ALBERTI, Leon Battista

Enciclopedia Italiana (1929)

ALBERTI, Leon Battista

Giovanni SEMPRINI
Valeria BENETTI
BRUNELLI

Vita e opere. - Poche famiglie registrano, nella storia delle vicende domestiche, personalità così spiccate come la famiglia degli Alberti (v.), che dal castello della Catenaia si stabilì ai primi del sec. XIII a Firenze, esercitando dapprima l'arte notarile e poi quella del cambio. Benedetto, che il nipote Leon Battista ricorda spesso nei suoi scritti, ebbe parte rilevantissima nella vita politica di Firenze e fu uno degli avversari più temibili degli Albizzi. Durante la guerra tra Firenze e Gian Galeazzo, gli Alberti con molti altri fuorusciti vennero incolpati di tramare contro la salute dello stato; perciò nel 1402 tutti gli Alberti, maggiori di sedici anni, furono confinati a cento miglia da Firenze. Tra costoro vi era pure Lorenzo, il padre di Leon Battista. Ma, pur lontani dalla patria, gli Alberti seppero resistere all'avversità e mantenere unite "mercé la concatenata fratellanza fra loro insieme" le fila di quella potente società commerciale, che aveva succursali sparse per tutta Europa e nel Levante.

Incerta rimane tuttavia la data della nascita di Leon Battista, che, come suo fratello Carlo, era figlio naturale di Lorenzo. Ma sembra che la più probabile sia quella del febbraio 1404, come risulta da un appunto manoscritto su un esemplare della prima edizione del De re aedificatoria. Da Genova, città natale di Leon Battista, Lorenzo, che frattanto aveva sposato Margherita figlia di Pietro Benini fiorentino, si traferì nel 1414, per ragioni d'affari, a Venezia. Gli scritti dell'Alberti abbondano di ricordi della sua prima infanzia, sulla quale vegliava, guida saggia e paterna, Lorenzo. Questi, per ritemprare le forze dei figli, e specialmente la gracile costituzione di Leon Battista, li addestrava alla corsa, al nuoto, al lancio della palla, al cavalcare. E all'educazione fisica egli faceva seguire di pari passo i primi rudimenti delle arti liberali, in cui il nostro faceva rapidi progressi. Per meglio assecondare queste felici disposizioni, Lorenzo affidò il figliuolo al Barsizza, dalla cui scuola uscirono letterati e pedagogisti famosi, come il Beccadelli, il Filelfo, Guarino Veronese e Vittorino da Feltre. L'Alberti stette in casa del Barsizza circa due anni, studiando il greco, il latino, l'italiano e le matematiche. All'età di diciassette anni lo troviamo a studiare diritto canonico nell'università di Bologna. Gli anni della sua residenza in questa città coincidono col periodo più critico per la formazione del suo carattere e della sua cultura. Mortogli il padre nel 1421, egli, a causa della grettezza dello zio Ricciardo, esecutore testamentario delle volontà paterne, rimaneva privo di mezzi di sussistenza e, quel che è peggio, perseguitato dai congiunti, perché non aveva voluto abbandonare gli studî per la mercatura, tradizionale occupazione della famiglia. Ma l'Alberti, ubbidendo alla sua passione, con un atto imperativo del suo amor proprio ferito, decise di far da sé, studiando soprattutto la notte, e il giorno pensando al sostentamento con qualche occupazione. Incalzato anche da qualche passioncella amorosa che pareva crucciarlo più che le sue diuturne fatiche e le sue notti insonni spese sui libri, non s'avvide che le forze fisiche lo abbandonavano. Fu colto da un indebolimento tale che dové sospendere per ordine del medico i suoi studî. L'addio alle Pandette non fu molto doloroso, a quanto pare, per l'Alberti, il quale, laureatosi in decreti a ventiquattro anni, poteva seguire liberamente gli studî prediletti e sfogare i suoi disappunti amorosi in rima.

Anche Leon Battista, infatti, pagò il suo tributo alle Muse, come ci testimoniano alcune seste rime, in cui sospira di tornare presso la donna amata, e le egloghe Corimbo e Mirzia, ove esprime il suo anelito alla libertà e alla pace. Nell'opuscolo latino scritto in questo torno di tempo, che ha per titolo De commodis litterarum atque incommodis, egli ci dipinge questi suoi anni di studio intenso, di disinganni, di privazioni, di dolci illusioni. Chiuso in una squallida stanzetta, illuminata fino a tarda notte da una lampada fumosa, chino sui libri e sulle carte su cui va segnando i mille pensieri che turbinano nella sua mente accesa e fantasiosa, dimentica il mondo agitato e passionale che gli si muove attorno e scrive sfogando con ironia lucianesca ogni risentimento dell'animo suo. Frutto di questi studî sono le Intercoenales, tra cui Fatum et fortuna, Defunctus, Pupillus, Patientia, Felicitas, Anuli, e la commedia Philodoxeos, che l'Alberti finse d'aver trascritta da un codice antico, attribuendola al comico romano Lepido; e sotto questo nome essa circolò, variamente giudicata, fra i contemporanei, che finirono col dimenticarne il vero autore e col crederla di Carlo Aretino o del Panormita. Nell'opuscolo in volgare Ecatomfilea l'Alberti, che sembra tenere sott'occhio l'Arte amatoria di Ovidio, immagina che una donna consumata nelle arti d'amore dia consigli alle giovinette per ben riuscire in quei cimenti.

Nel dialogo, pure in volgare, intitolato Deifira, rivolge consigli, per bocca di Polidoro, uno degli interlocutori del dialogo, a Filomeno, un giovinetto perdutamente innamorato di Deifira. Mentre infine, nel carme stampato per la prima volta col titolo di Sirventese, e ristampato dal Mancini col titolo più appropriato di Frottola, l'Alberti svolge il tema che la donna non si avvede e non può comprendere quanto l'uomo soffra per lei, nell'opuscolo latino Amator l'autore pare chiudere il ciclo delle sue esperienze amatorie con giudizio più riservato e severo sulla donna e sui moti inconsulti degli amanti, richiamando i giovani alle forti e virili aspirazioni di una vita libera e sana.

L'A. nel 1428 entrò ai servizî del cardinale Albergati, potente in Curia e patrono di letterati, il quale lo volle seco nelle sue legazioni d'oltr'Alpe, in Borgogna, in Piccardia e in Germania, paesi però che non lasciarono un'impressione profonda nell'animo suo. Nel 1431 divenne segretario del cancelliere pontificio Biagio Molin, e quindi abbreviatore apostolico alla corte di Eugenio IV. La residenza a Roma segna una svolta decisiva negli studî dell'A. La visione dei monumenti e delle rovine degli antichi edifici, molti dei quali, come il Pantheon, il Colosseo, le Terme, il Teatro di Marcello e altri, conservavano ancora quasi intatta la loro struttura (persino il Mausoleo di Adriano elevava al cielo le sue colonne e le sue trabeazioni), doveva destare una sacra commozione in lui, che aveva piena la mente di letture classiche e vi sentiva echeggiare le voci della grandezza e della maestà dell'Urbe. E l'Alberti, nei momenti in cui era libero dai suoi doveri, si recava a studiare quei monumenti e i minori ruderi, ne analizzava le parti, li ricostruiva nei suoi disegni, indagava i metodi dei costruttori antichi, s'iniziava insomma a quell'arte dell'edificare, che formerà una delle sue passioni e la principale sua gloria. Mentre attendeva a queste indagini, com'egli stesso dice, "per sollievo dell'animo", continuava gli studî letterarî e filosofici e concepiva il trattato sulla Famiglia. Per aderire a un invito del Molin, che desiderava una serie di vite dei santi, scritte secondo le esigenze stilistiche del tempo, compilò la Vita di S. Potito (v. sotto).

