Le province europee dell'Impero romano. Le province galliche. Narbonensis

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

Le province europee dell'Impero romano. Le province galliche. Narbonensis

Sergio Rinaldi Tufi

Le province galliche erano quattro: la Gallia Narbonensis, annessa già nel II sec. a.C. e romanizzata in maniera intensa (si discute se più o meno delle Hispaniae) e le tre che costituivano la cosiddetta Gallia Comata (così chiamata per le lunghe chiome delle popolazioni celtiche locali), corrispondenti all’area conquistata da Cesare nella lunga e celebre guerra (58- 51 a.C.) da lui stesso narrata nel De bello Gallico.  

Gallia narbonensis

Questa fascia meridionale della regione interessava i Romani per vari motivi: ad esempio, in quanto passaggio per via di terra (in alternativa alle rotte marine, non praticabili in inverno) verso la Spagna, già conquistata. Un pretesto per l’intervento delle truppe spedite dall’Urbe fu fornito dal pressante appello di Marsiglia, l’antica colonia greca di Massilia (fondata su queste coste dai Focesi), florida commercialmente e culturalmente ma debole dal punto di vista militare, minacciata dalla crescente potenza della popolazione celto-ligure dei Salluvi, che avevano la loro capitale nella ben munita Entremont. Questo centro in altura, di cui si ignora il nome antico, era una delle pochissime vere e proprie città del mondo celtico, in cui in genere la vita urbana non conobbe sviluppi. L’intervento romano è relativamente circoscritto nel 154, più deciso nel 125 a.C. quando, sotto il comando di L. Sextius Calvinus, viene espugnata Entremont e viene fondata nei pressi, ma in pianura, la colonia di Aquae Sextiae Salluviorum (Aix-en-Provence).

Negli anni successivi, altri generali sconfiggono altre popolazioni vicine: Domizio Enobarbo nel 122 a.C. gli Allobrogi, Fabio Massimo nel 121 a.C. gli Arverni; per iniziativa dall’Enobarbo (da cui riprende il nome) viene realizzata la via Domitia, che costituisce proprio quel percorso di terra fra Alpi e Pirenei, fra Italia e Spagna, di cui i Romani avevano bisogno. Narbo Martius (Narbonne), futura capitale della provincia (che si chiamerà appunto Narbonensis), viene fondata nel 118 a.C., molto lontana dal primitivo teatro delle operazioni e spostata verso i Pirenei. Si è lungamente ritenuto che la provincia stessa sia stata costituita proprio in questo momento; ora si tende invece a pensare che Roma in un primo tempo si sia limitata a esercitare solo un controllo (certamente assai energico) sui territori occupati, senza creare nuove realtà politico-amministrative. In ogni caso la conquista si può dire ultimata e la lunga porzione di terra fra Italia e Spagna assoggettata con la celebre vittoria di Mario contro i Cimbri e i Teutoni alla fine del II sec. a.C.

Forse il primo vero e proprio governatore fu Fonteio, nominato da Pompeo in occasione della guerra in Spagna contro  Sertorio, guerra in funzione della quale il controllo della preziosa via di terra richiedeva un’istituzionalizzazione: nel 70 a.C. Fonteio è accusato di malversazioni e il suo avvocato difensore è Cicerone. Dopo una rivolta degli Allobrogi e degli Elvezi, domata nel 61 a.C., il ruolo di governatore è assunto da Cesare, che da qui muoverà per la conquista delle Tres Galliae. Entrato in contrasto con l’antica alleata, Marsiglia, Cesare la espugna nel 49 a.C. Tutti questi eventi militari non impediscono che la Narbonensis fiorisca rigogliosamente, al punto che Plinio la definirà “Italia piuttosto che provincia” (Nat. hist. III, 4, 31): alcune città sono fondate da Cesare, molte, anzi moltissime, saranno fondate da Augusto, che sarà spesso in zona fra 27 a.C. e 10 d.C. In una situazione ormai definitivamente pacificata, il commercio, l’agricoltura (noto è il vino, che però sarà contingentato per non fare troppa concorrenza ai prodotti italici), l’artigianato (ceramica e altro), la produzione artistica conosceranno un grandissimo sviluppo.

Urbanistica

La situazione della regione in epoca preromana era decisamente peculiare: laddove in genere, in ambiente celtico, l’urbanizzazione non conosce particolari sviluppi, qui esistevano una città greca, Marsiglia, una città celtica, Entremont (e per la verità vi erano altri abitati non trascurabili, come Ensérune e Roquepertuse) e una città grecoceltica, Glanum, presso un’altura (non lontana dall’attuale Saint-Rémy) all’uscita di una stretta valle al margine della catena delle Alpilles.

