera, vi possono essere interpretationes di culti dacici, che però dagli aspetti iconografici non risultano evidenti, e anche se restano alquanto enigmatici i singolari rilievi dei cavalieri detti appunto Cavalieri Danubiani. Quanto al Cavaliere Tracio, pur importato da un’area vicina, non sembra si tratti di una figura divina molto popolare. In alcuni casi si recepiscono, sotto vari aspetti, temi orientali: i monumenti mitriaci sono numerosi e variati per dimensioni e per stile, mentre rappresenta Ecate (ed è un caso unico nell’iconografia, peraltro non abbondantissima, di questa divinità) una figura femminile rinvenuta a Sibiu, che nella rigida veste ornata da rilievi ricorda l’immagine dell’Afrodite di Afrodisia. Non vi sono apparentemente, nella sfera cultuale, temi ripresi dal sostrato dacico, né in genere dall’Europa preromana, tranne forse alcune figurine di Giove in trono che probabilmente sono collegabili con le Iuppitersäule diffuse in ambito celto-germanico.

La scultura funeraria, i cui esempi più numerosi si localizzano nell’area transilvanica, recepisce influssi dalla Pannonia riproponendo le edicole a tre pareti con fronte aperta; dal Norico, ripresentando in certo senso atteggiamenti stilistici “barocchi”, con rilievi assai alti e figure dai ricchi panneggi; inoltre dall’ambiente gallo-renano, in quanto alcune sottili figure dai ritmi elegantemente curvi ricordano certe sculture di Treviri. Ma (come ha scritto L. Bianchi) in stele, medaglioni, cippi, altari, edicole, in una “condotta talora estremamente disinvolta del gioco combinatorio e in libere variazioni sui motivi di repertorio corrente (eroti ghirlandofori, Tritoni, maschere di Medusa, Ammoni, Oceano, ecc.)”, quest’arte dimostra una sua particolare esuberanza. Spesso è presente e in varie formulazioni il tema del banchetto. Se i ritratti non hanno forse particolare forza espressiva, imponenti sono certi fastigi (spesso con figure di leoni accovacciati) che in origine sormontavano stele o, talvolta, mausolei oggi perduti. Apulum, Potaissa, Micia, Sarmizegetusa sembrano i centri di produzione più attivi. L’arte vetraria non deve aver avuto particolare rilevanza, mentre le fabbriche di ceramica o di lucerne lavoravano probabilmente soprattutto per il mercato locale.

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Il territorio dacico prima e dopo la conquista

di Luca Bianchi

I Daci erano una popolazione di ceppo tracico, affine ai Geti con i quali avevano in comune il dialetto.

Ciò ha ingenerato confusione nelle fonti, che non sempre fanno distinzione fra i due gruppi. Seguendo le indicazioni di Strabone (VII, 3, 12) i Geti si possono localizzare nelle regioni comprese fra il Mar Nero e i Carpazi (Dobrugia, Valacchia e Moldavia), mentre i Daci vanno identificati col ramo della Transilvania. La definizione di civiltà “geto-dacica” è applicabile alla tarda età del Ferro, quando le regioni suddette mostrano una facies omogenea, che ha come epicentro la Transilvania e come presupposto storico l’espansione dello stato unitario dei Daci. Rapporti col mondo classico, non sempre ostili, vengono allacciati verso la metà del II sec. a.C., quando i Daci adottano il sistema monetale, sia nelle emissioni macedoni, di Taso e di varie città dell’Adriatico e del Mar Nero, sia in contraffazioni per uso interno, con tipi più o meno disgregati. Spostandosi l’asse dei traffici verso l’Italia, le monete greche sono soppiantate dal denaro repubblicano, di cui è documentata una circolazione straordinaria, ma anche alimentata da falsi, come ha dimostrato il ritrovamento di numerosi coni nella fortezza di Tilióca e altrove. S’importavano soprattutto bronzi campani, ceramica e vetri; in minor misura anche vino.

