LONGANESI, Leopoldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LONGANESI, Leopoldo (Leo)

Alessandra Cimmino

Nacque a Bagnacavallo, in Romagna, il 30 ag. 1905 (ma fu iscritto all'anagrafe il 3 settembre), figlio unico di Paolo e di Angela Marangoni.

Il padre, di una famiglia di agiati proprietari terrieri, dirigeva a Lugo una piccola industria di munizioni (la Fabbrica Pietro Randi); la madre - personalità dominante che lo stesso L. descrive diffidente, scettica, attenta a conservare il suo grado sociale - era figlia di Leopoldo, anarco-socialista romagnolo, amico di Andrea Costa, e aveva uno zio, Rinaldo, che era stato garibaldino. Il L. fu sempre molto legato alla famiglia, con cui visse fino a età matura; e in particolare le figure del nonno e dello zio materni ebbero un ruolo nel progressivo concretarsi di quella rivisitazione mitica della borghesia ottocentesca che condusse per tutta la vita.

Nel 1911, proprio per permettere al L. di frequentare buone scuole e un ambiente più vario, la famiglia, compresi i nonni materni, si trasferì a Bologna. Dopo le elementari e le medie, il L. fu iscritto al ginnasio-liceo Galvani, dove ebbe come insegnante B. Giuliano che ne apprezzò la vivacità intellettuale: scolaro svogliato e poco diligente, il L. si andava dimostrando, però, assai precoce, particolarmente versato nel disegno, di brillante intelligenza, caustico e aggressivo.

Le sue letture furono asistematiche, perfettamente aderenti al suo tempo, e tuttavia indicative. Amava l'avventura e l'evasione, piuttosto che la meditazione e l'approfondimento, e quindi E. Salgari, L. Zuccoli, prediletto da sua madre, e R. Kipling; poi G. Sorel, F. Nietzsche, ma anche il M. Barrès che insegnava il culto della tradizione della terra natale e degli antenati, A.P. Čechov; ebbe particolarmente cari l'umorismo grottesco e surreale di N.V. Gogol´ e soprattutto quello lucido, impietoso e crudele di J. Renard.

La madre teneva a Bologna un salotto frequentato da esponenti dell'intellettualità cittadina e lo faceva viaggiare: l'estate a Forte dei Marmi, San Remo, Montecatini, ma anche all'estero, Vienna soprattutto. Il L., quindi, fin da ragazzo poté frequentare una società varia e articolata che ne apprezzava lo spirito e si divertiva alle sue uscite da enfant terrible. Come scrisse egli stesso più tardi, nel 1920 "per tante piccole ragioni sentimentali" divenne fascista ("appena infiliamo i calzoni lunghi corriamo a iscriverci al fascio", L. Longanesi, In piedi e seduti, p. 44); se, nell'ambito del fascismo cittadino, suo primo mentore fu A. Bonaccorsi, suo referente nei rapporti con il partito sarebbe stato L. Arpinati.

Benché giovanissimo, prese a frequentare sia i caffè letterari, il San Pietro in particolare, sia il giro dei nottambuli e del demi-monde cittadino, e fu presto considerato una sorta di mascotte dagli intellettuali più conosciuti: B. Cicognani, G. Della Volpe, G. Del Vecchio, e soprattutto G. Morandi, che lo prese a benvolere e lo presentò più tardi a G. Raimondi e a V. Cardarelli. Il L., sempre pieno di idee per cui si infervorava e che discuteva animatamente, non ebbe tuttavia mai propensione alla speculazione teorica né una vocazione propriamente politica; portato al sarcasmo e alla critica obiettiva, moralistica, da esercitarsi sugli eventi concreti e sugli aspetti ridicoli e assurdi di singoli eventi e persone, aveva una solida tempra di organizzatore e in lui le mille idee, cui sempre arrivò per intuizione più che per cultura o ragionamento, assumevano immediatamente carattere di progetto concreto (un disegno, un articolo, l'ipotesi di un nuovo giornale), sfogo naturale di un'ambizione consapevolmente e precocemente protesa a occupare un proprio spazio nella società culturale e politica.

Nel novembre 1920 uscì il primo e unico numero di un giornaletto da lui fondato, Il Marchese, di cui non rimane traccia; dal marzo al maggio 1921 apparvero tre numeri del mensile satirico È permesso? Zibaldone dei giovani, tipico prodotto goliardico con vaghe suggestioni fasciste e futuriste.

Già più "longanesiano" Il Toro - diretto insieme con C. Testa e N. Fiorentini, il n. 1 è del 1° marzo 1923 -, per l'eleganza grafica (vi compaiono i piccoli disegni del L. in apertura e chiusura degli articoli, qui di chiara ispirazione futurista), la sentenziosità aforistica ("Cercare il vero in arte è come cercare i fatti in filosofia") ma, soprattutto, notevole come atto di nascita e prima espressione della costante nostalgia del L. per un mondo e un tempo "altro", di valori consolidati e semplice eleganza, senza "volgarità e villani rifatti", definito a ragione da Cecchi "un punto di riferimento, una mira ipotetica", per sua intima essenza irraggiungibile (E. Cecchi, Un coraggio indomito, in L. L.… 1905-1957, p. 378), fondamento del suo particolare conservatorismo presente e futuro.

