Legittimo impedimento a comparire. Il legittimo impedimento ministeriale

Libro dell'anno del Diritto 2012

Legittimo impedimento a comparire. Il legittimo impedimento ministeriale

Carlotta Conti

Legittimo impedimento a comparire
Il legittimo impedimento ministeriale

A seguito del referendum popolare del 12-13.6.2011 è stata abrogata la l. 7.4.2010, n. 51, relativa al legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, nel testo risultante da una articolata declaratoria con la quale la Corte costituzionale aveva comunque ricondotto la disciplina nell’alveo delle regole ordinarie stabilite dal codice di procedura penale, affermando il principio del controllo giurisdizionale. La ratio decidendi era consistita nel rilievo che le disposizioni censurate prevedevano norme di favore per determinate cariche pubbliche e creavano una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini stigmatizzabile ai sensi dell’art. 3 Cost. Siffatte prerogative sarebbero risultate legittime soltanto se fossero state espressamente previste nella Carta fondamentale ovvero se fossero state introdotte con legge costituzionale. Di conseguenza, il ricorso alla legge ordinaria si scontrava con l’art. 138 Cost.

La ricognizione. L’evoluzione normativa

Con il d.P.R. 18.7.2011, n. 115 il Presidente della Repubblica ha decretato l’abrogazione della l. 7.4.2010, n. 51 nel testo risultante dalla sentenza C. cost., 25.1.2011, n. 23 che ne aveva già dichiarato la parziale illegittimità. Il predetto provvedimento normativo era stato adottato dal legislatore al fine di dettare una disciplina speciale in materia di legittimo impedimento a comparire nell’udienza penale in favore del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri. Intervenuta a seguito di due precedenti tentativi del Parlamento di tutelare l’esercizio delle funzioni istituzionali rispetto all’incedere della giurisdizione – specialmente a fronte di eventuali iniziative pretestuose e strumentali – già caduti sotto la scure della Corte costituzionale, la l. n. 51/2010 aveva cercato di tracciare una disciplina che tenesse conto delle esperienze pregresse. La Consulta, tuttavia, attraverso un’articolata declaratoria – che si ricollegava idealmente ai propri precedenti, sul medesimo oggetto, emessi sia nell’ambito del giudizio incidentale di legittimità delle leggi, sia in sede di conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato – aveva ritenuto necessario ricalibrare il bilanciamento tra il valore costituzionale dell’esercizio della giurisdizione e quello dello svolgimento delle attività politico-istituzionali dei membri del Governo. Il referendum popolare impone oggi di collocare la materia in oggetto nell’alveo della disciplina comune tratteggiata dal codice di procedura penale (art. 420 ter c.p.p.), senza peraltro dimenticare i recenti moniti del Giudice delle leggi.

1.1 Le esperienze pregresse. La l. n. 140/2003 e la sentenza costituzionale n. 24/2004

Al fine di comprendere appieno il senso dell’intervento parlamentare e le ragioni sottese ai recenti rivolgimenti occorre esaminare rapidamente le vicende anteriori che ne costituiscono il necessario presupposto ermeneutico. La l. 20.6.2003, n. 140 aveva stabilito che il Presidente della Repubblica (salvo quanto previsto dall’art. 90 Cost.), i Presidenti del Senato e della Camera, il Presidente del Consiglio (salvo quanto previsto dall’art. 96 Cost.) ed il Presidente della Corte costituzionale non fossero sottoponibili a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti all’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle stesse. Con riferimento al medesimo arco temporale era prevista la sospensione dei processi penali in corso a carico dei predetti soggetti, quale che fosse la fase, lo stato o il grado in cui il rito si trovava (art. 1). La Corte costituzionale, con sentenza del 2004, aveva dichiarato l’illegittimità della disciplina appena esposta per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. (C. cost., 20.1.2004, n. 24)1. È opportuno accennare rapidamente alle argomentazioni giacché esse hanno costituito imprescindibili punti di riferimento anche nella pronuncia del 2011. Il Giudice delle leggi aveva affermato che la norma censurata stabiliva una sospensione del processo penale ampliando il catalogo delle ipotesi tipiche già esistenti, di solito previste per situazioni oggettive del processo e funzionali alla sua regolare prosecuzione. Nei casi introdotti dal legislatore il bene tutelato doveva ravvisarsi in un’esigenza extraprocessuale costituita dall’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono alle alte cariche dello Stato. Tale interesse – peraltro apprezzabile – poteva essere tutelato in armonia con i princìpi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione era strumentale. La Corte – sia pure incidentalmente – non aveva mancato di notare che, come da alcuni rilevato, la norma risultava inquadrabile anche in un’ipotesi di presunzione assoluta di legittimo impedimento ravvisabile nell’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche. Per il Giudice delle leggi una simile sospensione, generale, automatica e di durata non determinata, non contrastava di per sé con il principio di eguaglianza, stante la peculiarità dei valori ricollegabili alle posizioni soggettive prese in considerazione dalla disciplina. Tuttavia, l’automatismo generalizzato della stasi procedimentale incideva, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale era posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, poteva concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale della propria innocenza, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.). In termini analoghi risultava altresì sacrificato il diritto della parte civile che, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, doveva soggiacere alla sospensione prevista dall’art. 75, co. 3, c.p.p.2. Al tempo stesso, la Corte aveva rilevato che la norma censurata violava anche l’art. 3 Cost., in quanto accomunava in un’unica disciplina cariche diverse per le fonti di investitura e per la natura delle funzioni e distingueva per la prima volta, sotto il profilo della parità riguardo ai princìpi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti.