Sull’altura era un antico santuario nato attorno a una sorgente (sorgenti, fiumi, luoghi colpiti da fulmini o comunque legati a fenomeni naturali divengono spesso, nel mondo celtico, luoghi di culto): vi si venerava il dio eponimo Glan, insieme con le Matres, figure materne molto diffuse, spesso in triadi e con epiteti di volta in volta diversi (qui sono chiamate Matres Glanicae) in tutto l’ambiente gallo-germanico, anche dopo la romanizzazione. Una parte della popolazione era di origine greca, presumibilmente proveniente da Marsiglia: abitava in ricche dimore di tipo ellenistico, con atrio e peristilio, rinvenute nella parte settentrionale dell’area di città finora scavata, che in qualche caso dovevano esser fatte proprie anche dall’aristocrazia celtica. Un ambiente composito: lo testimoniano i singolari monumenti dell’area centrale, fra il santuario in altura e le case. Qui erano un’area sacra a pianta trapezoidale, un edificio di pianta rettangolare con gradinate su tre lati interpretato come bouleuterion o sede del senato cittadino, un portico oblungo. Da questo portico provengono (conservati oggi nel Musée Archéologique de Glanum, Hôtel de Sade, di Saint-Rémy) splendidi capitelli corinzi databili alla seconda metà del II sec. a.C., in cui fra le foglie di acanto sono inserite teste umane: volti barbuti che sono forse da considerare ritratti; divinità classiche, come Apollo incoronato di lauro; dei ed eroi locali, identificabili come tali dalla torques (collana) gallica che recano al collo.

Presso il bouleuterion sono state rinvenute statue frammentarie di personaggi accovacciati identificabili con la divinità celtica Taranis, raffigurato in questo atteggiamento a Entremont; in prossimità del portico oblungo è ancora visibile un elemento architettonico (architrave?) che reca nella parte superiore una modanatura di tipo classico (cd. kymation lesbio), nella parte inferiore una fila di têtes coupées, teste recise, elemento ornamentale celtico derivato probabilmente dall’uso di esporre, a seconda delle circostanze, teste mozzate ai nemici o teste di antenati da venerare. La città di Glanum rimane protagonista anche nella fase della romanizzazione: fase che in genere, nell’occidente celtico, coincide con l’urbanizzazione, in quanto si creano ex novo città laddove esisteva in precedenza un diverso modo di abitare, ma che, in questo specifico caso, ex novo non è, in quanto il centro celto-greco aveva già sviluppato una sua precisa fisionomia.

In questo organismo i Romani intervengono in modo mirato e differenziato: rielaborano e riutilizzano tanto le dimore ellenistiche quanto, all’estremità opposta della città, il santuario di Glan e delle Matres; Agrippa, il collaboratore di Augusto nell’instancabile attività urbanistica e architettonica condotta in tutto l’Impero, vi aggiunge nel 20 a.C. (stando ai dati forniti dall’iscrizione) un tempio dedicato alla Valetudo (dea della salute), accanto al quale si aggiunge successivamente un culto di Ercole. Gli elementi della religiosità indigena preromana vengono così conservati e in certo senso valorizzati, ma posti in qualche modo, attraverso la nuova presenza di divinità romane, sotto il controllo della potenza egemone. I monumenti dell’area centrale della città celto-greca vengono invece demoliti; dove era il porticato trapezoidale sorge ora, molto più grande, un complesso architettonico alquanto articolato: il foro con annessa basilica, con fasi costruttive che si prolungano fino a età flavia e due templi “gemelli” databili attorno al 30 a.C.

In realtà i due templi proprio gemelli non sono, pur essendo entrambi tetrastili, di ordine corinzio e su alto podio: uno è leggermente maggiore dell’altro e quello più piccolo è, sia pur di poco, anteriore. Inoltre, è singolare la loro posizione rispetto al foro: il loro asse è perpendicolare a quello della piazza, ma soprattutto la loro collocazione è all’esterno. Sono circondati da un portico su tre lati: il braccio sud si sovrappone al bouleuterion preesistente, soppiantandolo. Non si sono trovate iscrizioni che indicassero a chi i templi erano dedicati: probabilmente in un secondo momento furono consacrati al culto di Roma e Augusto. Glanum si arricchisce anche di altre splendide realizzazioni: fra queste, le due che hanno anche una qualche rilevanza urbanistica sono il mausoleo e l’arco, opere celeberrime (chiamate Les Antiques per eccellenza) poste presso la linea del pomerio, sacro limite della città.

Si può sottolineare il differente atteggiamento dei Romani nei confronti delle realtà preesistenti: riutilizzate le case; accolte e valorizzate, ma poste sotto la “custodia” di culti romani, le tradizioni religiose; completamente obliterati i luoghi della vita associata e dell’attività politica. Per giunta nella piazza antistante il nuovo foro e i templi gemelli a esso perpendicolari viene collocata, fra gli altri monumenti, una fontana ornata di statue di barbari prigionieri: è un monumento “tropaico”, volto cioè a celebrare (tema diffuso in tutte le province) la supremazia romana.

In Narbonense esistono altri centri di notevolissima importanza. Arausio (Orange), sul corso del Rodano, presenta anch’essa un grande arco a delimitare il pomerio (o meglio forse a “preannunciarlo”, visto che è leggermente esterno rispetto alla teorica linea di limite). Presenta inoltre un impianto urbanistico regolare (anche se la pianta elaborata da R. Amy e largamente riprodotta un po’ dovunque è ampiamente congetturale), ai piedi della collina detta oggi Saint-Eutrope, nonché un grande santuario e un importante teatro appoggiati alle pendici della collina stessa.