All'epoca il L. aveva già iniziato la collaborazione, soprattutto grafica, a Cronache d'attualità, di Roma, diretto da A.G. Bragaglia (cominciò con sei disegni per l'articolo di S.A. Luciani, Verità e poesia, nel n. 1-6 del 1922), che proseguì, dall'aprile dell'anno successivo, sul supplemento satirico delle Cronache, l'Index rerum virorumque prohibitorum o Breviario romano; e il L. negli anni a venire si sarebbe senz'altro ricordato degli irriverenti e provocatori spiriti futuristi che ancora si agitavano a Roma.

Intanto, nel febbraio 1924, proprio con la malleveria di Bragaglia, si offrì come collaboratore ad A. Soffici, che sarebbe divenuto uno dei suoi numi tutelari, anche se sul momento non se ne fece nulla. Nella primavera-estate di quell'anno soggiornò per due mesi a Roma, dove, sempre attraverso Bragaglia, frequentò la Grotta degli Avignonesi ed entrò nella celebre terza saletta del caffè Aragno, rinnovandovi la conoscenza con Cardarelli, prendendo contatto con l'élite dell'ambiente culturale romano, da cui avrebbe tratto molti dei suoi futuri collaboratori: A. Baldini, L. Montano, A. Savinio, A. Bartoli; fu introdotto ai salotti letterari dei Cecchi - e dunque conobbe i Longhi, N. Rota, G. Ungaretti, R. Bacchelli, C. Pascarella - e del pittore A. Spadini. Rientrando a Bologna si fermò a Firenze, dove, con una presentazione di Cecchi, poté incontrare G. Papini e D. Giuliotti.

Tale intreccio di relazioni, conoscenze, amicizie - nate e incrementate nel corso degli anni fra salotti, locali notturni, redazioni di giornali - fu elemento fondante nell'evolversi della carriera del L., il quale, nonostante il carattere irridente e litigioso, pur fra alti e bassi volle e seppe coltivare con cura questo vivaio di collaborazioni e di rapporti, necessari alla realizzazione delle varie imprese in cui via via si cimentò.

Rientrato a Bologna, si iscrisse a giurisprudenza, ma non si laureò mai, proseguendo invece, con sempre maggior determinazione, l'attività giornalistica: assunse (e tenne fino al 1926) la direzione de Il Dominio, periodico nazionalista e monarchico finanziato dal fascio locale. Contemporaneamente offrì la propria collaborazione anche a M. Maccari, che era andato a trovare a Colle di Val d'Elsa, dove questi stava preparando l'uscita de Il Selvaggio, organo semiufficiale del movimento di Strapaese, su cui il L. iniziò a pubblicare nel 1925.

Strapaese, sul piano strettamente culturale - soprattutto attraverso Il Selvaggio, quando nel 1926 Maccari ne rimase il solo direttore -, fu uno dei modi possibili messi in atto dalla cultura italiana per riassorbire e liquidare l'ubriacatura delle avanguardie e rientrare nel solco della grande tradizione nazionale; sul piano politico fu un richiamo al fascismo provinciale e squadristico delle origini nel breve momento in cui il fascismo "statalista e di governo", dopo il delitto Matteotti (1924), entrò in crisi. Per il L., già in evidente sintonia con le posizioni sostenute dal movimento, affiancarsi a Maccari ("i due nani di Strapaese" furono detti, data la bassa statura di entrambi) significò soprattutto potersi avvicinare, e quindi poi lavorare appoggiandosi a personalità quali Soffici e Cardarelli di cui apprezzava la moralità critica e risentita che riteneva affine alla propria e di cui condivideva d'istinto il richiamo alle memorie familiari e paesane alla classicità italica; inoltre Strapaese era un movimento "contro", assimilabile al "ribellismo" delle riviste toscane d'anteguerra: contro il partito istituzionalizzato, contro la romanità d'accatto che tanto attraeva il fascismo, contro i borghesi di città immemori dei buoni e domestici valori antichi, contro l'esterofilia. Tutti elementi che, con correzioni di linea ed evidenti modifiche, sarebbero rimasti come costanti delle posizioni ideologiche del L. anche perché corrispondenti alla natura ipercritica e fondamentalmente scettica del suo carattere.

Fu quindi "salvatico", ma non bastando al suo protagonismo l'affiancare Maccari, con l'appoggio finanziario di Arpinati e con il sostegno dello stesso Maccari, di Soffici e di Gherardo Casini, riuscì a far partire un suo periodico, L'Italiano (n. 1, 14 genn. 1926).

