DORI, Leonora

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORI (Galigai), Leonora

William Monter

Nacque a Firenze il 19 maggio 1568, ultima di quattro figli, da Caterina Dori e da lacopo de Bastiano. Suo padre era carpentiere e sua madre balia presso la corte medicea quando nacque Maria de' Medici, nell'aprile 1573; fu quest'ultima circostanza che consentì alla D. di ascendere dalla sua oscura condìzione a favolosa ricchezza e notorietà in Francia. Fu infatti sorella di latte di Maria, sua compagna di giochi e amica per tutta la durata della fanciullezza piuttosto trascurata di lei; nel 1588 il granduca Ferdinando nominò la D. cameriera di sua nipote. Per quasi trent'anni la D. rimase al servizio personale di Maria, prima principessa toscana e poi regina di Francia: era la sola persona che potesse toccarle i capelli, la sua prima e più fidata confidente.

La D. esercitò sempre grande influenza sulla sua signora: inizialmente grazie ai suoi cinque anni di età in più, poi grazie alla maggior prontezza di spirito, che tutti gli osservatori confermano. Il granduca Ferdinando si servì della D. per sventare diversi piani matrimoniali aventi per oggetto sua nipote, la quale infine, all'età di ventisette anni, andò in sposa a Enrico IV re di Francia. Oltre la sua intelligenza, aiutava la D. il fatto che fosse meno bella della sua padrona: che di questa donna ricca e famosa siano stati fatti ben pochi ritratti formali suggerisce una totale mancanza di vanità per quanto riguardava il suo aspetto fisico; tutte le testimonianze l'hanno descritta come una donna piccola, scura di carnagione ed estremamente minuta: l'antitesi esatta di Maria de' Medici, quale appare nell'Apoteosi di Rubens.

La forza e la durata dell'affetto che Maria nutriva verso la D. hanno avuto varie conferme. Un legato fiorentino, ad esempio, rìfériva che la regina "ama Leonora in modo straordinario; è come se fosse innamorata di lei". La D. restò incrollabilmente fedele alla sua signora. Come disse in occasione del proprio processo, "J'ai eu. l'honneur d'étre aimée de la reine pour l'avoir suivi dès sa jeunesse; j'ai acquis sa bienvaillance en la bien servant, comme j'ai fait, en me rendant tres diligente à la suivre et faire ce qui estoit de sa volonté". Come osservava il cardinale Richelieu, la D. "rimase tanto inseparabilmente unita agli interessi della sua signora che né il re né suo marito riuscirono mai a servirsene" per i loro fini. Ne è ulteriore prova l'enorme numero di messaggi inviati dalla regina alla D. durante i sedici anni trascorsi insieme in Francia.

Quando Maria ascese al trono di Francia, nel 1600, fu naturale che la D. ne condividesse la buona sorte accompagnandola. Durante il viaggio per mare alla volta di Genova, la D. s'innamorò d'un ambizioso cortigiano fiorentino, C. oncino Concini, di nobili origini e di qualche anno piu giovane di lei. Molte difficoltà si frapponevano alla loro unione: il desiderio del re Enrico di limitare il numero di italiani nell'entourage dellaregina, i suoi sospetti iniziali nei confronti di Concini e i modesti natali della Dori. Tuttavia, sebbene il legato di Firenze informasse Enrico IV che la D. non era una "gentildonna", ma una "cittadina", il 5 apr. 1601 essa fu ufficialmente nominata dame d'atour della regina e il 12 luglio sposò il Concini a Saint Germain-en-Laye, acquisendo così una delle qualità necessarie per occupare quel posto a corte. La regina promise una dote di 70.000 libbre tornesi, che fu versata interamente entro dicembre del 1605. Ma la vera dote non era questa somma, né l'ufficio, che le garantiva per altro 6.000 libbre tornesi l'anno, bensì la sua influenza su Maria de' Medici. Il contratto di matrimonio conteneva un'importante clausola, secondo cui i beni dei due sposi dovevano restare separati; proprio questa norma avrebbe offerto lo spunto per deliberare il suo assassinio legale, dopo la morte di Concini.