A Orange si conosce inoltre un raro documento relativo a un aspetto fondamentale (insieme con l’urbanizzazione) della romanizzazione, l’organizzazione del territorio: è una grande pianta marmorea dell’età di Vespasiano rinvenuta in centinaia di frammenti (che sono stati pazientemente ricomposti da A. Piganiol) al centro della città, non lontano da quella che doveva essere l’area del foro. Essa riproduce con esattezza e con riferimento a situazioni geografiche ben individuabili (come il corso del fiume e i suoi isolotti) la mappa catastale delle campagne circostanti (nota come Catasto di Orange), per un’amplissima estensione e con riferimento a situazioni cronologiche diverse, non ancora completamente chiarite. Non troppo lontana la Colonia Iulia Augusta Nemausus (Nîmes), il cui patrono fu Cesare, ebbe grande sviluppo con Augusto. Le sue mura, donate alla città dall’imperatore (come specifica un’iscrizione), erano lunghe e poderose, con porte monumentali e con un percorso che racchiudeva un’area perfino superiore a quella effettivamente edificata: circostanza ancor più notevole in un periodo in cui città pur strategicamente importanti restavano, per motivi su cui ancora si discute, prive di difesa (città senza mura).

Presso una sorgente di acque salutari (Santuario della Sorgente) si praticava qui da tempi remoti il culto di Nemausus, divinità (da cui deriva il nome del sito) della tribù celtica dei Volsci Arecomici. Con un processo analogo a quello visto a Glanum il culto viene recepito dai Romani, i quali però gli affiancano quello di Augusto e Roma. Sorge così un monumentale, articolato Augusteum che si estende anche sul colle sovrastante e attorno a cui si sviluppa un impianto urbano comprendente insigni edifici: foro con grande tempio (cd. Maison Carrée) dedicato a Gaio e Lucio Cesare; un notevolissimo anfiteatro. Questa città, inoltre, è fra quelle di età romana che ci hanno lasciato la documentazione più completa per quanto riguarda l’adduzione e la distribuzione dell’acqua: l’acqua stessa arriva in città con un acquedotto dal lungo percorso, che nell’attraversamento del fiume Gard assume un aspetto decisamente spettacolare (Pont du Gard); all’interno dell’abitato, su una quota alquanto elevata, è un castellum per la distribuzione dei flussi ottimamente conservato.

Non lontano da un antico centro celto-ligure sulla riva sinistra del Grande Rodano, al limite settentrionale della palude della Camargue, fu fondata da Cesare, ma ebbe grande sviluppo con Augusto, la Colonia Paterna Arelate (Arles). La città (che si estende con un arsenale e con altri edifici anche su un’isola del fiume) venne fondata con intenti quasi “esemplari”, cioè per fungere da modello alle altre della provincia: ha i suoi punti di massimo interesse nel grande foro (con criptoportico) in un notevolissimo complesso teatro-anfiteatro (il primo è sempre di età augustea, l’arena è del 60-80 d.C.) e in un edificio termale che si aggiunge in età costantiniana. La fioritura della città si prolunga in età paleocristiana: l’antica necropoli pagana degli Alyscamps si converte in coemeterium per la nuova fede; numerose sono le chiese.

Edilizia pubblica

Nella Narbonensis gli esempi di architettura religiosa sono molto numerosi e importanti: in qualche caso, si tratta di realizzazioni talmente complesse da condizionare interi settori delle città e da assumere anche rilevanza urbanistica. A Glanum e a Nîmes particolarmente interessanti sono le sovrapposizioni dei culti ufficiali romani ai culti indigeni. Il santuario della Sorgente di Nemausus consisteva in origine in una grande polla di acqua salutare: i limiti di quest’ultima in età augustea vengono regolarizzati con argini e banchine in muratura che comprendono anche esedre semicircolari; accanto è un grande spazio quadrangolare circondato su tre lati da portici (il quarto è quello che si volge appunto verso la sorgente); al centro di tale spazio è una sorta di ninfeo semisotterraneo (anche questo a pianta quadrangolare) dotato di portici sotto i quali dormivano i pellegrini.

Sul lato sud del porticato (quello opposto alla sorgente) è una struttura con colonne che è stata interpretata in vari modi e che forse era un ingresso monumentale a tutto il complesso; sul lato est era presente una piccola cavea teatrale oggi scomparsa (tutta la zona è stata alterata dalla creazione di giardini settecenteschi); sul lato ovest, fra le rovine di un edificio di incerta interpretazione, spicca un notevolissimo edificio con le pareti interne articolate in nicchie, coperto da volta a botte con potenti nervature: edificio di notevole qualità architettonica ma di incerta funzione. Si parla di un Augusteo (P. Gros), in quanto presso la sorgente alcune iscrizioni, pur frammentarie, menzionano Augusto; soprattutto, l’area sacra è da porsi in collegamento con una poderosa struttura, la cosiddetta Tour Magne, situata sulla sommità dell’altura sovrastante, il Mont Cavalier (il nome antico non è noto) con funzione, si direbbe, di “segnacolo” per il monumento. Ed è questa una soluzione adottata talvolta nelle province orientali in presenza di Augustea o, per dirla in greco (visto che in quelle province si parlava greco), Sebasteia.

