Leone X

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Leone X

Maria Agata Pincelli

Figlio secondogenito di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico e di Clarice Orsini, nacque a Firenze l’11 dicembre 1475 e fu battezzato con il nome di Giovanni. Ebbe come maestri alcuni fra i più illustri rappresentanti della cultura fiorentina dell’epoca, come Angelo Poliziano e Demetrio Calcondila. Avviato alla carriera ecclesiastica sin da bambino – a soli otto anni ricevette gli ordini sacri e la dignità di protonotario – cumulò un ingente numero di commende non solo in Toscana, ma anche in Francia e nel Regno di Napoli. Con le nozze di Maddalena de’ Medici, figlia del Magnifico, con Franceschetto Cibo, figlio del papa Innocenzo VIII, vennero poste le premesse per l’ascesa di Giovanni al cardinalato: questi, nonostante la giovane età, venne inserito nella rosa degli eletti nel concistoro del 9 marzo 1489, a condizione che la nomina rimanesse segreta per i successivi tre anni, allo scadere dei quali sarebbe stato ammesso nel Sacro collegio con il titolo di cardinale di S. Maria in Domnica. Il Medici si preparò allora al suo nuovo ruolo: dopo aver ricevuto gli ordini del diaconato e del suddiaconato e la laurea in diritto canonico, si trasferì a Pisa per seguire i corsi del celebre Antonio Cocchi Donati. Il 1° febbraio 1492, dopo aver sostenuto una disputa pubblica, fu insignito del dottorato e il 9 marzo vestì le insegne cardinalizie nell’abbazia di Fiesole. Trasferitosi a Roma, fu ammesso nel Sacro collegio; dopo la scomparsa del padre Lorenzo, avvenuta l’8 aprile 1492, fu nominato da Innocenzo VIII legato pontificio per il dominio fiorentino con il compito di favorire il potere del fratello maggiore Piero. Questi, nonostante le esortazioni del fratello alla prudenza, adottò una politica dispotica che ben presto gli avrebbe alienato le simpatie popolari. Morto Innocenzo VIII, il giovane cardinale prese parte al conclave, appoggiando inizialmente la candidatura di Giuliano Della Rovere, il futuro Giulio II; ciò gli costò il favore del vincitore Alessandro VI (Rodrigo Borgia), da cui fu privato della legazione del Patrimonio.

Durante il papato Borgia, Giovanni condusse una vita ritirata, lontano da Roma e dalla curia, soggiornando nelle sue ville e nei suoi benefici. Era a Firenze quando gli ultimi errori di Piero portarono alla rovina del regime mediceo: rifugiatosi nel convento di S. Marco per sfuggire alla furia popolare, il cardinale fu poi costretto a lasciare la città travestito da frate francescano. Dopo aver soggiornato a Città di Castello e successivamente a Urbino, Giovanni intraprese in compagnia del cugino Giulio, futuro Clemente VII, un lungo viaggio attraverso l’Europa; si stabilì poi a Roma nel palazzo di S. Eustachio, che divenne il punto di riferimento e il luogo d’incontro degli oppositori al governo repubblicano di Firenze. Morto Piero nel 1503, il cardinale de’ Medici divenne il capo della famiglia e si diede a un’intensa attività diplomatica per risollevarne le sorti, coadiuvato anche dalla sorella Lucrezia, moglie di Iacopo Salviati. Benvoluto dal nuovo papa Giulio II, fu da questi nominato il 1° ottobre 1511 rettore pontificio di Bologna e della Romagna. Come sovrintendente all’esercito pontificio, Giovanni avrebbe dovuto guidare le truppe della lega Santa contro quelle francesi, molto superiori, ma finì per scontentare con la sua irresolutezza il bellicoso pontefice; sconfitto nella battaglia di Ravenna dell’11 aprile 1512, il Medici fu fatto prigioniero dai francesi e condotto a Milano. Liberato inaspettatamente mentre era in viaggio per la Francia, riuscì a sfruttare la situazione politica a vantaggio della propria famiglia: durante il congresso di Mantova ottenne che la lega Santa deliberasse la restaurazione dei Medici e partecipò personalmente alle operazioni militari. Rientrato a Firenze il 14 settembre 1512, adottò una politica di conciliazione e di clemenza, adoperandosi per ricreare un’atmosfera di consenso intorno alla sua famiglia, e mantenendo in vita istituzioni repubblicane pur piegate al controllo mediceo.