I primi dieci anni in Francia furono propizi alla Dori. Essa reperì Louise Bourgeois, che fu la levatrice della regina e autrice del primo libro francese di ostetricia scritto da una donna. Entrambi i figli della D. furono battezzati a Saint Germain-en-Laye: Enrico nel luglio del 1603 e Maria nel marzo del 1608; il primo ebbe per madrina la regina e la seconda per padrino il re. Indicata, al primo dei due battesimi, come "dame Elinor Doury", al secondo era diventata "dame Eléanor Galigay", dopo aver acquisito il diritto di usare il nome dell'insigne famiglia fiorentina, in via di estinzione. I suoi compiti, tra cui rientrava la tenuta del guardaroba della regina, le davano diritto ad occupare un appartamento di tre stanze nel Louvre, con l'assistenza di una cuoca e di un'ancella. Suo marito, maître d'hotel della regina, non poteva abitare con lei ma solo farle visita e prese perciò in affitto una piccola abitazione nei pressi della reggia. Inoltre, la D. affittò un palazzo nel faubourg St-Germain, che acquistò poi nel 1609 al prezzo di 14.000 scudi.

In un'età venale, la D. era considerata avara. "Plutôt par la bassesse de son esprit qui suivoit celle de sa naissance, que par moderation de vertu, elle témoigna avoir plus de désir de richesses que d'honneurs", osservava Richelieu, aggiungendo che essa "résista quelque temps aux appetits immodèrés de la vanité de son mari", avido di potere e di titoli. L'inattesa morte di Enrico IV, nel 1610, proiettò i due coniugi oltre ogni loro più rosea speranza. In pochi mesi il Concini divenne consigliere di Stato e governatore di tre città nella Francia settentrionale, mentre "Dame L. Dory Galigai" il 16 settembre acquistò per 330.000 libbre il titolo e le terre del marchesato di Ancre, in Piccardia. Soltanto nove giorni prima essi erano stati autorizzati a vendere uffici regi valutati in 384.500 libbre tornesi, da cui il Tesoro reale finì per ricavare solo 14.500 libbre. La regina esentò la D., come acquirente legale, dal pagare le consuete tasse su questi atti; suo marito rese omaggio in sua vece a Maria. Come scrisse al granduca l'ambasciatore fiorentino, "fanno e faranno bene i fatti loro".

Durante i sei anni successivi la marchesa (dal 1613 marescialla) d'Ancre accumulò un'immensa fortuna. Il suo piccolo appartamento di corte fu adornato da una sontuosa serie di arazzi, tappeti orientali, tappezzerie da letto in seta e oro, raffinati cuscini di velluto. La D. possedeva anche una superba collezione di gioielli e uno scrigno contenente esattamente sessanta sacchetti da 1000 scudi ciascuno. L'arredamento della sua dimora privata parigina - saccheggiata nel 1616 - fu valutato 150.000 scudi. Nonostante il risarcimento ottenuto dalla regina, la D. chiese al Parlamento di Parigi un monitoire pubblico per rientrare in possesso dei suoi averi. Allo stipendio ufficiale si aggiungeva un costante flusso di doni da parte della regina; il suo valore raggiunse, nel solo anno 1613, la cifra di 250.000 libbre. Ancor più fruttavano le tangenti che la D. e suo marito percepivano su qualsiasi rilevante transazione finanziaria che avesse luogo a corte.

Mentre il Concini ostentava le sue ricchezze, circondandosi di guardie del corpo e giocando d'azzardo, e accumulava un potere sempre maggiore, la D. investiva: acquistò un'altra proprietà rurale a Lésigny-en-Brie, dove ben poche volte poté recarsi; in quattro anni, depositò presso i Monti di pietà di Roma e di Firenze 340.000 scudi, ad un interesse del cinque per cento; affidò inoltre ingenti somme al banchiere parigino Lumagni. Suo marito, il giorno in cui fu assassinato, portava in tasca l'enorme valore di due milioni di libbre in pagherò cambiari. Nel 1617 una stima prudente valutò la loro ricchezza complessiva netta in oltre 8.400.000 libbre.