Un importante dettaglio è costituito dal fatto che la Tour Magne, che si trova fra l’altro in corrispondenza del punto più alto della città, è costruita su un precedente monumento celtico: quest’ultimo è stato fortemente danneggiato, ma sembra avesse forma troncoconica. Fra le ipotesi interpretative formulate, piuttosto suggestiva è quella che si trattasse di un monumento dedicato a un capo o a un eroe locale: in questo caso la sovrapposizione del monumento romano avrebbe una pesante funzione simbolica, ai limiti dell’intimidazione. È di tipo più “convenzionale” l’altro grande edificio di culto di Nîmes, il tempio detto Maison Carrée, in una piazza porticata di cui resta solo una piccola parte, ma che certamente era il foro della città (tanto più che dalla parte opposta rispetto al tempio sono stati di recente individuati i resti della curia). È un grande esastilo corinzio su alto podio splendidamente conservato.

La qualità è discontinua. I capitelli sono di livello urbano e ricordano quelli del Foro di Augusto a Roma; la trabeazione reca un fregio di girali vegetali popolati qua e là da uccellini, eseguito da mani diverse, talvolta impacciate nel riprodurre un motivo che ha un illustre precedente a Roma nell’Ara Pacis. L’iscrizione in lettere di bronzo posta sull’architrave del pronao (scomparsa ma ricostruita, sia pure con fatica e con qualche discussione, esaminando i fori di inserzione delle lettere perdute) dice che il tempio era dedicato a Gaio e Lucio Cesare, principes iuventutis: figli di Agrippa e di Giulia figlia di Augusto, eredi designati dall’imperatore (uno dopo l’altro) alla sua successione ma entrambi prematuramente scomparsi, rispettivamente nel 2 e nel 4 d.C. La Maison Carrée, ispirata a modelli urbani, divenne a sua volta modello per numerosi templi eretti in area provinciale, come (sia pur con qualche differenza) quello di Augusto e Livia a Vienne, all’estremità settentrionale della provincia. Anch’esso egregiamente conservato, è forse di esecuzione meno accurata.

Se da Nemausus passiamo ad Arausio troviamo qualche punto di contatto per quanto riguarda il problema dell’Augusteum. Si è già accennato, a proposito dell’urbanistica della città, agli importanti edifici addossati alle pendici della collina di Saint-Eutrope. Per chiarire meglio le tipologie monumentali, possiamo osservare che il grande santuario, che al colle si raccorda con un muro ad andamento semicircolare, potrebbe anch’esso interpretarsi come Augusteo. Sulla sommità della collina, infatti, alcuni ruderi un po’ confusi che fino a qualche anno fa erano stati diversamente interpretati sono ora visti come resti di un segnacolo in qualche modo paragonabile, come funzione, alla Tour Magne di Nîmes. Avremmo così un “elemento di richiamo” in alto, un luogo di culto in basso (anche nel caso del tempio purtroppo i resti non sono molto chiari) e un teatro: però, mentre a Nemausus i resti della cavea che faceva parte del complesso sono andati del tutto perduti, qui ad Arausio il teatro è fra i più importanti e i meglio conservati del mondo antico. Quindi abbiamo da un lato differenti stati di conservazione, dall’altro edifici dalle funzioni probabilmente analoghe ma dalle forme diverse e diversamente distribuiti.

I complessi forensi hanno decisamente il loro esempio più notevole ad Arles: la piazza, collocata all’incrocio delle vie principali, misura ben 5200 m2. Inglobato in gran parte negli edifici della città medievale e moderna, è tuttavia ricostruibile nella sua pianta grazie al criptoportico che ne seguiva tutto il perimetro e che è, invece, ben conservato. Sulla funzione di questi criptoportici in contesti forensi si è a lungo discusso; qui sembra certo che avesse più la funzione di luogo di passeggio coperto che di magazzino semisotterraneo. Non si conosce per l’età augustea quale fosse la situazione degli abituali annessi del foro e cioè del tempio e della basilica; sappiamo però proprio da alcuni frammenti di iscrizione rinvenuti nel criptoportico che esisteva un sacello dedicato al Genius Augusti. Si è ritrovata anche una copia di marmo del clipeus virtutis, scudo onorifico di bronzo che il Senato aveva conferito al fondatore dell’Impero.