1.2 La l. n. 124/2008 e la sentenza costituzionale n. 262/2009

Al fine di soddisfare le esigenze di tutela delle funzioni politico-istituzionali, colmando la lacuna determinata dalla precedente declaratoria di incostituzionalità, il legislatore era nuovamente intervenuto con la l. 23.7.2008, n. 124. Tale disciplina tentava di tenere conto dell’insegnamento della Consulta che aveva richiamato con forza la tutela del diritto di difesa. Così la nuova normativa stabiliva che, salvo i casi previsti dagli artt. 90 e 96 Cost., i processi penali – ancorché relativi a fatti antecedenti all’assunzione della carica o della funzione – nei confronti dei soggetti che rivestivano la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato e della Camera e di Presidente del Consiglio dei ministri fossero sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione era rinunciabile da parte dell’imputato o del suo difensore munito di procura speciale e, comunque, non impediva al giudice l’assunzione delle prove non rinviabili. Inoltre, qualora fosse stata disposta detta stasi processuale, non si applicava la sospensione del processo civile in caso di trasferimento dell’azione. Chiamato a pronunciarsi anche in ordine a tale normativa il Giudice delle leggi ne aveva dichiarato l’incostituzionalità per violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 138 Cost., in relazione alla disciplina delle prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost.3. La Corte – pur rilevando che la disposizione presentava significative novità normative rispetto alla l. n. 140/2003 quali, ad esempio, la rinunciabilità e la non reiterabilità della sospensione dei processi penali (co. 2 e 5), nonché una specifica disciplina a tutela della posizione della parte civile (co. 6), mostrando in tal modo di prendere in considerazione, sia pure parzialmente, la sentenza n. 24/2004 – aveva affermato che essa introduceva in via ordinaria un eccezionale ed innovativo status protettivo, che derogava al principio di uguaglianza e non risultava dalle norme costituzionali sulle prerogative. Per contro, dal sistema della Carta fondamentale si ricavava che una disciplina del genere avrebbe dovuto essere munita di copertura costituzionale, pena la violazione dell’art. 138 Cost.4. A parere della Consulta, il problema dell’individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, alle origini della formazione dello stesso sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione; da un altro lato, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, giacché possono incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Pertanto, la Corte costituzionale aveva concluso che una simile architettura istituzionale, non poteva essere alterata dal legislatore ordinario che, in materie del genere, era legittimato ad intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, mentre gli era preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato. Tale soluzione derivava non dal riconoscimento di una espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le suddette prerogative fossero sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale (es. artt. 68, 90, 96 Cost.).