Morto Giulio II il 21 febbraio 1513, il cardinale de’ Medici, accompagnato dalla fama di uomo mite e pacifico, fu subito individuato come possibile successore del focoso Della Rovere; a suo favore giocò inoltre la notizia, fatta circolare ad arte, di una malattia che ne avrebbe minato la salute al punto da far pronosticare un pontificato di breve durata. Il conclave fu quindi breve, e Giovanni fu eletto papa l’11 marzo 1513, con il nome di Leone X, grazie anche all’appoggio del cardinale Francesco Soderini (→), desideroso di riconciliarsi con l’antico avversario.

La politica del nuovo pontefice fu da subito improntata alla salvaguardia del ruolo arbitrale del papato, pur nella prosecuzione più o meno scoperta, almeno inizialmente, del programma antifrancese di Giulio II. Nella questione di Milano, attaccata da francesi e veneziani, L. si dichiarò neutrale, ma di fatto appoggiò la coalizione tra svizzeri, impero, Spagna e Inghilterra. La sconfitta francese (Novara, 6 giugno 1513) gli diede modo di offrire al re Luigi XII la propria mediazione, ottenendone in cambio la sconfessione dei cardinali scismatici e il ritorno all’obbedienza del clero gallicano. Minor successo il nuovo papa ottenne nei suoi progetti di riforma della curia romana, che, per quanto sinceramente avvertiti, finirono con l’essere accantonati.

Dopo aver scelto quale suo luogotenente a Firenze il nipote Lorenzo, figlio del fratello Piero, L. rafforzò il potere mediceo all’interno della corte papale creando cardinali il cugino Giulio, il nipote Innocenzo Cibo, figlio della sorella Maddalena, Lorenzo Pucci, fedele familiare dei Medici, e Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena, a lungo il suo più ascoltato consigliere. Contemporaneamente riprese l’indirizzo espansionistico del suo predecessore nella Pianura Padana, con il progetto di costituire uno Stato pluricittadino sotto il controllo della sua famiglia. Per raggiungere questo obiettivo, il pontefice perseguì una politica estera ambigua, alleandosi alternativamente con la Francia o con la Spagna. Non volendo contrastare le mire del re di Francia Francesco I sul ducato di Milano, tentò di ottenerne l’appoggio attraverso il matrimonio del fratello Giuliano con Filiberta di Savoia, zia del sovrano transalpino. Intanto segretamente prometteva alla coalizione antifrancese l’aiuto dell’esercito pontificio: ma, al momento buono, questo non oppose alcuna resistenza alle armi di Francesco I. Pochi furono i vantaggi ottenuti con questa tattica: il re di Francia, vittorioso a Marignano (13-14 sett. 1515), concesse solamente la promessa della sua protezione al regime mediceo e un generico assenso all’acquisizione di Urbino per i Medici. La morte di Giuliano (17 marzo 1516) e poi quella di Lorenzo (4 maggio 1519) posero fine al progetto di creazione di un nuovo Stato signorile sotto il controllo mediceo.

Sul fronte romano, il pontefice si trovò a dover fronteggiare una congiura di cardinali, scoperta nella primavera del 1517; la repressione che ne seguì gli diede modo di rinnovare la fisionomia del Sacro collegio, eleggendone ben trentuno nuovi componenti, molti dei quali ottennero la berretta in cambio di cospicue somme di denaro.