L’impianto viene molto ampliato con Tiberio: si crea un forum adiectum, cioè una nuova piazza adiacente al lato est di quella originaria, dotata di due grandi esedre (una delle quali ben conservata, l’altra quasi completamente scomparsa). Si è a lungo pensato che tali esedre potessero essere alle due estremità di una basilica, che pertanto sarebbe stata disposta trasversalmente rispetto all’asse del grande complesso; si era visto perciò in questo foro della Narbonensis un precedente (nientemeno) del Foro di Traiano a Roma, dove la basilica Ulpia assume effettivamente una posizione analoga: ma ulteriori indagini hanno chiarito che non c’è alcuna basilica, bensì, appunto, una piazza supplementare. Ancora più a est fu costruito un tempio, forse destinato al culto imperiale; i resti sono nascosti sotto la splendida chiesa romanica di St.-Trophim, ma si sono rinvenuti alcuni elementi della decorazione e più precisamente maschere di Giove Ammone. Anche nella capitale, Narbo Martius (Narbonne), doveva essere presente un complesso di pari importanza: conosciamo i resti di un notevole criptoportico e soprattutto sono noti molti frammenti di una decorazione architettonica che doveva essere ricca ed esuberante.

Forse, più ancora dei templi e dei fori sono gli edifici per spettacolo a caratterizzare in maniera significativa l’architettura della Gallia Narbonensis. Il teatro di Orange, a parte la sua funzione forse complementare e integrata con il presunto Augusteo, è un edificio di grande importanza non solo perché è fra i meglio conservati del mondo romano. La cavea è parzialmente addossata all’altura soprastante; la fronte della scena, altissima, reca al centro una statua di Augusto; della decorazione, che era a tre ordini, sono stati rinvenuti frammenti di eleganti fregi, in alcuni dei quali, raffiguranti processioni con Vittorie, sono stati individuati messaggi di tipo “tropaico”. Oltre che con l’Augusteo, il teatro doveva essere in connessione con il foro, piazza che certamente non si apriva lontano da qui (nei pressi è stato scoperto il famoso Catasto, che probabilmente era stato concepito proprio per essere esposto nel foro). Non si trattava, quindi, solo di un edificio per spettacolo, ma di un complesso connesso con la direzione politico-amministrativa della città, sia come veicolo di propaganda (le Vittorie), sia come sede aggiuntiva nel caso di manifestazioni di particolare rilevanza.

Lo stesso si può dire per il teatro di Arles: allineato su una via parallela al cardine massimo della città e collegato da un decumano all’ingresso monumentale del foro, domina da oriente gli spazi politici e amministrativi. La sua cavea, sostenuta da un sistema di muri radiali e archi rampanti (strutture quasi sempre presenti in questo tipo di edifici), presenta all’esterno tre ordini di arcate e misura oltre 100 m di diametro. Sono stati rinvenuti qui (a riprova dell’importanza del monumento) due raffinatissimi altari dedicati ad Apollo, divinità cara ad Augusto: uno con palme e con cigni che sorreggono ghirlande (simboli delii); l’altro, più grande, con lo stesso Apollo che suona la cetra seduto accanto a un tripode e fiancheggiato da allori (simboli delfici). I due luoghi forse più sacri del culto di questa divinità (Delo e Delfi) sono quindi oggetto di un peculiare doppio omaggio. Al teatro si aggiungono in età flavia altri edifici per spettacolo, nell’ambito di un intervento di ampia “integrazione” dell’impianto augusteo.

Fra il 60 e l’80 d.C. sorgono il circo, in area suburbana, e soprattutto un grande anfiteatro capace di 26.000 spettatori, che presenta all’esterno due ordini di arcate inquadrate da colonne con capitelli dorici (ordine inferiore) e corinzi (ordine superiore). Rispetto agli edifici augustei di cui si è detto, l’arena segue un orientamento nuovo: il piano di sviluppo urbano di età flavia sembra in asse con l’imboccatura di un ponte di battelli sul Rodano. Ciò che si fa ad Arles è all’origine di sforzi di emulazione da parte di altre città della provincia: l’anfiteatro viene presto “copiato” a Nîmes, città vicina e rivale. L’arena dell’antica Nemausus, anch’essa perfettamente conservata, presenta in effetti poche e non fondamentali differenze: 24.000 spettatori anziché 26.000, capitelli dorici sia nell’ordine inferiore sia in quello superiore, alcune varianti nella copertura delle gallerie sottostanti la cavea; inserimento (quasi una voluta personalizzazione) di busti di toro sopra l’ingresso principale. Va detto che sull’anteriorità (e quindi sulla funzione di modello) del monumento di Arles ci si è orientati solo di recente; in precedenza, il problema (proprio a causa dell’estrema somiglianza) era stato accanitamente discusso.

Fra gli altri edifici per spettacolo della Narbonensis sono da ricordare soprattutto il teatro di Vasio (Vaison-la-Romaine), quasi interamente appoggiato al pendio naturale del terreno, e il complesso teatro- anfiteatro di Forum Iulii (Fréjus), purtroppo non molto ben conservato. Vi sono tipologie architettoniche strettamente connesse con la delimitazione dei centri urbani e capaci al tempo stesso di qualificarli e valorizzarli: le mura e gli archi. Per le mura la documentazione è discontinua, ma si ha l’impressione che le città della Narbonense ne siano più spesso provviste rispetto a quelle delle altre province galliche, che talvolta invece ne sono del tutto prive, quasi a ostentare sicurezza. A Nîmes, in particolare, l’assetto e la lunghezza della cinta sono addirittura sproporzionati in confronto alle effettive necessità: il sistema difensivo, donato alla città da Augusto in persona, abbraccia l’altura di Mont Cavalier inglobando fra l’altro la Tour Magne e comprende un’area maggiore di quella effettivamente edificata e abitata.

