Le regioni italiane tra federalismo e centralismo

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Le regioni italiane tra federalismo e centralismo

Luciano Vandelli

Dall’unificazione alla Costituzione repubblicana

Sin dall’epoca dell’unificazione, la questione regionale ha alimentato un rigoglioso dibattito, contrassegnato da contrapposizioni e alternanze di posizioni che spaziavano da orientamenti marcatamente centralisti a tendenze di tipo federalista. Queste ultime sembravano trovare aperture già nella visione di Mazzini, che concepiva le regioni come livelli intermedi, capaci di dare all’unità forze sufficienti per tradurre in atto ogni progresso possibile nella loro sfera e di semplificare e snellire l’andamento della cosa pubblica.

Tali concezioni non mancarono di influenzare i primi progetti di regionalizzazione, elaborati sotto il governo Cavour, nei quali, peraltro, prevaleva un’idea di creazione delle regioni quali ambiti di decentramento dell’amministrazione statale, in una prospettiva di integrazione unitaria, in cui l’esecutivo nazionale, delegando le sue attribuzioni ai governatori regionali, veniva a configurarsi comunque quale fulcro dell’intero sistema. In questa direzione, le proposte sostenute dal ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini (1812-1866) e dal suo successore Marco Minghetti (1818-1886) inquadravano le regioni come circoscrizioni dell’amministrazione periferica dello Stato, cui si affiancavano regioni-enti autarchici, costituiti come ‘corpi morali’ da consorzi obbligatori tra province e retti da una commissione di membri nominati, al proprio interno, dai Consigli provinciali.

A queste prime posizioni moderate, che non ebbero successo in Parlamento, si contrapponevano le forze politiche della destra storica, sostenitrici di un modello accentrato di amministrazione, sull’impronta di quello già adottato in Piemonte con la legge Rattazzi del 1859. E furono impostazioni di questo tipo, in effetti, a prevalere con l’avvento del governo Ricasoli, segnando per lungo tempo la struttura del Paese in senso centralista e uniformista. Tramontava così la possibilità di costruire progressivamente l’unificazione italiana, secondo un metodo che, nella concezione del liberale Farini, avrebbe dovuto svilupparsi con gradualità, in base a un processo di integrazione unitaria che solo avrebbe potuto essere ‘frutto del tempo’; e con essa svaniva l’ideale di una nazione con le «massime franchigie possibili», retta da una «unità che stringe ma non aggioga» (secondo l’espressione usata nel discorso della Corona del 2 aprile 1860, in seguito ripresa da Minghetti).

A lungo emarginate, le posizioni favorevoli al regionalismo ripresero vigore nel primo dopoguerra, quando, tra i partiti popolari, si affermò una prospettiva regionalistica fortemente orientata in senso democratico. Convinto sostenitore di tale posizione fu Luigi Sturzo (1871-1959), che, nella sua Relazione sulle regioni, letta il 23 ottobre 1921 al Congresso del Partito popolare italiano, delineava la regione quale ente «elettivo, rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo [...] concepito come una unità convergente non divergente dallo Stato». Prospettive di questo tipo avrebbero trovato ampi spazi di sviluppo dopo la fine del fascismo, quando la questione del regionalismo si pose al centro del dibattito sugli assetti dello Stato in seno all’Assemblea costituente.

Preceduta dall’istituzione, sin dagli anni 1944-46, di forme di governo regionale per la Sardegna, la Valle d’Aosta e la Sicilia, la Costituzione del 1948 disegnava, 87 anni dopo l’unificazione, un nuovo assetto dello Stato, contrassegnato dalla presenza di regioni come enti territoriali dotati di autonomia legislativa, oltre che amministrativa. Ciò riflette una logica intermedia tra la forma unitaria e quella federale: da un lato, viene riconosciuto il carattere unitario e indivisibile della Repubblica, mentre, dall’altro, si riconoscono e promuovono le autonomie locali e il principio del decentramento. Le regioni, dunque, entrano a far parte del nostro tessuto costituzionale come autonomie territoriali esponenziali, dotate di un’organizzazione legittimata dall’elezione in via diretta e con riconoscimento della titolarità di significativi poteri, a partire da quelli di approvare, nelle materie espressamente elencate dall’art. 117 Cost., vere e proprie leggi, sia pure di tipo ‘concorrente’, vale a dire, nel quadro dei principi fondamentali, riservati, per ciascuna materia, alla competenza del legislatore statale.

Del resto, il disegno regionale si ispirava a importanti asimmetrie: non solo e non tanto sotto il profilo delle dimensioni territoriali e demografiche (ove enorme risulta il divario che separa la Valle d’Aosta dalla Lombardia), quanto per gli stessi caratteri giuridici e costituzionali. Netta è la distanza dei poteri previsti per le regioni a statuto ordinario (14, poi 15 con la separazione dell’Abruzzo dal Molise), secondo una disciplina tracciata direttamente in Costituzione, nel titolo V, rispetto a quelli conferiti a cinque regioni (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna), connotate da peculiarità linguistiche o geografiche, cui viene riconosciuta un’autonomia differenziata, sulla base di specifici statuti speciali adottati con leggi di rango costituzionale.

Il federalismo amministrativo

In concreto, peraltro, per la istituzione delle regioni ordinarie si dovette attendere quasi un trentennio; mentre le regioni ad autonomia speciale avviavano la propria esperienza in un quadro generalmente contrassegnato da un dominante centralismo. Solo alla fine degli anni Sessanta, il Parlamento approvava le discipline essenziali per la effettiva regionalizzazione della generalità del territorio italiano, vale a dire la legge elettorale 108 (17 febbr. 1968) e la legge finanziaria 281 (16 maggio 1970), grazie alle quali si giunse, il 6 giugno 1970, alla prima elezione dei Consigli regionali e, quindi, all’approvazione degli statuti, avvenuta tra maggio e luglio 1971, nonché all’emanazione, nel gennaio 1972, dei primi decreti di trasferimento delle funzioni. Così, pure tra vistosi limiti e carenze, l’inizio degli anni Settanta segnava una tappa fondamentale per il regionalismo, costituendo nuovi, importanti livelli di autonomia territoriale, aprendo una inedita articolazione del potere legislativo, ora suddiviso tra Parlamento nazionale e assemblee regionali, e redistribuendo una serie di funzioni amministrative prima esercitate a livello centrale. Il conseguimento di questi assetti, peraltro, non pose fine al dibattito, anche e particolarmente sulle inadeguatezze dei primi trasferimenti, fortemente contrassegnati dal trattenimento di competenze in capo a organi statali e da una complessiva frammentazione delle funzioni; inadeguatezze cui si intese porre rimedio con l’emanazione del d.p.r. 24 luglio 1977 nr. 616, attuativo delle deleghe previste dalla l. 22 luglio 1975 nr. 382.

Se i trasferimenti originari erano stati palesemente ispirati (art.17, nella legge finanziaria regionale 281) dalla preoccupazione di circoscrivere gli ambiti materiali da decentrare e di conservare allo Stato margini di intervento, a partire dalla riserva di ‘ritagli’ di competenze in ciascuna materia e di una generale funzione di indirizzo e coordinamento, nella l. 382 si tendeva, per reazione alle insoddisfazioni precedenti, a una ‘organicità’ e a una ‘completezza’, al fine di realizzare «il più ampio ed efficiente decentramento» e di assicurare «una gestione sistematica delle attribuzioni». A tale scopo si ricorreva a una gamma di strumenti, dalla delega amministrativa (allora stabilita dall’art. 118, 2° co.) alla individuazione delle funzioni di «interesse esclusivamente locale» nell’ambito delle materie di competenza regionale, sino alla stessa identificazione delle materie, in termini più ampi e comprensivi di quelli che avevano caratterizzato i primi trasferimenti.

Il processo di decentramento, peraltro, non si esaurì con questi provvedimenti e una ulteriore, rilevante fase verso il federalismo amministrativo ebbe inizio nel 1997 grazie alle riforme Bassanini (dal nome di Franco Bassanini, ministro per la Funzione pubblica e gli Affari regionali nella legislatura 1996-2001) e alla previsione di deleghe di straordinaria ampiezza (anzitutto con la l. 15 marzo 1997 nr. 59). L’obiettivo era quello di ‘conferire’ (termine che, precisava la legge, comprendeva il trasferimento, la delega e l’attribuzione di funzioni) a regioni ed enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori che fossero esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato o tramite enti o altri soggetti pubblici. Rispetto alle fasi precedenti, questa riforma segnava novità significative, a partire dagli obiettivi e dai criteri espressi nel conferimento delle deleghe al governo. Emergono nuovi criteri e principi: dalla sussidiarietà («al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e compiti di rilevanza sociale da parte di famiglie, associazioni e comunità») alla completezza delle attribuzioni; dalla cooperazione alla responsabilità; sino alla unicità, tendendo all’attribuzione a un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari (art. 4 nella l. 15 marzo 1997 nr. 59).

Nella pratica attuazione, i conferimenti previsti dalla l. 59 – gestiti, negli anni successivi, da governi di diversi orientamenti e atteggiamenti, anche per questi profili – hanno seguito percorsi tutt’altro che lineari, segnando cambiamenti cospicui nella distribuzione delle funzioni amministrative nel sistema italiano, ma incontrando, al tempo stesso, difficoltà, rallentamenti, ostacoli, disinteresse. In realtà, ne sono derivati processi di rilevanti complessità, dagli esiti variegati a seconda delle specifiche materie: sul piano delle risorse (ridistribuite in misura consistente, con ingenti trasferimenti pari circa a 20 miliardi di euro nel triennio 2000-02); sul piano del personale (anche se i processi di mobilità, regolati dal protocollo d’intesa 20 luglio 2000, tra i rappresentanti di governo, regioni, enti locali e organizzazioni sindacali sono stati essenzialmente circoscritti all’interno degli ambiti provinciali e se, ad attenuare le esigenze e intervenuto l’ampio ricorso a moduli di avvalimento delle strutture precedentemente competenti, quali l’INPS o l’ANAS); sul piano degli strumenti della collaborazione tra Stato e autonomie (disegnando un circuito di partecipazione incentrato sulla conferenza unificata istituita con il d. legisl. 28 ag. 1997 nr. 281, riunendo la conferenza Stato-regioni a quella Stato-città-autonomie locali).

La riforma costituzionale del 1999

A pochi anni di distanza dall’approvazione del federalismo amministrativo, una riforma costituzionale – approvata a larghissima maggioranza nel 1999 – provvedeva a rivedere la forma di governo delle regioni, introducendo l’elezione diretta del presidente della regione e rafforzando, nel contempo, l’autonomia statutaria. In sostanza, al fine di accrescere il peso delle istituzioni regionali, una revisione degli artt. 121, 122 e 126 Cost. prevedeva l’adozione di un sistema di governo analogo al modello già positivamente applicato agli enti locali a partire dalla legge sulla elezione diretta del sindaco (l. 25 marzo 1993 nr. 81). È un sistema originale, che riprende elementi caratteristici della forma di governo presidenziale (quale si è storicamente plasmata, a partire dal prototipo americano) e altri propri di quella parlamentare (secondo le tradizioni prevalenti negli Stati europei), aggiungendo qualche tratto del tutto innovativo.