L'Italiano fu la creatura prima e più longeva (chiuse a fine 1942) del L.; fu la palestra dove per molti anni egli sperimentò tecniche e collaboratori; e, nel momento degli esordi, la sua lettera di presentazione, la malleveria delle sue capacità. Nel primo periodo fu quindicinale e di medio formato; impaginato su quattro colonne, si distingueva per l'eleganza nella composizione, arricchita dall'uso dei disegni (quasi sempre satirici e, nella prima fase, di mano sia principalmente del L. e di Maccari, sia di classici come G. Grosz e H. Daumier), e per la riesumazione, subito celebre, dei caratteri Bodoni che proprio Morandi aveva suggerito al L., indicandogli anche la vecchia tipografia dove erano reperibili. Sottotitolato Rivista della gente fascista, i primi otto numeri furono quasi tutti assorbiti dalla polemica politica: "ostile se occorre anche al fascismo ufficiale"; la linea ideologica veniva epigrammaticamente, e sbrigativamente, riassunta nel n. 1 dal giovane direttore: "L'Italia ha il sole e con il sole non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute filosofica, l'antidemocrazia, il fascismo, Mussolini". In breve volger di tempo, la maturazione di una differente linea politica da parte del fascismo e l'assidua presenza in redazione di un intellettuale di matrice rondista quale G. Raimondi, che favorì la collaborazione, fra gli altri, di Cardarelli, di Bacchelli, di C. Malaparte, portò la rivista a indirizzarsi piuttosto sul versante letterario. Nel 1928 con l'allontanarsi di Raimondi, cui seguì un certo distacco anche da Cardarelli, il "colore" ideologico-culturale venne definito da una figura più in linea con l'ufficialità, C. Pellizzi, amico di G. Bottai e di G. Gentile. Di fatto, la specifica caratteristica che il giornale derivava dal direttore (che vi firmava soprattutto con pseudonimi) era strettamente legata, al di là del bric-à-brac strapaesano, alle molte curiosità e ai molti interessi del L., e consisteva nella grande varietà di argomenti - sull'Italiano c'era di tutto: rivoluzione e tradizione, le poesie di Ungaretti e il manganello, una piccola posta "I misteri dell'Italia", la proclamazione dell'autarchia culturale e la traduzione di opere straniere - unita al modo in cui questi argomenti venivano presentati e distribuiti anche a livello di impostazione grafica e di impaginazione.

In questa fase, forse la più impegnata sul piano della politica militante, il L. aveva pubblicato il famoso Vademecum del perfetto fascista (Firenze 1926), una cinquantina di pagine di aforismi, assiomi, slogan destinati a grande notorietà (tra cui il famoso "Mussolini ha sempre ragione", peraltro già apparso sul n. 3 dell'Italiano), cui seguirono, nel 1927, Cinque anni di rivoluzione (Bologna) e, nel 1928, La figlia del tipografo (ibid.); questi ultimi due volumi furono però pubblicati in proprio dal L., che aveva avviato anche un'attività editoriale, Le Edizioni dell'Italiano, nel cui alveo - grazie alla consueta eleganza formale e dimostrando un fiuto che non lo avrebbe mai abbandonato - riuscì ad attrarre alcuni fra i migliori nomi della letteratura nazionale, talvolta con raffinate piccole opere eterodosse rispetto alla produzione maggiore (fra i titoli: La ruota del tempo di Bacchelli, illustrato da 22 disegni di Morandi, che vinse il premio Bagutta; Il perdigiorno di L. Montano, ambedue del 1928; Il sole a picco di Cardarelli, e la La dolce calamita, ovvero La donna di nessuno di Baldini, del 1929).

Benché appena ventiquattrenne, il L. si era ormai guadagnato una solida reputazione. Nel 1929 si presentò alle elezioni e non fu eletto. In luglio il federale di Bologna, M. Ghinelli, in rotta con il direttore de L'Assalto, settimanale della federazione fascista, chiamò a sostituirlo il L., che accettò l'incarico e rimase al giornale fino all'autunno 1931, rivedendone al solito l'impostazione grafica e arricchendolo con nuove rubriche e inchieste. La lettera di dimissioni, pubblicata sul numero 42 del 17 ottobre, adduceva un generico motivo di altri impegni, ma le circostanze in cui era maturata erano di tutt'altro genere.

La meccanica dell'incidente - una recensione fortemente derisoria, Vecchiaia delle parole (n. 41, 10 ott. 1931), che colpiva un influente senatore bolognese - destinata a riproporsi in futuro in diverse situazioni, illumina un aspetto particolare e significativo del carattere del L., il quale, pur nell'esercizio di una critica spietata, riusciva tuttavia - probabilmente più per caratteriale cinismo che per calcolo - a mantenersi sempre all'interno della parte politica dominante senza dissociarsene mai fino in fondo, senza costituire quindi un pericolo reale e finendo per configurarsi alla fin fine come una sorta di testimonianza vivente della tolleranza del regime. Molto più difficile, quasi impossibile, come in questo caso, gli era invece astenersi dallo sberleffo, dalla battuta, dallo schiaffo in piena faccia (e pare avesse rivestito un certo ruolo in quello materialmente inferto a Toscanini nel corso della gazzarra al Comunale del 14 maggio 1931, tanto che girava la voce, peraltro infondata, che proprio lui ne fosse stato l'estensore) e di questo invece gli capitò di pagare spesso le conseguenze, guadagnandosi anche la fama di persona mai interamente affidabile o manovrabile.

Nel 1929, per il tramite di C. Malaparte, direttore della Stampa, ottenne l'incarico di allestire il padiglione della stampa letteraria per un'esposizione da tenersi a Barcellona. L'ottimo risultato conseguito gli procurò un ben più significativo compito: la sistemazione della Sala T, interamente dedicata a Mussolini, nell'ambito della Mostra del decennale della Rivoluzione fascista che si sarebbe tenuta nel 1932. L'allestimento incontrò la piena approvazione del duce e dimostrò la particolare sensibilità e abilità del L. nell'utilizzare strumenti di comunicazione così importanti nella società di massa.