Nel giugno 1434 Eugenio IV, fuggendo l'ira dei Colonna e delle milizie di Niccolò Fortebracci che avevano assediato Roma, era riparato a Firenze, raggiunto ben presto dai cardinali di Curia col seguito dei segretarî e degli abbreviatori; tra questi, naturalmente, era Leon Battista, che così poteva entrare nella città dei suoi padri. L'A. poté avvicinare i più famosi letterati e artisti del tempo, frequentando il convento degli Angeli, dove convenivano Giannozzo Manetti, Cosimo e Lorenzo de' Medici, Niccolò Niccoli, Carlo Marsuppini e il grande matematico Paolo Toscanelli; oppure il retrobottega del barbiere poeta, Burchiello, ritrovo di rimatori e letterati come Niccolò il Cieco, Francesco Alberti, Mariotto Davanzati, Leonardo Dati e l'autore del Paradiso degli Alberti, Giovanni da Prato. Ma coloro che più lo riempivano di ammirazione erano Donatello, Brunellesco, Masaccio, Luca della Robbia, i quali diceva "essere a ogni lodata cosa in ingegno da non posporsi a qual si sia stato antico e famoso in queste arti". Ciò che l'entusiasmava addirittura era la costruzione ardita e grandiosa del Brunellesco, la vasta cupola "erta sopra i cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti i popoli toscani, fatta senza alcuno aiuto di travamenti o di copia di legname". Le opere di questi sommi, intorno ai quali altri minori si raccoglievano, stimolavano l'A. a prendere il pennello e lo scalpello. Probabilmente in questo tempo l'A. studiò a fondo la teoria dell'arte, soprattutto nelle sue applicazioni alla pittura e alla scultura. I due trattatelli ch'egli scrisse come avviamento e ammaestramento tecnico a queste arti ci compensano della perdita dei suoi saggi di scultura e di pittura. Nell'opuscolo De Statua, accanto ai consigli, ai precetti, ai suggerimenti per indurre gli scultori all'osservazione diretta dei modelli viventi, allo studio anatomico del corpo umano, alla comparazione degli estremi per ricavare "da diversi corpi e modelli quelle mediocrità" o, come si dice in linguaggio moderno, le medie, egli consigliava pure un rigoroso studio analitico, perché solo così è possibile cogliere in modo sintetico "quella bellezza concessa in dono dalla natura e quasi con certe determinate proporzioni dotata a molti corpi".

Analogo metodo egli consiglia nell'altro trattato in tre libri De Pictura. La pittura, questo principale "ornamento di tutte le arti" ha qualcosa di spirituale. Essa coglie la superficie delle cose, come una chiara fonte ritrae l'immagine di Narciso. Alla pittura l'Alberti riconosce anche una finalità etica, poiché essa non solo prolunga la nostra esistenza, tramandando le nostre fattezze ai posteri, i quali riescono così a completare l'immagine che si sono fatta di noi, attraverso gli scritti e le opere, ma ci aiuta a innalzare il nostro pensiero a Dio. La Chiesa cattolica trovava qui una risposta efficace contro coloro che le rimproveravano il culto delle immagini. E poiché la vera arte è figlia di lungo e paziente studio e di una tecnica consumata, l'Alberti dà al pittore queste tre norme. Dapprima farà la "circoscrizione", delimiterà, cioè, il luogo che vuol rappresentare; poi farà il "componimento", metterà, cioè, in rapporto fra loro i varî punti dell'oggetto da ritrarre; infine il "ricevimento dei lumi", cioè la scelta dei colori. Le prime due si riducono alle leggi della prospettiva, di cui sono elementi le superfici, le parallele, i raggi, i triangoli, i quadrangoli che s'imparano con lo studio della matematica. Tale rispondenza tra disegno e pittura, arte e geometria, è ancor meglio affermata nella scelta dei colori. Il trattato sulla Pittura, dedicato al Brunelleschi, è uno dei maggiori libri del nostro autore.

Nel 1436, essendosi trasferito il papa a Bologna, l'Alberti lo seguì in quella città, ove scrisse varî lavori d'argomento letterario e corresse il Filodosso che dedicò a Leonello d'Este. Andò anche a Venezia e da quella città diresse una lettera al lettore dello Studio bolognese Paolo Codagnello per indurlo a non abbandonare gli studi a causa delle donne. Tornato a Bologna scrisse i due opuscoli De Iure e Pontifex, interessantissimi perché ci fan conoscere il suo pensiero giuridico e religioso. Nel 1439 venne letto nel duomo di Firenze l'atto di unione fra la Chiesa greca e la latina, auspici il Traversari e il Parentucelli per i latini, Marco di Efeso e il poi cardinale Bessarione per i greci. Quell'unione, sebbene non dovesse avere, in seguito, per varie ragioni, alcun esito pratico, rappresentò nondimeno, in quel particolare momento storico, una segnalata vittoria di Eugenio IV contro le pretese del concilio di Basilea. Schiaritasi anche la situazione politica d'Italia, affidato a un cardinale energico, quale fu il Vitelleschi, l'incarico di ripristinare l'ordine a Roma, Eugenio IV poté rientrare nella sua sede, con la Curia, nel settembre del 1443. È questo il periodo della più intensa attività dell'Alberti, giunto ormai a quella maturità spirituale, a quell'equilibrio interiore, in cui solo può dispiegarsi ogni prodotto artistico, ogni attività scientifica. Sono di questo periodo le sue più belle Intercoenales, come Religio, Virtus, Patientia, Felicitas, Parsimonia, Paupertas, ecc., in ognuna delle quali è affrontato un problema o rappresentato ora con vivace umorismo, ora con spirito d'indulgenza qualche aspetto notevole della vita del suo tempo. Sono pure di questo periodo il Teogenio, il dialogo Della tranquillità dell'animo e il De equo animante, dedicato a Lionello d'Este, in occasione del concorso per una statua equestre, che venne poi eretta a Ferrara. In questo tempo, e precisamente nel 1443, l'Alberti condusse a termine i quattro libri Della Famiglia. Il trattato, riveduto dal Ceffi e dal Dati, che segnalarono all'autore i pregi e i difetti di lingua, cominciò a circolare manoscritto e a diffondere i suoi sani principî in mezzo alla società del tempo, che finì tuttavia col dimenticare il nome dell'autore. Questi ribadirà i concetti fondamentali della Famiglia, scrivendo in seguito un breve dialogo, intitolato la Cena di famiglia, che riassume pure molte idee adombrate nei cento apologhi scritti a Bologna. Il gran numero delle opere ch'egli scrisse in volgare in questo tempo dimostra l'influsso esercitato su di lui da Firenze, e col desiderio, vivissimo in lui, di reagire contro la universale tendenza degli umanisti, specialmente della Curia, i quali ostentavano disprezzo per il volgare. Per dare una manifestazione concreta di questo suo pensiero, indisse l'A. una pubblica gara, detta Certame coronario per un componimento in lingua italiana, sotto il patrocinio di Flavio Biondo, Poggio Bracciolini, Carlo Aretino, Giovanni Aurispa, Giorgio da Trebisonda. La gara ebbe luogo con solennità in Santa Maria del Fiore; parecchi furono i concorrenti che svolsero il tema in rima sulla "Vera amicizia": lo stesso Alberti lesse alcuni versi esametri, il primo tentativo del genere nella nostra lingua. Nobilissimo l'intento che aveva spinto l'Alberti a farsi promotore di questo e di un nuovo Certame: "i prudenti mi loderanno, - egli soggiungeva - se io, scrivendo in modo che ciascuno m'intenda, prima cerco giovare a molti, che piacere a pochi".