Per quanto riguarda le porte, la più importante (e meglio  conservata) è quella meridionale, contestuale alle mura stesse e perciò anch’essa augustea, con un’impostazione architettonica che ha incontrato molta fortuna (nella Narbonense possiamo ricordare Fréjus): corpo centrale a due fornici fiancheggiato da due massicci torrioni semicircolari all’esterno e piatti all’interno. Gli archi in questa provincia offrono una documentazione particolarmente ricca e significativa. Dell’arco che delimita il pomerio di Glanum (non lontano da un altro importante monumento, il mausoleo) più della struttura architettonica (a un solo fornice) è significativo l’apparato figurativo. L’arco di Orange, invece, è leggermente avanzato verso nord rispetto alla linea del pomerio stesso (quasi come se volesse preannunciarlo a chi si avvicinava alla città). È molto grande e molto “movimentato” dal punto di vista architettonico: tre fornici, di cui il centrale nettamente maggiore degli altri; parte centrale in aggetto rispetto a quelle laterali; in alto, due attici sovrapposti. Inoltre vi è una fitta e articolata decorazione scultorea, con rilievi raffiguranti scene di battaglia, panoplie, trofei.

Viene ormai pressoché concordemente datato all’età di Tiberio: anche qui, come nel caso della Maison Carrée di Nîmes, la datazione è ottenuta dalla lettura, attraverso i fori di fissaggio lasciati nell’architrave, di una perduta iscrizione in lettere bronzee. Si è a lungo discusso anche su quale potesse essere l’occasione storica alle origini della creazione dell’arco: abbandonata da tempo l’ipotesi (una volta stabilita la cronologia dell’iscrizione) che tale occasione potesse essere la celebrazione di una vittoria di Cesare su Marsiglia (che aveva parteggiato per Pompeo), si pensa però che, prima che a Tiberio, il monumento potesse essere stato dedicato a qualcun altro (l’iscrizione parla in effetti di una “restituzione” all’imperatore): secondo P. Gros, a Germanico, il valente generale morto in Oriente nel 19 d.C., che nella sua carriera aveva colto anche una vittoria, celebrata dagli autori contemporanei “fra le Alpi e i Pirenei”. Le aristocrazie galliche romanizzate non gradivano inizialmente Tiberio come successore di Augusto ed erano disposte a celebrare chiunque altro piuttosto che lui; ripristinato poi in qualche modo il consenso, l’arco fu ridedicato secondo opportunità politico-diplomatiche.

Ma non mancano nella provincia altri archi: quello a un fornice di Carpentorate (Carpentras), con figure di barbari prigionieri ai piedi di trofei, e quello di Cabellio (Cavaillon), unico arco quadrifronte della regione. Ad Arles era un tempo famoso l’Arc Admirable (la definizione attribuitagli da dotti di altri tempi è rivelatrice), che però è andato perduto. Altre realizzazioni architettoniche, talvolta di grande impatto, sono legate in vario modo all’uso dell’acqua. Innanzitutto i bagni pubblici: l’esempio più noto della Narbonense è tardo ed è quello delle terme di Costantino ad Arles, con le loro poderose murature di blocchetti di pietra squadrati in cui si inseriscono a intervalli regolari file di mattoni (opus vittatum). Abbiamo già accennato, a proposito di Nîmes, al Pont-du-Gard: una splendida struttura di blocchi squadrati costituita da due ordini di grandi arcate e da un terzo ordine di arcatelle minori che sostiene lo speco, o condotto. È l’opera grazie a cui un grande acquedotto scavalca il fiume Gard per portare l’acqua a Nemausus da una sorgente distante chilometri dalla città.

All’interno di Nemausus conosciamo anche un esempio molto ben conservato di castellum divisorium, bacino di raccolta e smistamento delle acque: una struttura circolare da cui, con un’opportuna serie di aperture regolabili e di canalizzazioni, l’approvvigionamento idrico veniva indirizzato verso le varie destinazioni. Infine, è notevole un grande mulino. Non lontano da un altro celebre, ma più recente monumento, quello delle Lettres de mon Moulin di A. Daudet, è un mulino di epoca romana in località Barbegal. Si tratta di una realizzazione molto interessante dal punto di vista tecnico: un grande impianto costituito da due serie parallele di piccoli mulini disposti in pendio, ciascuno con il suo meccanismo di alimentazione (due canali a cascatella fiancheggiano la struttura, azionando una ruota dentata) e di produzione (all’interno di ogni “mulinetto” erano gli ingranaggi che facevano funzionare una mola). Forse questo tipo di apparato era noto anche altrove, ma è questo l’unico caso in cui si siano conservati resti ben comprensibili.