1.3 La disciplina introdotta con l. 7.4.2010, n. 51

Tutti i cennati profili erano ben presenti al legislatore quando ha predisposto la l. n. 51/20105. Tale normativa risultava soggettivamente più limitata delle precedenti giacché si riferiva esclusivamente al Premier ed ai Ministri dettando per ciascuno dei predetti organi una disciplina calibrata sulle rispettive attribuzioni. Al tempo stesso, le nuove disposizioni intendevano tracciare un espresso collegamento con la regolamentazione codicistica del legittimo impedimento e si ponevano come una normativa speciale finalizzata a tipizzare ipotesi ulteriori rispetto a quelle ivi previste. Inoltre, si configuravano come una disciplina- ponte destinata ad essere applicata nelle more dell’entrata in vigore di una legge costituzionale da emanarsi non oltre diciotto mesi e finalizzata a ridisciplinare funditus le prerogative dei predetti organi onde consentire loro il sereno svolgimento delle rispettive funzioni (art. 2)6. L’art. 1, co. 1, della l. n. 51 stabiliva che per il Presidente del Consiglio dei ministri costituiva legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., il concomitante esercizio «di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti» – e in particolare dagli artt. 5, 6 e 12 della l. 23.8.1988, n. 400, dagli artt. 2, 3 e 4 del d. lgs. 30.7.1999, n. 303 e dal regolamento interno del Consiglio dei ministri, di cui al d.p.c.m. 10 novembre 1993) – , «delle relative attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo ». L’art. 1, co. 2, stabiliva che per i ministri costituiva legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., l’esercizio delle attività previste dalle leggi e dai regolamenti che ne disciplinavano le attribuzioni, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di governo. Nelle suddette ipotesi, il giudice, su richiesta di parte, doveva rinviare il processo ad altra udienza (art. 1, co. 3). Inoltre, qualora la Presidenza del Consiglio dei ministri avesse attestato che l’impedimento risultava continuativo e correlato allo svolgimento delle menzionate funzioni, il giudice avrebbe dovuto rinviare il processo ad udienza successiva e comunque non oltre sei mesi (art. 1, co. 4)7.

La focalizzazione. La sentenza costituzionale n. 23/2011

La disciplina appena esposta aveva costituito oggetto di censura da parte del Tribunale di Milano che, con più ordinanze, aveva rilevato come siffatta normativa avrebbe introdotto, con legge ordinaria, una prerogativa in favore dei titolari di cariche governative, in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e con l’art. 138 Cost. I giudici a quibus ritenevano, in particolare, che la legge individuasse con formule generiche ed indeterminate le attività costituenti legittimo impedimento del titolare di una carica governativa e sottraesse al giudice il potere di valutare in concreto l’impossibilità a comparire connessa allo specifico impegno addotto, soprattutto nell’ipotesi di impedimento continuativo, nella quale l’imputato avrebbe potuto ottenere il rinvio mediante un «meccanismo di autocertificazione». Ciò avrebbe costituito una «presunzione assoluta di impedimento», collegata allo «status permanente» della titolarità della carica, o comunque una prerogativa o immunità del titolare che, viceversa, non poteva essere introdotta con legge ordinaria.

2.1 I principi già affermati dal Giudice delle leggi

Nel rispondere al quesito, con la sentenza 25.1.2011, n. 23, la Corte costituzionale aveva ricostruito il quadro di principio ricavabile dai precedenti dicta alla luce del necessario bilanciamento tra esercizio della giurisdizione e tutela delle funzioni di governo, nell’ottica del doveroso rispetto del principio di leale collaborazione8. Applicando i ricordati canoni alla normativa sottoposta al proprio esame, la Corte aveva dovuto stabilire se essa, derogando alle ordinarie norme processuali, introduceva, con legge ordinaria, una prerogativa in violazione del principio della eguale sottoposizione dei cittadini alla giurisdizione, in contrasto con gli artt. 3 e 138 Cost. All’uopo si era posta la necessità di confrontare la disciplina censurata con il regime processuale comune, in base al quale l’impedimento dedotto dall’imputato non poteva essere generico ed il rinvio dell’udienza da parte del giudice non poteva essere automatico. Sotto il primo profilo, l’imputato aveva l’onere di specificare l’impedimento, potendo egli addurre come tale un preciso e puntuale impegno e non già una parte della propria attività genericamente individuata o complessivamente considerata. Sotto il secondo profilo, il giudice doveva valutare in concreto, ai fini del rinvio dell’udienza, lo specifico impedimento addotto. Ebbene, ad avviso della Corte si doveva prospettare una risposta non unitaria, bensì articolata sulla base delle variegate modulazioni della disciplina in esame declinate nei co. 1, 3 e 4 dell’art. 1 l. n. 51/2010.