La nozione del ruolo fondante e primario del duce nella vita della nazione "passava", senza uso di eccessi retorici e senza trionfalismi, in forma allusiva ma estremamente chiara, attraverso la semplice citazione dei dati salienti della biografia, l'evocazione del suo habitat quotidiano (lo studio al Popolo d'Italia, perfettamente ricostruito), l'esposizione di una nuda documentazione quasi priva di commento.

Ancor prima dell'episodio che pose fine alla direzione dell'Assalto, le sensibilissime antenne del L. avevano avvertito che, a regime solidamente impiantato, non era più salutare parlare di politica, o quanto meno parlarne in forma diretta, come del resto esplicitò a Pellizzi: "È bene parlare di cravatte (politiche), di pittura (politica), di usanze, di fisionomia".

Decise quindi di dedicarsi di più all'Italiano e, ottenuta un'erogazione di 36.000 lire dall'Ufficio stampa del duce, tra il 1930 e il marzo 1931, data d'inizio della nuova serie, approntò diverse modifiche.

Divenuto Foglio mensile della Rivoluzione fascista, ne fece una classica, raffinata rivista d'arte e letteratura, formato 18 per 24,5 cm, 40 pagine, uso di caratteri bodoniani e corsivi, con una redazione più strutturata e un frequente ricorso a numeri monografici. Vi si mescolavano racconti, saggi, trouvailles storiche, commenti, qualche polemica, argomenti di varia attualità sociologica, spesso di taglio eterodosso e inusuale. Vi si riscontrava, inoltre, un uso crescente della fotografia, originale per il taglio, l'impaginazione, la promiscuità tra foto d'epoca, foto attuali (spesso del L.), disegni in rapporto al testo. Larga parte veniva lasciata alla letteratura straniera con una notevole presenza americana (W. Faulkner, W. Saroyan, E. Hemingway) e, fra i numerosi altri, J. Giono, A. Gide, J. Roth, D.H. Lawrence. Particolarmente significativo anche l'ampliamento della collaborazione italiana (intensa quella con G. Ansaldo, conosciuto nel 1926), che vide affiancarsi ai vecchi nomi quelli della generazione che avrebbe fatto la storia letteraria dell'Italia del dopoguerra, poi partecipe, almeno in parte, delle future avventure editoriali del L.: Moravia, Elsa Morante, G. Comisso, V. Brancati, D. Buzzati, M. Soldati, M. La Cava.

I primi anni Trenta non furono un periodo particolarmente soddisfacente per il L. che, dopo la partenza bruciante, da enfant prodige, viveva, almeno parzialmente, una situazione di stallo. Forse anche per dare una svolta alla sua carriera, nel maggio 1932 si trasferì a Roma con tutta la famiglia. Suo obiettivo primario era quello di ottenere dal duce il permesso di realizzare un settimanale di attualità: finalmente, l'11 febbr. 1937, ottenne da Mussolini la sospirata nomina a direttore del settimanale d'attualità Omnibus, titolo suggerito, sembra, dal duce in persona.

Rizzoli fu l'editore - ma dopo soli sei mesi, dati gli alti costi, gli si affiancò Mondadori -, amministratore T. Monicelli; la stampa era in rotocalco, procedimento fino ad allora adottato solamente dalle riviste femminili, in 16 pagine di grande formato (55 cm per 40), a sei colonne, che per le rubriche si riducevano a 4 o 5. Il n. 1 uscì il 15 apr. 1937; il L. lo definì, in una lettera ad Ansaldo, "una trincea all'ombra del regime, contro[…] le dirò chi". L'elenco dei collaboratori di Omnibus, che comprende anche tutti o quasi i nomi dei precedenti compagni di strada del L., è in pratica un vero e proprio "gotha" di due generazioni di giornalisti: fra gli altri M. Pannunzio (critica cinematografica), A. Benedetti (critica letteraria), A. Guerriero (Ricciardetto, politica estera), B. Barilli (critica musicale), A. Savinio (critica teatrale), e poi E. Flaiano, A. Bonsanti, Irene Brin (cronache mondane), I. Montanelli, P. Monelli, E. Patti, B. Tecchi (la corrispondenza e varia letteratura), e ancora E. Emanuelli, M. Praz, M. Missiroli, V. Gorresio, U. Stille, M. Alicata, G. Pintor, C. Muscetta, M. Cesarini.