La civiltà geto-dacica nasce dalla fusione di apporti scitici, celtici ed ellenistici, adattati alle particolari risorse della zona e amalgamati in un contesto eminentemente originale. La sua fioritura segue la fase dell’occupazione celtica (non estranea al successivo sviluppo della metallurgia), iniziando col II sec. a.C. e culminando nei due secoli che precedono la conquista romana. Il progresso economico che ne costituisce la base materiale si manifesta nell’uso generalizzato del ferro per la fabbricazione di armi, utensili e attrezzi agricoli, mentre accanto alla ceramica lavorata a mano, di tradizione hallstattiana, compare quella modellata al tornio, in forme sia d’imitazione ellenistica che specificamente locali, come la tazza troncoconica e la fruttiera su alto piede. L’aspetto più saliente della civiltà geto-dacica è la fortezza situata su un’altura, talvolta con santuario annesso. Questi impianti si addensano sulle Alpi Transilvaniche occidentali, in corrispondenza del massiccio di Orăştie, dove un insediamento principale identificato con Sarmizegetusa (Grădiştea Muncelului) è contornato da una serie di poderose cittadelle che ne assicurano la protezione su tutti i fronti: Blidaru e Costeşti a nord, Băniţa a sud, Piatra Roşie e Feţele Albe a ovest, Căpîlna a est.

Per quanto alcune di queste località risultino già fortificate nel II sec. a.C., la distribuzione topografica e l’omogeneità delle tecniche costruttive fanno pensare a un sistema difensivo pianificato (che comprendeva anche torri isolate e terrapieni), risalente all’epoca dell’unificazione dei Daci e in cui sono stati inglobati precedenti centri tribali. Il rito funerario prevalente è l’incinerazione, che continua in età romana nella grande necropoli di Soporul de Cîmpie e altrove. L’uso dei blocchi squadrati rimane una peculiarità delle fortezze di Orăştie e di altre località transilvaniche (Tilişca presso Sibiu e Piatra Craivii, identificata con Apoulon), ma cittadelle e complessi palaziali con santuario sono attestati anche nelle regioni circostanti: Cozla e Bîtca-Doamnei in Moldavia, Popeşti presso Bucarest, Ocniţa in Oltenia, di cui conosciamo il toponimo antico Buridava e il nome di un basileus locale (Thiamarkus) grazie ai graffiti greci e latini di alcuni frammenti ceramici. Questi reperti rientrano fra le testimonianze di un limitato impiego della scrittura, delle quali la più nota e discussa è il vaso di Sarmizegetusa con iscrizione stampigliata Decebalus Per Scorilo, che però si è ora propensi a interpretare come un marchio di fabbrica, senza alcun riferimento a personaggi storici.

Nonostante le notizie sul favoloso bottino di Traiano e le miniere d’oro tanto valorizzate in epoca romana, lo sviluppo della toreutica sembra modesto. Gli oggetti più lussuosi come le coppe del tesoro di Sîncrăieni, d’ispirazione ellenistica nelle forme e nell’ornato (e di attribuzione incerta), sono d’argento, così come gli ornamenti personali di maggior pregio: catenelle, fibule a nodi di tradizione La Tène, falere con cavalieri o con busti che riprendono tipi traci noti anche a sud del Danubio. Sull’estensione della Dacia romana, i suoi confini e le sue ripartizioni amministrative permangono discussioni e incertezze. Di sicuro la nuova provincia comprendeva inizialmente solo una piccola parte delle annessioni territoriali di Traiano: quasi tutta la Transilvania con le adiacenze del Banato (almeno fino alla linea dei castra di Berzovia, Centum Putea e Arcidava), nonché una frangia di Oltenia a ovest del Jiu, che doveva già essere saldamente in mano romana nell’intervallo fra le due guerre, quando fu gettato sul Danubio il celebre ponte di Drobeta. Il resto dell’Oltenia e anche il bacino transilvanico dell’Olt, la Muntenia e la Moldavia meridionale sarebbero stati attribuiti alla Mesia Inferiore.