2.2 Le ipotesi di legittimo impedimento previste dall’art. 1, co. 1, l. n. 51/2010

In verità, per la Consulta, l’art. 1, co. 1 – che prevedeva le ipotesi di impedimento del Premier – poteva essere sottoposto ad una interpretazione che lo riconducesse nel solco della disciplina comune in modo da neutralizzare ogni deroga e, dunque, da rendere non necessaria una legge costituzionale. La Corte, facendo riferimento ai lavori parlamentari ed a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, aveva affermato che, con la disposizione censurata, il legislatore sembrava aver voluto introdurre una norma meramente interpretativa dell’ambito di applicazione di un istituto processuale senza prevedere una presunzione assoluta di legittimo impedimento e senza imporre alcun automatismo9. L’art. 1, co. 1, si limitava ad introdurre un criterio volto ad orientare il giudice nell’applicazione dell’art. 420 ter c.p.p. mediante l’individuazione, in astratto, delle categorie di attribuzioni governative a tal fine rilevanti, da ricondurre alla categoria di genere, enunciata in chiusura della predetta norma, delle attività «comunque coessenziali alla funzione tipica del Governo», previste dalle fonti normative espressamente menzionate; di quelle rispetto ad esse preparatorie (cioè specificamente preordinate); e, infine, di quelle consequenziali (cioè immediatamente successive e strettamente conseguenti)10. Ad avviso della Corte costituzionale un simile criterio legislativo era compatibile con i tratti essenziali del regime processuale comune. La disposizione censurata non consentiva al Presidente del Consiglio dei ministri di addurre come impedimento il generico dovere di esercitare le attribuzioni da essa previste. Viceversa, occorreva sempre, secondo la logica dell’art. 420 ter c.p.p., che l’imputato specificasse la natura dell’impedimento, adducendo un preciso e puntuale impegno riconducibile alle ipotesi indicate. Ciò naturalmente valeva anche per le attività «preparatorie e consequenziali», a proposito delle quali doveva ritenersi che l’onere di specificazione, sempre gravante sull’imputato, si riferisse sia all’impedimento principale (l’esercizio di attribuzione coessenziale), sia a quello accessorio (l’attività preparatoria o consequenziale). In altri termini, il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe dovuto indicare «un preciso e puntuale impegno», che avesse «carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad altro preciso e puntuale impegno, quest’ultimo riconducibile ad una attribuzione coessenziale alla funzione di governo prevista dall’ordinamento». Per la Consulta il criterio posto dal legislatore non poteva rivelarsi irragionevole o sproporzionato, dal momento che esso era ancorato alla elaborazione giurisprudenziale e non copriva l’intera attività del titolare della carica, ma solo le attribuzioni che potevano essere qualificate in termini di coessenzialità rispetto alle funzioni di governo. Rapportato alla disciplina già ricavabile dall’art. 420 ter c.p.p., tale criterio legislativo aveva, dunque, un effetto di calibratura dell’istituto processuale comune, nelle ipotesi in cui esso dovesse trovare applicazione in riferimento ad impedimenti consistenti nell’esercizio di funzioni di governo. In termini negativi, il giudice non avrebbe potuto riconoscere come impedimenti legittimi impegni politici non qualificati, cioè non riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo, pur previste da leggi o regolamenti. In termini positivi, ove fosse stato addotto un impedimento riconducibile a tale tipologia di attribuzioni, il giudice non avrebbe potuto disconoscerne il rilievo in astratto, fermo restando il suo potere di valutare in concreto lo specifico impedimento. Prospettando una siffatta interpretazione, la Corte aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità relativa al co. 1.

