ALBERTI, Leon Battista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960)

ALBERTI, Leon Battista

Cecil Grayson
Giulio Carlo Argan

Nacque a Genova il 14 febbr. 1404, durante l'esilio degli Alberti da Firenze, secondo figlio naturale di Lorenzo di Benedetto Alberti e di Bianca Fieschi. Trasferitasi la famiglia a Venezia, dove Lorenzo esercitò il commercio, Battista (il Passerini crede che il nome di Leone sia stato assunto più tardi nell'Accademia Pomponiana di Roma) vi visse in un primo tempo, passando, dopo il 1416, a Padova. Dei suoi primi studi si sa pochissimo: forse dal 1415 fino al 1418 frequentò la scuola padovana dell'umanista Gasparino Barzizza, ove conobbe Francesco Barbaro, il Filelfo e il Panormita. Sulla testimonianza di Lapo di Castiglionchio si può credere che l'A. allora studiò non solo il latino, ma anche (probabilmente col Filelfo) il greco. Era già passato allo Studio di Bologna per conseguire la laurea m diritto canonico, quando gli morì il padre a Padova, il 28 maggio 1421. Subì poi, tra contrasti familiari, causati da contestazioni patrimoniali ed ereditarie, un periodo di amarezze -- e ne cogliamo l'eco addolorata in una breve intercenale dell'A. (Pupillus)-- e di malattie (tra il 1424 ed il 1428), che segnarono di un'impronta pessimistica la sua produzione giovanile. Nel 1424 finì l'abbozzo di una commedia, Philodoxeos.

Essa gli fu sottratta dall'amico Panormita, che la mise in circolazione in copie malfatte.

Vedendo che così piaceva, l'A. fece credere che fosse opera di un antico commediografo, Lepido, da lui rimessa in luce da un vecchio codice: solo dieci anni più tardi, purgata la commedia delle mende delle varie trascrizioni frettolose e delle oscenità aggiunte da altri, la dichiarò opera sua, dedicandola a Leonello d'Este. Con questa rivelazione scomparve in Italia l'entusiasmo che aveva suscitato come opera antica; essa fu stampata a Salamanca nel 1500 sotto il nome dell'A., mentre la prima edizione italiana di Aldo Manuzio (1588) l'attribuiva sempre a Lepido comico. Pure avendo difetti nel dialogo e nella costruzione, questa commedia dell'amore di un modesto e virtuoso giovane trionfante sopra gli intrighi del rivale ricco e temerario, offre "un primo accenno al concetto dell'uomo padrone della propria sorte, di cui l'A. si farà assertore nelle sue scritture" (Rossi, Quattrocento, p. 137).

Abbandonato momentaneamente lo studio del diritto, si diede a quello della fisica e della matematica, come discipline meno faticose per la memoria, rivelando quegli interessi che più tardi si svilupparono negli scritti scientifici e sull'architettura. Conseguì tuttavia, a Bologna, nel 1428 la laurea in diritto canonico (dedicando la Philodoxeos a Leonello, si dice "aureo anulo et flamine donatus ":Bonucci, Opere volgari, I, p. CXXIV).

Non era più a Bologna -- ma non si può dire se fosse rientrato a Firenze, dove era stato tolto nel '28 il bando agli Alberti -- quando scrisse, dedicandola al fratello Carlo, l'opera De Commodis literarurn atque incommodis, eco delle condizioni poco tranquille e ancor meno adatte per gli studi liberali in quella città.

In questo scritto l'A. rivolge gravi accuse contro una società intenta solo al guadagno ed agli studi professionali, e allo stesso tempo tesse -- su di un modulo tipicamente umanistico -- le lodi dell'ardua via degli studi liberali, che sebbene fruttino a chi li segue non guadagno, ma disprezzo, pur lo ricompensano con la sapienza, la virtù e forse anche la immortalità.

Alcuni biografi (Mancini, Michel) vogliono che l'A. passasse, dopo la laurea, al servizio del cardinale Aleman, legato in Bologna, e poi del cardinale Albergati, che poté conoscere attraverso l'amico Tommaso da Sarzana, segretario dell'Albergati; avrebbe seguito poi l'Albergati attraverso la Francia e la Germania, nella legazione affidatagli da Martino V per la pace tra Francia e Inghilterra, tornando per Basilea nel 1432. L'ipotesi, che si fonda, soprattutto, su accenni fatti dall'A. venti anni più tardi nel suo De re aedificatoria a fenomeni e costumanze di quei paesi come se li avesse visti coi propri occhi, colma una lacuna nella biografia dell'A. tra il '28 e il '32. Ma l'A. non è nominato nel seguito dell'Albergati alla pace di Arras (vedi A. de la Taverne, Le Journal de la Paix d'Arras, Arras, 1936). Né fu presente al concilio di Basilea, né la Vita anonima parla di tali viaggi: questi non hanno altri echi nelle sue opere, così che la formazione dell'A. può dirsi tutta italiana.

La Vita invece attribuisce allo stesso periodo del De Commodis certe opere volgari di cui non si sanno le date precise: "Ephoebiam, De Religione, Deiphiram,et pleraque huiusmodi soluta oratione, tum et versu, Elegias, Eclogasque,atque cantiones et eiuscemodi amatoria...". Nei due codd. che la contengono (Ricc. 2608 e Laur. Red. 54)l'Ephoebia va sotto il nome del fratello Carlo, a cui la attribuisce pure Battista in una frase del De Commodis ("ut tuo in Ephoebis utar dicto"); l'equivoco della Vita nasce, se non da ignoranza, dal fatto che l'Ephoebia è una libera traduzione dell'Amator latino di Battista composto verso la fine del periodo bolognese, nel quale discute la natura dell'amore e i rapporti tra passione e libertà, per concludere: "vitate hoc malum, studiosi, vitate". Sarà forse da attribuire allo stesso tempo, per affinità di tema, la libera traduzione della famosa Dissuasio Valerii ad Ruffinum ne uxorem ducat di Walter Map (cfr. Lettere Italiane,VII [1955], pp. 3-13). Il De Religione è probabilmente la stessa Religio delle Intercenales (di cui più avanti). Sullo stesso tema amatorio dell'Amator, e forse fondate su esperienze personali, sono Deifira ed Ecatonfilea, dialoghi volgari che ebbero poi presso la stampa fortuna migliore delle opere volgari maggiori dell'Alberti. Nella Deifira ossia "del fuggire il mal principiato amore ", Pallimacro consola l'amico Filarco, disperato per la poca fede della sua Deifira, e gli dà consigli sul modo di amare, se amar si deve, conservando la libertà intera e l'affezione senza sospetti. Nell'Ecatonfilea simili consigli, ma senza gli sfoghi di passione che si incontrano nella Deifira,sono dati da una donna provetta nell'amore alle sue giovani ascoltatrici per insegnare loro come si ottiene e si conserva l'affetto dell'amante: l'opera corrisponderebbe, in certo senso, all'Ars amatoria;la Deifira ai Remedia amoris. Queste opere, insieme con altre simili stese intorno al 1436-1437 (Uxoria, Lettera a P. Codagnello, Sofrona), dimostrano il costante interesse del giovane A. per il problema delle passioni amorose, considerato precipuamente dal punto di vista di un vagheggiato ideale di tranquillità, indispensabile all'uomo di lettere. Nello stesso ambito sentimentale cadono le poche poesie amorose dell'A.: due elegie in terzine, Agiletta e Mirzia,alcuni sonetti, un madrigale, una ballata, una frottola, e tre o quattro sestine; più due egloghe, Corimbo e Tyrsis, di cui la seconda e più notevole mette l'A. all'avanguardia della poesia bucolica volgare del '400.