Dal modello presidenziale mutua anzitutto l’elezione diretta dell’organo monocratico di vertice ed è in questo senso che la riforma costituzionale del 1999 ha inserito, nell’ultimo comma dell’art. 122 Cost., il principio per cui «il presidente della giunta regionale […] è eletto a suffragio universale e diretto». In secondo luogo, si assegna – come si verifica, appunto, nei sistemi presidenziali – al presidente eletto la nomina e la revoca dei membri dell’esecutivo (in questo senso dispone espressamente lo stesso ultimo comma dell’art. 122, in riferimento ai componenti della giunta regionale). Se poi del tutto estraneo al sistema presidenziale risulta all’opposto ogni meccanismo di fiducia (secondo uno schema basato sulla diretta e autonoma legittimazione popolare sia del presidente sia del Parlamento, sulla stabilità dei relativi periodi di mandato e sulla necessità, dunque, per i due organi fondamentali di cooperare comunque, anche laddove la maggioranza parlamentare sia di colore politico contrapposto a quello del presidente), il sistema delineato per le regioni riprende dal modello parlamentare, invece, precisamente il suo carattere più basilare, vale a dire il rapporto di fiducia tra esecutivo e assemblea: esso prevede esplicitamente, nell’art. 126, 3° co. Cost., l’eventualità dell’approvazione, da parte del Consiglio regionale, di una mozione di sfiducia nei confronti del presidente eletto. A questo insieme di elementi, poi, si aggiunge un fattore del tutto inedito, vale a dire la conseguenza della cessazione di tutti gli organi di governo e, dunque, del ricorso a nuove elezioni, al verificarsi di ogni causa (anche di carattere fisico o personale) che determini la cessazione del presidente o dell’assemblea, secondo il principio espresso tradizionalmente dalla frase latina simul stabunt vel simul cadent, per cui insieme svolgeranno il proprio mandato e insieme cesseranno. Infatti l’art. 126 dispone che «l’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione, l’impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio»; aggiungendo poi che «in ogni caso i medesimi effetti conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il consiglio».

Tuttavia, a differenza di quanto stabilito per comuni e province, per le regioni la scelta di quel modello non si presenta come necessitato, essendo riconosciuta un’ampia autonomia statutaria, anche nella scelta del sistema di governo. In effetti, l’art. 122, 5° co., Cost. specifica che il presidente della giunta regionale è eletto a suffragio universale e diretto, «salvo che lo statuto regionale disponga diversamente»: configurando, dunque, l’elezione diretta del presidente (con le relative implicazioni, dalla nomina e revoca degli assessori, ai meccanismi di cessazione degli organi) come forma ordinaria, ma derogabile dalle regioni mediante apposita previsione statutaria. In questo quadro, si è avviata una lunga stagione di elaborazione dei nuovi statuti, largamente incentrata sulla definizione del sistema di governo regionale e sui margini di autonomia lasciati aperti dalle disposizioni costituzionali. Il sistema di governo individuato dalla Costituzione può – secondo quanto afferma la Corte costituzionale nella sentenza nr. 2 del 2004 – «essere legittimamente sostituito da altri modelli di organizzazione dei rapporti tra corpo elettorale, consiglieri regionali e presidente della giunta, che in sede di elaborazione statutaria possano essere considerati più idonei a meglio rappresentare le diverse realtà sociali e territoriali delle nostre regioni o anche più adatti per alcuni sistemi politici regionali»; ma non può essere deformato mediante forme di governo ibride, introducendo nel modello costituzionalmente delineato variazioni in direzione del modello parlamentare. Queste ultime non sono consentite dalla Costituzione, in base alla giurisprudenza della Corte, per la quale l’alternativa prevista in capo alle regioni si limita alla scelta tra elezione diretta del presidente, con tutte le conseguenze previste dalla Costituzione, da un lato, ed elezione indiretta da parte del Consiglio, secondo il modello della forma parlamentare, dall’altro.

Su un piano costituzionale, dunque, si prospettava un’apertura a una varietà di forme di governo tra regioni, con effetti di differenziazione superiori a quanto generalmente si registra negli stessi Stati federali. Sul piano concreto, peraltro, ciò non è avvenuto, dato che nessuno degli statuti regionali approvati dalle regioni ad autonomia ordinaria si è discostato dal modello standard dell’elezione diretta delineato dalla Costituzione, con conseguente recepimento del principio del simul stabunt vel simul cadent, dettato dall’esigenza di fronteggiare l’instabilità degli esecutivi e di garantire efficacia al sistema di governo. Pur nel rispetto del modello stabilito dagli artt. 121, 122 e 126 Cost., negli statuti non sono mancate, peraltro, tendenze percepite, con qualche flessibilità, nei vari contesti regionali, a ridefinire, per es., il ruolo del Consiglio e i rapporti con l’esecutivo, estendendo gli ambiti di intervento propri dell’assemblea, o dotandola di nuovi strumenti e modalità di azione. Interventi in questa direzione riguardano, per il Consiglio, l’approvazione di atti propri dell’esecutivo (a partire dal programma di governo, variamente sottoposto a fasi di discussione, modifica, approvazione consiliare), ma anche la limitazione del numero degli assessori esterni, le mozioni di censura a singoli componenti della giunta, alcune garanzie particolari per le opposizioni, o ancora procedimenti legislativi tendenti a evitare i rischi – ben noti nella prassi – di ridurre il compito del Consiglio a quello di semplice ratifica delle proposte della giunta. Del resto, negli statuti emergono tendenze variegate, fra concezioni tradizionali, ispirate all’idea di un organo esecutivo collegiale rappresentativo (pur se i membri sono sempre nominati dal presidente, in base alla Costituzione) delle varie forze politiche che compongono la maggioranza e, dal lato opposto, a una più innovativa (e consona alla forma di governo basata sulla elezione diretta del vertice dell’esecutivo) sottolineatura della funzione della giunta quale organo di collaborazione del presidente.

Profili di differenziazione più marcati si sono evidenziati in relazione alla legislazione elettorale. Così, se nel modello nazionale questa elezione si presentava retta, per i 4/5 dei seggi, da un sistema proporzionale per collegi, con una preferenza a singoli candidati, mentre 1/5 veniva assegnato alla lista regionale (listino del presidente), come premio a quella che riportava la maggioranza dei voti, nelle leggi approvate da varie regioni emerge ora una pluralità di soluzioni su aspetti tutt’altro che marginali, fra cui la soppressione del listino, la correzione del premio di maggioranza, l’abolizione delle preferenze (talora bilanciata dalla previsione di primarie, sia pur facoltative), l’eliminazione del voto disgiunto, la modifica delle soglie di sbarramento, la rappresentanza di genere. E diversita si ritrovano nello stesso regime delle incompatibilità, a partire da quella tra consigliere e assessore, cariche che risultano talora pienamente cumulabili, talaltra del tutto incompatibili, mentre altrove – come si è accennato – si fissano tetti alla nomina di assessori esterni.

Né mancano casi in cui si è introdotta una singolare forma di sostituzione provvisoria del consigliere che sia nominato assessore, con possibilità di rientro nella prima funzione in caso di cessazione della seconda.

Nell’attuazione pratica, poi, la nuova forma di governo ha segnato importanti elementi di discontinuità nel funzionamento del sistema istituzionale e politico delle regioni, con risultati significativi, anzitutto nella realizzazione di inediti livelli di stabilità dei governi (salvi, naturalmente, i casi di scioglimento, di carattere eccezionale), ma anche nella capacità di coordinamento da parte degli esecutivi e nella responsabilizzazione dei presidenti nei confronti dei cittadini. D’altronde, questo sistema ha fatto emergere vari elementi di disagio e difficoltà nell’ambito delle assemblee, spesso frammentate in gruppi assai numerosi ma di piccole dimensioni, sino ad ammettere una consistente diffusione di quel singolare fenomeno dei ‘gruppi’ costituiti da una sola persona (monogruppi), presenti in ben 79 casi e corrispondenti a un 38% del totale delle formazioni.

La riforma del titolo V

Se con la legge costituzionale del 1999 le regioni si sono rafforzate sotto il profilo del sistema di governo, e con la riforma del titolo V del 2001 che esse hanno acquisito nuovi e diversi compiti e, più complessivamente, una rinnovata collocazione nel quadro delle istituzioni repubblicane. L’impianto costituzionale che ne è derivato, in effetti, ha inteso rilanciare il regionalismo sotto vari profili, a partire dalle competenze legislative, comparto ormai retto dal criterio secondo cui spetta alle regioni la titolarità della potesta legislativa generale, in tutte le materie non espressamente riservate allo Stato dalla Costituzione.

Del resto, se per un verso, la nuova versione dell’art. 117 Cost. riserva alla competenza statale soltanto le materie espressamente considerate, per l’altro essa amplia notevolmente gli ambiti di legislazione concorrente, in cui allo Stato pertiene la determinazione dei principi fondamentali, ambiti che ricomprendono materie quali l’istruzione, la tutela della salute, il governo del territorio, ma anche – in termini più contestabili e contestati – le grandi reti di trasporto o trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.

Per le funzioni amministrative, invece, l’impostazione adottata si basa sui principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza, con attribuzione delle funzioni amministrative anzitutto ai comuni, quali enti più vicini ai cittadini; mentre i livelli superiori (province, citta metropolitane, regioni, Stato) ne sono destinatari soltanto quando, per assicurarne l’esercizio unitario, le funzioni stesse richiedano un’operatività in ambiti più ampi e appropriati (art. 118 Cost.). Oltre alle diverse condizioni già riconosciute alle regioni a statuto speciale (istituite fra il 1946 e il 1963), nuovi elementi di flessibilità del sistema regionale vengono previsti dall’art. 116 Cost., con l’apertura a possibilita di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" in determinate materie, alle regioni che ne assumano l’iniziativa, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi che reggono il sistema finanziario. Il riconoscimento di queste ulteriori forme si effettua con legge, approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di una intesa tra lo Stato e la regione interessata. Ancora, una valorizzazione dell’autonomia – estesa, per questi aspetti, anche a comuni, province, città metropolitane – si registra sul piano dei controlli amministrativi (con la soppressione dei controlli preventivi sui singoli atti) e su quello delle risorse. È infatti contemplata un’autonomia finanziaria basata su tre fonti: tributi ed entrate propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio e fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale. Queste, nel loro insieme, devono garantire le risorse idonee a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite.

Se, complessivamente, la riforma del 2001 tendeva dunque a una rivalutazione del ruolo delle regioni e delle autonomie locali nell’impianto costituzionale, l’evoluzione concretamente realizzatasi negli anni successivi sembra evidenziare un quadro alquanto problematico. L’attuazione del disegno costituzionale si è rivelata molto più travagliata e oscillante di quanto si potesse prevedere, tra fasi ed elementi di inerzia, difficoltà di interpretazione, conflittualità e ritardi, sullo sfondo di una crisi economica che dal 2010 si è rivelata di straordinarie dimensioni e gravità, affiancata, in Italia, a un’ondata di antipolitica che ha colpito in via generale le istituzioni, ma ha riguardato anche e particolarmente le regioni. La fase immediatamente successiva all’entrata in vigore è stata contrassegnata da un cambio di maggioranza politica, che ha visto subentrare alla coalizione di centrosinistra, che aveva approvato la riforma, quella di centrodestra, fortemente ostile alla riforma stessa e determinata, più che ad approvare le leggi e i provvedimenti per renderla operativa, a varare una revisione assai ampia della Costituzione, nota come ‘devolution’, largamente alternativa alla precedente. Ma se la riforma del 2001, sottoposta a referendum, era stata approvata a larga maggioranza dal corpo elettorale, quella del 2005, fu invece altrettanto nettamente respinta dal referendum tenutosi nel 2006.

La legislazione di attuazione della riforma del titolo V è rimasta quindi inevasa per un primo lungo periodo, interrotto soltanto dalla l. 5 giugno 2003 nr. 131, intitolata appunto Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, nr. 3. In realtà si è trattato di un adeguamento alquanto parziale, riguardando soltanto alcuni aspetti e comunque rimasto inattuato precisamente nelle parti più rilevanti, ove si delegava al governo il compito di approvare i decreti per i trasferimenti di funzioni amministrative conseguenti alla riforma costituzionale. Occorre attendere il 2009 per l’approvazione della prima legge su un tema di grande rilievo per l’attuazione del disegno del titolo V, l’art. 119, relativo all’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali, l’unico condiviso dalle maggiori forze politiche di entrambi gli schieramenti. Si tratta, precisamente, della l. 5 maggio 2009 nr. 42, concernente la «delega al Governo in materia di federalismo fiscale». Ma se l’impianto costituzionale risulta condiviso, anche questa volta la disciplina attuativa non è priva di contestazioni, per la sua eccessiva genericità, per vari profili e anche questa volta, nel corso dell’attuazione, non sono mancate e non mancano difficoltà e inadempimenti. Con questi limiti, tuttavia, si consegue l’approvazione di una serie di decreti attuativi, a partire da quelli sulla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard (d. legisl. 26 nov. 2010 nr. 216) e sull’attribuzione alle regioni, oltre che agli enti locali, di un proprio patrimonio (d. legisl. 28 maggio 2010 nr. 85). Negli anni successivi al 2009, peraltro, il processo di attuazione del ‘federalismo fiscale’ ha risentito particolarmente degli effetti della crisi economica, mescolando le logiche dei propri obiettivi nella complessa serie di misure volte al contenimento della spesa.

Gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale

I rapporti tra competenze statali e competenze regionali

Le incertezze derivanti dalla riforma del titolo V della Costituzione non sono certo marginali anche e particolarmente in ordine alla delimitazione dei contenuti degli interventi riservati allo Stato in rapporto alle materie di competenza regionale. In una situazione caratterizzata da rilevanti contrasti interpretativi, si è sviluppato un contenzioso tra Stato e regioni particolarmente esteso e significativo, che, nel nostro Paese, è giunto a impegnare per circa il 30% l’attività complessiva della Corte costituzionale. In concreto, le sentenze adottate su ricorso diretto dello Stato nei confronti di leggi regionali o delle regioni nei confronti di leggi statali, e quelle per conflitto di attribuzioni si avvicinano a un centinaio all’anno.

Competenza residuale delle regioni. Nei contenuti, l’intervento della Corte costituzionale è stato orientato, anzitutto, all’identificazione delle materie residuali devolute alle regioni. Numerose pronunce hanno contribuito a ritenere rientranti nella competenza esclusiva regionale materie quali: l’organizzazione amministrativa delle regioni (sentt. 274/2003; 2, 345, 380/2004; 7 e 43/2011); l’assistenza e i servizi sociali (sentt. 61 e 92/2011); l’istruzione e la formazione professionale (sentt. 50 e 51/2005; 61/2011); il commercio (sentt. 1/2004; 150/2011); la caccia (sent. n. 227/2011); l’agricoltura (sentt. 12 e 282/2004); le politiche sociali (sentt. 287 e 427/2004; 219 e 432/2005); l’artigianato (sent. 162/2005); il turismo e l’industria (sentt. 197/2003; 107/2005); il trasporto pubblico locale (sent. 222/2005); l’ordinamento delle comunità montane (sentt. 244/2005; 397/2006; 237/2009; 91/2011).

Competenza concorrente. Altre materie, invece, anche se non espressamente richiamate in Costituzione, sono state ricondotte alla competenza concorrente tra Stato e regioni. Tra queste rientra la disciplina degli asili nido, che, in applicazione al criterio di ‘prevalenza’, è stata ritenuta estranea alla categoria dell’assistenza pubblica e compresa invece in quella dell’istruzione e della tutela del lavoro (sentt. 370/2003; 320/2004; 106/2005; 114/2009). Inoltre, l’urbanistica, a partire dalla sent. 303/2003 e da ultimo nella sentenza 225 del 2012, è stata ricondotta alla materia concorrente del ‘governo del territorio’. Anche lo spettacolo, con varie sentenze della Corte (255 /2004; 285/2005; 153/2011) è stato fatto rientrare nella materia della ‘promozione e organizzazione di attivita culturali’. Per altro verso, la Corte ha contribuito a definire i confini di alcune delle più significative competenze concorrenti: come e avvenuto per le professioni (sentt. 77 e 230/2011); per il governo del territorio (sent. 309/2011); per la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia (sentt. 44, 107, 192, 205, 310/2011); per il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (sentt. 69, 77, 91, 108, 122, 123, 155, 163, 182, 229, 310/2011); per la tutela della salute (sentt. 8, 61, 77, 150/2011), anche in riferimento alle connessioni con la ricerca scientifica (sent. 122/2011) e con il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (sentt. 68 e 325/2011).

Competenza esclusiva dello Stato. Sul versante delle competenze esclusive dello Stato, la Corte è stata chiamata a individuare il nucleo fondamentale di materie come, per es., la sicurezza pubblica, circoscritta alla sola «prevenzione e repressione della criminalità» (escludendo, dunque, in particolare, interventi che riguardano l’igiene e la salute collettiva (sentt. 407/2002; 6, 162, 428/2004); l’immigrazione, limitata alla sola programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale e alle modalità di regolarizzazione degli stranieri, con devoluzione di altri ambiti (per es., diritto allo studio, formazione professionale, assistenza sociale, salute) alla competenza concorrente o residuale delle regioni (sent. 61/2011); la tutela della concorrenza, nella quale va ricondotta, tra l’altro, la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in virtù della diretta incidenza sul mercato (sentt. 123, 150, 187/2011).

Materie trasversali. La Consulta ha provveduto all’identificazione di materie ‘trasversali’ (o ‘materie-valore’ o ‘materie-non materie’), idonee a investire tutti gli ambiti di competenza (concorrente o residuale) regionale, come nel caso dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, 2° co., Cost., lett. m), rispetto ai quali la Corte ha comunque escluso che il richiamo a essi possa costituire il fondamento per una disciplina statale di interi settori materiali (sentt. 282/2002; 285/2003; 423 e 16/2004; 181/2006). Al riguardo viene ribadito che la fissazione dei livelli essenziali di assistenza si identifica esclusivamente nella «determinazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale», senza che siano inquadrabili in tale categoria norme volte ad altri fini (sentt. 8 e 248/2011).

In un contesto caratterizzato da numerose e rilevanti incertezze, sovrapposizioni e frammentazioni di competenze, la Corte costituzionale ha individuato la ‘leale collaborazione’ quale principio cardine nelle relazioni tra Stato e regioni, in base a esigenze che discendono direttamente da canoni costituzionali, coincidenti peraltro con bisogni sostanziali di coesione economica e sociale della Repubblica. Così, diviene imprescindibile garantire la partecipazione delle regioni alla formazione di atti che, pur rientranti nella competenza statale, riguardano comunque competenze e interessi regionali. Ciò è avvenuto, per es., in relazione alla determinazione dei livelli essenziali di assistenza (sent. n. 81/2003), alla gestione degli istituti di ricovero e cura di carattere scientifico (sent. 270/2005), alla realizzazione di infrastrutture (cfr., per es., in riferimento a opere autostradali, sent. 214/2006; per il deposito nazionale di scorie radioattive (sent. 62/2005), all’approvazione del piano nazionale della pesca (sent. 213/2006), alle nomine relative ad autorità portuali o ad enti parco (sentt. 339 e 378/2005; 21/2006), al rilascio dell’autorizzazione unica alla costruzione e all’esercizio degli impianti nucleari (sent. 33/2011).

Le procedure di cooperazione o di concertazione, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai costante (ex multis sent. 15/2010), possono rilevare ai fini dello scrutinio di legittimità degli atti legislativi solo se la loro osservanza e imposta direttamente o indirettamente dalla Costituzione (sentt. 33 e 79/ 2011). Tuttavia, se nel caso di materie rimesse alla potestà legislativa esclusiva statale che incidano su settori fortemente articolati, la Corte ha ritenuto adeguato il coinvolgimento delle regioni mediante richiesta di parere alla Conferenza Stato-Regioni (sentt. 133, 142, 325/2010; 153/2011), quando viceversa viene in rilievo un vero e proprio intreccio di competenze e cioè l’incidenza di competenze statali su ambiti materiali di pertinenza regionale, l’applicazione del principio di leale collaborazione diventa un passo obbligato, da effettuare attraverso il ricorso al sistema delle Conferenze. Le modalità di attuazione del principio sono comunque rimesse alla discrezionalità del legislatore; ciò nonostante, la Consulta in diverse occasioni ha censurato la mera previsione di un parere, ritenendo necessaria un’intesa (in sede di Conferenza Stato-regioni o di Conferenza unificata (sentt. 31/2005; 134/2006), precisando anche la necessità di prevedere un’intesa in senso ‘forte’, senza che, dunque, se ne possa prescindere (sentt. 22 e 383/2005).

Su un piano complessivo, lo sforzo di elaborazione della giurisprudenza costituzionale si è largamente concentrato sulla configurazione, sul ruolo e sui modi di tutela di quelle generali esigenze unitarie considerate immanenti nell’ordinamento anche nelle stesse tradizioni dei più classici sistemi federali. Nel contesto costituzionale definito in Italia nel 1948, queste esigenze avevano trovato una specifica espressione nella formula dell’interesse nazionale, che compariva nell’art. 127 come parametro nel sindacato di merito sulle leggi regionali, peraltro senza conseguire soluzioni pacificamente condivise. Cancellato ogni riferimento all’interesse nazionale nella riforma del 2001, non sono mancate interpretazioni della riforma del titolo V in senso rigorosamente restrittivo, tendendo a delimitare in termini tassativi le garanzie a tutela delle esigenze unitarie consentite dalla Costituzione; mentre, secondo altre letture, il limite ‒ implicitamente discendente dal principio di unità e indivisibilità della Repubblica sancito dall’art. 5 ‒ non sarebbe affatto scomparso dall’ordinamento, anche se ormai affidato alla custodia non più del Parlamento, ma della Corte costituzionale.

In questo nuovo contesto, in realtà, è tutta la ricostruzione del sistema di rapporti tra competenze statali e competenze regionali ad assumere dinamiche e modalità di svolgimento diverse, mentre la questione della tutela delle esigenze unificanti fa riferimento a titoli e richiami costituzionali ormai profondamente mutati. Il tema è evidenziato in termini espliciti, negli orientamenti della giurisprudenza costituzionale (cfr. sent. 303/ 2003); particolarmente laddove, nel respingere la tesi che vorrebbe limitare la tutela delle esigenze unitarie alle «sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materie di potestà concorrente», ricorda che esigenze di questo tipo «pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione delle competenze», come riproverebbero, in senso generale e atecnico, richiami «alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco (Konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia (Supremacy Clause) nel sistema federale statunitense».

Ciò non significa che la Corte replichi, anche nel nuovo sistema, una logica di delimitazione delle competenze regionali in base al livello di rappresentatività degli interessi coinvolti; si che, qualunque sia la materia implicata (anche rientrante in quelle di competenza residuale delle regioni, dallo spettacolo alla formazione professionale), l’interesse nazionale continuerebbe «ad operare imponendo il superamento della ripartizione costituzionale delle materie attraverso l’assegnazione al potere normativo statale delle questioni che […] rivelino la esigenza di un trattamento uniforme su tutto il territorio dello Stato». Tesi di questo tipo, anzi, urtano «palesemente con il vigente dettato costituzionale, caratterizzato dalla necessità che i limiti alle potestà regionali siano espressi», superando nettamente quella equazione tra interesse nazionale e competenza statale, che nella prassi legislativa precedente alla riforma del titolo V sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle regioni, ora «priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale». nell’impostazione adottata dalla Corte, la dimensione dell’interesse coinvolto non si presenta più come generale limite aprioristico e come autonomo titolo di legittimazione, ma diviene piuttosto un elemento di flessibilità del riparto di competenze, giustificando – appunto, in base alle esigenze di tutelare un rilevante interesse pubblico unitario – la previsione, da parte dello Stato, di specifiche discipline, includendo un determinato intervento statale in un ambito materiale piuttosto che in un altro, precisamente in quanto connesso alla dimensione nazionale dell’interesse sotteso.