2.3 Il sindacato giurisdizionale previsto dall’art. 1, co. 3, l. n. 51/2010

Solcando il terreno relativo agli spazi riservati alla valutazione del giudice dall’art. 1, co. 3, l. n. 51/2010, a mente del quale «il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti rinvia il processo ad altra udienza», la Corte si era chiesta se tale disposizione fosse conforme a quanto stabilito dall’art. 420 ter, co. 1, c.p.p., che attribuisce al giudice i poteri di valutazione dell’impedimento addotto. A detta della Consulta, l’art. 1, co. 3, subordinava il rinvio dell’udienza esclusivamente ad un duplice riscontro. Il giudice avrebbe dovuto limitarsi ad accertare, da un lato, che l’impegno dedotto dall’imputato come impedimento sussistesse realmente in punto di fatto; dall’altro lato, che esso fosse riconducibile ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo previste da leggi o regolamenti, ovvero avesse carattere preparatorio o consequenziale rispetto ad esse. Si trattava, dunque, di un margine di valutazione ben più ristretto rispetto a quello riconosciuto dall’art. 420 ter, co. 1, c.p.p. che consentiva al giudice di valutare in concreto non solo la sussistenza in fatto dell’impedimento, ma anche il carattere assoluto e attuale dello stesso11. Ove quest’ultima norma fosse risultata applicabile all’ipotesi in esame, il giudice avrebbe avuto il potere di valutare, caso per caso, se lo specifico impegno addotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, pur quando riconducibile in astratto ad attribuzioni coessenziali alle funzioni di governo, avesse dato in concreto luogo ad impossibilità assoluta di comparire in giudizio, in quanto oggettivamente indifferibile e necessariamente concomitante con l’udienza di cui era chiesto il rinvio. Soltanto in tal modo si sarebbe fatto luogo ad una attenta calibratura del bilanciamento tra la tutela del sereno svolgimento delle funzioni politico-istituzionali e l’interesse sotteso alla giurisdizione. Sotto questo profilo, tuttavia, la disciplina dell’art. 1, co. 3, risultava derogatoria rispetto a quella comune. Infatti, la predetta norma, a differenza dell’art. 1, co. 1, l. n. 51 non richiamava l’art. 420 ter c.p.p. e, dunque, tracciava una regolamentazione che non integrava, bensì sostituiva quella codicistica. Pertanto – ad avviso della Consulta – il Parlamento aveva stabilito una prerogativa in favore del Premier e dei Ministri, senza che la divaricazione rispetto al regime ordinario trovasse il suo fondamento in una legge costituzionale. Per questo motivo, il Giudice delle leggi aveva ritenuto illegittimo l’art. 1, co. 3, nella parte in cui non prevedeva quello stesso potere di valutazione in concreto dell’impedimento che si desumeva dall’art. 420 ter, co. 1, c.p.p. La Consulta aveva tracciato poi le linee direttrici lungo le quali doveva svolgersi il controllo del giudice al fine di garantire un corretto bilanciamento tra le esigenze in conflitto senza che si verificasse una inaccettabile prevalenza dell’una sull’altra. Anzitutto, aveva chiarito come il sindacato del giudice non ledesse le prerogative legate alle funzioni di governo o il principio di separazione dei poteri, finché, nella sua valutazione, tale soggetto si fosse mantenuto entro i confini della funzione giurisdizionale senza addentrarsi in un sindacato di merito sull’attività del potere esecutivo e senza invaderne la sfera di competenza. Peraltro, la Corte aveva sottolineato come il canone della leale collaborazione – che doveva ispirare il giudice nella valutazione in concreto del legittimo impedimento – fosse caratterizzato da una “bidirezionalità”: esso valeva anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, giacché la programmazione degli impegni governativi poteva incidere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Richiamando sul punto altre pronunce emesse in relazione all’attività dei membri del Parlamento, la Consulta aveva dunque affermato che la leale collaborazione doveva esplicarsi mediante soluzioni procedimentali, ispirate al coordinamento dei rispettivi calendari nel rispetto dei rispettivi impegni e delle funzioni che in essi si manifestavano12.