Quali che fossero le vicende dell'A. tra il 1428 e il 1432, egli si trovò in questo anno a Roma (e forse già dal '31) come segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della cancelleria pontificia, che lo fece nominare anche abbreviatore apostolico. Già prima dell'ottobre 1432 Eugenio IV aveva annullato con bolla l'impedimento che vietava all'A., figlio illegittimo, di assumere gli ordini sacri e di godere i benefici ecclesiastici. L'A. divenne così priore di S. Martino a Gangalandi, diocesi di Firenze, e, più tardi (1448), pievano del Borgo S. Lorenzo nel Mugello, ma è incerto se giungesse al sacerdozio. Questi impieghi romani e benefici ecclesiastici misero fine alle strettezze economiche dell'A. e lo introdussero a Roma in una illustre compagnia di umanisti della corte papale. Uno dei primi scritti di questo periodo fu la Vita S. Potiti (1433),che doveva essere la prima di una serie di vite di santi e martiri, intrapresa su invito del Molin, a cui essa è dedicata; ma non ne scrisse altre, in parte, forse, a causa delle preoccupazioni storiche per la materia leggendaria, espresse in una lettera all'amico Leonardo Dati, a cui mandò copia della Vita S. Potiti, che rimane un singolare documento dell'incontro tra leggende ascetiche medievali e sensibilità umanistica. Durante questo soggiorno romano l'A. cominciò a sviluppare, con lo studio delle rovine dell'antica città, il suo interesse per l'architettura, e fece quelle misure che formano gran parte della sua breve Descriptio urbis Romae. In questi stessi anni l'A. fece certi sperimenti ottici che stupivano gli amici, fatti con specchi e con la camera obscura, di cui l'invenzione è stata attribuita all'Alberti. Egli stesso vi accenna come "miracoli della pittura" (Pittura, ed. Mallè, p 64), ma la Vita anonima (Bonucci, I, pp. CII-CIV) ne parla più esplicitamente come di dimostrazioni di stereoscopia.

Fu in quegli anni romani che l'A., secondo la Vita anonima, abbozzò i primi tre libri del suo magnum opus volgare, Della Famiglia, stesi in novanta giorni nel trentesimo anno della sua vita, cioè tra il '33 e il '34 e prima della partenza da Roma col seguito di Eugenio IV, che nel giugno del '34 fuggì dalla città minacciata all'interno dai Colonnesi e dal di fuori dal Fortebracci, per ridursi a Firenze.

I libri della Famiglia riuscirono "inelimatos et asperos neque usquequaque etruscos ", per la sua poca familiarità colla lingua materna; li rivide poi negli anni fiorentini, aggiungendovi, forse intorno al 1437 (le date estreme sono il 1435 e il 1444), la dedica del III libro al suo parente Francesco d'Alto-bianco Alberti, e il IV libro, forse composto intorno al 1440 ("post annos tres quam primos ediderat") e donato nel 1441 al Comune di Firenze. L'opera è in forma di dialoghi, che si fingono avvenuti a Padova nel 1421, poco prima della morte di Lorenzo Alberti, tra diversi parenti di Battista, Adovardo, Ricciardo, Lionardo, Giannozzo, Carlo e Lorenzo stesso. Si discute nel I libro dell'educazione dei figli, nel II libro dell'amore e delle cose che rendono e mantengono felice una famiglia, nel III libro della masserizia, e nel IV libro dell'amicizia, soprattutto dei principi. La parte più vivace è contenuta nel III libro, in cui Giannozzo, vecchio carico di esperienza più che di lettere, dà sensati consigli sull'economia. A causa del suo stile spigliato e dell'argomento pratico, questo III libro ebbe una fortuna particolare tra la borghesia fiorentina del '400; rimaneggiato da altri durante la vita dell'autore, e arricchito di nuovi interlocutori della famiglia Pandolfini, venne poi considerato e stampato, dal 1734 in poi, come opera di Agnolo Pandolfini, al quale fu tolto, dopo una lunga polemica, alla fine dell'Ottocento. Ma tutti i libri della Famiglia sono un notevole esempio di prosa volgare, scritta in un'epoca in cui i diritti del volgare di fronte al latino erano ancora contestati tra gli umanisti. La dedica del III libro a Fr. d'Altobianco echeggia infatti le dispute sul latino e il volgare di Roma avvenute a Firenze nel 1435 tra i segretari papali e ricordate da Flavio Biondo nel suo De locutione Romana, ed è una vigorosa difesa della "nostra oggi toscana", fondata soprattutto sulla sua utilità e sulle sue possibilità di sviluppo, se la vorranno adoperare i buoni scrittori. Esempio ne è l'A. con la sua prosa, nel tentativo di dare dignità al volgare coll'aiuto di elementi sintattici e lessicali del latino, così come nella materia stessa dell'opera fonde la sapienza degli antichi scrittori con la esperienza più recente degli Alberti. Manca qui il pessimismo del De Commodis;emerge invece dalla Famiglia -- specie dal proemio -- una fede luminosa nella virtù e nell'educazione, intesa non solo come studio delle lettere, ma come sviluppo totale delle potenzialità dell'individuo, senza esclusione di quelle attività pratiche che assicurano una moderata ricchezza. E la moderazione è la chiave della felicità, sia negli ,appetiti e nelle ambizioni, sia nelle spese. Nella Storia della "famiglia Alberta" del '300 l'A. vede un fulgente modello di antica sapienza e virtù moderna, non come oggetto di nostalgia, ma come esempio, da seguire per il presente e per il futuro.

Tornato a Firenze nel 1434 nei giorni turbolenti che precedettero il richiamo dall'esilio di Cosimo de' Medici, fece (o rinnovò) amicizia con il Brunelleschi, con Donatello e con altri artisti, col Burchiello (con cui scambiò alcuni sonetti), con Vespasiano da Bisticci, con Marco Parenti e Piero di Cosimo de' Medici; si trovò in compagnia di Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, Leonardo Dati, Giannozzo Manetti e altri famosi umanisti del tempo, nonché di poeti e letterati di lingua volgare, quale il parente Francesco d'Altobianco. Fu subito colpito dal rinnovamento artistico operatosi nella città e, forte degli studi ed esercizi già iniziati nel suo soggiorno romano, scrisse nel 1435 in latino, e poi tradusse in italiano dedicandolo al Brunelleschi, il suo importante opuscolo De Pictura,la cui versione latina fu dedicata, non si sa se prima o dopo la dedica di quella volgare al Brunelleschi, a Giovanni Francesco Gonzaga. Compose anche, forse intorno allo stesso tempo, gli Elementi di Pittura, prima in volgare; poi, con dedica a Teodoro Gaza, li tradusse in latino. Negli stessi anni, e forse prima del De Pictura,stese anche il breve trattato sulla scultura, De Statua.