Ma l'abitudine si rivelò più forte del desiderio e, anche l'Alberti finì per piegarsi all'indirizzo prevalente, secondo il quale solo il latino era degno di esprimere cose gravi. Bisogna poi riconoscere che, come per altri umanisti formatisi lungi da Firenze, la lingua di Cicerone e di Virgilio sembrava più dell'italiano connaturata all'anima classica dell'Alberti; e pertanto non solo il latino gli diventa strumento più efficace quando dovrà esporre le sue teorie estetiche, ma in esso pare anche trovare l'espressione più immediata e precisa. Così quando si accinse a scrivere il Momus, l'Alberti ricorse al linguaggio che gli pareva più appropriato al tema. al latino, riuscendo a dar vita a un mondo fantastico in cui si muovono caratteri vigorosamente concepiti.

Quando alla morte di Eugenio IV venne innalzato al papato Niccolò V (1447), l'Alberti aveva un duplice motivo di compiacersi; prima di tutto perché il nuovo papa era un umanista, in secondo luogo perché fra lui e maestro Tommaso esistevano rapporti di amicizia fin da quando si eran conosciuti in casa Albergati, a Bologna. E l'Alberti trovò nel papa che portava "sul trono papale il Rinascimento cristiano", colui che seppe comprenderlo e assecondarlo nei suoi studî e nelle sue iniziative. Niccolò V concesse all'Alberti, subito dopo la sua elezione, un beneficio ecclesiastico col titolo di canonico fiorentino, aggiungendosi questo all'altro di priore di S. Martino a Gangalandi, concessogli nel 1432 da Eugenio IV, che aveva pure dovuto non tener conto, con apposita dispensa, dell'irregolarità super defectu natalium. Ma Niccolò V fece di più; lo volle collaboratore dei suoi grandiosi disegni di rinnovamento edilizio di Roma. E l'Alberti assecondò la nobile missione di questo papa, che mirava a far comparire il papato come il centro propulsore del moto scientifico, letterario e artistico dell'umanesimo. L'Alberti, che nell'opuscolo Descriptio urbis Romae aveva tentato una prima indagine sull'Urbe, ideò tutto un piano di rinnovamento della città leonina, le cui linee non solo corrispondono alla città ideale da lui tratteggiata nell'opera De re aedificatoria, ma anche alla descrizione della città papale lasciataci dal Manetti. Ma l'operosità dell'Alberti non si limitava solo a Roma, ove pare dirigesse i lavori di restauro dell'acquedotto dell'Acqua Vergine, del Ponte Molle e della basilica di S. Pietro, ma si rivelava anche fuori, dove la sua fama di "geometra", cioè d'ingegnere e di architetto, già s'affermava. Nel 1448 fu incaricato da Prospero Colonna di estrarre dal lago di Nemi una delle navi sommerse; e quest'operazione, condotta secondo un piano meccanico e con mezzi grandiosi, fu il primo tentativo del genere. Questo lavoro gli suggerì l'opuscolo, ora perduto, Navis, del cui contenuto ci è serbata traccia negli scritti dei contemporanei. In questo tempo scrisse, dedicandolo a Meliaduso d'Este, l'opuscolo I ludi matematici che, se non formano una opera metodica, contengono la soluzione d'importanti problemi e la descrizione dell'"equilibra" o livella a pendolo, utilissima per livellare i terreni e misurare le acque correnti; vi si trovano pure altri strumenti da lui inventati o perfezionati, come l'"odometro", o compasso itinerario, per misurare il percorso e la velocità di un mobile in terra o nell'acqua, e la "bolide albertiana" per sondare la profondità del mare. Mentre alcuni scritti scientifici, come Commentaria rerum mathematicarum e De motibus corporis, sono andati smarriti, altri poterono giungere sino a noi, come il trattato De' pondi e leve di alcuna rota, pubblicato dal Bonucci e dal Janitschek.

Nel 1450 l'Alberti terminò l'opera sua più famosa, De re aedificatoria in dieci libri, in cui profuse la sua vasta cultura, la sua esperienza d'artista, le sue dottrine estetiche. Quest'opera di carattere didascalico ci ricorda quella famosa di Vitruvio, che godette di gran fama nel Medioevo e poi nel Rinascimento. L'Alberti si rivela profondo conoscitore delle teorie degli antichi sull'arte dell'edificare e prende a modello Vitruvio, col proposito di riordinarne la materia, arricchendola dei risultati acquisiti dall'ingegneria del suo tempo. Per alcuni argomenti, come gli ordini architettonici, la distribuzione delle colonne e degli architravi e così via, il lavoro dell'Alberti si presenta come un rifacimento di quello di Vitruvio; ma se si guarda ai progressi della tecnica, alle nuove esigenze inerenti ai gusti del tempo, egli non solo si scosta dal modello, ma porta contributi nuovi e originali.

Il trattato, appena conosciuto, suscitò subito l'interesse e l'ammirazione degli studiosi, quali il Biondo, che fu dei primi a conoscerlo, Matteo Palmieri che registrò la data della sua divulgazione (1452) come un avvenimento scientifico e letterario, e il Poliziano che volle accompagnare la prima edizione stampata (1485) con una sua elegante lettera. Come corollario a quest'opera l'Alberti scrisse l'opuscolo I cinque ordini arhitettonici, che divenne uno dei libri classici sull'argomento.