2.4 L’attestazione dell’impedimento continuativo ex art. 1, co. 4, l. n. 51/2010

Nel medesimo solco ermeneutico la Corte aveva affrontato l’esegesi dell’ultima norma attinta dalle questioni di costituzionalità. Come si è accennato, si trattava dell’art. 1, co. 4, l. n. 51/2010, in base al quale, ove la Presidenza del Consiglio dei ministri avesse attestato che l’impedimento correlato all’esercizio delle funzioni governative era continuativo, il giudice avrebbe dovuto rinviare il processo ad una udienza successiva al periodo indicato, che non poteva essere superiore a sei mesi. Anche in questo caso, la Consulta aveva svolto considerazioni non dissimili rispetto a quelle relative al sindacato del giudice, affermando che la norma de qua risultava anch’essa derogatoria rispetto al modello tracciato dall’art. 420 ter c.p.p. ed introduceva nell’ordinamento una prerogativa costituita da una peculiare figura di legittimo impedimento continuativo e per così dire «autocertificato»13. Nel prevedere che l’imputato potesse dedurre – anziché un impedimento puntuale e riferito ad una specifica udienza – un impegno continuativo riferito a tutte le udienze eventualmente programmate o programmabili entro un determinato intervallo di tempo, veniva escluso, almeno parzialmente, l’onere di specificazione dell’impedimento che, viceversa, l’art. 420 ter, co. 1, c.p.p. pone in capo all’imputato. La disciplina, pertanto, aveva l’effetto di eludere l’accertamento in concreto del giudice. Per un verso, la ratio stessa della norma – che aveva previsto una attestazione generale al fine di evitare accertamenti reiterati e farraginosi – rendeva impossibile richiedere in via di interpretazione adeguatrice che l’attestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri specificasse, giorno per giorno, tutti gli impegni. Una simile esegesi avrebbe reso la disposizione inutiliter data. Per altro verso, dal tenore dell’art. 1, co. 4, si desumeva che il rinvio del processo non conseguiva ad una valutazione condotta dal giudice, bensì costituiva un effetto automatico dell’attestazione che proveniva, sostanzialmente, dallo stesso soggetto che di tale effetto beneficiava. Di conseguenza, la Corte costituzionale aveva ritenuto che si trattasse di una prerogativa introdotta in via di legge ordinaria in violazione degli artt. 3 e 138 Cost.

I profili problematici. Il referendum abrogativo

Proprio sui parametri della declaratoria, si erano appuntate le critiche dei costituzionalisti che stigmatizzavano in particolare il ricorso all’art. 138 Cost. Quest’ultima norma, in un cammino di progressiva maturazione rispetto alle precedenti pronunce del 2004 e del 2009, era divenuta parametro autonomo di illegittimità, invocato distintamente rispetto all’art. 3 Cost.14. Come da più parti rilevato – con varietà di accenti critici – la pronuncia del 2009 e, ancor più nitidamente, quella del 2011 hanno costituito le prime occasioni in cui tale norma, che concerne profili essenzialmente «formali», risulta essere stata evocata a tal fine in una sentenza di accoglimento15. Chiaro, infatti, il percorso logico della Corte. Le norme censurate derogavano alle regole ordinarie prevedendo una disciplina di favore per determinate cariche pubbliche. In tal modo si creava una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini stigmatizzabile ai sensi dell’art. 3 Cost. Dal sistema costituzionale delle prerogative si desumeva che tale disparità sarebbe stata legittima soltanto se fosse stata espressamente prevista nella Carta fondamentale ovvero se fosse stata introdotta con legge costituzionale. Di conseguenza, il ricorso alla legge ordinaria – ancorché dichiaratamente temporaneo stante quanto espressamente previsto dalla stessa l. n. 51/2010 all’art. 2, co. 1 – si scontrava con l’art. 138 Cost. Quest’ultima norma, peraltro, non prevede una riserva di legge costituzionale in determinate materie. Viceversa, disciplina il procedimento di revisione costituzionale. Pertanto i costituzionalisti avevano evidenziato quanto meno la natura inedita dell’opzione consistente nel ravvisare in tale disposizione il parametro in forza del quale dichiarare l’illegittimità. Quanto agli effetti della declaratoria sulla sopravvivenza della legge, si era sottolineato come – a differenza delle precedenti pronunce, che avevano eliminato in toto la disciplina denunciata – la Corte costituzionale avesse optato per un intervento mirato che, almeno in parte, manteneva validità alle norme censurate. In proposito, peraltro, la dottrina segnalava come, nella sostanza, l’articolato intervento della Consulta – ispirato al principio generale del controllo giurisdizionale in ordine al regolare svolgimento del processo – avesse finito per nullificare la ratio e l’utilità dell’intervento legislativo ridotto, sostanzialmente, ad una tipizzazione ratione subiecti di alcune ipotesi di legittimo impedimento comunque rimesse all’apprezzamento giurisdizionale16. In ogni caso, la disciplina risultante dalla pronuncia è stata eliminata in radice dal referendum del 12-13.6.2011 che, come si è accennato in apertura ha abrogato la l. n. 51/2010 ripristinando la piena operatività delle regole ordinarie stabilite dall’art. 420 ter c.p.p. Naturalmente, sul piano dei princìpi, dovranno ritenersi ancora operativi i richiami della Corte costituzionale al criterio della leale collaborazione invocato quale strumento di quotidiano contemperamento tra le istanze in conflitto. In proposito, peraltro, è appena il caso di sottolineare come – già all’indomani della declaratoria – si evidenziasse che una soluzione del genere finiva per attribuire prevalenza alla tutela delle istanze della giurisdizione. Infatti, l’esecutivo avrebbe potuto adire la Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni soltanto a seguito del mancato riconoscimento della legittimità dell’impedimento addotto e, dunque, in prima battuta la potenziale frizione appariva sottoposta al prudente apprezzamento del giudice chiamato a pronunciarsi sull’estensione del proprio potere rispetto ad un altro potere di uguale rilievo costituzionale17. Critiche analoghe sembrano destinate a valere anche con riferimento alla disciplina risultante a seguito dell’abrogazione referendaria.