Destinato a durare neppure due anni, Omnibus divenne, col tempo, quasi leggendario e, in effetti, può essere considerato a giusto titolo il progenitore di tutti i successivi settimanali italiani di attualità. La formula era sicuramente nell'aria e al L. fu suggerita in particolare da alcuni periodici francesi cui riuscì a coniugare i risultati del giornalismo illustrato angloamericano: Look, Life, Picturepost, New Yorker. Sul piano grafico impaginativo si può cogliere l'influenza dell'espressionismo grottesco tedesco e l'approccio ludico del dada francese, sempre cari al L.; ricchissimo di foto - rivoluzionò alla radice in ambito giornalistico il tradizionale rapporto tra fotografia e scrittura - alcune di sostanza, alcune di richiamo ("Diamole dunque le gambe delle attrici e tante immagini accanto a testi ben fatti"), ospitava anche vignette di Maccari, Cavallo, G. Mosca. I contenuti si tenevano in equilibrio tra attualità e costume, cronaca e letteratura: c'erano recensioni artistico-letterarie e degli spettacoli, racconti di autori italiani e stranieri e servizi degli inviati speciali, profili biografici e romanzi a puntate, tendenze della moda, cronaca giudiziaria ed eventi mondani. L'ineliminabile, e prevalente, approccio critico era in generale rivolto a quanto, nell'ambito della cultura e del costume sociale, apparisse sciatto, inelegante, volgare, supponente - e quindi sotto trasparente metafora, riferibile a molti caratteri e aspetti del "fascismo di potere" -. Questo pot-pourri era reso omogeneo dallo stile: filo conduttore e collante, caratterizzato dal gusto per il particolare apparentemente inessenziale giustapposto all'essenziale della notizia, da un tono divagato e sensibilmente snob che indugiava sul piacere dell'aneddoto, della boutade, del paradosso, dell'annotazione di costume, abbastanza prossimo a quello che più tardi sarebbe stato definito il "radical-chic", e che nasceva per tanta parte dal piacere dell'inutile, del fine a se stesso, parte integrante della vena creativa del Longanesi. Egli profuse in Omnibus le sue doti di grande organizzatore e, pur non pubblicandovi cose sue, esercitò sui vari contributi un editing interventista, qualificante quell'approccio particolare a qualsivoglia argomento che era il vero elemento destabilizzante e politicamente pericoloso, giacché capace di realizzare dall'interno un'impalpabile ma costante erosione dei "valori" propugnati dal regime. Essendo Omnibus, al di là delle stesse intenzioni del L., costituzionalmente e irriducibilmente incompatibile con il fascismo, fu chiuso; l'articolo che provocò il provvedimento fu un servizio di Savinio da Napoli in cui si parlava anche della morte di Leopardi: per diarrea.

L'avventura di Omnibus si concluse il 29 genn. 1939; il L. prese la cosa con una certa filosofia, forse perché ormai abituato a questi incidenti di percorso. Nel febbraio 1939 sposò Maria Spadini, figlia del pittore, con la quale aveva rinnovato la conoscenza dopo il trasferimento a Roma e da cui ebbe tre i figli, Virginia, Caterina e Paolo. Acquistò una casa in campagna presso Imola che volle chiamare "La lotta", e cominciò a collaborare con l'editore Tumminelli alla rivista Storia (che ribattezzò Storia di ieri e di oggi).

Direttore figurava Gorresio, ma il L., che non poteva firmare in tale veste per la troppo recente sospensione, gli dette tuttavia il suo imprinting portandosi dietro alcuni collaboratori (Brancati, P.P. Trompeo, A. Tilgher) e inserendo molti dei suoi argomenti prediletti: la moda, il cinema, l'arte popolare, la Roma "quotidiana", Napoleone, Renan, la caricatura.

In buoni rapporti con Rizzoli, questi gli affidò la direzione della collana "Il sofà delle muse", brillantemente inaugurata da Il deserto dei Tartari di Buzzati (Milano 1940). Nel giugno 1940, allo scoppio della guerra, fu nominato da A. Pavolini consulente tecnico-artistico del ministero della Cultura popolare; in quella veste partecipò alla redazione di Fronte. Giornale del soldato, pubblicato ancora da Tumminelli, e curò personalmente alcuni manifesti per la propaganda di guerra, un primo passo sulla via dell'ideazione di manifesti pubblicitari quali effettivamente avrebbe realizzato nel dopoguerra su Il Borghese (fra molti altri per Vov, Fiat, Borsalino, Olivetti, Agipgas, Pirelli, Cirio, Cynarsoda), a ulteriore dimostrazione della sua istintiva capacità di utilizzare gli strumenti mediatici della società di massa. Dall'ottobre 1941 iniziò a collaborare, soprattutto con illustrazioni e copertine, al Primato di Bottai; sul finire del 1942 iscrisse alla Confederazione fascista dell'industria la Longanesi editore, che contò presto su due collane, stampate da Rizzoli, "La Gaja Scienza" e "Nuova Società".

Si sa che dal 1942 in privato aveva incominciato a criticare pesantemente Mussolini e che non aveva alcuna fiducia in una positiva risoluzione della guerra. Quando si arrivò al 25 luglio 1943, insieme con Benedetti, Flaiano e Pannunzio pubblicò su Il Messaggero un articolo titolato Per la patria, di tono nettamente moderato senza alcuna forzatura critica nei confronti del fascismo. Contemporaneamente si occupava di cinema, da tempo un altro fra i suoi più spiccati interessi.

L'amore per il cinema del L., anche in questo caso ben consapevole dell'enorme impatto del mezzo come strumento di propaganda, risaliva alla metà degli anni Venti: ne aveva scritto e fatto scrivere sui suoi giornali, e nel gennaio 1933 (sul n. 17-18 dell'Italiano) aveva pubblicato l'abbozzo di una sua sceneggiatura, Film dal vero, in nove piccoli episodi che mostravano una decisa propensione per una sorta di pre-neorealismo. Nel 1938, insieme con I. Perilli, aveva contribuito alla sceneggiatura di Batticuore di M. Camerini e, sempre con Perilli, nel 1941, aveva steso soggetto e sceneggiatura del Fra' Diavolo di L. Zampa. Nei 45 giorni che corrono dal 25 luglio all'8 sett. 1943, lavorando per la prima volta come regista, cercò di portare a termine Dieci minuti di vita - prodotto da R. Marcellini, sceneggiato con Flaiano, Orsola Nemi, Stefano Vanzina (Steno), e un cast di tutto rispetto: Soldati come aiuto, fotografia di A. Tonti, attori come G. Cervi, R. Lupi, G. Tumiati, V. De Sica, Emma Gramatica -, storia assai longanesiana di un vecchio anarchico che mette una bomba in un palazzo e poi, per evitare vittime, va ad avvertire tutti gli inquilini, intersecando così cinque diverse tranches de vie. Il film fu completato a Torino, profondamente modificato, da N. Giannini e uscì con il titolo di Vivere ancora. La sceneggiatura originale apparve successivamente nel Caffè politico e letterario (IX [1961], 3, pp. 9-42).