In questa nuova ottica assumono rilievo centrale concetti quali ‘sussidiarietà’ e ‘adeguatezza’, in una graduazione degli interessi, che implica necessariamente una inscindibile connessione con il principio di leale collaborazione, dove il risultato finale viene appunto prodotto da una decisione assunta congiuntamente dallo Stato e dalle regioni. La sussidiarietà, in questi termini, svolge un ruolo determinante nella ricerca degli equilibri tra il principio di autonomia e il principio di unità della Repubblica (art. 5 Cost.), atteggiandosi non più come elemento statico, ma come meccanismo dinamico, procedimentale e consensuale, che rende meno rigida la stessa ripartizione delle competenze legislative. Queste, infatti, sono legate alle logiche di scorrimento che contraddistinguono l’allocazione delle funzioni amministrative, dato che «il principio di legalità, il quale impone che le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere ad un compito siffatto» (cfr., oltre alla sent. 303/2003, le sentt. 6 e 423/2004; 31/2005). Diviene quindi fondamentale identificare le condizioni alle quali questi interventi possano considerarsi costituzionalmente legittimi, condizioni che riguardano, in particolare (oltre alla necessità di una disciplina di rango legislativo, escludendo il rinvio a norme regolamentari), la proporzionalità in rapporto agli obiettivi perseguiti o il rispetto di un procedimento che consenta di saggiare la reale consistenza dell’istanza unitaria con il coinvolgimento dei soggetti titolari delle funzioni attratte, secondo criteri di leale collaborazione (cfr., oltre alla sent. 303/2003, la 214/2006). A ispirare l’intera giurisprudenza della Corte, si colloca, dunque, un delicato equilibrio tra un principio di leale collaborazione e la peculiare posizione riconosciuta allo Stato, quale soggetto portatore e garante dell’istanza unitaria,‘ultimo responsabile’ del mantenimento dell’unità e della indivisibilità della Repubblica garantita dall’art. 5 Cost. (sent. 43/2004).

L’ordinamento regionale e il governo locale

Di rilievo fondamentale, negli equilibri complessivi del sistema istituzionale, si presenta poi la collocazione delle autonomie locali in rapporto all’ordinamento delle regioni. Anche questo tema è trattato in termini particolarmente originali negli assetti del sistema italiano, che al proposito non ha seguito né l’impostazione propria del modello federale classico (dove la disciplina degli enti locali rientra interamente nelle competenze degli Stati membri), né l’opposta concezione unitaria (che riserva allo Stato centrale l’ordinamento degli enti locali), e neppure la soluzione intermedia adottata da numerosi Stati di tipo regionale (dove l’ordinamento locale è disciplinato dalle regioni, ma in un quadro di principi unificanti di competenza dello Stato centrale). In Italia, uno di questi modelli è adottato per le sole regioni ad autonomia differenziata, i cui statuti – sin dalle origini nel caso della Sicilia, a partire dal 1992 in Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna, con l’approvazione di specifiche leggi costituzionali di adeguamento dei rispettivi statuti – attribuiscono ai legislatori regionali competenza esclusiva in materia di ordinamento locale.

Nella soluzione adottata dalla Costituzione italiana, dopo la riforma del 2001, invece, l’ordinamento locale risulta suddiviso in più oggetti distinti, in parte di competenza statale, in parte regionale. Cosi, in concreto, l’art. 117, 2° co., lett. p, riserva al legislatore statale, in via esclusiva, la disciplina della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.

A queste competenze, sulla base di altre, specifiche disposizioni costituzionali, ne va aggiunta qualche altra, quale, per es., il mutamento delle circoscrizioni provinciali o l’istituzione di nuove province, in base all’art. 133, 1° co.; mentre ogni altro profilo, non menzionato in maniera esplicita, viene a ricadere nella competenza generale attribuita alle regioni dall’art. 117, 4° co., che demanda a esse la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. La separazione, peraltro, risulta tutt’altro che netta, essendo il sistema caratterizzato, per vari aspetti, da intersezioni tra discipline statali e discipline regionali. Emblematico, in questo senso, è il caso delle funzioni fondamentali, dove, a differenza di quanto avviene per il sistema elettorale e per gli organi di governo, il legislatore statale non è chiamato ad approvare una disciplina esaustiva, ma a individuare queste funzioni, la cui disciplina sostanziale spetta invece ai legislatori regionali, quanto meno nelle materie residuali considerate nell’art. 117, 4° co. (oltre che nelle materie concorrenti, pur nel limite dei principi fissati dalla legislazione statale).

Tali intersezioni risultano evidenti nella concreta esperienza realizzata nel corso del decennio successivo alla riforma del 2001: dapprima, con una definizione finalizzata specificamente all’obiettivo di attuare il federalismo fiscale, e a questo scopo stabilita in via transitoria nella l. 5 maggio 2009 nr. 42, quindi discussa in diverse versioni nel contesto della elaborazione della Carta delle autonomie e poi variamente ridisegnata o smentita dalle reiterate manovre economiche. Ad accomunare questi vari testi, in effetti, è la genericità delle formulazioni usate, che lasciano margini assai ampi di intervento ai legislatori competenti ad approvare le relative discipline, e dunque, in larga misura, alle regioni.

La normativa e gli enti locali

Variegato si presenta altresì il rapporto con la potestà normativa degli enti locali; e anche su questo tema, più di qualche affermazione di principio ‒ volta a contenere, in via generale, il ruolo della disciplina regionale nello svolgimento delle funzioni locali, secondo requisiti essenziali di uniformità, in relazione a specifiche esigenze unitarie – sembrano contare le specifiche caratteristiche e impostazioni via via adottate nelle diverse materie.

Comuni e province. In questo contesto, è precisamente nella disciplina delle materie in cui operano comuni e province che le regioni svolgono rilevanti influenze sull’attività e sul funzionamento delle autonomie locali. D’altronde, sono leggi regionali a disciplinare i sistemi delle relazioni degli enti locali con le regioni stesse. Tali sistemi sono incentrati – sulla base di quanto prevede l’ultimo comma dell’art. 123 Cost. – su Consigli delle autonomie locali (CAL), variamente ispirati ora a forme di ‛Conferenza multilivello’, come organismo misto volto essenzialmente a una collaborazione tra esecutivi locali ed esecutivo regionale, ora a modelli di ‘Camera delle autonomie’, affiancata al Consiglio regionale, con una composizione di rappresentanti di comuni e province e una propria organizzazione autonoma (sottolineata dalla presenza di un presidente, eletto tra gli stessi membri). Talora, poi, le regioni seguono tendenze a concentrare nel CAL l’intero complesso delle relazioni con gli enti locali, mentre in altri casi le discipline regionali hanno sviluppato una pluralità di sedi e procedure, a seconda dei settori e dei temi interessati. Varia è anche la configurazione delle modalità di azione, del ruolo e dei poteri attribuiti, con un’articolata gamma di livelli di incisività ed efficacia. Nell’ambito delle materie che, più specificamente compongono l’ordinamento degli enti locali, poi, alle leggi regionali spetta la disciplina delle variazioni territoriali dei comuni, con la definizione delle modalità procedurali – e particolarmente di svolgimento dei relativi referendum – per l’istituzione di nuovi comuni e le modifiche delle circoscrizioni e denominazioni.

Le forme associative. Probabilmente l’ambito dell’ordinamento locale in cui più significativamente si è sviluppata la normativa regionale concerne le forme associative. La competenza regionale in materia è riconosciuta da una consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr., fra le tante, sentt. 244/2005 e 91/ 2011).

La materia, in effetti, rientra negli ambiti di legislazione regionale residuale, ai sensi dell’art. 117 Cost., 4° comma. Il che, peraltro, non impedisce allo Stato di adottare interventi che si configurino come principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, 3° co.), facoltà di cui soprattutto le manovre approvate negli anni 2011-12 si sono avvalse in maniera assai incisiva sino a disporre (particolarmente dal d.l. 31 maggio 2010 nr. 78, art. 14, co. 31 e quindi dal d.l. 13 ag. 2011 nr. 138, art. 16) obblighi di gestione associata, tramite determinate forme e modalità associative, delle funzioni fondamentali, per i comuni inferiori a 5000 abitanti, e di tutte le funzioni, per i comuni inferiori ai 1000. Il dibattito sulla competenza in tema di forme associative, del resto, ha riguardato particolarmente le comunità montane, forma associativa istituita fin dagli anni Settanta e quindi oggetto di una reiterata serie di interventi, volti dapprima a prevederne una razionalizzazione (legge finanziaria 2008), quindi a decurtare (d.l. 25 giugno 2008 nr. 112) e infine a sopprimere (legge finanziaria 2010) i trasferimenti erariali alle comunità montane, in parte destinandoli ai comuni in esse ricomprese. In effetti, tra incertezze e titubanze, gli atteggiamenti assunti dalle regioni, in seguito alle misure adottate dallo Stato, si sono orientati in direzioni alquanto differenziate. Così, se talune regioni approvano leggi di soppressione delle comunità montane, generalmente sostituite da unioni, altrove le funzioni già esercitate dalle comunità stesse vengono trasferite a comuni, province e alla stessa regione. Ma non mancano soluzioni diverse fino alla istituzione di una nuova Agenzia regionale per lo sviluppo della montagna, cui eventualmente i comuni, con convenzione, possono delegare l’esercizio delle funzioni già conferite alle comunità montane. Né sono mancate regioni che hanno adottato posizioni decisamente divergenti dagli orientamenti prevalsi a livello statale, confermando – quanto meno in via transitoria – i finanziamenti alle comunità montane, quali soggetti funzionali alla gestione dei servizi e allo sviluppo dell’economia in montagna. Il tema delle forme associative, particolarmente questo ultimo, si sovrappone in maniera determinante alla questione dei piccoli comuni e della loro inadeguatezza, sotto il profilo territoriale, finanziario, organizzativo, ecc., questione di rilievo primario in un Paese come l’Italia, articolato in 8094 comuni, dei quali 7467 hanno una popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, mentre circa 2000 (per la precisione 1970) ne contano meno di 1000.

Le peculiarità istituzionali del sistema regionale italiano

Dal quadro di elementi sin qui accennati emergono tratti essenziali della fisionomia di fondo del sistema regionale italiano. Certamente questa fisionomia è distante dal modello di amministrazione periferica dello Stato ipotizzato sotto il governo Cavour, o dai tipi di enti territoriali a valenza esclusivamente amministrativa che ormai si presentano diffusi anche in Stati di tipo unitario (a partire, per es., dalle regioni francesi); ma, per altro verso, essa presenta significativi elementi di difformità dai caratteri propri dei livelli (Stati-membri, Länder, cantoni, ecc.) che compongono i modelli federali, sia rispetto al ruolo sostanziale esercitato nel complessivo sistema sociale ed economico, sia sotto il profilo degli elementi giuridico-formali. In realtà, gli elementi idonei a classificare uno Stato come ‘federale’ sono tutt’altro che univoci, nel dibattito o nelle stesse esperienze internazionali. Tuttavia, con qualche sforzo di sintesi e seguendo autorevoli orientamenti, come quello di Costantino Mortati (1891-1985), è possibile fare riferimento a una gamma di parametri quali: a) la formazione delle regioni per volontà dello Stato e non per accordo di carattere internazionale; b) la potestà delle regioni di darsi un proprio ordinamento e di modificarlo; c) la partecipazione delle regioni all’attività legislativa dello Stato; d) il criterio di ripartizione dei compiti, con attribuzione della competenza generale-residuale a vantaggio dei livelli intermedi e non di quello nazionale-federale; e) il riconoscimento alle regioni di competenze in relazione alla potestà giurisdizionale e all’ordine pubblico.