Note

1 Sulla sentenza Romeo, Modelli normativi orwelliani al vaglio della Consulta, in Cass. pen., 2004, 1172.

2 La Corte aveva rimarcato che all’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo.

3 La sentenza è in Giur. cost., 2009, 3698, con note di: Carlassare, Indicazioni sul legittimo impedimento e punti fermi sulla posizione del Presidente del Consiglio in una decisione prevedibile, 3705; Celotto, I comunicati stampa aiutano o danneggiano la motivazione delle decisioni?, 3728 ss.; D’Andrea, La Corte non è andata in letargo nel lungo inverno costituzionale italiano, 3730 ss.; Giostra, Repetita non iuvant, 3708 ss.; Oddi, La parte afona, 3730 ss.; Pace, Il giudicato implicito della sentenza n. 24/2004 relativamente alla inidoneità della legge ordinaria a disciplinare ipotesi di improcedibilità penalprocessuali in deroga agli artt. 3 e 24 Cost., 3702. Nel vasto panorama dottrinale, si veda anche, Il Lodo Alfano, a cura di Celotto, Roma, 2009; AA.VV., La legge Alfano sotto la lente del costituzionalista, in Giur. it., 2009, 767 ss.; Modugno, Prerogative (o privilegi?) costituzionali e principio di uguaglianza, in Giur. cost., 2009, 3969; Orlandi, Illegittimi privilegi, in Cass. pen., 2010, 42; Pugiotto, La seconda volta, in Cass. pen., 2010, 57; Ruggeri, Il «lodo» Alfano al bivio tra teoria delle fonti e teoria della giustizia costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 395.

4 Né in senso contrario poteva invocarsi l’assenza di ogni precisazione sul punto da parte della sentenza del 2004, giacché siffatta pronuncia si era basata sulla violazione dell’art. 24 Cost. ritenuta assorbente rispetto a ogni altra questione, lasciando così impregiudicata la problematica riferita all’art. 138 Cost.

5 Sul punto, Moscarini, Funzioni ministeriali e legittimo impedimento a comparire nell’udienza penale, in Dir. pen. e processo, 2010, 1145.

6 Sulla natura emergenziale e surrogatoria propria di una «anticipazione d’effetti» operata con legge ordinaria, Moscarini, Funzioni ministeriali, cit., 1147.

7 Come accadeva anche nelle precedenti discipline, era inoltre prevista la contemporanea sospensione del termine di prescrizione. Per il rilievo che la normativa obliterava la situazione dell’eventuale coimputato “comune” e quella del danneggiato costituitosi parte civile, Moscarini, Funzioni ministeriali, cit., 1149. Si vedano le considerazioni di Giostra, Con la sospensione di tutti i processi penali l’immunità si traveste da legittimo impedimento, in Guida dir., 2010, 9, 102; Marinucci, Impedimento a comparire in giudizio del Presidente del Consiglio dei Ministri: davvero “legittimo”?, in Forumcostituzionale.it, 25.3.2010.