Nell'aprile del '36, l'A. accompagnò il papa a Bologna e anche qui rinnovò molte amicizie. Di questo periodo sono la lettera a P. Codagnello, lettore nello Studio bolognese, per dissuaderlo dall'amore (1437), il breve dialogo amatorio Sofrona,dedicato al nipote del cardinale Lucido Conti (già protettore dell'A.), per consolarlo della morte dello zio (1437), e un opuscolo latino De Iure,improvvisato in venti ore a richiesta dell'amico F. Coppini (30 sett. 1437), nel quale espone le norme che il buon giudice dovrebbe seguire nell'amministrare la giustizia. Ai primi di ottobre 1437 l'A. si recò a Perugia per assistere alla consacrazione di Alberto Alberti, governatore papale dell'Umbria, a vescovo di Camerino. La breve visita gli suggerì la composizione di un opuscolo latino, Pontifex, compiuto in quattro giorni a Bologna a metà ottobre 1437; tratta soprattutto delle alte virtù morali richieste per la grave responsabilità del vescovo e critica severamente i vizi e gli abusi degli ecclesiastici. Scrisse poi in nove giorni (dicembre 1437) cento Apologi,brevi favole in latino; li dedicò all'amico ferrarese F. Marescalchi, probabilmente quando, nel gennaio 1438, seguì il papa a Ferrara, dove si riuniva il concilio delle Chiese romana e bizantina. Ivi rinnovò l'amicizia col principe Leonello d'Este, ma entro l'anno la peste rese la città poco adatta per il concilio, che si trasferì all'inizio del 1439 a Firenze. Fu forse allora che l'A. si ritirò per riposarsi "in villa fra le selve in ozio", donde mandò a Pier di Cosimo de Medici la redazione volgare della sua Uxoria, un'opera sul matrimonio, che esiste anche nella versione latina (cod. Pal. Panciatt. 123, Biblioteca Nazionale di Firenze, tuttora inedita) con dedica diversa a persona innominata. Appartiene, forse, allo stesso periodo anche l'opuscolo volgare (oppure estratto) intitolato Villa,lavoro didattico, scritto con stile sentenzioso e fondato su Esiodo e i "rei rusticae scriptores".

L'A. tornò a dimorare a Firenze nel 1439 e vi rimase, a parte brevi visite altrove, fino al 1443. Un'opera volgare, Teogenio, èprobabilmente da collocarsi in questi anni; fu scritta "per consolare se stessi nelle proprie avverse fortune" (lettera dedicatoria a Leonello d'Este, a cui la mandò nel 1441, per consolarlo della morte del padre), e nel suo cupo pessimismo pare riflettere non solo un rinnovarsi di difficoltà familiari (la Vita anonima parla perfino d'un attentato alla sua vita ispirato dai parenti), ma anche delusioni di carattere politico.

L'A. si chiede se una repubblica riceva maggiori danni dalla prospera o dall'avversa fortuna, dalle difficoltà dei tempi o dalla malvagità degli uomini. L'interlocutore Tichipedio, giovane, ricco e prepotente, precipitato in rovina da un rovescio di fortuna, potrebbe rappresentare i cugini Antonio e Bernardo, che nel 1437 soffersero simile disgrazia. Nello sfondo politico dell'opera potrebbe ravvisarsi la condizione di Firenze nei primi anni di Cosimo, o forse la crisi del 1440 durante la guerra con Filippo Maria Visconti (cfr. Conviviurn, XXII [1955], pp. 150-159). La virtù stoica espressa nel Teogenio è invece moderata in un'altra opera di questi anni (1441-1442), Della Tranquillità dell'animo, nella quale l'A. insegna come l'uomo virtuoso affronta e supera le difficoltà della vita e le ingiurie degli altri uomini. Qui Battista, Agnolo Pandolfini e Niccola di Vieri de' Medici spiegano nella loro discussione quei valori spirituali e quella temperanza che permettono all'individuo di rendersi immune nei confronti delle passioni eccessive e della instabilità delle cose umane. Si tratta, insomma, di risolvere il problema della pace e della libertà dell'uomo, assediato dalle proprie passioni, dalla fortuna e dagli altri suoi simili. Non a caso ritorna qui l'antifemminismo delle opere giovanili. Queste due opere, col loro ideale di una virtù tutta personale, paiono indicare una crisi nel pensiero dell'A., un momento di intimo scontento, di maggior tensione tra ideale e reale, diversa dalla sicurezza di atteggiamento evidente nella Famiglia.

Nondimeno, l'A. si trovò a Firenze immerso in attività diverse, e una di queste, il Certame Coronario,organizzato, insieme con Piero di Cosimo de' Medici, nell'ottobre 1441, costituisce uno degli episodi più importanti della sua difesa del volgare. A questa gara poetica sul tema dell'amicizia presero parte gran numero di poeti fiorentini, sottomettendo i loro componimenti al giudizio della commissione di illustri segretari papali.

L'A. allora fece il primo tentativo, imitato anche da L. Dati, di riprodurre in volgare i metri latini, e donò al Comune il IV libro della Fwniglia, anch'esso sull'amicizia. Il successo di questa gara fece progettare un secondo certame sul tema dell'invidia, ma per varie ragioni questo non ebbe luogo. Al tempo del certame si sviluppò l'amicizia tra l'A. e il giovane Cristoforo Landino, a cui l'A. dedicò il suo opuscolo latino lucianesco Musca, improvvisato per divertimento durante un accesso di febbre (1442-43). Un'altra opera latina, anch'essa imitata da Luciano, sono le Intercenales,iniziate già nella giovinezza bolognese, accresciute poi ad intervalli e raccolte in dieci libri, forse intorno al 1439, per dedicarle all'amico Paolo Toscanelli, insigne medico e matematico.

Non rimane ora che un piccolo gruppo di queste prose e dialoghi latini, di cui i più importanti sono Fatum et Fortuna e Defunctus, e per la storia delle imprese, Anuli (si ricorda qui che l'A. aveva come impresa un occhio alato col motto Quid tum:cod. II, IV, 38, Bibl. Nazionale di Firenze). Pur qualificate dall'A. come "facete", le Intercenales trattano con spirito ironico e talvolta amaro i problemi morali che gli erano cari. Dedicato a Leonello d'Este è il De equo animante (1441), sull'educazione dei cavalli; pure di questi anni il Canis, breve elogio del cane dell'A., ispirato da un simile encomio scritto in greco da T. Gaza; fu tradotto in italiano da Piero di Marco Parenti. Il Landino allude al Canis e alla Musca (e ad un carme Passer, ora perduto) nella sua Xandra (1443).

Nel giugno 1443 la corte papale tornò a Roma, sostando un mese per via a Siena; e allora terminò il soggiorno fiorentino dell'Alberti. La partenza per Roma segna nella sua carriera quasi la fine della sua maggiore attività di scrittore di cose morali e l'inizio degli interessi prevalentemente artistici e scientifici del rimanente della sua vita. Non che smettesse di scrivere; anzi a Roma, certamente prima del 1450 (anno in cui gliene chiese copia da Milano il Filelfo), scrisse in prosa latina il Momus, una mordente satira lucianesca del principe e in genere delle vanità e debolezze di tutti gli uomini.

Al centro della favola mitologica è il dio ribelle Momo, che mette in scompiglio uomini e dei, rivelando in specie l'incapacità e irresolutezza del sommo Giove. Nella grottesca e complicata esagerazione del racconto, gli strali della satira non risparmiano nessuno dei valori umani; ne emerge solo il mendicante, felice per la mancanza di cure e di responsabilità. Il Filelfo, echeggiando i sospetti di altri, voleva sapere il senso dell'allegoria, che rimane tuttora oscura; chi vede in Giove il ritratto di Eugenio IV (Mancini), chi vi ravvisa soltanto "un quadro brillante di psicologia politica" (Martini).