Già da questa elencazione, risulta evidente la difficoltà di inquadramento del sistema italiano come ‘federale’. In effetti, le regioni italiane presentano alcuni dei caratteri enunciati, a partire dal riconoscimento dell’autonomia delle regioni nel definire il proprio ordinamento, nel quadro dei principi stabiliti dalla Costituzione, e dall’adozione, con la riforma del titolo V del 2001, del criterio secondo cui spettano al legislatore centrale competenze relative a materie enumerate dalla Costituzione, mentre pertiene ai legislatori regionali la competenza residuale, per ogni materia non menzionata. Ma se, sotto questi profili, il sistema italiano si accosta al modello ideale dello Stato federale, come ora delineato, da esso si discosta per una pluralità di elementi: dall’assenza di ogni forma di bicameralismo volto a rappresentare, in un ramo del Parlamento, le istanze regionali (‘senato federale’), alla riserva in capo allo Stato di competenze in materia di ordine pubblico e di giustizia. E in senso del tutto inverso rispetto ai processi federali si è evoluto il sistema italiano: non in senso unificante, partendo da distinti corpi sovrani che si accordano per costituire una entità comune, ma in base a una logica di decentramento, partendo da uno Stato unitario che ha inteso nelle proprie fonti basilari prevedere, al proprio interno, importanti poteri autonomi. A questi elementi, del resto, potrebbe aggiungersi la stessa configurazione del governo locale, pienamente rientrante nelle competenze dei singoli Stati membri, nei sistemi federali classici (la Costituzione degli Stati Uniti si occupa esclusivamente delle relazioni tra Federazione e livelli statali, non degli assetti interni a questi ultimi), mentre, come si e visto, in Italia lo Stato si presenta tutt’altro che estraneo all’ordinamento degli enti locali. La difficoltà di definizione, in rapporto alla forma federale, non è affatto limitata al caso italiano. I tentativi di schematizzazione risultano comunque opinabili, come dimostra la posizione assunta dallo stesso Mortati, che – dopo aver proceduto alla classificazione sopra indicata, giunse alla conclusione secondo la quale le differenze tra Stato federale e Stato regionale non sono di ordine meramente quantitativo, o tutt’al più «si esauriscono nella partecipazione al potere di revisione costituzionale, che è consentito agli stati-membri e non alle regioni. Differenza, come si vede, troppo esigua per giustificare l’attribuzione di una qualifica statuale all’ente che sia in possesso di quel potere» (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, 1967, 2° vol., pp. 801-02).

Il regionalismo italiano sembra ancora risentire di impostazioni risalenti, che esercitarono una significativa influenza sui lavori dell’Assemblea costituente, come quella di Gaspare Ambrosini (1886-1985), che teorizzò la forma regionale come forma intermedia tra Stato unitario e federale, in cui le regioni «pur essendo dotate di diritti propri, non riescono ad assumere la qualità e dignità degli Stati membri di uno Stato federale [...]; d’altra parte, appunto perché dotate di diritti propri, si differenziano nettamente dalle consimili collettività territoriali (province o regioni), anche fortemente decentrate, degli Stati unitari». In questo ultimo caso, in effetti, si realizzerebbe un semplice ‘decentramento autarchico’ che «implica sempre [...] l’idea di trapasso, di trasferimento, di delegazione di poteri ed implicitamente perciò della revocabilità di essi»; mentre, a proposito dello Stato regionale, «si deve invece parlare di autonomia, perché si tratta di riconoscimento o di conferimento irrevocabile di poteri in favore degli enti di cui trattasi, i quali così finiscono di essere dotati di poteri propri, di natura costituzionale, in quanto affermati in modo speciale dalla Costituzione e posti sotto la speciale garanzia di essa [...]. In questo sistema la regione ha anzitutto un diritto che può chiamarsi diritto dell’esistenza; diritto che non compete alle collettività consimili esistenti nel seno degli Stati unitari. Lo stesso è a dirsi della competenza.» (Ambrosini 1933, p. 5). La concezione di Ambrosini si ispirava a precedenti esperienze e, in particolare, agli assetti della seconda repubblica spagnola; ma, in realtà, l’Europa stessa avrebbe mostrato, anche in anni più recenti, una capacità di elaborare una variegata gamma di forme e modelli di regionalizzazione: dalla devolution scozzese, priva di ogni garanzia derivante da disposizioni costituzionali scritte, all’incisivo autonomismo sancito dalla Costituzione spagnola del 1978. L’autonomismo in Spagna ha riguardato la generalità del territorio, con un’impostazione alquanto diversa da quella preponderante in Portogallo, dove il riconoscimento di consistenti autonomie è prevalso solo nelle situazioni insulari di Azzorre e Madera, mentre il territorio continentale è rimasto, in definitiva, retto da un ordinamento accentrato. Dagli anni Ottanta, d’altronde, si è aperto un percorso di riforme che ha portato il Belgio da Stato unitario a Stato federale, qualificazione inclusa nella Costituzione stessa; un federalismo peraltro asimmetrico, basato su una duplice presenza di regioni (vallona, fiamminga, bruxellese, su base territoriale) accanto a comunità di natura culturale e linguistica (francese, tedesca e olandese). La stessa Francia ha sviluppato percorsi di decentramento, che hanno compreso una revisione costituzionale (nel 2003), con il particolare obiettivo di riconoscere espressamente le regioni, tra l’altro dotate – pur in assenza di potesta legislative – di un’autonomia regolamentare con facoltà, entro certi limiti, di derogare alle leggi.

D’altronde, in Europa gli stessi Stati federali più consolidati, come la Repubblica Federale Tedesca, la Confederazione Elvetica o l’Austria, si distanziano dall’archetipo americano in tratti non secondari (valorizzando elementi cooperativi; configurando seconde Camere in questa logica rappresentative direttamente delle istituzioni statali e non dei rispettivi corpi elettorali; ammettendo garanzie costituzionali delle autonomie locali nei confronti degli stessi poteri regionali, ecc.) e hanno sviluppato nuove modalità di azione e di coesione. Ciò è particolarmente vero in Germania, dove agli inizi degli anni Novanta si è svolta una complessa e fondamentale opera di unificazione dei cinque Länder dell’area orientale, e dove più recentemente si sono riviste competenze e ruolo del Bundesrat, Camera rappresentativa degli esecutivi regionali, alla ricerca di nuovi equilibri e di una nuova funzionalita del sistema.

In questo quadro mutevole e incerto, non sono molti gli elementi comuni. Certo, nell’Europa continentale e ormai diffuso – quanto meno nei Paesi con dimensioni di qualche rilievo – il riconoscimento costituzionale di livelli regionali: nelle Costituzioni del dopoguerra (Costituzione italiana e Legge fondamentale di Bonn), in quelle approvate negli anni Settanta nella Penisola Iberica, nella revisione della Costituzione belga del 1980 e di quella francese del 2003. Frequente risulta anche il riconoscimento costituzionale del principio di autonomia e – se si esclude la sola Francia – di poteri legislativi regionali. Ogni altro elemento si presenta variamente differenziato, anzitutto in relazione ai metodi di ripartizione delle competenze legislative. In Italia, una ripartizione è affidata alle regioni in via residuale dalla Costituzione che, a seguito della riforma del 2001, attribuisce alle regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. L’individuazione delle competenze delle autonomie è invece in altri casi – come in Spagna – demandata agli statuti, nei limiti di materia stabiliti dalla Costituzione; mentre nel regime di Azzorre e Madera si prevede in capo ai legislatori autonomi la competenza legislativa nelle materie di interesse specifico per le regioni che non siano riservate alla competenza statale.

Dinnanzi a una varietà così accentuata, ogni definizione si stempera, oppure tende a frantumarsi in una serie di sottodistinzioni o di forme intermedie. Ed emblematicamente, a fronte di una varietà così accentuata, si è fatto ricorso a nuove formule, alludendo a modelli ‘quasi-federali’, ‘federalizzabili’, ‘federo-regionali’, ecc., sino a distinguere, nell’ambito della complessa esperienza belga (espressamente definita come ‘federale’), tra un federalismo ‘di tipo centripeto’ e uno ‘di tipo centrifugo’; o tra un ‘federalismo regionale’ (con riferimento alle regioni vallona, fiamminga, bruxellese, come si è accennato), e un ‘federalismo comunitario’ (in riferimento, appunto, alle comunità francese, olandese, tedesca). Oppure, all’inverso, si sono prospettate tendenze ad accomunare modello federale e modello regionale, come espressioni di «un’unica forma organizzativa che comporta un decentramento dello Stato unitario tramite la necessaria presenza di autonomie territoriali e politiche» (De Vergottini, 1992, pp. 832- 59). Del resto, se è ormai forte ed esplicito il dubbio sul senso di una distinzione tra Stato federale e Stato regionale (Caretti, Tarli Barbieri 2009), frequenti sono nel dibattito definizioni meramente in negativo, che riuniscono in un generico concetto di ‘non-accentramento’ i diversi sistemi nei quali «il potere è così diffuso da non poter essere legittimamente accentrato o concentrato senza violare la struttura e lo spirito della Costituzione» (D.J. Elazar, Federalism, in International encyclopedia of the social sciences, ed. D.M. Sills, 1968, pp. 356-61).

La fase contemporanea si presenta dunque connotata da un forte dinamismo, con marcate oscillazioni e sovrapposizioni tra elementi tradizionalmente riconducibili a modelli diversi, che nelle pratiche esperienze si mescolano e si contaminano nelle combinazioni più varie. Forse si potrebbe dire che la distinzione e la concezione stessa delle forme di Stato appaiono in crisi, venendo ormai, nei fatti, a subire mutazioni di fondo, sino a rendere preferibile – e più aderente alla realtà – parlare piuttosto di ‘tendenze’ o di ‘dinamiche’ a ispirazione federalista, regionalista, autonomista o centralista. Ed è in questo quadro che si collocano le peculiarità del sistema italiano, le sue oscillazioni, i suoi arretramenti.

Le peculiarità sostanziali del sistema regionale italiano

L’evoluzione del regionalismo in Italia è stata segnata da caratteri del tutto peculiari, risalenti in gran parte alla fase dell’unificazione dello Stato, a partire dal divario tra Nord e Sud, con asimmetrie rilevanti anzitutto sul piano dello sviluppo industriale, economico, infrastrutturale. Consistenti appaiono le diversità nello stesso ruolo svolto dal settore pubblico, tradizionalmente volto, in alcune aree del Paese, a stimolare, sostenere, accompagnare (perseguendo condizioni adeguate) tale sviluppo, mentre in altre aree e in diverse circostanze a svolgere un’ampia funzione di temperamento e contrasto a disagi sociali e problemi occupazionali, sino a risentire di marcate tendenze assistenzialistiche. Sotto altro profilo, non va trascurato il fatto che la tradizione italiana è fortemente caratterizzata dalla importanza storica della presenza degli enti locali e, particolarmente, dei comuni; una presenza antica e radicata, rispetto alla quale la regione si è posta – piuttosto che come una sintesi o come un centro di coordinamento e di propulsione – come un livello ulteriore, anche sotto il profilo dell’esercizio delle funzioni amministrative.

Ciò non significa che siano mancate o che manchino positive esperienze di cooperazione e complementarietà tra livello regionale e livelli locali; né è da trascurare che la stessa nascita delle regioni, in varie realtà (come in Emilia-Romagna) fu fortemente voluta e sostenuta da movimenti di amministratori locali, precisamente per affrontare questioni che travalicavano le capacità e le potenzialità degli enti locali: dalla difesa del territorio alle politiche industriali, alla realizzazione di infrastrutture di ampia dimensione. Complessivamente, comunque, la regione non è stata concepita come un corpo politico che doveva incorporare gli ordinamenti comunali e provinciali e che aveva (cosa di indubbia difficoltà) una funzione complessiva, nei confronti delle istituzioni locali, equiparabile, per es., a quella dei Länder tedeschi. In Germania, l’ordinamento locale si presenta ‘immedesimato’ nell’ordinamento di questi ultimi, responsabili sostanziali degli assetti, del funzionamento, e del finanziamento dei comuni e degli altri livelli locali.

In buona misura e in larga parte d’Italia la regione si è configurata, anche sostanzialmente, come un ulteriore livello amministrativo, nel quadro di un sistema che tendeva a restare sostanzialmente immutato, e le cui sorti, comunque, continuavano in larghissima misura a essere determinate dal livello statale. D’altra parte, le aspettative espresse da formule che intendevano configurare le regioni quali ‘enti di governo’, ‘enti di legislazione e programmazione’ (formule diffuse nella fase precedente alla loro concreta istituzione, in una prospettiva alternativa a ogni riproduzione dei moduli consueti della politica nazionale e delle organizzazioni ministeriali) si sono rivelate idealizzazioni alquanto distanti dalla reale conformazione degli apparati regionali. Va poi considerata la diffusa diffidenza che dimostrano spesso le organizzazioni economiche e sociali e i mezzi di comunicazione nei confronti della differenziazione legislativa, che dovrebbe costituire uno dei valori più significativi e una delle potenzialità più rilevanti connesse alla regionalizzazione, in quanto rendererebbe più flessibile il sistema, con soluzioni innovative, e soprattutto darebbe regole modulate in base alle esigenze e alle istanze che emergono dai territori. nonostante ciò, le differenziazioni sono spesso percepite e comunicate come anomali elementi di ineguaglianza.