8 Cfr. Giupponi, L’illegittimo impedimento e la tutela della funzione di governo tra vecchi e nuovi conflitti, in Forumcostituzionale.it, 9.2.2011. La pronuncia è in Cass. pen., 2011, 1667, con osservazioni di Mari.

9 Relazione in aula, Camera dei deputati, Assemblea, seduta del 25.1.2010, e Senato della Repubblica, Assemblea, 347a seduta pubblica antimeridiana, martedì 9.3.2010.

10 La Corte costituzionale aveva richiamato in proposito quanto affermato da Cass., sez. VI, 9.3.2004, Maroni, in CED Cass., n. 227990.

11 Nel senso che, in base all’art. 420 ter c.p.p. il legittimo impedimento debba essere effettivamente provato alla stregua di un fatto processuale ex art. 187, co. 2, c.p.p., Moscarini, Funzioni ministeriali, cit., 1146.

12 Sentenze nn. 451/2005, 284/2004, 263/2003, 225/2001.

13 Proprio in questo aspetto ravvisava la vera novità della disciplina Moscarini, Funzioni ministeriali, cit., 1148.

14 Gabriele, Ancora sull’art. 138 Cost. come parametro violato (questa volta dal “legittimo impedimento”), in Forumcostituzionale.it; Id., Riflessioni sulla violazione (e sulla violabilità) dell’art. 138 della Costituzione, in Scritti in onore di Franco Modugno, in corso di pubblicazione.

15 Ferraiuolo, Osservazioni, a prima lettura, sull’art. 138 Cost. come parametro di legittimità nella sentenza n. 262 del 2009, in www.federalismi.it, 2009, 20, 1; Cicconetti, L’equivoco dell’art. 138 come parametro di legittimità costituzionale, in Consulta on line, 12.3.2001 (www.giurcost.org), il quale evidenziava come – alla stregua di quanto rilevato dalla stessa Corte – la conclusione derivasse non dal riconoscimento di un’espressa riserva di legge costituzionale in materia, ma dal fatto che le prerogative fossero sistematicamente regolate da norme di rango costituzionale. Ad avviso dell’Autore, le norme parametro violate erano soltanto gli artt. 68, 90 e 96 Cost., disposizioni che escludevano l’intervento delle leggi ordinarie ancorché restasse discutibile ricavarne la possibilità di ulteriori interventi in via di legge costituzionale. Concordava sulla inutilità del richiamo all’art. 138 Cost. Pace, La svolta della Corte costituzionale in tema di legittimo impedimento e l’ambiguo richiamo all’art. 138 Cost., in Giur. cost., 2011, fasc. 1. V. anche Cecchetti, Appunti sulle questioni sottoposte alla Corte e sui possibili esiti dei giudizi di legittimità costituzionale del “lodo Alfano”, in Il lodo ritrovato, a cura di Bin-Brunelli- Guazzarotti-Pugiotto-Veronesi, Torino, 2009, 81.

16 In tal senso, ad esempio, Ferri, Il legittimo impedimento del Presidente del Consiglio e dei Ministri a comparire nelle udienze penali dopo la sentenza costituzionale n. 23 del 2011, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 297. Per il rilievo che l’opzione per la sentenza interpretativa – accolta in relazione al co. 1 – escludeva effetti vincolanti della pronuncia in relazione a giudici diversi dal rimettente, Mari, Osservazioni, cit., 1671. Sui requisiti necessari per addivenire ad una tipizzazione del legittimo impedimento, già Grevi, Sulla idoneità della legge ordinaria a disciplinare regimi processuali differenziati per la tutela delle funzioni di organi costituzionali (a proposito dell’incostituzionalità del c.d. “lodo Alfano”), in Cass. pen., 2009, 4539.

17 Nori, Dopo la sentenza sul legittimo impedimento: la ricerca di un punto di equilibrio, in Forumcostituzionale. it, 19.2.2011. In termini, Giupponi, L’illegittimo impedimento, cit., cui si rinvia anche per alcune considerazioni de iure condendo. Secondo Ferri, Il legittimo impedimento, cit., 299, nel fornire indicazioni sulla concreta attuazione del principio di leale collaborazione la Corte ha anticipato i criteri che orienteranno la soluzione di eventuali conflitti di attribuzione.

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