Un altro momento critico del pontificato di L. coincise con la questione della successione al trono imperiale: ostile alla candidatura del re di Spagna Carlo d’Asburgo, il Medici finse di sostenere quella di Francesco I, lavorando in realtà nell’ombra a favore di un possibile terzo pretendente che fosse meno potente e minaccioso dei primi due. Le mire del pontefice furono deluse dall’elezione di Carlo il 28 giugno 1519 (con il nome di Carlo V), elezione a cui

L. non volle opporsi, pur stringendo nello stesso anno l’ennesimo accordo difensivo con il sovrano francese. Questi, tuttavia, rimaneva un ostacolo all’espansione pontificia nell’area padana, e con la morte del Bibbiena, il più fervido sostenitore del partito filo-francese nella curia, la politica estera leonina subì un mutamento a favore del nuovo imperatore, con cui fu stipulato un accordo segreto l’11 dicembre 1520. L’atteggiamento imperiale nei confronti dell’eresia luterana fugò gli ultimi dubbi del pontefice, che l’8 maggio 1521 strinse con Carlo V una lega contro turchi, francesi, veneziani ed eretici: l’imperatore si impegnava alla messa al bando di Martino Lutero, alla devoluzione di Parma, Piacenza e Ferrara allo Stato pontificio e alla protezione dei Medici a Firenze. Con questa nuova alleanza, L. sperava di poter escludere finalmente gli stranieri dall’Italia centro-settentrionale, dal momento che Carlo V si era impegnato a restaurare gli Sforza a Milano. Impegnò quindi forze e risorse nell’impresa, ponendo a capo dell’esercito pontificio il cardinale Giulio de’ Medici. Il successo arrise alla coalizione antifrancese: Milano fu riconquistata e Parma e Piacenza tornarono alla sede apostolica. Il 25 novembre 1521 L. fece appena in tempo a celebrare il suo trionfo a Roma, perché la morte lo colse la notte del 1º dicembre, non senza che si diffondessero sospetti di avvelenamento.

Come è noto, post res perditas M. nutrì la speranza di poter ritornare alla politica attiva confidando nell’aiuto di Francesco Vettori, oratore fiorentino presso Leone X. Il papato mediceo sembrava offrire al Segretario l’opportunità di un nuovo impiego ‘romano’ o ‘fiorentino’, se qualcuno, come appunto Vettori, avesse maneggiato il caso suo «con qualche destrezza» (M. a Francesco Vettori, 16 apr. 1513, Lettere, p. 243). Nelle lettere a Vettori dall’aprile all’agosto del 1513, M. esamina la complessa situazione internazionale dal punto di vista della politica pontificia, con l’evidente proposito di far pervenire a L. un saggio delle sue capacità affinché il pontefice si convinca dell’opportunità di «adoperarlo». Da qui i frequenti accenni nel carteggio alla «S.ta di Nostro Sig.re» e alla posizione che il papato avrebbe dovuto assumere nel gioco delle alleanze europee: mettendosi direttamente nella persona di L. («se io fussi il pontefice», scrive nella lettera a Vettori del 20 giugno 1513, Lettere, p. 261), M. suggeriva al papa una vigile equidistanza dalle potenze europee che si stavano affrontando in Italia, senza però lasciarsi sfuggire l’occasione di proporsi come catalizzatore di nuovi equilibri volti a contenere le pretese degli uni o degli altri. Comunque l’immagine che emerge dalle missive, e che ha come reale destinatario lo stesso L., è quella di un papato dinamico, unica forza capace di gestire la situazione europea e di preservare gli equilibri in Italia. Un’immagine che ritorna alla ripresa dei grandi temi di politica internazionale nelle lettere della fine del 1514, quando finalmente all’ex Segretario si presentò l’opportunità, tanto desiderata, di essere consultato su mandato del papa. Vettori così aveva scritto il 3 dicembre 1514:

Io voglio al presente mi rispondiate a quello vi dimanderò; e prima vi fo questo presupposito: che ’l papa desidera mantenere la Chiesa in quella dignità spirituale e temporale che l’ha trovata, et in quella iurisdizione, e più presto acrescerla. Fo poi questo altro: che ’l re di Francia voglia a ogni modo far forza di riavere lo stato di Milano, e che e veniziani sieno collegati con lui in quel modo erono l’anno passato. Presuppongo che lo imperatore, il Catolico et i svizeri sieno uniti a difenderlo: ricercovi quel che debbe fare il papa, secondo l’oppenione vostra (Lettere, p. 330).