Edilizia privata

L’importanza e l’abbondanza dei monumenti di carattere pubblico rischia di far passare in secondo piano le testimonianze di edilizia privata. A Vasio (Vaisonla-Romaine) oltre a resti di piccole case di affitto sono note anche dimore signorili di dimensioni notevoli, con un gran numero di ambienti articolati attorno ad atrio e peristilio, oltre che con impianti termali privati: da ricordare le cosiddette Maison au Dauphin, Maison des Messii, Maison au Buste d’Argent. La città di Colonia Iulia Vienna Allobrogum (Vienne), sulla riva sinistra del Rodano, aveva un suo quartiere periferico di abitazioni al di là del fiume, cui si aggiungevano, in un intreccio abbastanza caratteristico, notevoli officine ceramiche. Le condizioni di viabilità non sono semplici perché vi è una brusca biforcazione della strada principale, che inoltre, in ognuno dei due bracci in cui si divide, non segue un percorso rettilineo: gli spazi edificabili che ne derivano sono perciò piuttosto irregolari.

Ma le case e gli stabilimenti industriali si adattano benissimo a questa situazione, compresa la dimora più grande: la Domus delle divinità dell’Oceano (così detta dal tema di un mosaico), costruita all’inizio dell’età imperiale ma di molto accresciuta nel II sec. d.C. Nei suoi  2500 m2 di superficie, fra i numerosi ambienti si impongono all’attenzione un vestibolo monumentale, un peristilio, un ninfeo, un grande giardino. Un caso simile di quartiere urbano organicamente sviluppato (e adeguatamente studiato) lo ritroviamo ad Alesia, in Gallia Lugdunense: insediamento che aveva già avuto una sua notevole rilevanza prima della conquista di Cesare e che alla conquista stessa aveva opposto accanita resistenza. Per quanto riguarda l’architettura funeraria bisogna ricordare almeno il suggestivo sito degli Alyscamps di Arles, necropoli romana e poi cimitero cristiano e medioevale. Tombe, sarcofagi e cappelle si allineano su un lungo viale alberato, in una prospettiva che fu cantata nell’Inferno dantesco (IX, 112-115) e che V. van Gogh e altri pittori hanno reso celeberrima.

Arti figurative

Nell’ampia casistica che offre la produzione scultorea della Narbonensis, occupa un posto di assoluto rilievo il complesso detto Les Antiques a Glanum. A nord della città, la linea ideale del pomerio (limite della città stessa) era segnata da un arco, pesantemente restaurato nella parte alta ma abbastanza comprensibile. È un arco onorario a un fornice (la cui ghiera è splendidamente decorata da motivi vegetali), che presenta sui piloni quattro rilievi raffiguranti coppie di personaggi ai piedi di un trofeo. Si tratta di barbari prigionieri, ma non solo: nella seconda coppia uno dei personaggi, che a giudicare dal ricco abbigliamento è romanizzato e appartiene a un alto status sociale (indossa un ricco manto frangiato), sembra voler indicare all’altro, un barbaro legato, quali sono i vantaggi della sua nuova condizione e dei buoni rapporti con la potenza egemone; nella quarta coppia uno dei personaggi, femminile, è seduto: si tratta quasi certamente della dea Roma in trono su una catasta di armi. Qui la romanizzazione – che nel territorio si compie attraverso l’urbanistica e l’architettura, la costruzione delle strade e l’organizzazione degli appezzamenti coltivabili – viene efficacemente rappresentata in maniera simbolica.

Appena al di fuori del pomerio, non lontano dall’arco, si erge un alto mausoleo. È costituito da quattro componenti, dal basso verso l’alto: uno zoccolo a pianta quadrata, un arco quadrifronte, una tholos (sorta di tempietto a pianta circolare) ospitante statue maschili, una copertura conica; è dedicato – come si apprende dall’iscrizione posta sul fregio di una delle facce dell’arco – dai tre fratelli di una famiglia di Iuli (una famiglia che, dato il nome, deve aver ricevuto la cittadinanza romana all’epoca di Giulio Cesare) ai loro illustri antenati, che sono appunto quelli effigiati nella tholos. Più che mausoleo sarebbe esatto definirlo cenotafio: è infatti una tomba vuota, puramente simbolica e onorifica. Databile ai primi tempi del principato augusteo, è noto soprattutto per i quattro rilievi che decorano lo zoccolo: scene di battaglia (non è chiaro se riferita a un determinato evento o simbolica) ed episodi del mito.

Il vivace movimento, la disposizione delle figure nello spazio (pur poco profondo), l’espediente tecnico della linea di contorno che dà alle figure maggior risalto, tutto questo è opera di un maestro (il Maestro di Saint-Rémy, come scrisse R. Bianchi Bandinelli) o di una bottega (la Bottega del Mausoleo, come l’ha definita più di recente F. Kleiner, che ne ha individuato inoltre opere meno note in altre città vicine) direttamente ispirati alla cultura figurativa ellenistica. Quella che viene qui ricordata, secondo P. Gros, è un’impresa in cui gli antenati degli Iuli meritarono la cittadinanza romana. Sembra svelarlo il rilievo sud: sulla destra è un’Amazzonomachia, consolidato simbolo, nell’arte antica, della contrapposizione fra la civiltà classica e tutto ciò che è “diverso”; sulla sinistra alcuni personaggi togati, seguiti da una Vittoria portatrice di trofeo, ascoltano una figura alata, personificazione della Fama, che legge un rotolo di pergamena. Probabilmente sono proprio gli illustri antenati cui il monumento è dedicato, i quali ricevono, per sé e per la famiglia, l’annuncio del conferimento della cittadinanza romana e del nome stesso.