Eletto papa nel 1447 Tommaso da Sarzana (Niccolò V), vecchio amico dell'A., molto probabilmente fu da lui aiutato nei restauri e nella ricostruzione di edifizi romani. Ad un famoso tentativo dell'A. di ripescare una nave romana del lago di Nemi si potrebbe avvicinare un'opera latina Navis, nota a Leonardo da Vinci e conosciuta ancora nel '500, ma ora perduta. La ricorda anche l'A. nel proemio del De re aedificatoria. Il De re aedificatoria risulta compiuto nel '52 (per testimonianza di F. Biondo e M. Palmieri, e per l'accenno dell'A. stesso nei suoi Ludi Matematici, dedicati a Meliaduso d'Este tra il '50 e il '52), fatica di parecchi anni di studio e di esperienza di architetto, che gli guadagnò giustamente il nome di "Vitruvio fiorentino".

L'opera appare ispirata dagli stessi ideali morali e sociali evidenti nella Famiglia,ritrovati ora nelle forme plastiche di edifizi che rispondono all'utilità degli uomini e alle segrete armonie delle scienze matematiche. Essa è divisa in dieci libri, che trattano rispettivamente: I, Dei disegni, della situazione, di alcuni particolari (colonne, finestre, archi, scale) degli edifizi; II, Dei materiali di costruzione; III, Dei principi della costruzione; IV, Degli edifizi per uso pubblico; V, Degli edifizi di diverse persone private; VI, Degli ornamenti delle fabbriche; VII, Della costruzione dei templi; VIII, Degli ornamenti delle vie principali, dei sepolcri, dei teatri e di altri luoghi pubblici; IX, Degli ornamenti delle case private, e delle qualità e conoscenze necessarie all'architetto; X, Delle acque, dei canali, delle vie, e di vari metodi di rimediare ai guasti agli edifizi dovuti al tempo ed alle bestie. I Ludi Matematici suaccennati, che danno regole per misurare la superficie dei terreni, le altezze di torri, le distanze tra città, ecc., pur non essendo invenzione dell'A., dimostrano la sua viva curiosità per problemi matematici e scientifici. Di questa sua versatilità, che lo portò a inventare numerosi congegni meccanici, onde lo si considera precursore di Leonardo, sono oggi sola testimonianza i ricordi dell'A. stesso nel III libro della Tranquillità dell'Animo, non essendoci pervenuti né disegni né costruzioni.

Presente alla fine del tentativo di Stefano Porcari di costituire una repubblica romana, fu stimolato a scrivere il De Porcaria coniuratione in una epistola latina non priva di simpatia per la generosa ambizione del Porcari. Quattro mesi più tardi Costantinopoli cadde nelle mani dei Turchi e Niccolò V vide fallire le sue proposte per una crociata; dopo la morte di questo papa e il breve pontificato di Callisto III, salì sul trono pontificio Pio II.

Fu allora che l'A. accompagnò il papa a Mantova per la celebre dieta, che si riprometteva di gettare le basi per la crociata (1459), e fece amicizia con Ludovico Gonzaga, che gli affidò la costruzione della chiesa di S. Sebastiano. L'A. visitò anche Firenze e conobbe il giovane Lorenzo de' Medici, a cui intorno al 1460 dedicò un opuscolo latino sull'arte oratoria, Trivia senatoria. Tra Lorenzo e l'A. si sviluppò una intima amicizia, come tra padre e figlio; e tali sono i loro rapporti nelle Disputationes Camaldulenses del Landino (1475), le quali probabilmente descrivono un incontro realmente avvenuto (nel 1468), anche se conviene dubitare fortemente delle idee platoniche ivi messe in bocca all'Alberti. Egli partecipò alle discussioni dell'Accademia Platonica del Ficino di cui era amico, ma nelle sue opere non sviluppa motivi platonici, preferendo mantenersi sempre indipendente da qualsiasi sistema filosofico (cfr.le brevi Epistulae septem Diogeni inscriptae, mandate a F. Griffolino). Un'altra testimonianza delle visite fiorentine dell'A, in quegli anni è l'opuscolo volgare Cena di Famiglia, un breve dialogo avvenuto a Firenze, quasi appendice alla Famiglia;nel 1462 dedicava ai nipoti le Sentenze Pitagoriche, che riassumono in forma aforistica i principi fondamentali della condotta virtuosa.

Nel clima più severo instaurato da Paolo II dopo la morte di Pio II (1464), l'A. perdé l'ufficio nel collegio degli abbreviatori, pur continuando a vivere a Roma, non più bisognoso di quello stipendio.

Ancora frutto di amene discussioni con Leonardo Dati è l'opuscolo De componendis cifris, scritto intorno al 1466, in cui, partendo dalla lode della invenzione recente dell'arte della stampa, si passava a discutere l'uso delle lettere per le cifre segrete, proponendosi un sistema indecifrabile fondato su due quadranti sovrapposti, l'uno fisso, l'altro rotante: dimostrazione di un'altra direzione degli interessi dell'A, per problemi di scienza applicata. Simili interessi lo legavano d'amicizia con Luca Pacioli, suo ospite in quegli anni. Nel De cifris l'A. accenna ad una sua opera "de literis et ceteris principiis grammaticae", che doveva trattare problemi grafici, quale la distinzione tra u e v, e perciò precorrere in questa via le innovazioni del Trissino e d'altri del '500; ma non è stata ritrovata. Alcuni l'hanno ravvisata nella Grammatichetta vaticana (cod. Vat. Reg. 1370; Trabalza, Storia della Grammatica italiana, Milano 1908, pp. 535ss.), variamente -- mai definitivamente -- attribuita a Lorenzo de' Medici, al Landino e all'Alberti.

Gli ultimi anni dell'A. sono dedicati sempre più all'architettura. Costruisce a Firenze per Giovanni Rucellai la Loggia, vicino al palazzo Rucellai, creduto anch'esso da alcuni storici opera dell'A., e la cappella a S. Pancrazio; disegna la nuova facciata di S. Maria Novella e, per conto di Ludovico Gonzaga, la Rotonda dell'Annunziata. A Mantova nel 1471 prepara i disegni del tempio di S. Andrea. Diverse altre costruzioni fatte in quegli anni a Firenze e altrove gli sono pure attribuite. In mezzo a queste attività, l'A. trovò tempo per le discussioni filosofiche con gli amici (nel 1471 fece da guida nel Foro di Roma a Lorenzo de' Medici, Bernardo Rucellai e Donato Acciaiuoli), e anche per scrivere in volgare l'ultima sua opera, intitolata De Iciarchia (1468), in cui riprende e sviluppa con maggior maturità gli ideali di moderata virtù, già espressi nei precedenti suoi lavori.

Nel dialogo, avvenuto a Firenze durante l'inverno tra Battista, Niccolò Cerretani e Paolo Niccolini alla presenza dei giovani nipoti Alberti, si ragiona delle doti e dell'ufficio del principe e dell'iciarco, o cittadino primario, nella consueta tematica moralistica di equilibrio tra passioni e meditazione, tra culto degli studi e operosità civile.