Dopo la liberazione di Mussolini (12 sett. 1943), il L. seppe di essere stato inserito dai repubblichini fra i "giornalisti traditori". Timoroso di possibili rappresaglie nella città occupata dai Tedeschi, insieme con Steno e R. Freda decise di raggiungere Alleati e badogliani al Sud; partito da Roma a metà settembre, facendo sosta in Abruzzo arrivò a Napoli ai primi di ottobre. Qui, anche con l'aiuto di Garosci e Pintor, fu ammesso a far parte del Centro italiano di propaganda, istituito dagli Americani, che gli affidò una piccola rubrica umoristica, "Stella bianca", a Radio Napoli ricevendo come compenso vitto e alloggio.

L'esperienza napoletana fu traumatica per il L.: abituato, nonostante i fastidi, del resto contenuti, avuti dal regime, a godere di stima, considerazione e di un'agiata vita borghese, si trovò pressoché solo in una città, distrutta fisicamente e moralmente dalla guerra, che lo disgustava e lo impauriva; si sentiva inoltre guardato con totale disinteresse dagli Alleati e quasi con disprezzo dagli antifascisti, dai quali aveva creduto di poter essere riconosciuto come compagno di strada. Nel 1944 chiese la tessera del partito comunista, che gli fu rifiutata. Sicuramente legato anche a tali esperienze è il suo atteggiamento astioso, profondamente irrispettoso verso l'antifascismo, di cui vide solo gli aspetti rivendicativi e meschini senza riuscire a valutare e comprendere l'alta moralità dei molti che avevano scelto con coraggio e pagato di persona.

Rientrato a Roma il 1° luglio 1944, per breve tempo come tanti "reduci" seguì la trafila dei piccoli mestieri del dopoguerra (si occupò di romanzi polizieschi, collaborò a settimanali di "bassi consumi giornalistici"; con Steno e Castellani scrisse una rivista di scarso successo, Il suo cavallo). Ma nel 1945 riprese i contatti con Rizzoli e quell'anno uscì il 25° volume nel "Sofà delle muse", il Libro degli appunti di Katherine Mansfield, tradotto dalla Morante. Soprattutto il L. aveva capito che c'era poco o nulla da temere dalla nuova classe politica e che avrebbe potuto riprendere tranquillamente non solo il suo lavoro ma anche l'antico ruolo di impietoso fustigatore, ora dei nuovi costumi e delle nuove debolezze della società italiana. Sempre nel 1945, durante un soggiorno a Milano venne in contatto con l'industriale Giovanni Monti il cui figlio, Mario, interessato al settore editoriale, era stato indirizzato al L. da O. Vergani. L'accordo per la fondazione di una nuova casa editrice fu raggiunto abbastanza velocemente e il contratto firmato il 1° febbr. 1946: il L., che si trasferiva con la famiglia a Milano, destinava alla Longanesi & C. ogni sua attività e competenza (con l'eccezione della produzione pittorica) nonché il magazzino proveniente da precedenti attività editoriali; era globalmente responsabile della direzione editoriale e riceveva una partecipazione azionaria e uno stipendio di 60.000 lire; Monti metteva il capitale e aveva il controllo della gestione finanziaria dell'impresa.

Senza alcun aiuto interno, con un'unica segretaria cui si affiancò un giovane collaboratore, B. Licitra, destinato a diventare amministratore della società e ottimo gestore della rete di distribuzione e vendita, il L. si servì soprattutto di consulenti esterni più o meno regolari, Ansaldo fra i primi. Contemporaneamente preparò l'uscita di un bollettino editoriale mensile, Il Libraio (15 luglio 1946 - dicembre 1949, di formato medio, in 12 pagine, stampato a rotocalco) che si occupava, principalmente ma non esclusivamente, di segnalazioni relative alla casa editrice - interviste e discussioni con gli autori, rubriche di varietà ("Il giardino dei supplizi", "Giro del mondo", "Il vizio dei premi") -, secondo un modulo che avrebbe preso piede in numerose aziende analoghe.