Leon Battista ha dell'architetto un concetto per così dire aulico. L'architetto, secondo lui, non deve confondersi col costruttore, né perdersi a far semplici case. Si può dire che il suo programma si palesi nel seguente passo del suo trattato: "Il fare quelle case che sieno commode secondo il bisogno et delle quali non si habbia a stare in dubbio... è uffitio non tanto d'uno architettore, quanto di un muratore". Circa il fornire semplicemente i disegni e lasciare ad altri il compito dell'esecuzione, egli dice: "È a bastanza dare il fidato consiglio et disegni lodatissimi a chi ne ricerca". E anche: "Se per aventura tu piglierai il lavoro sopra di te, et che tu vogli esserne soprastante et quello che ne dia fine, durerai grandissima fatica a schifare, che tutti i difetti di altri, et tutti gli errori, o per ignorantia o per negligenza commessi, non siano a te solo imputati. Queste son cose da commetterle a soprastanti diligenti, accurati, rigidi, severi, che procurino il modo con il quale le cose si habbiano a fare con studio, industria et diligentia et assiduità". E tale sentimento, per così dire aristocratico, dell'arte egli riconfermava scrivendo: "Vorrei ancora, per quanto è possibile, che tu avvertisca di non ti impacciare se non con persone splendide et con i principi delle cittadi, cupidissimi di queste cose".

Con tali idee l'Alberti, proprio in quell'anno (1450) in cui dava fine al suo trattato, accettava l'invito di Sigismondo Pandolfo Malatesta d'ampliare e arricchire l'esterno della chiesa di San Francesco di Rimini con un grande involucro marmoreo. Molti e non leggieri errori di cronologia e d'arte si sono ripetuti su tale grandioso lavoro, in cui l'Alberti ebbe campo di applicare le nuove teorie architettoniche. Si credeva ch'egli avesse riformato anche l'interno della chiesa, quand'invece non vi aveva avuto parte alcuna, anzi deplorava che vi si fosse seguito lo stile detto, più tardi, gotico. A riformare l'interno francescano del sec. XIII aveva dato opera, dal 1447, Matteo de' Pasti da Verona; a decorarlo di sculture si trovava tuttora Agostino d'Antonio di Duccio fiorentino con una schiera d'aiuti. Il Pasti seguiva le vecchie forme gotiche, specialmente le venete, e ad esse Agostino applicava le sue sculture. L'Alberti disdegnò d'attenersi ai concetti del Pasti; nemmeno tenne conto dell'organismo interno della chiesa, sì che nei fianchi i pilastri e le arcate non corrispondono né per altezza né per larghezza alle cappelle e nemmeno le loro finestre coincidono coi vani esterni. In una lettera dell'Alberti al Pasti è detto chiaramente: "quanto al fatto de li pilastri nel mio modello, ramentati ch'io ti dissi, quella faccia chonvien che sia opera da per sé, peroché queste larghezze et altezze delle chapelle mi perturbano.". E poiché il Pasti dovette avvertire che forse, studiando una diversa dimensione o forma dei pilastri, si poteva ovviare in parte all'inconveniente, l'Alberti aggiunse: "Le misure et proportioni de pilastri, tu vedi onde elle nascono: ciò che tu muti, si discorda tutta quella musica". Il concetto cui Battista s'ispirò, fu, convien dire, eroico: qualcosa tra il tempio e l'arco trionfale. Nella facciata tre grandi archi con parti ispirate a quello d'Augusto in Rimini stessa, e le colonne sorgenti da un alto stilobate; in vetta, un ampio nicchione; in ciascun fianco, sempre sullo stilobate, una vigorosa serie di nicchie. Sull'incontro del transetto con la navata doveva sorgere una grande cupola, sorella a quella brunelleschiana di Santa Maria del Fiore. La vasta idea subì poi trasformazioni e menomazioni. La cupola non fu nemmeno iniziata. La parte alta della facciata con le "alzate" laterali rimase interrotta, i due nicchioni (ai lati di quello mediano, in cui s'apre la porta), che dovevano contenere l'arca di Sigismondo e quella degli antenati, furono chiusi. Ad ogni modo, il monumento, pur così incompiuto com'è, dimostra nel suo insieme un poderoso senso di romanità.

Nel gennaio 1453 il pontificato di Niccolò V fu turbato dalla congiura di Stefano Porcari, il quale, ispirandosi alle antiche idee repubblicane di libertà, voleva abbattere il dominio temporale; e l'Alberti scrisse l'importante relazione De Porcaria coniuratione, in cui tra le cause della congiura pone le mene occulte che principi stranieri esercitavano attraverso i cardinali oltremontani. Arrestatasi con la morte di Niccolò V (1455) l'attività costruttrice e restauratrice di Roma, non dimostrandosi proclive il successore Callisto III a spendere i denari del tesoro di S. Pietro in opere paganeggianti, l'Alberti ad altre direzioni volse il suo versatile ingegno. Scrisse l'opuscolo sulla Mosca, una specie di parafrasi dell'omonimo componimento di Luciano, e questo lavoretto venne tradotto dal suo vecchio ammiratore Guarino Veronese. Scrisse pure un opuscolo di sapore autobiografico, intitolato Canis, e per Lorenzo de' Medici, allora giovinetto, il trattatello Trivia in cui cerca di ammaestrare chi deve sostenere un pubblico dibattito. Sotto Pio II l'Alberti riprese la sua intensa attività, alternando le occupazioni letterarie con l'operosità edilizia. Recatosi nel 1459 a Mantova, ove Pio II aveva indetto una Dieta per la crociata contro il Turco, il marchese Ludovico, succeduto a Giovan Francesco, al quale l'Alberti aveva inviato con una dedica il testo latino del trattato sulla pittura, incaricò il nostro di erigere una chiesa dedicata a S. Sebastiano. L'Alberti ideò un tempio a croce greca, di cui tre bracci dovevano terminare in forma d'abside e il quarto in un vestibolo formato da una loggia lunga quanto la facciata. I lavori furono eseguiti sotto la direzione del Fancelli, che si mantenne ligio al disegno albertiano. Ma, in quel tempo, esso parve così singolare in Mantova, che il card. Francesco Gonzaga scriveva a suo padre Ludovico: "Per esser fatto quello edificio sul garbo antiquo, non molto dissimile da quello viso fantastico de messer degli Alberti, io per anco non intendeva se l'haveva a reussire in chiesa o sinagoga". L'incuria degli uomini e l'azione del tempo ridussero in uno stato pietoso il tempio, che solo di recente, per opera del governo nazionale, poté essere restaurato e aperto al culto. Da questo momento l'attività edificatoria dell'Alberti non conosce più tregua, anche perché, avendo il nuovo pontefice esonerato tutti gli abbreviatori apostolici, egli poté concentrare ogni sua energia nel tradurre in atto i suoi sogni d'arte.

Per incarico di Giovanni Rucellai, ricco e munifico banchiere fiorentino, costruì il palazzo e la loggia Rucellai, la cappella del S. Sepolcro e la facciata della chiesa di S. Maria Novella. Singolarissima importanza ha già il mirabile palazzo Rucellai il quale deriva direttamente dallo studio dei monumenti romani; elemento questo che ritroveremo nel palazzo Piccolomini a Pienza, di Bernardo Rossellino, discepolo dell'Alberti. Il rinnovamento portato dall'Alberti nel palazzo Rucellai è profondo: i pilastrini dividono per la prima volta la fronte di una casa fiorentina in pause regolari, chiudendo nei loro intervalli le finestre dei piani superiori, vaste, maestose. La loggia costruita rimpetto a quest'edificio, e che doveva servire per i quotidiani convegni della consorteria, ha sul davanti tre arcate sorrette da colonne con capitelli corinzî.