L'A. morì a Roma nell'aprile 1472. Nel suo testamento datato 19 apr. 1472 alla vigilia della morte (già il 25 aprile fu presentato il nuovo pievano di Gangalandi, vacante per la morte dell'A.) espresse il desiderio di essere sotterrato prima nella chiesa di S. Agostino, e volle che la sua salma fosse poi deposta nella tomba di suo padre nella chiesa di S. Antonio a Padova. Non rimane traccia della tomba a Roma (la chiesa di S. Agostino fu ricostruita nel 1479) e non risulta da nessun documento che la salma fosse trasportata a Padova.

Opere ed edizioni: una buona bibliografia in W. Suida, voce Alberti, in Thieme-Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, I, pp. 196-211, e più accurata e aggiornata in P. H. Michel, La Pensée de L. B. A., Paris 1930, pp. 11-39. Si citano qui solo le più importanti o più recenti: 1) L. B. A. Opera, Firenze 1499: contiene De Commodis, De Iure, Trivia, Canis, Apologi; 2) Opere volgari di L. B. A. per la più parte inedite e tratte dagli autografì,annotate e illustrate da A. Bonucci, Firenze 1843-49, 5 voll. Raccolta pregevolissima per il contenuto, anche se non sembra possa dare affidamento (cfr. C. Grayson, in Rinascimento,III [1952], pp. 211 ss.): soprattutto malfida per la Deifira,per cui il Bonucci adoperò codici contaminati con passi di opere del Boccaccio. Conviene leggere quest'opera o nelle edizioni antiche o in Camerini, Mescolanze d'amore..., Milano 1863. Per gli altri testi volgari, salvo quelli citati sotto, rimane l'ediz. fondamentale, e in molti casi, l'unica. Contiene anche documenti vari, le poesie del Certame, Philodoxeos (cfr. Rinascimento, V [1954], pp. 291-293) e alcune opere erroneamente attribuite all'A.; 3) Opera inedita L. B. A., H. Mancini curante,Firenze 1890 (cfr. Giorn. stor. d. letter. ital.,XVIII [1891], pp. 355 ss.). Contiene le opere latine non ancora stampate (salvo Uxoria, Vita S. Potiti, Musca, De cifris), più gli Elementi della Pittura, una nuova ediz. del De Equo e alcune lettere latine e volgari dell'A. Alle Intercenales,ivi stampate per la prima volta, il Mancini poi aggiunse un'altra, Naufragium, in versione volgare, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLI (1903), pp. 318-323; 4) I libri della Famiglia, editi da G. Mancini, Firenze 1908, sul quale si basò l'ediz. dei Primi tre libri della Famiglia, annotati da F. C. Pellegrini, Firenze, 1911 (rist. 1913), ora riveduta e fornita di una nuova introduzione di R. Spongano, Firenze 1946 (cfr. l'art. in Rinascimento, III, cit.); 5) L. B. A.' s Kleinere Kunsttheoretische Schriften mit einer Rinleitung und Excursen versehen von Dr. H. Janitschek, Wien 1877 (la Pittura volgare, la Statua, i Cinque ordini Architettonici, con traduzione tedesca) e, fondata su questa ediz., Il trattato della pittura e i cinque ordini architettonici, con prefaz. di G. Papini, Lanciano 1913; ma ora vedi Della Pittura, ediz. critica a cura di L. Mallè, Firenze 1950 (cfr. Rinascimento,IV [1953],pp. 54-62, e VI [1955], pp. 369-372); per il testo latino bisogna ricorrere all'ediz. di Basilea 1540; 6) Opuscoli inediti, Musca, Vita S. Potiti,a cura di C. Grayson, Firenze 1954; 7) Momus o del Principe,testo critico, traduzione, introduzione e note di G. Martini, Bologna 1942; 8) De Cifris, in A. Meister, Die Geheimschrift im dienste der papstlichen Kurie, Paderborn 1906, pp. 125-141. Cfr. la nota bibliografica di C. J. Mendelsohn, in Isis, XXXII (1940-47), pp. 48-51;9) Trattato sui pondi, leve e tirari, in appendice a G. Vasari, Vite Cinque, annotate da G. Mancini, Firenze 1917, pp. 105 ss.; 10) C. Grayson, Villa, un opuscolo sconosciuto, in Rinascimento, IV (1953), pp. 45-53;11) C. Grayson, Alberti and the Vernacular Eclogue (Tyrsis), in Italian Studies, XI (1956), pp. 16-29; 12) Per il testo latino del De re aedificatoria bisogna ancora ricorrere a edizioni del Quattro e del Cinquecento (Firenze 1485 o Parigi 1512 e 1553). Ancora utile la raccolta di C. Bartoli degli Opuscoli Morali dell'A., Venezia 1568.

Opere apocrife: le seguenti opere, incluse dal Bonucci nella sua ediz. cit., non sono dell'A.: Della prospettiva (anonimo nell'unico cod. Riccard. 2110; cfr. A. Parronchi, Le fonti di P. Uccello, in Paragone, 95[Arte], nov. 1957, pp. 3 ss.); Amiria e Ephoebia, che sono di Carlo Alberti; tre Concioni, che sono di Stefano Porcari; alcune poesie (cfr. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento, Pisa 1891, pp. 635-636, G.Mancini in Vasari, Vite Cinque, cit., Appendice, II, pp. 204-209, G. Ponte, in Rass. d. Letter. ital., LXII, 2 [1958], e C. Grayson, ibid., LXIII, 1 [1959]).Non sono dell'A. le redazioni volgari, attribuitegli dal Bonucci, della Statua (traduzione del Bartoli), e dei primi tre libri del De Re Aedificatoria (cod. Riccard. 2520, opera di anonimo traduttore). Dubbia la sua attribuzione all'A. di quattro lettere amatorie e della novella di Ippolito e Lionora (stampata più volte nel '400: v. Gesamtkatalog der Wiegendruck, I, nn. 572-575;senza nome d'autore, e anonima pure nei codd., cfr. Italica, giugno 1942, pp. 49-51).

Fonti e Bibl.: La Vita Anonima quattrocentesca stampata in Rer. Italic. Script., XXV, Mediolani 1751, pp.296 ss., e da A. Bonucci, Opere volgari di L. B. Alberti, 5 voll., Firenze 1843-1849; fu da alcuni ritenuta autobiografia (ma cfr. obiezioni dello Janitschek in Repertorium für Kunstwissenschaft, VI [1883], pp.38 ss. e del Pellegrini nell'edizione della Famiglia, p. V n. 2; e ancora R. Watkins, in Studies in the Renaissance, IV [1956], pp. 101-112); M. Palmerii De temporibus suis, in Rer. Italic. Script., I, 1723, pp. 239 ss.; L. Passerini, Gli Alberti di Firenze, I, Firenze 1869, pp. 131 ss.; R. Cessi, Gli Alberti in Padova e Il soggiorno di Lorenzo e L B. A. in Padova, in Arch. stor. ital., s. 5, XL (1907) e XLIII (1909).