Così, se le capacità innovative dimostrate dai legislatori regionali, e i risultati conseguiti, possono presentarsi assai variegati (a seconda delle regioni, delle materie, delle fasi, delle influenze esercitate dall’ordinamento dello Stato, degli orientamenti affermati dalla giurisprudenza costituzionale, dell’incidenza degli strumenti e delle procedure di concertazione), il contesto sociale, politico, comunicativo sembra invece cogliere ogni differenziazione con un certo grado di diffidenza, se non di ostilità, che sembra riflettere la lunga e radicata tradizione uniformista che caratterizza il nostro Paese. In questa direzione, risultano sintomatiche le posizioni che assumono le organizzazioni economiche e sociali, come Confindustria, per es., che in un rapporto del suo Centro studi (La lunga crisi: ultima chiamata per l’Europa Liberare l’Italia dal piombo burocratico, in «Scenari economici», giugno 2012, 14), annovera il ‘policentrismo normativo’, collegato alla riforma del titolo V, tra le più rilevanti cause della complessità del sistema, dell’inefficienza degli apparati pubblici e della disarticolazione dell’ordinamento amministrativo, con specifico riferimento al ‘ginepraio’ di norme relative all’attività di impresa, in un quadro di totale scoordinamento operativo fra tutti i livelli di governo, dallo Stato alle regioni e, localmente, dalle province ai comuni. Altrettanto significativi, d’altronde, sono i modi in cui spesso i media percepiscono e trasmettono ogni fenomeno di varietà di regole determinate dall’esercizio dei poteri legislativi al livello regionale, utilizzando titoli ed espressioni quali: federalismo ‘fai da te’, ‘di Arlecchino’, ‘in ordine sparso’, ‘di Babele’, ‘a macchia di leopardo’, ‘il mosaico’, ‘la giungla’ o, ancora, le ‘cento Italie’, ‘Italia spaccata’. Tale atteggiamento riflette, probabilmente, le opinioni più diffusamente condivise, in un Paese che – tra conservatorismi centralistici e pulsioni localistiche – manca in realtà di ogni diffusa e solida cultura autonomista (Il regionalismo visto da Roberto Bin, 2011).

Le regioni all’epoca della crisi

Gli assetti conseguiti dal sistema regionale italiano, e la loro evoluzione, hanno molto risentito delle misure collegate alla crisi che ha colpito gravemente le economie occidentali. Tali misure hanno comportato certamente, oltre a un aumento della pressione fiscale, una imponente serie di interventi per contenere la spesa pubblica, stabilendo limiti, tagliando trasferimenti, eliminando strutture e attività ritenute non essenziali. Le regioni ne sono state coinvolte indirettamente, in rapporto alle competenze e al ruolo che esercitano nei confronti delle autonomie locali, a loro volta significativamente colpite; ma anche, sotto altro profilo, in via diretta, quali destinatarie immediate di misure indirizzate alle spese per l’esercizio delle funzioni e ai costi di funzionamento della loro stessa organizzazione, politica e amministrativa.

Le modalità e i versanti in cui si sono espletati tali provvedimenti vanno dal ridimensionamento delle indennità spettanti ai consiglieri regionali (come già disponeva il d.l. 31 maggio 2010 nr. 78 , prevedendo una diminuzione pari al 10%) alla riduzione dei costi degli apparati amministrativi (organi collegiali, organi di direzione e controllo, consigli di amministrazione, incarichi vari, enti pubblici anche economici, società, organismi pubblici, anche con personalità giuridica di diritto privato, studi, incarichi di consulenza, spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, sponsorizzazioni, missioni, attività di formazione, autovetture, ecc.). Queste misure si configurano come disposizioni di principio, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, si da non vincolare le regioni direttamente, ma semmai obbligandole ad adempiervi, utilizzando la leva dell’accantonamento di quote di trasferimenti erariali, da svincolare e destinare successivamente alle regioni adempienti.

A questo titolo, e in questa direzione, il legislatore statale è intervenuto ripetutamente, prevedendo (d.l. 6 luglio 2011 nr. 98 ) ulteriori riduzioni del trattamento economico corrisposto ai titolari di cariche elettive e incarichi presso enti e istituzioni (ivi compresi i presidenti e i consiglieri delle regioni), parametrate in base alla media dei trattamenti percepiti annualmente dai titolari di omologhe cariche e incarichi negli altri sei principali Stati dell’eurozona.

I parametri per il contenimento dei costi, divenuti via via più estesi e stringenti (in base alle ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, di cui al d.l. 13 ag. 2011 nr. 138), chiamano le regioni a operare secondo una delle tre alternative: a) adeguare i propri statuti e le proprie leggi, tra l’altro, per contenere il numero massimo di consiglieri regionali (da un massimo di 20, per le regioni con popolazione fino a 1 milione di abitanti, a 80 per quelle con popolazione superiore a 8 milioni), di assessori (con un numero massimo pari o inferiore a 1/5 del numero dei componenti il Consiglio regionale); b) adottare ulteriori misure di riduzione di emolumenti e utilità previsti in favore dei consiglieri regionali, comunque da commisurare all’effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio; c) istituire un Collegio dei revisori dei conti – composto per sorteggio, tra professionisti dotati di particolare qualificazione – quale organo di vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed economica della gestione dell’ente, in raccordo, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, con le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Le regioni sono inoltre tenute a disporre il passaggio al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali.

Misure di questo tipo hanno sollevato obiezioni di legittimità costituzionale, da parte delle regioni stesse, obiezioni in concreto respinte dalla Corte costituzionale, per specifici motivi di non ammissibilità o infondatezza (sent. 151/2012). Tuttavia, su un piano generale, la Corte ha respinto anche la tesi avanzata dalla difesa dello Stato, secondo cui le norme impugnate avrebbero trovato giustificazione nell’esigenza di far fronte con urgenza a una gravissima crisi finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae, sul punto escludendo con nettezza che la gravità della situazione consenta allo Stato la facoltà di intervenire legislativamente in ogni materia, in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione e in applicazione di principi costituzionali fondamentali, quali solidarietà o uguaglianza. Questi ultimi sono infatti doveri e principi che non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal titolo V della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali. La Corte ha anche escluso che il principio salus rei publicae suprema lex esto non possa essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale.

In concreto, del resto, nel contesto della crisi, è stata la stessa Conferenza delle regioni ad assumere (26 sett. 2012) un orientamento favorevole a un «indispensabile» intervento statale – da realizzarsi tramite un «provvedimento legislativo concordato urgente» che consenta di conseguire, su tutto il territorio nazionale: una riduzione netta e significativa di tutti i costi della politica, a partire, per le regioni che non si sono ancora adeguate, dalla piena applicazione delle norme per la riduzione del numero dei consiglieri di cui al d.l. nr. 138 del 2011; un’azione volta ad assicurare la piena trasparenza dei dati relativi ai costi della politica; l’attivazione di misure di controllo, attraverso la Corte dei conti, anche per quelle spese connesse ai costi della politica, oggi ancora non sottoposte a tale forma di controllo. A queste linee, in effetti, si è ispirato il governo con il d.l. 4 ott. 2012 nr. 174, che assegna alle regioni un termine per provvedere alla riduzione del numero di consiglieri e assessori, prevedendo – in caso di inottemperanza – una sensibile decurtazione dei trasferimenti erariali (pari all’80%, fatti salvi i fondi per il trasporto pubblico locale; e pari al 5% dei finanziamenti per la sanità) e, in definitiva, l’attivazione del procedimento di scioglimento. Riduzioni consistenti riguardano anche i fondi ai gruppi consiliari, che saranno assoggettati al controllo della Corte dei conti e pubblicati sui rispettivi siti istituzionali. Analoga trasparenza dovrà essere adottata per le indennità e la complessiva situazione economica di presidenti, assessori e consiglieri. Ancora, misure restrittive interessano vitalizi, auto e consulenze.

Questi provvedimenti mirano a conseguire standard omogenei per tutte le regioni, particolarmente in materia di indennità agli amministratori e finanziamento ai gruppi consiliari, assumendo come punti di riferimento le regioni più virtuose. Lo stesso d.l. 174, del resto, ha inteso rafforzare il sistema dei controlli sulle regioni, prevedendo non solo quello sulla gestione, ma, per determinate categorie di deliberazioni (dagli atti normativi a rilevanza esterna a quelli di programmazione e pianificazione), anche un controllo preventivo su singoli atti, affidandone l’esercizio alla Corte dei conti. A parte la diversità costituita dall’organo, dunque, per questa via si intendeva ripristinare quella tipologia di controllo che la riforma costituzionale del 2001 aveva espressamente soppresso, abrogando le relative disposizioni contenute negli artt. 125 e 130, soppressione che, come aveva rilevato la Corte costituzionale, «ha disegnato di certo un nuovo modo di essere del sistema delle autonomie» (sent. 106/2002). La compatibilità con l’impostazione adottata dal vigente titolo V era dunque, in questi termini, assai problematica ed è stata nettamente contestata, nel corso dei lavori parlamentari, dal parere della Commissione parlamentare per gli affari regionali. In questo senso, in effetti, in sede di conversione il decreto è stato incisivamente modificato, abolendo ogni riferimento a controlli di tipo preventivo. A estendere e rinvigorire gli strumenti di controllo sulle regioni, d’altronde, era già intervenuto il d.l. 138 del 2011, stabilendo un collegamento tra le verifiche esterne affidate alla Corte dei conti e quelle interne delle amministrazioni regionali, con un raccordo, in sostanza, tra la sezione regionale di controllo della Corte stessa e il Collegio dei revisori dei conti della regione. In questi termini, il controllo sulla gestione del bilancio dello Stato, affidato alla Corte dei conti dall’art. 100 Cost., secondo le parole della Corte costituzionale, «deve intendersi oggi esteso ai bilanci di tutti gli enti pubblici che costituiscono, nel loro insieme, il bilancio della finanza pubblica allargata». La Corte dei conti, quale organo indipendente dell’ordinamento della Repubblica, tende dunque a configurarsi come elemento centrale di una complessa trama di controlli, che trova nell’art. 100 il proprio principale punto di riferimento costituzionale.

D’altronde, lo spirito, le sensibilità e le esigenze connesse alla crisi si sono riverberate anche sul piano costituzionale, dove, precisamente al fine di ottemperare a penetranti orientamenti europei, si è approvata la l. Cost. 20 aprile 2012 nr.1, che modifica alcuni articoli della Costituzione, al fine di introdurre il principio di equilibrio di bilancio. In questo senso, l’art. 81 afferma ora la necessità che lo Stato assicuri «l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico»; preclude il ricorso all’indebitamento, se non «al fine di considerare gli effetti del ciclo economico», oltre che, in determinate condizioni, al verificarsi di eventi eccezionali; introduce una nuova legge rinforzata ‒ approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale ‒ cui è affidato il compito di stabilire «il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito complessivo delle pubbliche amministrazioni». Accanto a queste disposizioni vengono previste modifiche che mirano a rivedere il riparto di competenze tra Stato e regioni, anzitutto per ricondurre tra le materie riservate in via esclusiva alla legislazione statale «l’armonizzazione dei bilanci pubblici» (art. 117, 2° co., lett. e), mentre rimane affidato alla legislazione concorrente il solo coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (3° co.).