Il maggiore dei suoi fratelli, Baldassare, che da ragazzo pare lavorasse con il padre carpentiere, aiutò la D. ad amministrare la sua fortuna e condivise il suo crollo. Nel 1610, dopo la morte del re Enrico, Baldassare, che aveva preso gli ordini sacri, divenne abate di Marmoutiers. Nel 1617 (quando il Concini era ormai divenuto l'uomo più potente della politica francese) fu nominato arcivescovo di Tours, ma dopo soli quattro giorni il Concini fu assassinato ed egli fuggi dalla Francia.

Durante tutti i suoi anni alla corte parigina, la D. soffrì per la sua salute cagionevole. Già nel novembre del 1604 le sue condizioni erano tali che nelle chiese di Parigi si tennero, per ordine regio, pubbliche preghiere per la sua salute. Nei dodici anni successivi la D. ebbe parecchie ricadute e si sottopose a svariate cure, divenendo una "martire dei dottori", come dichiarava suo marito nel 1611 all'ambasciatore fiorentino Ammirato. Essa stessa, durante il suo processo, affermò che "tutti i dottori di Parigi ben conoscevano la sua malattia". Ma poiché la medicina corrente quasi mai riusciva a darle sollievo, suo marito finì per credere che essa fosse inspiritata. Alternò viaggi termali e pellegrinaggi a metodi che erano decisamente magici.

Nel dicembre del 1604, per curarla, il Concini fece venire da Milano alcuni ambrosiani, noti esorcisti, che a Parigi si crearono una pessima fama di ciarlatani e stregoni. Essi compivano, in conventi e chiese chiusi, segreti esorcismi, durante i quali si udivano "cris extraordinaires et estranges, tant des dits réligieux que de ladite femme", le prescrivevano diete inconsuete, portavano reliquie al suo capezzale quand'era troppo debole per potersi spostare, collocavano sugli altari dei talismani animali o addirittura, una volta, un gallo spennato, che avrebbe dovuto cantare durante l'elevazione dell'ostia. Ma tutto ciò non riuscì a giovare alla salute della Dori. Durante il suo processo, essa assicuro che "ne pensa pas avoir fait action en France par laquelle on ayt eu opinion qu'elle fust possédée, aussy que cela n'a point esté".

Si ricorse allora alle preghiere della "Passitea", la pia donna prediletta dalla regina, fatta venire da Siena. Non più tardi del 1607 la D. si recò in pellegrinaggio alla Madonna nera di Chartres, accompagnata dal suo confessore, indossando una particolare corona; le sue condizioni migliorarono leggermente, ma ben presto rimase incinta. Nel 1609 progettò un altro pellegrinaggio alla Madonna di Loreto, ma un miglioramento di salute le fece cambiare idea. Mantenne alcune strane abitudini, come quella di mangiare cera di candele, e continuò a soffrire, per tutti gli anni in cui ebbe autorità e influenza, di ricorrenti attacchi di febbre ed esaurimento nervoso, che la portarono a dare in escandescenze contro suo marito e perfino contro la reggente. Richelieu racconta come le sue fatiche pubbliche e private l'avessero debilitata nel corpo e nella mente, e arrivasse a insultare apertamente Maria de' Medici, "chiamandola despietata e ingrata, e quando parlava di lei, l'epiteto più frequente era quello di balourde".