Fondamentale la Vita di L. B. A. di G. Mancini, Firenze, 1 ediz. 1882, 2 ediz. 1911, completamente rinnovata (con larga esplorazione di fonti archivistiche e documenti coevi: importante la recensione di F. C. Pellegrini in Giorn. stor. d. letter. ital., LV [1911], pp. 416 ss. e l'Introduzione dello stesso alla sua ediz. della Famiglia);G. Mancini, Il testamento di L. B. A. in Arch. stor. ital., LXXII (1914), vol. II, pp. 20 ss. Sulla nascita e la madre dell'A., C. Ceschi in Bollett. d'Arte, 1948 (II), pp. 191-2. Per le vicende storiche degli Alberti nel '300 e i loro rapporti con la Famiglia, cfr. A. Sapori, Gli Alberti del Giudice di Firenze, in Studi in onore di G. Luzzatto, I, Milano 1950, pp. 169-192.

Sull'A. scrittore, il migliore studio complessivo, dopo quello del Mancini, è P.-H. Michel, La Pensée de L. B. A., Paris 1930. Ma si vedano anche: V. Lugli, I trattatisti della famiglia nel '400, Bologna 1909; G. Dolci, L. B. A. scrittore, in Annali d. Scuola normale superiore di Pisa, XXIII (1912), pp. 1-224 (cfr. Giorn. stor; d. letter. ital., LXII [1913], pp. 210-214); E. Aubel, L. B. A. e i libri della Famiglia, Città di Castello 1913 (cfr. Giorn. stor. d. letter. ital., LXIV [1915], p. 218); V. Benetti-Brunelli, L. B. A. e il rinnovamento pedagogico del '400, Firenze 1925,e Il rinnovamento della politica nel pensiero del sec. XV in Italia, Torino 1927; G. Semprini, L. B. A., Milano 1927. Spiccano tra la critica recente le pagine di E. Garin dedicate all'A, nei volumi: Filosofi italiani del '400, Firenze 1942, L'educazione umanistica in Italia, Bari 1949, L'Umanesimo Italiano, Bari 1952, Medioevo e Rinascimento, Bari 1954.Utili i seguenti studi: il cap. VII del vol. di J. H. Whitfield, Petrarch and the Renascence, Oxford 1943; M. Petrini, L'uomo di L. B. A., in Belfagor, VI (1951); G. Sasso, Qualche osservazione sul problema della virtù e della fortuna nell'A., in Il Mulino, II (1953); G. Draghi, Note per una lettura dell'A., in Studi urbinati, XXVII (1953). Cfr. anche C. Grayson, The humanism of A., in Ital. Studies, XII (1957).

Sull'A, e il volgare, v. V. Cian Contro il volgare, nella Miscellanea Rajna, MiIano 1911, pp. 251 -299; P. Rajna, Le origini del certame coronario, nella Miscellanea Renier, Torino, 1912, pp. 1027-1056.

Per lo stile, R. Spongano, Un capitolo della nostra prosa d'arte, Firenze 1941; G. Nencioni, Fra Grammatica e Retorica, Firenze 1953, pp. 69-79 (cfr.l'analisi degli autografi dell'A. fatta da C. Grayson in Lingua Nostra, XVI [1955], pp. 105 ss.). Per l'A. grammatico, C. Trabalza, Una singolare testimonianza sull'A. grammatico,nella Miscellanea Torraca, Napoli 1912, con bibliografia di studi e attribuzioni precedenti. Sulle fonti classiche e medievali dell'A. scrittore, cfr. V. Zoubov, in Medieval and Renaissance Studies, IV (1958), e J. R. Spencer, in Journal of the Warburg institute, XX (1957).

Sull'A. scienziato, cfr. l'articolo del Michel in Mélanges Hauvette, Paris 1934, e G. Wolff, L. B. A. als Mathematiker, in Scientia, LX (1936), pp. 353-359;anche L. Olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur,I, Heidelberg, 1919, pp. 45-87. Per l'A. precursore di Leonardo, P. Duhem, Études sur Leonardo da Vinci,Paris, 3 voll. 1906-13, in ispecie vol. II; E. Solmi, Le fonti di Leonardo da Vinci, Supplemento 10-11, al Giorn. stor. d. letter. ital. 1908; A. Uccello, I libri di meccanica di Leonardo da Vinci, Milano 1942, pp. CLIV-CLV. Sull'A, ingegnere, A. Favaro, Un ingegnere del sec. XV, Padova 1914, e G. Ucelli, Le navi di Nemi, Roma 1950.

Sull'A. teorico d'arte, v. la bibliografia del Suida nell'Allgem. Lexikon der bildenden Künstler di Thieme-Becker e quella più aggiornata di L. Mallè nella sua ediz. della Pittura, pp. 153-160. Uno studio particolare di questo aspetto dell'A. è quello di M. L. Gengaro, L. B. A. teorico e architetto del Rinascimento, Milano 1939. Cfr. anche R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, London 1952, con indicazioni bibliografiche aggiornate; J. R. Spencer,. L. B. A. on painting, London 1956 (traduzione della Pittura con introduzione e note).

Sulla fortuna critica dell'A. cfr. gli accenni contenuti nella Introduzione all'edizione della Famiglia, curata da F. C. Pellegrini, e nell'Appendice all'edizione della Pittura curata da L. Malle, Firenze 1950.

Per l'iconografia relativa a L. B. A., cfr. G. F. Hill, Portrait Medals of Italian Artists of the Renaissance,London 1912, pp. 29-31; Id., A corpus of Italian Medals, London 1930; C. Grayson, A Portrait of L. B. A.,in The Burlington Magazine XCVI, (1954), pp. 177-178.

L'A. non ricevette una precisa educazione artistica: il suo interesse per l'arte figurativa (le fonti dicono che fu anche pittore) e, in ispecie, per l'architettura è un aspetto della sua personalità di umanista. Il fatto che quell'interesse teorico, storico e critico (com'è dimostrato dalla sua attività di trattatista, rivolta alle tre forme dell'arte "liberale":pittura, scultura, architettura) si concreti in alcune opere architettoniche, che sono tra le più alte del Rinascimento italiano, dimostra però come il sentimento e la ricerca della storia fossero, per l'A., inseparabili dall'attività creativa.

Che l'A. sia stato in rapporto diretto con l'ambiente artistico fiorentino, e naturalmente con le sue correnti più avanzate, è provato dalla dedica al Brunelleschi della Pittura in volgare e dal contenuto stesso di questo trattato, che può considerarsi la teorizzazione dell'arte fiorentina della prima metà del Quattrocento.

Il lento formarsi della personalità dell'A. architetto implica tutta una serie di esperienze. Già nel '29, a Firenze, l'A. dovette frequentare il Brunelleschi: ne ripete, forse approfondendole e rendendole meno empiriche, le ricerche con la "camera oscura", dirette a stabilire le leggi della visione oggettiva: e da lui impara il metodo di misurare le rovine, di cui si servirà per la Descriptio Urbis Romae. Ma che si trattasse piuttosto di curiosità erudita che d'interesse operativo può dedursi dal fatto che nessuno dei problemi costruttivi e formali del Brunelleschi sarà ripreso dall'A., il cui gusto architettonico si forma e sviluppa sicuramente a Roma, nell'ambiente umanistico della Curia romana, dal desiderio di fornire esempi concreti e direttive costanti per la "renovatio" della città, richiesta dalla nuova e sempre più importante funzione politica del papato, uscito ormai vittorioso dalle crisi scismatiche. A questo fine tende evidentemente il grandioso trattato De re aedificatoria, che, anche nella suddivisione della materia, mira a ricostruire, ma aggiornandolo alle nuove esigenze, il trattato di Vitruvio; e che, pur avendo un carattere prevalentemente politico-letterario, presuppone la esperienza concretamente figurativa della Pittura e l'assunto umanistico del De Statua.