La Narbonense vanta anche numerosissime altre opere sia di arte ufficiale, o colta, sia di arte provinciale, che qui viene definita “gallo-romana”. Appartengono alla prima categoria statue di divinità e soprattutto ritratti: spicca una nutrita galleria di insigni personaggi rinvenuta in una grande villa (che fu lungamente in uso) a Chiragan presso Tolosa. Tali personaggi, presumibilmente appartenenti alla famiglia dei proprietari (che doveva essere abbastanza ramificata), sono raffigurati secondo moduli vicini a quelli dell’iconografia imperiale e dislocati lungo un arco cronologico piuttosto ampio. Ma forse, sotto certi aspetti, sono anche più significativi gli esempi di arte gallo-romana. Non mancano importanti antefatti nella vitale arte celtica precedente la conquista: ricordiamo, fra i tanti esempi possibili, un interessante ritrovamento in un santuario di Entremont, l’antica capitale dei Salluvi.

È una statua che raffigura, accovacciato, Taranis, un dio in qualche modo assimilabile al Giove romano. Come Giove ha per attributo i fulmini, che tiene nella mano destra, ma la sinistra è posata, come atto di protezione, su una testa umana (sono note anche altre versioni di Taranis, ad es., dio cavaliere). Si è già ricordato il valore, presso i Celti, della testa isolata staccata dal corpo (tête coupée): si espongono presso i santuari le teste dei nemici vinti o si venerano quelle di illustri defunti. Questa considerazione per la testa, unita a un particolare gusto per tutto ciò che è straordinario o mostruoso, trova continuazione, in età romana, in opere notevoli come la Tarasque del Museo di Avignone, proveniente da Noves presso Arles: qui le têtes coupées sono addirittura due, tenute sotto le zampe da una mirabolante fiera accovacciata. Sempre ad Avignone troviamo due singolari statue di guerriero: la prima si impone all’attenzione per l’enorme scudo, secondo la nota tendenza, propria dell’arte provinciale, a rendere ben visibili, magari enfatizzandoli, gli elementi che concorrono a rendere chiaro e comprensibile il soggetto; nella seconda, proveniente da Vachères, è raffigurato un personaggio che presenta, per alcuni tratti, influssi derivanti da modelli urbani (la pettinatura sembra riecheggiare quella di Augusto), mentre altri dettagli sono più marcati del normale (sopracciglia, naso, occhi, orecchie “a sventola”: quest’ultima caratteristica, qui un po’ esagerata, forse è anch’essa ripresa dall’iconografia augustea) o sono resi con particolare evidenza (corazza a squame, enormi spallacci, torques gallica al collo). La Medea di Arles, di dimensioni non molto grandi, presenta un momento del mito non troppo frequentemente raffigurato: Medea sta per estrarre l’arma per uccidere i figli. La figura, pur attraverso una semplificazione dei lineamenti, della chioma, delle forme e del panneggio, esprime pathos, slancio e movimento.

Ceramiche e oggetti di uso comune

A parte la produzione più specificamente artistica, la Narbonense è nota anche per le fiorenti fabbriche di ceramica, detta appunto “sudgallica”. L’attività comincia a Montans, e forse anche altrove, intorno al 10-15 d.C.; si espande poi a La Graufesenque, Benassac e in altri centri, finendo per soppiantare sui mercati mediterranei la ceramica aretina, di cui coglie l’eredità per alcune forme e per alcuni temi figurati, utilizzando tuttavia impasti diversi con esiti (per quanto riguarda il colore) pure diversi. I temi sono svariati: centauromachie, scene di caccia o atletiche o erotiche o gladiatorie, trofei; ma la figura umana viene man mano eliminata a vantaggio di decorazioni vegetali o geometriche. Per quanto riguarda le anfore, la maggior parte di quelle a noi note nella regione (soprattutto attraverso il recupero e lo studio di carichi navali naufragati: Grand Congloué, Dramont, Mandrague de Giens) sono soprattutto anfore vinarie italiche.

Fin dal II sec. a.C. il Senato romano aveva deciso che non si poteva produrre vino in Gallia Narbonense (nelle altre Gallie, quando poi fu prodotto, era trasportato soprattutto in botti, che a differenza delle anfore non si conservano) per non ostacolare appunto la diffusione di quello italico: un atteggiamento “protezionistico”. Dagli approdi della Narbonense si diffondeva poi verso l’interno, attraverso vie terrestri e fluviali, anche l’olio delle province iberiche: ne abbiamo già ricordato il successo e il trasporto attraverso anfore come la Dressel 20 che in effetti penetra anche nelle Gallie.

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Sulle sculture di tutte le Gallie, ancora utile:

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Sull’organizzazione del territorio:

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Sul tema sono tornati:

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