Solo un medico riuscì a impedire che le sue condizioni peggiorassero: l'ebreo Filoteo Montalto, bandito dalla Francia nel 1609 e richiamatovi nel 1612 da Maria, espressamente per curare la Dori. Finché rimase in vita, ossia fino al 1616, Montalto giovò alla salute della D. prescrivendole un'alimentazione leggera e molto riposo. Ma egli era anche dedito agli studi cabalistici, esorcizzava la sua paziente leggendole in ebraico i Salmi 54 e 34 e per prevedere l'esito delle sue terapie ricorreva all'astrologia. Un effetto calmante esercitava sulla D. anche la musica di Andrea de Lizza, un napoletano amico di Montalto, impiegato dalla D. come servitore, segretario e cuoco, che la persuase di essere vittima del malocchio.

Dopo il 1612 i Concini accolsero presso di loro stregoni, ciarlatani e studiosi d'ebraico, tutti assai ben pagati. Nel loro palazzo parigino risiedeva e disponeva di un laboratorio anche Cosimo Ruggiero, vecchio magus e astrologo vissuto alla corte di Caterina de' Medici, divenuto abate non residente, scrittore di almanacchi; egli era considerato "ateo", poiché negava l'esistenza del demonio; nel 1615, quando morì, nonostante le proteste del Concini, gli fu rifiutata una sepoltura cristiana. Nel 1615 un pamphlet in difesa del Concini, L'Italien français, lamentava le accuse "orribili" rivolte alla D., tra cui quella "di stregoneria"; si diceva che "tre streghe avessero confessato, in punto di morte, di essere state al sabba in sua compagnia". Questa fama della D. prosperò, alimentata anche dalla sua vita ritirata. Si sapeva che essa possedeva oroscopi della regina e nel 1616, durante il sacco della sua casa, vi si trovarono testi ebraici e grimoires in latino.

Politicamente la D. rimase vicina al marito, nonostante la salute precaria e la fine di qualsiasi convivenza dopo il 1613. Essi si mantenevano in contatto attraverso un flusso ininterrotto di messaggeri e biglietti, che culminava in vari incontri tempestosi, durante i quali più d'una volta la regina dovette fare da paciere. Secondo la testimonianza di Andrea de Lizza, dal 1615 in poi essa ebbe nella nomina o destituzione di alti funzionari responsabilità ancora maggiori del Concini: "Conduceva gli affari senza consigliarsi con lui..., scrivendogli solo a cose fatte". Sebbene a dire del segretario, Ludovisi, la regina opponesse talvolta un rifiuto alle richieste della D., altri sottolineavano che Maria non avrebbe concesso alcun dono o beneficio senza il suo consenso. La D. comprese per prima le eccezionali doti di Richelieu, e nel 1616-17 lo incluse tra i nuovi ministri chiamati ad assistere la regina e il Concini. Suo marito ammetteva spesso di dovere il proprio straordinario successo alla D., aggiungendo tuttavia "che essa glielo faceva pagare caro".

Quando iniziò il 1617, anno fatale, la marescialla d'Ancre era onusta di ricchezze e tramite la regina e il Concini interveniva nel governo di Francia. A gennaio sua figlia morì. Il 24 aprile suo marito, assurto ai massimi onori mai goduti da uno straniero in Francia, fu assassinato per ordine del re Luigi XIII, sedicenne. Lo stesso giorno la D. fu messa agli arresti nel suo appartamento del Louvre, da cui venne presto trasferita nella Bastiglia, per essere giudicata sotto l'accusa di alto tradimento. I documenti sequestrati nelle sue stanze dimostravano come la D. e suo marito avessero intrattenuto una corrispondenza privata con governi stranieri, e specialmente con il duca di Lerma, in Spagna. Ma la vera ragione della condanna a morte era la sua enorme ricchezza. Il contratto di matrimonio prescriveva che tutti i suoi averi dovessero restare distinti da quelli del marito. Invece, tutti i principali beni che essi possedevano in Francia - la casa parigina, il marchesato d'Ancre e la tenuta di Lésigny - erano intestati a lei, e non al Concini. Secondo quanto afferma Richelieu nei suoi Mémoires, tutti immaginavano che il re l'avrebbe graziata e lasciata tornare in Italia, dopo averle inflitto una formale condanna che permettesse di confiscare i suoi averi.