Anche per un altro aspetto la cultura umanistica costituisce la base della architettura dell'Alberti. Il Brunelleschi, com'è noto, si limitava a ricercare le proporzioni, cioè i principi distributivi, e i modi costruttivi degli antichi: il suo interesse era dunque rivolto essenzialmente a problemi strutturali e alla ricostruzione ideale delle leggi armoniche sulle quali si riteneva fondarsi l'arte classica. L'A., letterato, mira invece alla ricostruzione o alla restituzione storica dell'antico: guarda alle rovine romane come vi guardava il Petrarca, venerandole come testimonianze della storia, esaltandosi della loro grandiosità, commovendosi per la loro decadenza (che era poi ancora un aspetto della loro storicità), sentendo tutto il fascino della lettura e, forse, della declamazione di quegli antichi testi monumentali. Perciò, molto più che quella del Brunelleschi, l'architettura dell'A. è sollecita dell'effetto imponente, anzi può dirsi che ricerca proprio l'effetto (allo stesso modo che il Brunelleschi ricercava la causa) della perfezione formale; e, naturalmente, l'entusiasmo dell'A. arriva più in là della struttura, giunge alla bella frase architettonica, a quell'ornata sonorità della parola costruttiva che si esprime nella bellezza e soprattutto nella pertinenza della decorazione. La citazione diretta dall'antico è dunque un momento necessario della elocutio formale dell'architettura albertiana.

È noto che l'A. non diresse mai la costruzione delle proprie opere, di cui gli esecutori non di rado fraintesero o arbitrariamente corressero i particolari. Questo apparente disinteresse per il fatto costruttivo (considerato da J. von Schlosser gravissimo limite della personalità artistica e morale dell'A.) dipendeva da una reale e non dissimulata inesperienza tecnica; ma rimane da spiegare perché la sua architettura, tanto più preoccupata dell'effetto visivo e del valore formale e simbolico dell'ornato, fosse poi tanto più indeterminata, nella fase della progettazione e in quella dell'esecuzione, che quella del Brunelleschi. Di fatto, se il Brunelleschi aveva rinunciato alla tradizionale funzione del costruttore come capo di una maestranza e aveva fissato il ruolo ideativo dell'architetto, per l'A. l'architettura è un aspetto dell'arte del governo e l'architetto, come interprete delle volontà sovrane, è in certo senso il tramite tra l'"ideale" e il "pratico" (e infatti il De re aedificatoria traccia piuttosto un "ideale" che una "teoria" dell'architettura). Il fatto di non avere personalmente diretto la costruzione non impedisce tuttavia all'A. di essere un grande "costruttore", nel senso di costruttore di forme, di consapevole ricercatore di valori strutturali e plastici dell'architettura (Zevi). Più che progetti esecutivi, egli fornisce ai costruttori direttive e programmi non dissimili, benché animati da un più vivace interesse formale, da quelli che i letterati del Quattrocento e del Cinquecento fornivano ai pittori per le loro opere di soggetto classico, storico o allegorico.

Fu così, soprattutto, un geniale consulente di pontefici e principi, persuasi che le loro grandiose iniziative architettoniche, destinate a tramandare nel tempo la loro memoria, dovessero essere ispirate, non meno della loro opera di politici, ai grandi esempi antichi. Questo atteggiamento spiega anche il modo affatto diverso col quale il Brunelleschi e l'Alberti considerano i monumenti della tarda antichità o, addirittura, del Medioevo: in essi il Brunelleschi cerca, separandoli dalle "deformazioni" della decadenza, gli indizi che permettono di ricostruire la perfezione dell'antico, mentre l'A. accetta la stessa "decadenza" come una necessità storica, e come la condizione dell'attuale riscatto, della vagheggiata "renovatio".

L'attività dell'A. come alto consulente per l'architettura ha principio, circa il 1443, alla corte ferrarese di Lionello d'Este, con i suggerimenti per il monumento a Niccolò III (il cosiddetto "arco del cavallo") e per il campanile della cattedrale. L'umanesimo architettonico dell'A. ha ancora un accento prevalentemente letterario: nel primo caso, il monumento è concepito come un prezioso frammento antico, nel secondo il tema strutturale tipicamente medievale del campanile è interpretato classicamente, mediante l'audace rivestimento di ordini di colonne sovrapposte.

A Roma, durante il pontificato di Niccolò V, l'attività architettonica dell'A. si concreta in un vero e proprio programma di restaurazione urbanistica e architettonica. Non costruisce opere originali, ma, mentre attende alla stesura del trattato d'architettura, l'A. assiste e consiglia il papa nelle sue grandiose iniziative di riordinamento urbanistico e di restauro edilizio. Affronta il problema del rinnovamento della basilica di San Pietro, di cui intende la fondamentale funzione urbanistica e la necessaria articolazione all'ambiente urbano e monumentale; tenta di recuperare dalle acque del lago di Nemi le navi romane; si occupa delle fortificazioni, degli acquedotti, del restauro di antiche chiese, come San Teodoro, Santa Prassede, Santa Maria Maggiore, Santo Stefano Rotondo.

Anche la prima opera originale dell'A., il Tempio malatestiano di Rimini, ha origine da una consulenza e nasce da un problema di adattamento di un precedente edificio. La costruzione, che inaugura la concezione umanistica della chiesa come tempio, non è il frutto di un'ideazione omogenea. In un primo tempo, Sigismondo Malatesta non intendeva che trasformare, per sé e per Isotta degli Atti, due cappelle contigue della chiesa gotica di San Francesco; e, nel 1447, ne aveva dato incarico al medaglista Matteo de' Pasti e ad Agostino di Duccio, scultore. Soltanto nel '50, quando i lavori erano già molto innanzi, mutò il primo proposito in quello di una totale trasformazione della chiesa e, forse per suggerimento di Niccolò V (che aveva incontrato a Fabriano), si rivolse all'A.: del 1450 è, infatti, la famosa medaglia di Matteo de' Pasti, che documenta il progetto albertiano, e la stessa data è più volte ripetuta all'esterno e all'interno del tempio. L'A. seguì i lavori da Roma inviando disegni e istruzioni scritte (una lettera, della più grande importanza, è del 1454), occupandosi fin dei minimi particolari e richiamando severamente Matteo de' Pasti, sempre incline a ripiegare su soluzioni tradizionali, all'obbedienza alle prescrizioni. Per l'interno, dove i lavori erano ormai quasi conclusi, l'A. non poteva che suggerire varianti e adattamenti (poi non eseguiti): la sostituzione della copertura a capriate della navata con una volta a botte e il raccordo di tutti gli spazi interni nel vano di una grande cupola a calotta, sul modello del Pantheon e delle Terme di Diocleziano. Se il tema della cupola come organismo centrale capace di coordinare e proporzionare vani preesistenti e non corrispondenti a un definito ordine metrico è di origine brunelleschiana, l'A., a differenza del Brunelleschi, si attiene allo schema classico della cupola a calotta; quanto alla volta, è notevole che in questo adattamento della navata unica della chiesa gotica francescana l'A. già mediti il tema spaziale che svilupperà organicamente nella chiesa di Sant'Andrea a Mantova.