Tuttavia, se la crisi economica ha mutato tendenze ed equilibri consolidati, coinvolgendo le autonomie in un’area assai estesa in Europa (e non solo), a influire sull’evoluzione del regionalismo italiano non sono stati esclusivamente problemi di bilancio. Nel nostro Paese, in un clima turbato da una situazione di grave difficoltà della politica, le autonomie – a partire da quelle regionali – sono state parallelamente coinvolte da una crisi di altra natura, che ne ha leso la stessa legittimità. Le misure restrittive adottate sono state messe in relazione con gli scandali che hanno investito regioni importanti (a partire da Lombardia e Lazio), arrivando a coinvolgere in indagini un numero complessivo assai elevato di amministratori regionali (95 nel 2012). Tutto ciò è stato abbondantemente riferito dai mezzi di comunicazione, ma anche riportato in documenti e dichiarazioni ufficiali, sollevando un diffuso sentimento di indignazione che, in occasione dell’adozione del decreto sui costi della politica (nr. 174 del 2012), ha trovato eco in espressioni di alte autorità dello Stato. La stessa indignazione è stata evocata nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 2012 del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in riferimento al «persistere di privilegi e di abusi – nella gestioni di ruoli politici ed incarichi pubblici – cui solo di recente si sta ponendo freno anche attraverso controlli sull’esercizio delle autonomie regionali e locali». D’altronde, lo stesso presidente della Conferenza delle regioni, Vasco Errani, pur rilevando le diversità tra le varie realtà regionali, aveva ricollegato le misure restrittive adottate alla esigenza di recuperare il rapporto tra cittadini e istituzioni, e di restituire dignità alle istituzioni, anche se questo comporta scelte che implicano l’esigenza di «cedere una parte di autonomia».

Le ipotesi di ulteriori modifiche costituzionali

In un contesto dominato da interventi parziali e frammentari, sulla spinta di emergenze legate alla crisi, il dibattito ha recentemente ripreso riflessioni e proposte di più ampio respiro, nella prospettiva dell’avvio di una nuova legislatura (dal febbraio 2013), che si auspica contrassegnata da maggiore stabilità e condizioni favorevoli alla impostazione e adozione di riforme organiche, anche su un piano costituzionale. Alcuni considerano tali riforme come semplice correzione dei difetti imputati alla riforma del titolo V approvata nel 2001, altri come ripensamento complessivo del sistema, includendo gli aspetti allora non affrontati. Sono riforme che talora sembrano puntare a un ripristino degli equilibri precedenti, o che, all’inverso, prospettano nuovi elementi di un federalismo più coerente, o che, ancora, in alcune impostazioni si concentrano pressoché esclusivamente su preoccupazioni di contenimento della spesa pubblica, mentre in altre non trascurano la coerenza degli aspetti istituzionali. Per altro verso, nel dibattito sono oggetto di una particolare attenzione gli specifici assetti e prerogative delle regioni ad autonomia differenziata.

Dal canto suo, pur nella fase finale della XVI legislatura, il governo Monti ha inteso presentare un disegno di legge concernente, appunto, «disposizioni di revisione della Costituzione e altre disposizioni costituzionali in materia di autonomia regionale» (d.d.l. Sen. 15 ott. 2012 nr. 3520). In sintesi, il disegno tende a: a) ridefinire le materie riservate alla competenza esclusiva statale, estendendone il perimetro a scapito delle competenze proprie delle regioni e di quelle concorrenti; b) rivedere i limiti e le modalità di svolgimento di queste ultime; c) circoscrivere i margini di azione delle regioni a statuto speciale, particolarmente in materia finanziaria.

In relazione al primo aspetto, in particolare, si riconducono alla legislazione dello Stato materie quali il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (che, come è già accaduto per l’armonizzazione dei bilanci pubblici, verrebbe così spostato dall’elenco delle materie a competenza concorrente); o materie attualmente non considerate quali «norme generali sul procedimento amministrativo e sulla semplificazione amministrativa» o quali «disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche». Si ridefiniscono le competenze in materia di porti, aeroporti e reti di trasporto (riservando allo Stato «porti marittimi e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale, grandi reti di trasporto e di navigazione») e in materia di energia (in riferimento a «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, di interesse non esclusivamente regionale»); e, complessivamente, si assegna alle leggi dello Stato il compito di assicurare «la garanzia dei diritti costituzionali e la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica».

Quanto ai contenuti della legislazione statale in relazione alle competenze concorrenti, questi non sono più circoscritti alla determinazione dei principi fondamentali, ma ora estesi alla disciplina dei «profili funzionali dell’unità giuridica ed economica della Repubblica stabilendo, se necessario, un termine non inferiore a 120 giorni per l’adeguamento della legislazione regionale», termine decorso il quale si aprirebbe la possibilita di ricorrere alla Corte costituzionale.

In rapporto alle regioni speciali, poi, oltre alla eliminazione di anomalie che riguardano specificamente la Regione siciliana (a partire dalle modalità di impugnativa delle leggi regionali), si prevede un vincolo generale a esercitare l’autonomia in materia finanziaria «concorrendo con lo Stato e con gli altri enti territoriali ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea e dagli obblighi internazionali». Complessivamente, dunque, si è trattato di un intervento circoscritto, anche in considerazione dei tempi ristretti che rimanevano alla legislatura, e concentrato – come spiega la relazione – su «correzioni quantitativamente limitate ma significative». In sostanza, il disegno prevede una consistente riappropriazione di determinate competenze da parte dello Stato e, soprattutto, esso afferma una generale clausola ‘di supremazia’ (o ‘di salvaguardia’), assegnando alle leggi dello Stato un ruolo generale di garanzia dei diritti costituzionali e di tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Il progetto del governo Monti non ha mancato di sollevare critiche e obiezioni, anzitutto da parte delle regioni. D’altronde, nel delineare questi elementi di revisione del riparto di competenze legislative e, in definitiva, della configurazione della funzione unificante riservata allo Stato, il disegno di legge lascia sullo sfondo temi determinanti per gli equilibri complessivi e la funzionalità del sistema: a partire dagli strumenti della leale collaborazione e dalla revisione del bicameralismo, al fine di configurare un ramo del Parlamento quale ‘Camera delle autonomie’ o comunque per garantire il coinvolgimento delle regioni e delle autonomie nella elaborazione e nella definizione delle regole che le riguardano. E sullo sfondo rimangono altri argomenti, del dibattito sulla revisione costituzionale, assai rilevanti per le prospettive della regionalizzazione italiana: dalla travagliata revisione delle province, al riordino territoriale delle regioni stesse, sino alle sorti delle autonomie speciali.

Tendenze attuali della dottrina

Le oscillazioni, i problemi, i contrasti che hanno segnato la prassi e il dibattito politico sul regionalismo hanno trovato eco negli approfondimenti e nelle riflessioni della cultura giuridica e istituzionale (ISSIRFA-CNR 2011; Il regionalismo italiano tra tradizioni, 2012; Il regionalismo italiano dall’Unità, 2012; Il federalismo alla prova, 2012; Il governo delle regioni, 2012), che sul finire del primo decennio degli anni 2000 ha avuto occasione di tracciare bilanci dell’esperienza regionale e interrogarsi sulle prospettive future: particolarmente nella congiuntura del quarantennale della istituzione delle regioni ordinarie, 1970-2010 (Dove vanno le regioni?, 2010) e del decennale della riforma del titolo V, 2001-2011 («Le Regioni», 2011, 2-3). In riferimento a quest’ultima, le analisi si concentrano, per un verso, sui caratteri di fondo e sui contenuti specifici della disciplina costituzionale, indagando sulle incongruenze e le lacune e spesso avanzando proposte di una nuova revisione della Costituzione. Gli interventi sono concepiti ora come puntuali aggiustamenti e correttivi a singole disposizioni, al fine di emendarne i difetti; talaltra delineando nuove impostazioni, di più ampia ambizione. Per altro verso, le indagini si rivolgono, invece, ai problematici processi di attuazione della riforma costituzionale, esaminando l’azione (incerta e lacunosa) del legislatore nazionale, anzitutto; ma anche gli esiti dell’intensa opera svolta, in questo periodo, dalla Corte costituzionale, e quindi, con specifici approfondimenti settore per settore, le tendenze desumibili dall’uso dei propri poteri legislativi da parte delle regioni.

Nel complesso – e anche nelle analisi di autori che non usano esplicitamente espressioni quali ‘parabola del regionalismo’ o ‘esperienza sconfortante’ (Mangiameli 2012) – sembra prevalere, in primo luogo, una sensazione di disincanto, ben percepibile nelle valutazioni di coloro che avevano preso parte alle fasi iniziali e alle svolte determinanti della regionalizzazione, ma condivisa anche dalle generazioni più giovani. A questa esperienza si rimproverano, in particolare (Bassanini 2012): una ripartizione di competenze confusa, causa di una insostenibile conflittualita; i ritardi nell’attuazione, nel trasferimento di poteri e di risorse, e nella realizzazione del federalismo fiscale; una resistenza al cambiamento delle amministrazioni centrali, restie ad adeguare il proprio ruolo così come le proprie strutture; un’analoga incapacità di innovare e razionalizzare le amministrazioni locali, così come le strutture periferiche dello Stato. Eppure, condiviso si presenta il rifiuto di ogni ritorno al passato e diffusa pare l’opzione per una prosecuzione dei processi riformatori, a partire dall’attuazione del federalismo fiscale, nonostante l’incedere ondivago del regionalismo italiano, per cui talora – come nel caso delle inattuate forme di differenziazione introdotte nell’art. 116 Cost. ‒ prevale il sospetto che si perseguano risposte simulate ai problemi sostanziali del Paese, in difetto di un modello di Stato regionale sufficientemente condiviso (Morrone 2010).

D’altronde, è rilevante la posizione che riferisce una parte significativa delle difficoltà di funzionamento del sistema alle incertezze relative al governo locale. In questo senso, al centro dell’attenzione si sono posti, in modo particolare, i travagli delle province, di cui, nell’arco di un breve e tumultuoso periodo, si sono prospettate sorti vistosamente altalenanti: dalla soppressione alla regionalizzazione, dal riordino territoriale alla trasformazione in ente di mero coordinamento o, per altro verso, a soggetto a rappresentanza indiretta, fino alla previsione di un rinvio che lascia dubbi e perplessità di fondo sulla prosecuzione del processo riformatore, e sulle direzioni in cui questo si muoverà. In materia, la dottrina si presenta divisa, anche se robusto pare l’orientamento a riconsiderare comunque profondamente il ruolo e le funzioni delle province, con diversità di opinioni, peraltro (in attesa di una pronuncia della Corte costituzionale i cui tempi, oltre che gli esiti, sono incerti), sulla legittimità della previsione di elezione degli organi in via indiretta, quali espressione dei sindaci e dei consiglieri dei comuni. Analoghi dubbi e problemi si pongono, del resto per la fondamentale questione delle città metropolitane, ancora aperta e – nonostante i passi avanti compiuti nell’ultima fase della legislatura – anch’essa rinviata. Maggiori consensi, invece, si registrano in relazione ai problemi dei piccoli comuni, a sostegno di una soluzione basata sull’esercizio delle funzioni in forma associata, particolarmente tramite unioni (soluzione, peraltro, a sua volta affrontata con una sequenza di disposizioni che prevedono specifiche soluzioni non sempre lineari e ineccepibili).

La configurazione dell’ordinamento locale rivela un elemento particolarmente problematico per il ruolo delle stesse regioni, consentendo allo Stato di porsi costantemente come interlocutore diretto e garante delle autonomie locali, mentre le regioni non riescono a esercitare una reale funzione di propulsione dei sistemi locali, registrando così vari insuccessi nelle politiche di associazionismo comunale, e segnando fenomeni di dilatazione degli apparati regionali. Il rischio delle regioni, in definitiva, è di essere percepite, per certi versi, come livello debordante e centralizzatore e, per altri (ma in termini non necessariamente incompatibili), come livello troppo debole per contrastare frammentazioni e localismi (Gardini 2010, Civitarese 2010). Su un punto, comunque, le posizioni della dottrina paiono concordi: l’insofferenza nei confronti della frenetica successione di interventi frammentari e parziali, sulla spinta di logiche di emergenza, per riprendere una impostazione organica che – nel fallimento delle varie ipotesi di ‘codice’ o ‘carta’ delle autonomie locali – l’ordinamento locale insegue vanamente ormai dall’inizio degli anni 2000.