La linea editoriale della Longanesi corrispose alle direttive fondamentali di tutta la precedente attività del L. e dunque, in definitiva, al suo carattere individualista e anarchico, accentratore e "interventista". Articolata in un nutritissimo numero di collane (la prima si chiamò "La Fronda", poi "Il Labirinto" per le opere filosofiche, "I Marmi", "La Buona Società", "Piccola Biblioteca", "I Cento libri", ecc.), arricchita dalla possibilità di spaziare, anche per una maggiore disponibilità economica, in un mercato autoriale molto più vasto in Italia e all'estero, ci si ritrova il gusto della scoperta di autori nuovi od ormai giunti a maturazione, italiani e stranieri (Flaiano vi pubblicò il suo Tempo di uccidere, vincitore dello Strega nel 1947, Brancati, Il bell'Antonio, Orsola Nemi, Maddalena delle paludi; il L. stampò per primo Françoise Sagan e inoltre pubblicò A. Gide, J. Reed, C. Isherwood, E. Cassirer, V. Cajumi, Gorresio, Gentile, P. Monelli, Montanelli); quello di ristampare i classici, meglio se con opere un po' dimenticate e comunque in ottime traduzioni; la passione per un "antiquariato" letterario curioso e insolito; la leggerezza di argomenti stravaganti, tuttavia garantita da firme di prestigio e sorvegliata da un'attenta cura professionale; il prodotto per palati raffinati e la letteratura d'evasione con particolare attenzione alle curiosità del pubblico sempre più avido d'indiscrezioni sapide (per tutti Le memorie del cameriere di Mussolini di Q. Navarra), gialli, libri di letteratura scientifica e libri per ragazzi.

Curatissimo, come d'abitudine, sul piano della grafica, realizzò in dieci anni di attività un catalogo ricchissimo e una linea "ideologica" molto più aperta e varia di quanto avrebbe potuto far pensare la coeva attività del L. come giornalista e scrittore. In effetti, negli anni Cinquanta la Longanesi riempì un vuoto nel panorama editoriale italiano, creando un modello di casa editrice di medie dimensioni, originale e raffinata, immediatamente riconoscibile, sul piano grafico come su quello dei contenuti, a suo modo paradossalmente più libera di altre, perché di fatto meno influenzata da una specifica parte politica.

Diverso fu il caso de Il Borghese, la rivista fondata nel 1950 (il primo numero è del 15 marzo, con periodicità quindicinale, settimanale dal 23 apr. 1954; piccolo formato tipo Economist, su due colonne e sulla carta giallo paglierino utilizzata per la casa editrice) che, nulla aggiungendo al magistero del L. come giornalista, presenta tuttavia alcuni punti di interesse in una prospettiva sociopolitica.

Riproposizione un po' stanca di alcuni elementi del vecchio armamentario di Strapaese, sostenuti da un atteggiamento morale più scettico e allusivo che mai, il ruolo del "nemico" fu affidato all'antifascismo, al comunismo, alla grande borghesia riposizionatasi a sinistra, al proletariato becero, cui si aggiunse, con il passar del tempo, una iniziale critica alla ormai incombente società dei consumi. Il Borghese reiterò soprattutto, con gli abituali meccanismi, l'eterno tema, questo sì molto longanesiano, della critica a una classe dirigente inadeguata, adesso quella fornita dalla Democrazia cristiana, rispetto alla quale il L. e la sua rivista si posizionarono, in definitiva e come sempre, all'interno (rifiutando, nonostante un'indubbia aura nostalgica e una posizione di spiccato "revisionismo" nei confronti del Ventennio, un rapporto più stretto con la destra neofascista) ma da cui contemporaneamente si tennero a distanza, fustigandone l'ignoranza, la mancanza di nerbo nella lotta al comunismo, la sciatteria etica e culturale, le continue compromissioni progressivamente individuate nei vari momenti della storia politica italiana.

Pur con l'abituale presenza dei soliti nomi (Ansaldo, Prezzolini, Furst, la Nemi), e di alcuni giovani di più definita osservanza neofascista che, alla morte del L., avrebbero preso il controllo del giornale (M. Tedeschi, Gianna Preda, P. Buscaroli), Il Borghese fu anche la camera di decompressione - qualcuno scrisse il luogo di vacanza -, spesso sotto pseudonimo, di una parte del giornalismo italiano caratterialmente conservatore (Montanelli in primis che si firmava A. Siberia o Adolfo Coltano, e molti altri con lui), fascista senza troppa convinzione ma anche senza vera repulsione, almeno fino al '43, che ora si vedeva proiettata in una realtà politica e lavorativa che non le corrispondeva fino in fondo. La rivista divenne inoltre un punto di riferimento per quella parte della borghesia nazionale, piccola e media, sostanzialmente democristiana, particolarmente meridionale, che aveva sofferto la guerra ma non aveva condiviso né compreso i valori della Resistenza, che aveva paura del comunismo egemonizzatore della sinistra, ed era infastidita dall'impresentabilità culturale del qualunquismo alla Giannini. Fu proprio questo particolare appeal dell'ideologia longanesiana a rendere plausibile, seppur per breve tempo, la trasformazione del Borghese in movimento politico o una sua utilizzazione "forte" in questa direzione (si pensi agli episodi de Il Garofano rosso - un foglietto semiclandestino, fittiziamente insediato a Parigi, subdolamente ma violentemente anticomunista, finanziato principalmente da E. Mattei, che uscì dal giugno 1952 al marzo 1953 - e dei Circoli del Borghese del 1955), subito abortita per la costituzionale idiosincrasia del L. a ogni forma di impegno autenticamente ed esclusivamente politico.

I libri scritti dal L., acutamente ed esaustivamente definito da Montanelli "un memorialista epigrammatico", furono pubblicati quasi tutti nel dopoguerra.