Con caratteri assolutamente nuovi si presenta la cappella, costruita vicino alla chiesa di S. Pancrazio (il cui atrio, ripetutamente alterato, conserva soltanto qualche elemento albertiano) per collocarvi il simulacro del S. Sepolcro e le tombe gentilizie. La cappella ideata dall'Alberti, ma rimaneggiata nel 1480, contiene nel suo interno il tempietto del S. Sepolcro, di forma rettangolare, tutto rivestito di marmo, con pilastri scanalati e capitelli corinzî.

La facciata di S. Maria Novella, incominciata forse alla fine del sec. XIII e decorata nella parte inferiore in schietto stile romanico fiorentino, era rimasta incompiuta. L'A. dové dunque ideare completamente la parte superiore e ricollegarvi l'inferiore, cui aggiunse il portale. Perciò chiuse l'ordine inferiore tra due robusti pilastri a fasce bianche e nere, accostati da mezze colonne di marmo nero, che ripeté ai lati del portale; su pilastri e colonne posò la trabeazione con ricco cornicione; e su questa innalzò l'attico, spartito da quattro pilastri, fiancheggiato da due volute (per nascondere i muri delle navi minori) e sormontato da un timpano triangolare. Questo attico, che costituisce una novità, non appare in perfetta armonia con la parte inferiore; ma la porta è mirabilmente inquadrata nel prospetto preesistente, e con la severa decorazione, con la robusta profondità dell'archivolto può dirsi veramente degna dell'architettura romana.

Sempre a Firenze, e questa volta per incarico del Gonzaga di Mantova, egli dette piani e disegni per il coro dell'Annunziata, circolare, con cupola emisferica senza lanterna. Ma l'opera più grandiosa per il Gonzaga egli la diede nel disegno della basilica di S. Andrea, in cui poté seguire liberamente, senza precedenti limitazioni, i canoni della sua arte, per quanto la costruzione fosse eseguita da L. Fancelli. La basilica è a croce latina, con sei cappelle, tre grandi e tre piccole per parte; nell'interno, torno torno gira un potente cornicione sostenuto da pilastri. Maestosa e slanciata è la volta, resistenti e proporzionati sono i muri maestri. Degno riscontro con l'interno fa la facciata della basilica, che s'innalza a guisa di grand'arco su di una gradinata. Il peristilio, coperto a volta, ha tre porte rettangolari, di cui la centrale, più grande, è adorna di cornici a tralci intagliati nel marmo degli stipiti e dell'architrave. Domina nel mezzo della facciata di questa chiesa, in cui alcuni hanno voluto ravvisare il primo modello di S. Pietro, un solenne arco, veramente trionfale; e sviluppa il partito che l'Alberti, ispirandosi agli archi di Roma antica e fedele al suo concetto della Chiesa trionfante, aveva già adoperato nella facciata del tempio malatestiano.

Se queste sono le opere meritamente più famose e incontestate dell'Alberti, altre ancora gli furono o gli vengono attribuite, come l'Arco del Cavallo e il campanile della cattedrale a Ferrara, l'abside di S. Martino a Gangalandi, ove l'A. fu rettore dal 1466, ed altre, come la facciata del palazzo Picchi, della chiesa di S. Marco e il Palazzo Venezia a Roma, le quali portano così visibili i segni dell'arte albertiana, che, anche a voler escludere che siano frutto personale del grande architetto o lavoro dei suoi diretti scolari - Matteo de' Pasti, Luca Fancelli, Matteo Nuti e Bernardo Rossellino - furono certamente eseguite secondo i caposaldi della sua dottrina estetica, donde deriva probabilmente anche l'Arco aragonese di Napoli. Dall'insieme delle sue opere architettoniche l'arte dell'A. sorge vigorosa in sé, e decisiva per i successivi sviluppi dell'architettura del Rinascimento. Dallo studio dei monumenti antichi l'A. ricavò un senso delle masse murarie e del movimento ben diverso dalla limpida semplicità del Brunellesco, e se ne valse in modi originali che precorsero e prepararono l'arte di Bramante.

Gli ultimi anni dell'Alberti, se furono tra i più fecondi per l'arte edificatoria, non furono meno intensi di elucubrazioni scientifiche e di meditazioni filosofiche. Ora si dilettava di fare esperienze ottiche, intuendo il principio della "camera oscura"; ora, conversando con l'amico Dati, nella sua abituale residenza di Roma, circa alcune riforme grammaticali, proponeva di scrivere differentemente u e v; ora amava raccogliere, per utile dei congiunti, i suoi pensieri educativi in forma di sentenze o di lettere. Sempre giovane di spirito, anche quando l'età sua declinava, non rimaneva insensibile al movimento rinnovatore della filosofia neoplatonica, la quale, per impulso dei Greci venuti in Italia dopo la caduta di Costantinopoli, aveva allora ìl suo centro in Firenze. Fanno fede di queste sue benevole disposizioni e del suo interesse per quell'indirizzo filosofico che doveva improntare di sé tutto un secolo, le Dispute camaldolesi ove il Landino prende l'Alberti a protagonista del dialogo. E che le idee ch'egli fa sostenere al suo protagonista non fossero diverse da quelle dell'Alberti, noi possiamo vedere nel De iciarchia, l'ultimo lavoro, ove il vecchio umanista amò confidare ai posteri gli eterni valori ai quali aveva ispirato la sua laboriosa vita di scrittore e di artista. Egli si spense serenamente a Roma il 25 aprile 1472.

Pare che l'Alberti, quando si dilettava a Firenze di dipingere e di scolpire, ritraesse anche sé stesso, come fanno del resto testimonianza le parole: "me qui pingendo fingendoque nonnihil dilector", Op. ined. (Firenze, 1890, p. 238). Celebre è la medaglia del contemporaneo Matteo de' Pasti, uno dei migliori fonditori del sec. XV, che ci ha ritratto l'Alberti di profilo. A Parigi esistono due medaglie, una al Louvre senza iscrizione, l'altra nella collezione Dreyfus con l'iscrizione: L. B. A. P.

I manoscritti principali dell'Alberti si trovano sparsi in parecchi luoghi: a Firenze nelle biblioteche Nazionale e Riccardiana (cfr. Palermo, Mss. Palat. I, 388-389); a Venezia nella Marciana; a Roma nella Casanatense; a Oxford nella Bodleiana.