Quanto alle prospettive delle riforme costituzionali, al di là di condivise esigenze di revisione del riparto di competenze definito dal titolo V, in riferimento a specifiche funzioni, rilevante è il sostegno alla proposta di introduzione, nel nostro Paese, di una ‘clausola di supremazia’ ispirata a quelle vigenti in consolidati sistemi federali (Bassanini 2012) o, in particolare, di una formula parallela a quella contenuta nell’art. 72 della Grundgesetz (la Costituzione tedesca), che consentirebbe al legislatore statale di intervenire «allorché ravvisi che una questione non può essere efficacemente regolata dalla legislazione delle singole regioni o lo richiedano la tutela di fondamentali interessi nazionali». Formule di questo tipo, del resto, potrebbero mettere in discussione il mantenimento delle competenze concorrenti, comportando una complessiva flessibilizzazione del sistema, sino a sfiorare una decostituzionalizzazione delle competenze (Barbera 2012).

Temi di questo tipo, del resto, si ricollegano alle prospettive di ulteriori interventi su altri aspetti della Costituzione, tra cui rimane diffuso, in dottrina (nonostante le delusioni), il richiamo all’esigenza di rivedere in senso autonomistico l’assetto del Parlamento, particolarmente per quanto riguarda la composizione e il ruolo del Senato. Non mancano, tuttavia, tesi volte a concentrare la rappresentanza territoriale, invece, sul sistema delle Conferenze, considerato come snodo più realistico e funzionale delle relazioni tra Stato, regioni e autonomie locali (Bin, Ruggiu 2006). Importante è stata anche l’attenzione dedicata all’autonomia finanziaria da parte degli studiosi, ispirati a un atteggiamento di positiva aspettativa nei confronti del federalismo fiscale, considerato come occasione di superamento della spesa storica, in direzione di una nuova responsabilizzazione delle regioni e degli enti locali. Questa attenzione ha accompagnato ogni fase della – lenta e incerta – attuazione dell’art. 119 Cost. (Antonini 2008; Bertolissi 2008; Buglione 2012) sino alle fasi recenti, quando alle complessità insite in un cambiamento così rilevante di assetti da tempo consolidati, si sono aggiunti gli effetti delle manovre connesse alla grave crisi economica e, da ultimo, alla stessa revisione che, nel 2012, ha introdotto nella Costituzione il principio del ‘pareggio di bilancio’(Brancasi 2012; Jorio 2012).

Sullo sfondo rimane, generalmente, il tema delle autonomie speciali, a proposito delle quali, del resto, sembra difficile rintracciare, nelle indagini scientifiche, posizioni favorevoli agli assetti esistenti. Piuttosto, gli studi si incentrano sulle esperienze realizzate, mettendone in rilievo limiti, ritardi e, soprattutto, disparità non facilmente comprensibili, anzitutto sul piano finanziario, e ponendo l’interrogativo sulla perdurante attualità delle giustificazioni originarie, interrogativo che potrebbe ricevere risposte differenziate, anzitutto tenendo conto della presenza o meno di minoranze linguistiche (De Martin 2012). Ma non mancano considerazioni in senso inverso, da parte di chi rileva un fenomeno di capovolgimento delle posizioni, particolarmente laddove le regioni speciali si sono trovate a inseguire le regioni di diritto comune, destinatarie di nuove funzioni, con i conferimenti della seconda metà degli anni Novanta o con la ripartizione di competenze introdotta con la riforma del titolo V del 2001 (cfr. Ferrara, Scarpone 2012). Infine, per quanto concerne le ulteriori forme di differenziazione introdotte nell’art.116 Cost. dalla riforma del 2001, senza che ne sia derivata alcuna pratica attuazione, in dottrina – ove pure non si è mancato di approfondirne i vari profili teorici – si è avanzata l’opinione che un’attivazione non si presenti in realtà opportuna, quanto meno fino a quando il titolo V non sia entrato pienamente a regime (Carloni 2008).

Considerazioni conclusive

Dall’epoca dell’unificazione all’Assemblea costituente, dalla fase della regionalizzazione alle prospettive federalistiche, sino alle tendenze emerse nel problematico contesto della crisi, il dibattito italiano sulle regioni si presenta segnato da un andamento incerto e ondivago: tra orientamenti e momenti di enfatizzazione dei poteri autonomistici, che si spingono a sancire nella Costituzione una definizione di enti locali e regioni come ‘elementi costitutivi della Repubblica’, o a evocare esplicitamente, nella legislazione sul regime fiscale, il termine stesso ‘federalismo’ (l. 42 del 2009), da un lato, e atteggiamenti profondamente critici nei confronti di ogni elemento di autonomia, che sembrano dimenticare i limiti e i problemi evidenziati dall’esperienza del centralismo, dall’altro. Al tempo stesso, non pare dubbio che le regioni si siano ormai radicate nel nostro tessuto istituzionale, costituendone uno snodo centrale e un elemento fondamentale e non reversibile.

Del resto, se nel dibattito politico-culturale sul regionalismo si manifestano frequentemente atteggiamenti che esprimono critiche e insoddisfazioni per l’esperienza sin qui condotta, ciò non impedisce – o, quanto meno, non ha impedito in varie fasi – un crescente consenso a una prospettiva riformatrice di tipo federalista, nella (generalmente implicita) convinzione che sia proprio la inadeguatezza dei poteri trasferiti e il peso dei condizionamenti del centro a determinare i limiti della prassi regionale, e che un maggiore grado di reale autonomia, sia in relazione alle regole sia in rapporto al reperimento delle risorse, possa determinare un ben più elevato livello di efficienza del sistema e di responsabilizzazione nei confronti delle popolazioni amministrate.

La questione basilare, in questo scenario, è la perdurante ricerca di adeguati equilibri tra ciò che deve corrispondere a un nucleo di regole e principi unitari e unificanti e ciò che spetta alla sfera delle dinamiche ed esigenze proprie dei singoli territori. Il tentativo, dunque, è quello di perseguire una rinnovata definizione di ruoli e responsabilità, in un funzionale circuito di collaborazione volto a perseguire una sostanziale condivisione degli elementi fondamentali dell’unità giuridica ed economica del Paese, nel rispetto dei principi di leale collaborazione e sussidiarietà. Le prospettive del regionalismo italiano si presentano strettamente legate alla ricerca di nuove forme e di nuove dinamiche, basate su un’autonomia che sappia porsi in termini nettamente alternativi rispetto sia a localismi egoistici e conflittuali sia a neocentralismi rigidi e uniformanti.

Una strada di ripensamento dell’autonomia, quale quella accennata, del resto, potrebbe configurarsi come un fattore importante di reazione alla crisi, economica e politica, nel perseguimento di una valorizzazione delle potenzialità dei territori e delle comunità periferiche, preziose per lo sviluppo complessivo del Paese. Su questo piano, le contrapposizioni anche tra termini quali ‘regionalismo’ o ‘federalismo’ (quest’ultimo depurato sia da propagandistiche enfatizzazioni, per un verso, sia da richiami tecnici a sistemi contrassegnati – come quello americano – da diversi presupposti storici e culturali, per l’altro), possono stemperarsi in una comune prospettiva autonomista, traducibile in norme costituzionali e legislative, attraverso la modifica delle regole sulle competenze e sul funzionamento delle istituzioni. La nuova prospettiva, tuttavia, non si esaurisce qui, ma, in una visione sostanziale e sociale che persegue un migliore funzionamento dell’intero sistema, assume come suo obiettivo di fondo quello di realizzare una nuova coesione, coinvolgendo, con ruoli diversi e complementari, i vari territori e livelli (nazionale, regionale, locale).

Bibliografia

G. Ambrosini, Un tipo intermedio di Stato fra l’unitario e il federale caratterizzato dall’autonomia regionale, 1933, in Id., L’ordinamento regionale. La riforma regionale nella Costituzione italiana, Bologna 1957, pp. 3-10.

D.J. Elazar, Federal systems of the world: A handbook of federal, confederal and autonomy arrangements, London 1991.

G. de Vergottini, Stato federale, in Enciclopedia del diritto, 43° vol., Milano 1992, ad vocem.

R. Bin, I. Ruggiu, La rappresentanza territoriale in Italia, «Le istituzioni del federalismo», 2006, 6.

B. Caravita, Lineamenti di diritto costituzionale federale e regionale, Torino 2006, 2009.

M. Bertolissi, La delega per l’attuazione del federalismo fiscale, «Federalismo fiscale», 2008, 2, pp. 89-108.

E. Carloni, Teoria e pratica della differenziazione: federalismo asimmetrico e attuazione del titolo V, «Le istituzioni del federalismo», 2008, 1, pp. 80 e segg.

P. Caretti, G.Tarli Barbieri, Diritto regionale, Torino 2009, 20123.

Diritto regionale e degli enti locali, a cura di S. Gambino, Milano 2009.

F. Bilancia, L’instabile quadro del riparto delle competenze legislative, «Istituzioni del federalismo», 2010, 1-2, pp. 63-80.

S. Civitarese, Sistema regionale-locale e finanziamento delle autonomie, «Istituzioni del federalismo», 2010, 1-2, pp. 81-93.

Dove vanno le regioni?, «Istituzioni del federalismo», 2010, 1-2.

G. Gardini, Dalla questione meridionale alla questione settentrionale: l’amministrazione regionale in cerca di identità, «Istituzioni del federalismo», 2010, 1-2, pp. 11-47.

A. Morrone, Per un “progetto di regione”, «Istituzioni del federalismo», 2010, 1-2, pp. 47-63.

F. Pizzetti, A dieci anni dalla riforma del titolo V: perché il federalismo per l’Italia, «Le Regioni», 2010, 5, pp. 1013-20.

«Le Regioni», 2011, 2-3: Dieci anni dopo. Un bilancio della riforma regionale 2001-2011, Atti del Convegno ‘Dieci anni dopo. Più o meno autonomia regionale?’, Bologna 2011.

G. Falcon, Dieci anni dopo. Un bilancio della riforma del titolo V, «Le Regioni», 2011, 2-3, pp. 241-50.

ISSIRFA-CNR, Sesto Rapporto sullo stato del regionalismo in Italia, a cura di A. D’Atena, Milano 2011.

F. Bassanini, Postfazione. Riforma della riforma o ritorno al passato?, in Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle regioni, a cura di L. Vandelli, F. Bassanini, Bologna 2012, pp. 509-21.

M. Belletti, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionale, Roma 2012.

Diritto regionale, a cura di R. Bin, G. Falcon, Bologna 2012.

A. Brancasi, L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di revisione affrettata della Costituzione, «Quaderni costituzionali», 2012, 1, p. 108-10.

E. Buglione, La finanza regionale: storia scritta e da scrivere, in Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, a cura di S. Mangiameli, Milano 2012, pp. 383-421.

G.C. De Martin, Stato e prospettive della specialità regionale, in Il governo delle regioni: sistemi politici, amministrazioni, autonomie speciali, a cura di L. Vandelli, Bologna 2012, pp. 251-64.

Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle regioni, a cura di L. Vandelli, F. Bassanini, Bologna 2012.

A. Ferrara, D. Scarpone, Il caso delle regioni speciali e delle province autonome, in Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, a cura di S. Mangiameli, Milano 2012.

Il governo delle regioni: sistemi politici, amministrazioni, autonomie speciali, a cura di L. Vandelli, Bologna 2012.

E. Jorio, Il federalismo fiscale tra spinte dell’ordinamento interno e diritto dell’UE, Milano 2012.

Il regionalismo italiano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, Atti delle giornate di studio, Roma 20-22 ottobre 2011, a cura di S. Mangiameli, 1° vol., Milano, 2012.

Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di Stato in Italia, a cura di S. Mangiameli, Milano 2012.

Webgrafia

L. Antonini, Il federalismo fiscale a una svolta, 2008, www.federalismi.it.

Il regionalismo visto da Roberto Bin, 2011, www. dirittiregionali.org.

A. Barbera, Da un federalismo “insincero” ad un federalismo “preso sul serio”? Una riflessione sull’esperienza regionale, 2012, «Forum di Quaderni costituzionali», www.forumcostituzionale.it.

S. Mangiameli, La nuova parabola del regionalismo italiano: tra crisi istituzionale e necessità di riforme, 2012, www.issirfa.cnr.it.

Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 15 ottobre 2013.