Per la facciata e per il fianco, l'A. ricorre invece all'esempio degli archi trionfali e delle arcate successive degli acquedotti romani. La fronte, benché incompiuta, pone un problema che rimarrà fondamentale per tutta l'architettura del Rinascimento: la configurazione della facciata, cioè di un elemento necessariamente piano, in rapporto alle nuove concezioni spaziali, che "esigevano di dare una profondità anche a ciò che, per natura, sembra destinato a rappresentare unicamente uno schermo, una superficie" (Brandi). Carattere essenziale della facciata e del fianco è appunto la realizzazione di una spazialità plasticamente espressa nella struttura proporzionale degli elementi e affatto indipendente dalla spazialità interna. Questa figura "spaziale" della fronte sarebbe stata ancora più evidente se il secondo ordine fosse stato terminato secondo il progetto albertiano documentato dalla medaglia di Matteo de' Pasti.

Il carattere plastico-spaziale del Tempio malatestiano dimostra come il fondamento e l'orientamento essenzialmente culturali dell'architettura dell'A. non escluda, anzi solleciti, una profonda originalità di visione: la cultura classica, e non nella sua schematizzazione normativa, ma nella sua pienezza e complessità storica, è la sostanza stessa dell'ispirazione artistica albertiana. La varietà delle motivazioni culturali, il desiderio di fare di ogni edificio un'opera d'arte e, insieme, la dimostrazione di una tesi, spiegano l'apparente discontinuità nell'opera architettonica dell'A. È incerta la data (probabilmente tra il 1447 e il '51)del palazzo Rucellai in via della Vigna a Firenze: tanto lontano dalle forme del tempio malatestiano da indurre lo Schlosser a trasferirne l'attribuzione, benché esplicitamente affermata dal Vasari, a B. Rossellino. Anche qui l'opera dell'A. dovette limitarsi alla facciata: un paramento a bugnati, suddiviso orizzontalmente in tre ordini e verticalmente da lesene, che inquadrano arcature con bifore. La struttura rigorosamente prospettica del piano, la composizione "modulare", la plasticità che s'integra alla superficie, la corrispondenza del motivo d'insieme ai principi espressi nel trattato, dimostrano in modo evidente non soltanto la giustezza dell'attribuzione tradizionale, ma anche l'intenzione dell'A. di fissare il "tipo" dell'abitazione signorile in città. Questo intento paradigmatico, reperibile in tutte le opere dell'A., pone tutta la sua architettura in relazione con la sua trattatistica, quasi come verifica pratica degli enunciati, quanto mai vari, del trattato.

Anche in un'altra opera fiorentina, del resto, la composizione si sviluppa tutta in superficie, senza le forti membrature e i vigorosi contrapposti di pieni e di vuoti del Tempio malatestiano. Nella sistemazione della facciata di Santa Maria Novella (compiuta, come dice l'iscrizione, nel 1470; ma iniziata forse quindici anni prima) l'A. evita le forti membrature plastiche e definisce lo spazio in superficie, limitandosi a inquadrare, commentare, quasi a scandire in una metrica classica il "latino medievale" della facciata romanica. Ancora una volta, come in Santo Stefano Rotondo a Roma, l'A. architetto si confonde col "restauratore": in Santo Stefano Rotondo aveva ridotto all'unità plastica di un'unica cavità lo spazio duplicato dell'edificio tardo-antico murandone il secondo colonnato; qui rafforza e semplifica l'antica superficie romanica, includendola in un telaio prospettico e riducendola a equilibrata proporzione d'intervalli.

Nell'ambito dell'attività umanistica albertiana, l'architettura assume, col passar degli anni, una posizione preminente. Libero, a partire dal 1464, dall'incarico di abbreviatore apostolico, diventa il consigliere delle imprese architettoniche di Ludovico Gonzaga. Lo troviamo a Mantova nel 1459, nel '63 nel '70, nel '71. Al 1460 circa risale la prima idea della chiesa di San Sebastiano, al '70 il progetto definitivo; pure del '70 è il progetto della basilica di Sant'Andrea, la cui esecuzione sarà affidata a Luca Fancelli. La chiesa di San Sebastiano sorge come l'immagine tipica della chiesa-tempio: come gli antichi templi è sollevata su un podio (un motivo cui già figurativamente alludeva il basamento del Tempio malatestiano) e da una gradinata. Lo schema è a croce greca, con absidi al termine dei bracci; la decorazione ripete temi classici, con uno scrupolo ricostruttivo, un gusto della citazione latina, di cui farà tesoro, nel suo periodo mantovano, il Mantegna. Lo schema a croce greca, non più inteso come prospettica intersezione di piani, ma come equilibrio volumetrico o gravitazione di masse intorno a un asse centrale, costituirà il punto di partenza dell'architettura "classica" del Cinquecento, specialmente del Bramante.

Come nella chiesa di San Sebastiano, in quella di Sant'Andrea, l'A. si pone con molta chiarezza il problema della correlazione plastica tra interno ed esterno. Concepisce l'interno di Sant'Andrea a croce latina, con una grande cupola sul transetto (la cupola attuale non fu costruita che nel XVIII sec., da Filippo Iuvara); e alla grande navata, ispirandosi alla basilica di Massenzio, innesta grandi cappelle laterali, separate fra loro da potenti blocchi murari, e aperti sulla navata da grandi archi. Anche alla tradizionale struttura basilicale, dunque, l'A. vuol dare un'assoluta unità plastica, trasformando la composizione per piani prospettici in un contrapporsi diretto e fortemente articolato di masse e di grandi vuoti. Anche la facciata diventa così un forte organismo plastico: con un profondo arcone (altro motivo che sarà più volte ripreso e rielaborato dal Bramante) inserito in un piano, cui le profonde e graduate aperture delle porte laterali, delle nicchie, delle finestre, e le inquadrature delle lesene, danno valore di volume plastico.

Anche se la tarda attività architettonica dell'A. ha il suo epicentro a Mantova, l'artista non perdette mai il contatto con l'ambiente fiorentino. Il suo accento umanistico si ritrova infatti nell'abside della chiesa di San Martino a Gangalandi, presso Signa, di cui l'A. fu per parecchi anni priore, e nella loggetta Rucellai a Firenze; mentre sono sicuramente opera sua il tempietto del Santo Sepolcro in San Pancrazio, notevole come ricostruzione ideale di sacello classico e per il simbolismo della decorazione di tarsie marmoree, e la "rotonda" della chiesa dell'Annunziata, che riprende e sviluppa il tema, già trattato dall'A. nel tempio malatestiano e in Sant'Andrea, della conclusione a cupola di una struttura longitudinale.

Bibl.: Adolfo Venturi, Storia dell'Arte ital., VIII, 1, Milano 1923, p. 152 segg.; J. von Schlosser, Ein Künstlerproblem der Renaissance: L. B. A., Wìen 1929; L. H. Heydenreich, Die Tribuna der SS. Annunziata, in Mitteilungen des flor. Instituts, III (1930); J. von Schlosser, Xenia, Bari 1938; A. Blunt, Antique Theory in Italy, Oxford 1940; A. Stokes, Art and Science, London 1949; P. Pelati, La Basilica di Sant'Andrea, Mantova 1952; C. Brandi, Il Tempio Malatestiano, Roma 1956;C. Grayson, A. and the Tempio Malatestiano: An autograph Letter from L. B. A. to Matteo de' Pasti, New York 1957 B. Zevi, in Enciclopedia Universale dell'Arte, I, coll. 191-218 (con ampia bibl,).

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