Il pensiero. - Della profonda crisi religiosa che l'Alberti ebbe intorno ai venti anni è espressione caratteristica, tra l'altro, la "intercenale" Religio, dove alla religione volgare si contrappone la immutabilità delle leggi della natura intelligibili dall'uomo, che ad esse razionalmente si conforma. Nello stesso periodo l'A. scrisse De commodis litterarum atque incommodis, lavoretto dedicato al fratello Carlo, in ricordo dei travagli e delle molestie insieme sofferte nell'università di Bologna. Apparentemente dimostra la tesi del disinteresse degli studî letterarî, sicché chiunque vi si dedichi non può aspirare a onori né a ricchezze o a piaceri; ma in realtà intende persuadere intorno alla inanità di questi studî letterarî i quali non procureranno mai onori, né ricchezze né piaceri a chi vorrà coltivarli; e, in contrasto alle lettere, addita l'importanza del tirocinio delle arti che sole possono ricompensare lo sforzo di chi con sacrificio le coltiva. Egli più volte nelle sue opere ritorna su questo discredito verso la moda degli studî letterarî, essenzialmente mnemonici e condotti sulle opere altrui, privi, quindi, di ogni vigore di originalità. Nella "intercenale" Defunctus ci presenta lo studiosissimo Neophronus, che per una lucianesca risurrezione in vita può assistere alla rovina di tutta la sua eredità di affetti e di sostanze, nonché alla distruzione delle pallide pergamene a cui invano aveva affidato i suoi melanconici commentarî, poiché i non più preziosi manoscritti serviranno ormai agli avidi nepoti per avvolgervi e spartirsi impiastri e unguenti.

Al suo ritorno dal lungo viaggio in Francia e in Germania compose la immaginaria storia del martire Potito, che è tutta un tessuto di fine ironia con cui colpisce l'ignavia di coloro che fanno consistere la loro santità nel soffrire fame, sete, caldo e freddo pur di languire nell'ozio, solo occupati nello sterile culto di un Dio che non li salverà, davvero, quando finiranno per farsi decapitare senza opporre resistenza di sorta, anzi ascrivendo a merito di lasciarsi tagliar la testa per la gloria di Dio.