Dopo la guerra sarmatica (117-118) Adriano rinunciò alla diretta sovranità su Muntenia e bassa Moldavia, mentre i territori conservati vennero ripartiti fra una Dacia Inferiore, risultante dal distacco delle parti di Oltenia e Transilvania già annesse alla Mesia, e una Superiore, più o meno nei limiti dell’ex Dacia indivisa; solo nel Banato il confine fu retrocesso, attestandolo con ogni probabilità sulla linea Tibiscum Dierna. A partire dal 123 è menzionata una terza provincia, Dacia Porolissense (dal toponimo del caposaldo di Porolissum), creata scorporando dalla Superiore la zona tra il Mureş e il suo affluente Aries, ai fini di una più equilibrata ripartizione delle forze militari. Sia la Porolissense che la Dacia Inferiore furono costituite a province procuratorie, mentre nella Superiore la presenza di una legione (XIII Gemina ad Apulum) richiedeva il governo di un legato. La situazione amministrativo-giuridica appare nuovamente modificata nell’imminenza delle guerre marcomanne, quando la Porolissense viene dotata a sua volta di una legione (V Macedonica, di stanza a Potaissa); contemporaneamente viene istituito un comando supremo (legatus trium Daciarum), mentre agli obsoleti comparativi Superior e Inferior, non rispondenti alla tripartizione del territorio, si sostituiscono rispettivamente le denominazioni di Dacia Apulense e Malvense. Malva, sulla cui ubicazione si è molto discusso, era forse il nome indigeno di Romula.

Priva di ostacoli naturali fra le pianure della piccola e grande Valacchia, la Dacia Inferiore fu protetta da un limes appoggiato alla strada dell’Olt e in seguito rinforzato da una linea difensiva esterna (detta modernamente limes Transalutanus), della quale non si è ancora ben chiarito se risalga alla prima metà del II secolo o a epoca severiana. Nel Nord solo il vulnerabile settore della Porolissense che penetrava nel territorio dei Sarmati Iazigi venne difeso da un limes vero e proprio (detto del Meseş). Per il resto, fu sufficiente sbarrare le vie di penetrazione naturali tracciate dalle vallate che intersecano i Carpazi mediante una serie di linee difensive radiali e convergenti verso il caposaldo di Apulum. I castra finora segnalati sono un’ottantina, pochi studiati esaurientemente; tra i più noti si segnalano quelli di Drobeta, Slăveni (il maggiore dell’Olt), Porolissum (Moigrad) e Resculum (Bologa), entrambi sul limes del Meseş. Il tracciato del castrum di Apulum, rispettato dalla fortezza medievale di Alba Iulia, è scomparso col rifacimento settecentesco. I reperti documentano una certa regolarità di scambi solo con le province più vicine (Pannonia Inferiore e Mesia Superiore), ma qualche relazione a più ampio raggio si presume in base alle testimonianze epigrafiche. La tradizione storiografica attribuisce a Traiano un vasto piano di ripopolamento che avrebbe addirittura previsto l’arrivo di coloni da tutto l’Impero.

Che la popolazione fosse molto composita è comunque confermato dai dati onomastici, da svariate associazioni e comunità di orientali (suri negotiatores di Apulum, asiani e galatae consistentes di Napoca, ecc.), nonché dalle dediche a un gran numero di divinità locali (siriaco-palmirene, asiatiche, africane, germaniche, celtiche e traciche), in aggiunta alle solite testimonianze sul mitraismo e sui culti militari di Dolicheno e dei Cavalieri Danubiani. Due civitates illiriche (Baridustae e Pirustae) vennero trasferite in massa dai distretti minerari della Dalmazia per lo sfruttamento ottimale dei giacimenti auriferi dei monti Apuseni, principale risorsa del Paese e proprietà demaniale concessa parzialmente in appalto. Sulla vita economica di questa zona siamo particolarmente ben informati, grazie alle famose tavolette cerate di Alburnus Maior con contratti di lavoro e compravendita di schiavi e d’immobili. Il processo di urbanizzazione fu rapido e intenso ma circoscritto, interessando soprattutto la Transilvania centro-occidentale, dove il popolamento era favorito dalla concentrazione di truppe, dal traffico fluviale del Mureş, dalla fertilità delle campagne e dalle svariate risorse di miniere, saline, acque termali, foreste, cave di pietra. In questa zona, e particolarmente negli odierni distretti di Hunedoara e di Alba, si addensavano anche i prosperi vici e pagi di Micia (Veţel), Aquae (Călan), Germisara (Geoagiu), Brucla (Aiud), Salinae (Ocna Mureş), Alburnus Maior (Roşia Montana).