Come osserva Emanuele Cutinelli-Rendina (1998, p. 90 e nota 186), la risposta di M. si articolò in due tempi e due testi, contenendo una decisa presa di posizione a favore dell’alleanza con la Francia contro gli svizzeri, un’opzione che legava i destini della Chiesa a quelli dell’Italia intera:

Volendo voi dunque sapere da me quello ch’el papa può temere de’ svizeri vincendo e sendo loro amico, concludo che può dubitare delle subite taglie et in breve tempo della servitù sua e di tutta Italia, sine spe redemptionis, sendo repubblica et armata senza esemplo di alcuno altro principe o potentato (M. a Francesco Vettori, 10 dic. 1514, Lettere, p. 337).

L’idea di un papato forte si trova già nel famoso cap. xi del Principe, con cui è probabile che si concludesse un primo nucleo del trattato. Intitolato De principatibus ecclesiasticis, esso è costituito in buona parte da un excursus sulla storia recente dello Stato della Chiesa, con particolare attenzione ai pontificati Borgia e Della Rovere. Dai suoi predecessori L. ha avuto in eredità uno Stato la cui potenza e il cui prestigio non hanno eguali in Italia:

Ha trovato adunque la santità di papa Leone questo pontificato potentissimo: il quale si spera, se quegli lo feciono grande con le arme, questo con la bontà e infinite altre sua virtù lo farà grandissimo e venerando (xi 18).

Che nell’idea di M. questo prestigio potesse essere utilizzato a favore di un ‘principe nuovo’, e in particolare di un membro della casa Medici in grado di ripercorrere le orme di Cesare Borgia detto il Valentino (si veda Cutinelli-Rendina 1998, pp. 14451), non toglie valore alla constatazione delle potenzialità politiche a cui la Chiesa di L. era giunta in quel momento storico.

Nelle sue speranze di tornare a «voltolare un sasso» per i Medici, M. doveva essere disilluso proprio quando le fortune di Giuliano (la cui amicizia gli era ben giovata in occasione della congiura di Pietro Paolo Boscoli →) sembravano aprire interessanti prospettive: all’inizio del 1515 il pontefice appariva sempre più intenzionato a investire il fratello minore di un principato, con il coinvolgimento di Paolo Vettori, allora ammiraglio delle galee pontificie, con cui

M. aveva buoni rapporti. Ma il veto del cardinale Giulio giunse allora attraverso il segretario papale Piero Ardinghelli, e Giuliano ricevette l’ordine di non «impacciarsi» con l’ex Segretario. La strada del riavvicinamento ai Medici doveva essere ancora lunga e passare attraverso la frequentazione degli Orti Oricellari, alle cui riunioni non mancavano di partecipare anche i fedelissimi del pontefice e della sua famiglia: al M. letterato prima che al politico dovevano essere riaperte le porte dei nuovi signori di Firenze. Nell’aprile del 1520 L. volle che si rappresentasse a Roma la Mandragola (→); l’8 novembre dello stesso anno M. riceveva dagli ufficiali dello Studio fiorentino, a capo del quale era il cardinale Giulio de’ Medici, l’incarico di scrivere «annalia et cronacas Florentinas». Lo stesso cardinale gli chiese un parere circa la riforma costituzionale di Firenze, e M. compose fra il novembre 1520 e il gennaio 1521 il Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in cui invitava L. a operare un riordinamento delle istituzioni fiorentine che andasse oltre il consolidamento del potere mediceo. Pochi mesi dopo, la morte del primo papa Medici avrebbe nuovamente posto il problema della riforma di Firenze, e M. sarebbe nuovamente intervenuto con la Minuta di provvisione per la riforma dello stato di Firenze l’anno 1552 indirizzandosi direttamente al cardinale Giulio.

Bibliografia: W. Roscoe, The life and pontificate of Leo the tenth, 4 voll., Liverpool 1805, New York 19736 (trad. it. in 12 voll., Milano 1816-1817); P. De Grassi, Il Diario di Leone X, a cura di P. Delicati, M. Armellini, Roma 1884; F.S. Nitti, Leone X e la sua politica, Firenze 1892, rist. anast. Bologna 1998; E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1998, pp. 81-92, 144-51; M. Pellegrini, Leone X, in Enciclopedia dei papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., Roma 2000, ad vocem; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 29-38, 157-59.

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