Al contrario, la D. fu condannata a morte. L'esecuzione avvenne l'8 luglio 1617. Il suo entourage era stato interrogato per appurare i suoi rapporti con ebrei, maghi, banchieri, diplomatici stranieri e ogni altro fatto che potesse essere rivolto contro di lei. La sentenza ufficiale l'accomunava a suo marito nell'accusa di vilipendio dell'autorità regia, di trattative e accordi segreti con Stati esteri, di aver tolto il blasone regio dall'equipaggiamento militare e di aver esportato pubblico denaro senza l'autorizzazione del re. Quest'ultima accusa era certamente vera. Lo Chef du Procés pubblicato le imputava la "Depraedation et Interversion des deniers Royaulx" dopo la morte di Enrico IV, enumerava i suoi principali investimenti in Italia, per poi descrivere più concisamente la sua "insolente usurpation de l'authorité du Roy". Cinque anni dopo la sua morte, i Francesi inviarono a Firenze una speciale ambasciata per recuperare almeno una parte dei suoi investimenti italiani.

La D. non era meno invisa del suo sgargiante marito all'opinione pubblica francese, sebbene per ragioni diverse. La sentenza ufficiale non parlava di stregoneria, poiché il Parlamento di Parigi era notoriamente riluttante a comminare pene capitali cosi motivate; ma molti francesi affermavano esplicitamente che la marescialla d'Ancre era stata condannata come strega. Dopo la sua morte, diversi pubblicisti la definirono "la Medea francese": uno di loro descrisse i suoi "unicques et parfaietes amours" con un demonio di nome Rubico.

P. Matthieu (La conjuration de Conchine, Paris 1619), pubblicista particolarmente velenoso, spiegò che "una si repellente creatura non avrebbe potuto avere simile ascendente sulla sua signora senza ricorrere a incantesimi e malie". Un'opera in versi pubblicata a Parigi, a Lione e a Rouen un anno dopo la sua morte la definiva fin nel titolo come La magicienne estrangère. Perfino l'autore della sua principale moderna biografia francese ribadisce nel sottotitolo che il suo sarebbe stato, in ultima analisi, un processo politico per stregoneria, ultimo esempio, forse, di una tendenza francese che risale a Giovanna d'Arco.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Archivio Mediceo del principato, 4748, ff. 1-254 (sedici lettere al segretario dei granduca, 1611-1617); Parigi, Archives nat., X 2a, § 979; Ibid., Bibl. nat., Cinq-cents de Colbert, vol. 221, sul processo alla D. (molti documenti sono riprodotti in F. Hayem, Le maréchal d'Ancre et L. Galigaï, Paris 1910). La vasta raccolta delle lettere di Maria de' Medici alla D. (1601-1617) si trova a Parigi, Bibl. nat., Cinq-cents de Colbert, § 86-89, mentre § 91-92 riguardano le rendite e i doni che essa ricevette (1611-17).

La principale fonte coeva è rappresentata dai Mémoires du cardinal de Richelieu, a cura di L. Lavollée, I-II, Paris 1907-1909 (in partic. II, pp. 216-38). L'imponente numero di libelli indirizzati contro la D. e il Concini è elencato ed esaminato in Les sources de l'histoire de France, a cura di E. Bourgeois-L. André, III, 4, § 2298-2375. Cfr. anche G. Mongrédien, L. Galigai, Paris 1968, di gran lunga il migliore tra gli studi moderni. Cfr. inoltre Négotiations politiques de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini-H. Desjardins, V, Paris 1875, passim; R. de Crèvecoeur, Un document nouveau sur la succession de Concini, Paris 1891; M. Painter, Toscani alla corte di Maria dei Medici regina di Francia, in Arch. st. ital., XCVIII (1940), 2, pp. 83-108; S. Mastellone, La reggenza di Maria de' Medici, Messina-Firenze 1962, passim. Cfr. inoltre la voce Concini, Concino, in questo Dizionario, XXVII, pp. 725-730.

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