Essi costituiscono, in effetti, una sorta di "diario italiano": talvolta in forma di raccolta di vicende familiari, piccoli episodi di cronaca, incontri al caffè, aforismi, battute brucianti, a formare il ritratto del loro autore e più in generale dell'Italia, prima, durante e dopo il fascismo (Parliamo dell'elefante (frammenti di un diario), Milano 1947; Il destino ha cambiato cavallo, ibid. 1951; Un morto fra di noi, ibid. 1952; Ci salveranno le vecchie zie, ibid. 1953; La sua signora, ibid. 1958); in altri, un analogo contenuto è organizzato in album fotografici accompagnati da didascalie significative (Storia di cinquant'anni, Milano 1949; Una vita. Romanzo album, ibid. 1950); o ancora, particolarmente originale per struttura compositiva, In piedi e seduti (ibid. 1948), un ritratto dell'Italia dalla marcia su Roma all'armistizio, costituito da un collage di brani di giornali, sequenze di diario, carteggi, interviste, telegrammi, epigrafi di cortile. Per quanto la scrittura del L. sia alleggerita dal paradosso, dalla forma epigrammatica che la rende rapida e di immediata comunicazione, mirabolante per il gioco d'intelligenza di cui si nutre, il costante malcontento per tutto e su tutto, che trascolora soprattutto negli ultimi anni nel fastidio di sé e per sé, può in qualche momento comunicare al lettore quasi un senso di ripetitività e di insofferenza. Nei primi anni Quaranta aveva scritto per il teatro, atti unici soprattutto (Una conferenza, Il commendatore, La colpa è dell'anticamera, Troppo facile), che erano stati anche messi in scena.

Il L. svolse un'intensa attività pittorica e si può dire che incominciò a disegnare prima ancora che a scrivere.

Autore di non molti quadri e di numerosissimi disegni il L. "per tutta la vita tracciò centinaia di schizzi per spiegare a un tipografo come impostare una pagina, suggerire a un architetto come progettare una casa, per dire a un tipografo che taglio dare a un'immagine" (P. Longanesi, in L. L. 1905-1957, p. 22). Nei soggetti si leggono spesso piccole ossessioni, del resto ricorrenti anche nella sua produzione letteraria: la famiglia, la coppia, la donna e l'eros, il macabro e la morte, la politica, il ritratto e l'autoritratto; più ancora che semplici caricature, i suoi disegni riflettono inquietudine, amarezza, l'accesa critica del costume italiano; come già accennato, gli esempi e le fonti cui il L. guardò sono rintracciabili nell'opera di Daumier, H. de Toulouse Lautrec e soprattutto Grosz. Disegnava a penna o con un pennello cinese, acquarellava con il caffè, faceva litografie, xilografie e fotomontaggi. Pittura e disegno lo attraevano molto, ma al tempo stesso gli davano un senso di affanno e di insoddisfazione, come ricorda Appella (ibid., p. 14). I pochi momenti di serenità degli anni Quaranta lo portarono a realizzare due piccoli capolavori: Roma, del 1941 (Roma, Galleria naz. d'arte moderna) e Angelo romano (coll. privata), due omaggi a Scipione (G. Bonichi), in cui il L. riuscì stranamente a far uso di colori tenui, mentre di solito usava solo colori sfrenati, neri profondi, all'interno di visioni sempre a metà tra l'onirico e il caricaturale come nel Ragioniere del 1950 o nel Fantomas (1950, Milano, Eredi Longanesi). Anche in arte fantasioso, critico, acuto, sostanzialmente autodidatta, la pittura e il disegno lo sollecitavano continuamente; malgrado il tempo passato a studiare tecniche, colle, vernici, non riuscì mai a superare alcuni problemi, per esempio l'articolazione della mano che in tutti i suoi disegni appare rattrappita, più per un limite che per un vezzo (cfr. D. Bisutti, Il pittore L. L., in Arte, XIV [1984], 147, pp. 70-75, 119 s.).

Nel 1949 erano iniziati i primi attriti con Monti anche se il rapporto andò avanti, con alti e bassi, fino al 1956, quando, in luglio, il L. ricomprò dai suoi soci le quote del Borghese e contestualmente abbandonò la casa editrice, prendendo contatto e accordandosi con Rizzoli per far partire una nuova collana, denominata "I libri di Leo Longanesi".

Colpito da un malore improvviso il L. morì a Milano il 27 sett. 1957.

Alla sua morte tutta la cultura italiana ne riconobbe le capacità, il ruolo magistrale esercitato, il dono maieutico di suscitare negli altri idee, di rivelare ingegni; il suo limite, se tale si può definire, fu forse quello individuato da Gorresio, che scrisse (La vita ingenua, Milano 1980, p. 157): "il suo scherno implacabile poteva farci ridere ed illuderci in una possibilità di evasione, ma erano risate che non davano sollievo di coscienza, lasciandoci piuttosto l'amaro in bocca".

Fonti e Bibl.: Una bibliografia completa ed esaustiva del L. e sul L., cui si rimanda, si trova nei due cataloghi: L. L., editore, scrittore, artista 1905-1957, a cura di G. Appella - P. Longanesi - M. Vallora, Milano 1996 (con una completa cronologia della vita, delle opere, delle mostre) e P. Albonetti - C. Fanti, L. e Italiani, Faenza 1997; per il periodo successivo si tenga presente R. Liucci, L'Italia borghese di L., Venezia 2002, anch'esso corredato di ricchissima bibliografia.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Ministero della cultura popolare

Democrazia cristiana

Katherine mansfield

Colle di val d'elsa

Breviario romano