Tra il 1432 e il '34, in tre mesi abbozzò i primi tre libri del suo lavoro sulla Famiglia, opera che fu scritta in volgare e venne divulgata solo nel 1443. Finge di tenere il dialogo con suoi congiunti convenuti con lui ed il fratello Carlo a Padova nel 1421, presso al letto di morte del padre Lorenzo; il quale, circondato dai fratelli Leonardo e Adovardo, raccomanda loro i figli Battista e Carlo, presenti. Tutto il primo libro è dedicato all'educazione dei figli, quale dovrebbe essere seguendo la natura. Ribadisce ancora la necessità di un'educazione letteraria, ma trasformandone interamente il contenuto, poiché dovrà informarsi all'"esercizio", e compiersi non più nel chiuso dei libri, ma all'aperto, al cimento della prova, nel commercio con gli uomini. È affatto originale il concetto che dell'esercizio si fece l'Alberti: esso è spirituale, poiché origina dall'animo, di cui, a sua volta, promuove e accresce il vigore. E appunto dall'animo esercitato prendono forma tutte le manifestazioni dell'attività umana, comprese le corporee; mercé l'esercizio l'uomo basta a sé stesso, riuscendo a provvedersi in tutti i suoi bisogni. Con l'esercizio l'uomo si afferma un dio terrestre, e, come Dio, libero e indipendente, ma di quella indipendenza che, lungi dall'isolarlo nella soddisfazione dei bisogni singolari, lo dispone a provvedere ai bisogni di tutti. Nel secondo libro della Famiglia interloquiscono anche Leandro e i due giovinetti, Carlo e Battista. In esso l'argomento principale non è più l'educazione dei figli, ma il matrimonio. Già le questioni intorno all'amore e al matrimonio avevano attratto vivacemente il suo ingegno. Egli aveva amato per lungo tempo una donna che pel suo carattere piuttosto superbo e ostinato l'aveva fatto non poco soffrire. Ne sono documenti i suoi scritti giovanili: la Dafira e alcune poesie, in cui aveva cercato di rendere nel volgare le misure dei versi latini. Più tardi, sempre intorno al suo amore, scrisse la Ecatonfilea, dove ravvisa nell'amore un'arte: e, in quanto arte, l'amore rivelerebbe la sua regola per cui giammai si estingue, provocando irresistibilmente il suo ricambio per sopravvivere in perpetuo. Finge che di quest'arte di amare sia divenuta maestra prmai la sua donna pentita degli errori, mentre vede partire lungi da sé il suo amato senza speranza di un ritorno a lei. Infatti l'Alberti, stabilitosi in Roma, troncherà ogni rapporto con la donna. A svolgere lo stesso concetto di arte si indirizzano gli Avvertimenti matrimoniali. Alle questioni intorno alla donna l'A. ritorna in questo secondo libro della Famiglia solo per vedere nell'amore l'amicizia fermissima che regola il matrimonio: "oggi i costumi civili e le religiose costituzioni riaffermano il matrimonio essere non congiunzione di membra soltanto, ma più unione di volontà e di animo". Nel terzo libro della Famiglia i due giovinetti, Carlo e Battista, tacciono, mentre un nuovo personaggio, Giannozzo degli Alberti, maestro dell'arte del massaio, interviene a dirci quanto è necessario per provvedere alla masserizia. Altre operette di carattere morale compose nel periodo che va dal 1434 al 1438; tra queste annovereremo il Teogenio, scritto in volgare intorno al 1435-6, stampato solo negli ultimi anni del sec. XV, senza indicazione di luogo, di tempo o di stampatore, sotto il titolo: De republica, de vita civile, rusticana et de fortuna. Nel 1441 ne inviò una copia a Lionello d'Este. L'operetta allude ai casi personali dell'Alberti, che molte ingiurie ebbe a subire dai parenti avari e invidiosi. Nel personaggio di Tichipedio sono forse adombrati i superbi e sprezzanti cugini Antonio e Benedetto, dal fasto delle grandi ricchezze caduti poi in rovina; mentre in Teogenio sarebbe rappresentato lui, Battista, modesto e contento della sua parsimonia, libero e intieramente dedito allo studio delle meraviglie della natura. Tutto il dialogo si aggira sul contrasto fra la natura e la fortuna: da una parte il fluttuare continuo della fortuna che tutto travolge quanto a lei si affida, e dall'altro la natura governata da leggi immutabili, eterne, che intelligentemente regolano tutto ciò che ad essa appartiene. Mentre il primo libro del Teogenio si limita a dimostrare questo contrasto e a illuminare la maggiore felicità dell'uomo che, sottrattosi alla fortuna, segua la natura, nel secondo libro si rileva una nota pessimistica che contraddice alla serenità dimostrata dall'Alberti nei suoi scritti. E poiché vi è contenuta un'allusione esplicita all'aggressione ch'egli subì da parte dei suoi parenti i quali ardirono armare contro di lui alcuni loro servitori, possiamo credere che per un momento la sua fibra dovette sentirsi abbattuta nel vigore per cui sempre, contro tutte le difficoltà e molestie della vita, riuscì a far trionfare il principio dell'uomo sufficiente a sé stesso. Ma non si tratterebbe che della momentanea attenuazione di un principio, che ritornerà poi ad affermarsi luminoso nell'altro scritto morale intorno alla Tranquillità dell'animo, dove il vigore dell'animo esercitato fronteggia vittoriosamente ogni sorta di perturbazioni. Nel 1437, mentre era a Bologna al seguito del papa, scrisse un opuscolo: De iure, col quale rientra nelle questioni concernenti il diritto e le leggi per invocare un giudizio basato sulla ragione, senza più ricorrere alle parole dei codici, i quali si lasciano tirare in qualsivoglia parte e ugualmente si allegano in favore o contro, sempre presumendo di attenersi al diritto. Nello stesso opuscolo discorre dell'applicazione delle pene, richiedendo che non siano maggiori o minori del bisogno, bensì conformi ai tempi e ai luoghi; e nello scontare la pena i rei vengano trattati in guisa da procurarne l'emenda, non l'esterminio. Decisamente l'Alberti combatte i crudeli procedimenti penali in uso; e ne abbiamo testimonianza in varie sue opere, come ad es. nel secondo libro della Famiglia, e nel quinto libro del De re aedificatoria; nonché in altra operetta composta nello stesso anno 1437, dal titolo Pontifex, dove egli dichiara un'invincibile incompatibilità fra il carattere delicato della magistratura affidata ai vescovi e i mezzi crudeli in uso nell'amministrazione della giustizia, a base di tormenti ed uccisioni. Ritorna in questo periodo con alcuni brevi scritti a parlarci dell'amore e della donna. Citiamo l'operetta Sofronia, dove, con una certa allegra grazia accompagna il sarcasmo contro la pretensiosa saccenteria di alcune donne, offese dal contenuto di un suo recente libro, scritto per liberare dalla passione d'amore un amico. Nel 1441 compose il quarto libro della Famiglia, trattandovi dell'amicizia. Il libro fu presentato in occasione del Certame coronario, indetto nello stesso anno dall'Alberti d'accordo con Cosimo dei Medici, per onorare il volgare di un culto non inferiore a quello goduto troppo esclusivamente dalla lingua latina. In genere questo libro sull'amicizia fu giudicato inferiore agli altri tre, soprattutto perché si mostra infarcito di passi d'autori classici; ma non si badò abbastanza che il lavoro è tutto animato da un pensiero originale, sicché le molte citazioni di classici vengono ad illustrare la tesi opposta dell'emancipazione del pensiero dalla materia dei libri, sia classici sia moderni, i quali possono solo servire di introito alla libera ricerca, che va condotta al lume dell'esperienza e della prova. Non bisogna infatti dimenticare che fu scritto sotto l'impressione della recente venuta dei Greci in Firenze, con a capo il famoso Pletone, e dopo lo scalpore suscitato in Italia dalla risorgente autorità degli autori e dei testi greci. Questa posizione di difesa dall'autoritarismo, l'Alberti consacrerà definitivamente due o tre anni dopo, componendo il Momus: una favola dove è ben arduo rintracciare il suo vero pensiero nel garbuglio delle allegorie più arrischiate. Tuttavia è possibile chiarire il problema centrale propostosi dall'Alberti: si tratta di rinnovare il mondo, dacché l'irrequietezza pazza degli uomini lo ha reso intollerabile. Un mutamento si presenta inevitabile. Giove ne è convinto, ma a chi ricorrerà per consiglio? Dacché si tratta appunto di sapere come costruire un mondo nuovo. Ecco per altro una risposta che Giove attenderà invano dalle filosofie antiche nonché dalle moderne ricalcate sulle antiche. Momo, la raffigurazione del neo-epicureismo trionfante ai tempi dell'Alberti, avrà forse la palma sugli altri? No davvero, perché a Momo sarà invece riservata la sorte del pensiero impotente, femmineo, capace bensì di scrollare con la mordace lingua il mondo, ma privo poi del segreto divino di ricomporlo. La posizione di sfida verso il vecchio indirizzo aristotelico s'impersona in Gelasto, il ridicolo, rappresentante una scienza tanto presuntuosa quanto sterile; e gli aristotelici affermeranno per bocca sua: "Noi siamo quegli che abbiamo sapute le cagioni e i moti delle stelle, delle piogge, delle saette: sappiamo che cosa sia la terra, il cielo e il mare. Noi siamo gli inventori delle ottime arti... ". Ma a queste ed altre vanterie non corrisponderà che la miseria estrema in cui cade Gelasto, il quale non possiede nemmeno il soldo per farsi tragittare sull'Acheronte, e perciò è oggetto di scherno anche per Caronte, che lo trova incapace di tutto, tranne che di scribacchiare vanamente. Ma più interessante ancora è l'atteggiamento assunto dall'Alberti rispetto a Platone, per la caricatura che fa dei platonici contemporanei. I quali, servendosi di lucciole invece che di lanterne, invano si affannano a ricercare il Maestro, lontano da cotesti oziosi, occupato nella costruzione del suo stato. Come sarà confermato dal Landino nelle Dispute camaldolesi, l'Alberti può considerarsi uno dei primi a interessarsi del movimento di rinascita platonica del sec. XV, il quale ebbe, peraltro, impulso a destarsi anche dalla visita dei Greci, venuti in Italia per l'unione delle due Chiese, la romana e la greca. L'Alberti tenne tuttavia a non considerarsi seguace di nessuna dottrina in particolare, come ebbe ad affermare esplicitamente nelle Epistulae septem Epimenidis nomine Diogenis inscriptae. Ricorse certo a Platone per definire alcuni essenziali aspetti del suo concetto di arte, così come si valse di alcuni concetti pitagorici; e se a volte si potrebbe indurre una sua spiccata propensione per il platonismo, pur nella forma rimaneggiata da lui, non bisogna dimenticare che consegnò nelle Sentenze pitagoriche, quasi in un estratto, tutta la sapienza da lui ricavata per vivere. Frattanto veniva compiendo il maggiore dei suoi trattati artistici, il De re aedificatoria, ove riusciva a dare la forma più completa al suo principio dell'arte: innovatore non solo nel campo delle arti speciali, come s'era già rivelato nei trattati sulla pittura e sulla scultura, ecc.; ma soprattutto innovatore nel campo filosofico e religioso. Infatti l'arte acquista il significato e il contenuto del fare con regola, in universale, e questo nuovo concetto suppone lo svolgersi dell'attività umana nella perfezione scientifica e insieme artistica dei suoi prodotti.

L'arte definirà in una formula scientifica l'intera rivolta del pensiero rinascente contro il Medioevo e i suoi istituti incentrati nella Chiesa, espressione ormai del disordine e del caos. Al disordine della Chiesa si contrappone la regola dell'arte politica adoperata da Roma per collegare, imperando, i popoli in una salda unità d'insieme. Roma del sec. XV, consapevole di una sua tradizione politica, dovrebbe risorgere e incarnare un'arte politica perfetta, una politica di accordo delle genti, resistente a ogni urto di tempo. Il contrasto fra l'ideale di una Roma civile risorgente e la soggezione avvilente della Roma papale è lumeggiato nell'opuscolo De coniugatione porcaria, per chi voglia intendere, sotto i veli più o meno densi, lo schietto pensiero albertiano.