La maggior parte delle città e degli insediamenti civili si trova in corrispondenza di abitati moderni, per cui non è stato possibile ricostruirne il tessuto né effettuare scavi estensivi, tranne che a Sarmizegetusa romana e in parte a Micia, dove sono stati rimessi in luce gli anfiteatri e altri ruderi. Meglio documentata la vita artistica, soprattutto nel campo della scultura, con la solita preponderanza di rilievi votivi e monumenti funerari che riprendono i tipi comuni delle province danubiane (stele, medaglioni a ritratti, edicole, altari) con una nota di originalità nei sistemi decorativi e nella sintassi figurata. A Sarmizegetusa, Apulum e Potaissa si eseguivano statue iconiche di un certo pregio (anche imperiali), utilizzando soprattutto il marmo della cava di Bucova. Centri d’industrie artistiche sono identificati a Sarmizegetusa stessa (piccola bronzistica), Porolissum e Romula (glittica), Sucidava-Celei (lavorazione del piombo per specchi e tavolette dei “Cavalieri Danubiani”). Gravemente colpita dalle guerre marcomanne, la Dacia si risolleva in epoca severiana e conosce un’ultima fase di prosperità nel primo trentennio del III sec. d.C., quando viene anche istituito il concilium trium Daciarum con sede a Sarmizegetusa, che in tale occasione riceve il titolo di metropoli. Ma con la pressione dei movimenti migratori la lingua di terra che avrebbe dovuto rafforzare il limes danubiano con un enorme antemurale si rivela un fattore di tensione insostenibile.

Nel 271 la Dacia viene evacuata, mantenendo solo alcune teste di ponte sul Danubio (Drobeta, Sucidava, Daphne e altre). Il vallo detto Brazda lui Novac de Nord, che inizia dalle Porte di Ferro a Hinova, attraversa tutta l’Oltenia e prosegue nella grande Valacchia fino a Pietroasele, delimita probabilmente la fascia di territorio transdanubiano riannessa da Costantino. Solo in questo periodo il cristianesimo penetra a nord del Danubio e un piccolo martyrium sul luogo del castrum di Slăveni ne rappresenta forse la più antica testimonianza.

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Miniere d’oro:

H.Ch. Noeske, Studien zur Verwaltung und Bevölkerung der dakischen Goldbergwerke in römischer Zeit, in BJb, 177 (1977), pp. 271-416.

Iscrizioni:

Inscriptiones Daciae Romanae, Bucureşti 1975 ss.

Culti:

D. Berciu - C.C. Petolescu, Les cultes orientaux dans la Dacie méridionale, Leiden 1976.

A. Popa - I. Berciu, Le culte de Jupiter Dolichenus dans la Dacie romaine, Leiden 1978.

S. Sanie, Cultele orientale in Dacia romaná [I culti orientali nella Dacia romana], Bucureşti 1981.

Arte:

S. Ferri, Arte romana sul Danubio, Milano 1933.

L. Teposu Marinescu, Funerary Monuments in Dacia Superior and Dacia Porolissensis, Oxford 1982.

H. Daicoviciu, La colonizzazione e la funzione delle città nella romanizzazione della Dacia, in L’Adriatico tra Mediterraneo e Penisola Balcanica nell’antichità. Atti del Congresso dell’Associazione Internazionale di Studi del Sud-Est europeo (Lecce - Matera, 21-27 ottobre 1973), Taranto 1983, pp. 205-20.

L. Bianchi, Le stele funerarie della Dacia. Un’espressione di arte romana periferica, Roma 1985.

M. Gramatopol, Portretul roman în Romaniá [Ritratti romani in Romania], Bucureşti 1985.

L. Bianchi, Statue-ritratto in marmo della Dacia transilvanica, in Akten des I. Internationalen Kolloquiums über Probleme des provinzialrömischen Kunstschaffens (Graz, 27.-30. April 1989), II, Graz 1991, pp. 83-98.

Le province europee dell'Impero romano. Le province danubiano-balcaniche. Noricum

Le province europee dell'Impero romano. Le province danubiano-balcaniche. Pannonia

Le province europee dell'Impero romano. Le province danubiano-balcaniche. Moesia Superior e Moesia Inferior

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