Nella bellezza, fine dell'arte, l'Alberti discopriva l'esprimersi della "regola" tenuta sia dall'arte della natura, sia dall'arte dell'uomo quando alla natura si conformi. Con la regola definisce il segreto accordo di tutto che, in sé preso, appare invece discordante. Ma precisamente il concetto della bellezza non è esclusivo delle arti propriamente dette, bensì di tutto il fare dell'uomo: appartiene, quindi, anche all'operazione onde lo stato si plasma, e, con lo stato, la famiglia e gli altri istituti religiosi e civili. Si chiamerà allora "temperamento", o meglio, mediocritas, l'attività indirizzata dal pieno vigore dello spirito ad evitare il troppo. La mediocritas costituisce appunto l'argomento centrale dell'ultimo libro composto dall'Alberti, De iciarchia, che a torto è stata considerata l'opera verbosa della vecchiaia, mentre rappresenta il nobile sforzo di consegnare in eredità ai giovani il principio felicemente innovatore del governo politico dello stato. Per spiegarci questo, non basta pensare che l'Alberti modellasse il governo dello stato su quello della famiglia in largo senso, ma soprattutto bisogna tener l'occhio all'acquisto di una forza di disciplina spirituale, informata alla mediocritas, alla bellezza morale, alla prudenza, capace di realizzare nella sintesi dell'io la misura universale, l'accordo degl'interessi e l'unione degli animi. In questo senso il De iciarchia può anche ritenersi il più originale lavoro composto nel sec. XV intorno all'educazione dell'uomo, che ormai tende a realizzare col suo lavoro spirituale l'ideale della civitas e a costituire poi quel tipo di cittadino, che rappresenterà il programma educativo e morale degli autori del Rinascimento.

Edizioni: Alcuni degli scritti di L. B. A. vennero pubblicati agli albori della stampa: Ecatomfilea, s. l. 1471; Deifira, s. l. 1471; Novella di Lionora de Bardi ed Ippolito Buondelmonti (in prosa), Treviso 1471; De re aedificatoria, Firenze 1485; De republica, de vita civile et rusticana et de fortuna (Teogenio), [Firenze 1490?]; Opera a cura del Massaini, [Firenze 1499?] - Le principali edizioni delle opere morali sono le seguenti: Opuscoli morali, tradotti da Cosimo Bartoli, Venezia 1568 (oltre agli opuscoli editi sin allora il Bartoli ha tradotto anche alcune operette inedite, come La vita di S. Potito; La cifra; Piacevolezze matematiche; Della statua; Della mosca; Epistole); Opere volgari, per la più parte inedite e tratte dagli autografi, ecc., da Anicio Bonucci, Firenze 1843-1849, voll. 5 (la più importante raccolta degli scritti dell'A.); Opera inedita et pauca separatim impressa, Hier. Mancini curante, Firenze 1890 (completa degnamente la precedente del Bonucci). Le edizioni migliori della Famiglia sono quelle curate dal Mancini (Firenze 1908) e dal Pellegrini (Firenze 1911-1913). - Le principali edizioni degli scritti sulle arti sono: I dieci libri dell'architettura (trad. Lauro), Venezia 1546, e poi quelle con la traduzione del Bartoli, Firenze 1550, Roma 1784, Milano 1833. Un'edizione completa coi tre trattati è quella di Bologna 1782: Della architettura, della pittura e della statua, trad. da C. Bartoli, con 69 incisioni di P. Panfili.

Oltre a importanti edizioni straniere abbiamo le traduzioni in francese di J. Martin, Parigi 1553; in spagnolo del Lozano, Madrid 1582, ivi 1640; in inglese dell'Edlin, 1726 (voll. 3 col testo italiano); in tedesco la recente del Thener, Vienna 1912; in portoghese, la prima di tutte, dal Resendens, 1493. Altre opere furono inoltre tradotte come l'Hécatomphile, Parigi 1534 (stampata più volte); Déiphire, Parigi 1547; il Momus, Roma 1520, fu tradotto in spagnolo da Almacan ad Alcalá de Henares 1553, e stampato a Parigi e a Vienna 1790; sulla leggenda d'Ippolito e Dianora è intessuta la novella Gli amanti fiorentini, pubblicata a Londra dal Byron e tradotta dal Guerrazzi (Scritti, Firenze 1847). Un chiaro Compendio dei dieci libri dell'architettura pubblicò B. Orsini, Perugia 1804; un'edizione recente del Trattato della pittura e i cinque ordini architettonici è quella di G. Papini, Lanciano 1913.

Bibl.: a) Monografie. - R. Rettembacher, L. B. A., Lipsia 1878; G. Mancini, vita di L. B. A., Firenze 1882 (rifatta e illustrata, Firenze 1911); G. Semprini, L. B. Alberti, Milano 1927.

b) Sull'arte. - O. Hoffmann, Studien zu Albertis zehn Büchern, De re aedificatoria, Frankenberg in S. 1883; C. v. Stegmann e H. v. Geymüller, L. B. A., in Architektur der Renaissance in Toscana, Monaco 1888; F. Schumacher, L. B. A. u. seine Bauten, in Die Baukunst, Berlino 1899, s. 2ª, fasc. I; E. Londi, L. B. A. architetto, Firenze 1906; W. Suida, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, I, s. v.; Berrer, L. B. Albertis Bauten u. ihr Einfluss auf die Architektur, Cassel 1911; C. Ricci, L. B. A. architetto, con larga bibliografia, Torino 1917; A. Venturi, L. B. Alberti (nella collezione Architetti dal XV al XVIII secolo), Roma 1923.

c) Sugli edifici di L. B. A. - Le temple de Malateste de Rimini de L. B. Alberti, Foligno 1794; Ch. Yriarte, Un condottiere italien au XV siècle, Rimini, Parigi 1882; E. Ritscher, Die Kirche S. Andrea in Mantua, Berlino 1899; W. Rolfs, L'architettura albertiana e l'arco trionfale d'Alfonso d'Aragona, in Napoli Nobilissima, XIII (1904), pp. 171-72; A. Venturi, Un'opera sconosciuta di L. B. A., in L'Arte, XVII (1914), pp. 153-156; C. Ricci, Il tempio malatestiano, Milano 1924.

d) Sullo scrittore. - S. Scipioni, Di una Vita inedita di L. B. A., in Giornale stor. d. lett. ital., II (1883), pp. 156-162; id., L'anno della nascita di L. B. A., ibid., XVIII (1891), pp. 313-319; A. Neri, La nascita di L. B. A., in Giornale ligustico, IX (1882), pp. 165-169; G. Dolci, L. B. A. scrittore, in Ann. della R. Scuola norm. di Pisa, Pisa 1911, XXII.

e) Sul libro Della Famiglia. - V. Cortesi, Osservazioni sul libro "Il Governo della famiglia" d'A. Pandolfini, Piacenza 1881; S. G. Scipioni, L. B. A. e Agnolo Pandolfini, in Preludio, VI (1882); E. Aubel, L. B. A. e i libri sulla famiglia, Città di Castello 1913; V. Benedetti-Brunelli, L. B. A. e il rinnovamento pedagogico nel Quattrocento, Firenze 1925.

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