LEPTIS MAGNA

Enciclopedia Italiana (1933)

LEPTIS MAGNA (Leptis e Lepcis, nei Greci sempre λέπτις)

Pietro Romanelli

Città dell'Africa settentrionale, sulla costa fra le due Sirti. Fu fondata dai Fenici di Tiro sul principio del primo millennio a. C., all'inizio della loro colonizzazione africana. La forma originaria del nome, che non sappiamo sia di origine libica o fenicia, è in punico Lbqy o Lpqy, che i Latini trascrissero Lepeis: tale forma nella città rimase in uso incontrastatamente fino al sec. III e IV d. C. Però già tra il sec. I e il II d. C. la somiglianza del nome con quello della Leptis della Bizacena, e la maggiore facilità di pronunzia, soprattutto da parte dei Greci, dovettero introdurre, fuori della città, l'uso della forma Leptis: fu allora che, per distinguere l'una Leptis dall'altra, furono aggiunti gli appellativi di Magna e di Minus.

L'emporio fenicio godeva delle più felici condizioni per prosperare rapidamente: la terra era fertile all'intorno, sia nelle immediate vicinanze, sia più indietro, dove il terreno saliva lievemente alle colline, coperte di ulivi, e raggiungeva per gradi l'altipiano; e al luogo, che aveva comodità e sicurezza di approdo dal mare, metteva capo una delle vie commerciali più frequentate che scendevano dal centro del continente.

Secondo quanto ci dice Sallustio, tra i coloni fenici e le tribù libiche della regione si stabilirono fin da principio amichevoli rapporti: nulla d'altronde sappiamo della storia più antica della città, né delle sue relazioni amministrative o politiche sia con la patria di origine sia con le altre città della costa vicina (v. tripolitania). Un fatto, narratoci da Erodoto, che ebbe per teatro la foce del Cinyps (l'attuale uadi Caam) a poche miglia a oriente di Leptis, ci può far credere che alla fine del sec. VI a. C., dopo un probabile periodo d'iniziale floridezza, la città fosse decaduta, forse in conseguenza della decaduta potenza di Tiro e di Sidone. In quel tempo infatti una piccola schiera di Greci, guidati dallo spartano Dorieo, volle stabilirsi alla foce di quel fiume fondandovi una colonia. Il tentativo fu prontamente respinto dai Cartaginesi che, alleatisi con la tribù libica dei Maci, cacciarono i coloni e distrussero la loro città: di Leptis tuttavia non si fa menzione nell'episodio. Ma essa torna a comparire nel sec. IV con il nome, che portò poi per breve tempo, di Neapolis. Nella concisione delle fonti non è difficile rintracciare la probabile verità: Leptis decaduta, i Greci tentarono di sostituire nella regione la loro influenza, ma i Cartaginesi, gelosi della loro supremazia sulle coste a occidente della Grande Sirte, non solo provvidero a respingere i Greci, ma, a evitare un loro ritorno, fecero rifiorire la vecchia colonia di Tiro: certo questa inizia da allora il suo movimento ascensionale. Consolidatosi nel sec. IV il dominio di Cartagine, e fissato definitivamente alle Are dei Fileni il suo confine orientale, la regione compresa fra le due Sirti, designata col nome di Emporia, fece parte dell'impero cartaginese, costituendone una circoscrizione. Non sappiamo precisamente quale fosse il valore amministrativo di questa: certo Leptis ne era il centro principale, anzi forse l'unico centro urbano importante: il tributo di un talento al giorno, che Livio dice che essa pagava, va tuttavia più probabilmente riferito a tutta la regione. La città godeva inoltre dell'autonomia interna, con i sufeti per magistrati supremi, e del diritto di epigamia con gli abitanti della metropoli.

Sotto Cartagine Leptis e gli Emporia stettero fino al principio del sec. II a. C., quando, tra la seconda e la terza guerra punica, passarono in dominio dei re numidi: la soggezione a questi dovette essere peraltro più formale che effettiva, e limitata forse quasi esclusivamente al pagamento di un tributo.

Ai re numidi Leptis tentò di sottrarsi al tempo della guerra di Giugurta. Nel 111 a. C. essa mandò suoi legati al senato chiedendo l'amicizia e l'alleanza di Roma, a questa diede aiuto nei primi anni della guerra, infine nel 107 chiese a Metello una guarnigione romana: richiesta che fu accolta con l'invio di quattro coorti di Liguri. Non è a credere tuttavia che con la fine della guerra giugurtina Leptis passasse senz'altro a far parte della provincia romana: poiché i confini di questa rimasero allora invariati, e Leptis continuò ad esser compresa nel regno numida, conservando peraltro la sua autonomia interna, e rimanendo nei riguardi di Roma nella condizione di civitas foederata: se la guarnigione romana fosse ritirata non sappiamo.

Nel 46 a. C. Leptis si trovò implicata nella guerra fra Cesare e i Pompeiani alleati con Giuba: che tenesse le parti di questi ultimi è probabile, ma non certo, e quindi non è certo che si debba ritenere inflitta a lei, anziche all'altra Leptis, la multa di cui parla il de bello africano (c. 97). Comunque, l'ammontare della multa, tre milioni di libbre d'olio all'anno, pare errato se riferito alla sola città, anziché alla regione. Rovesciato il regno di Numidia e annesso il suo territorio alla provincia romana, Leptis venne a far parte di questa in qualità di città libera et immunis; come tale essa ebbe diritto di battere moneta. Con l'impero la fortuna di Leptis crebbe rapidamente: gli scavi in corso ci provano in modo indubbio che già sotto Augusto e i suoi immediati successori furono costruiti edifici grandiosi. Non di rado tuttavia la città dovette subire i danni delle invasioni dei Garamanti e delle altre tribù del mezzogiorno: un primo ricordo di queste invasioni abbiamo in occasione della guerra di Tacfarinata fra il 17 e il 24 d. C.; un secondo e assai più notevole nel 69 d. C., quando, sorta una discordia per rapine di messi e bestiami con la vicina Oea, questa chiamò in suo aiuto i Garamanti. I quali, accorsi, saccheggiarono l'agro leptitano, costringendo gli abitanti a chiudersi entro le mura: l'intervento del legato della legione, Valerio Festo, ricacciò lontano i barbari, assicurando di nuovo il pacifico traffico delle vie carovaniere, da cui la città traeva il maggiore incremento della sua prosperità. Quando Leptis passasse dalla condizione di città libera a quella di municipio non sappiamo: da Traiano ebbe il grado di colonia, mutando il suo nome in quello di Colonia Ulpia Traiana Leptis. Pare certo però che gli antichi magistrati dell'organizzazione punica, i sufeti, non fossero senz'altro aboliti, ma continuassero a sussistere, per i bisogni amministrativi della popolazione indigena, accanto ai duumviri e agli edili dell'organizzazione municipale romana.

Nel 146, da famiglia già insignita non soltanto del diritto di cittadinanza, ma anche dell'ordine equestre, nasceva a Leptis Settimio Severo. Salito al trono, questi fu largo di benefici alla sua patria, sia consolidandone la pace esterna, col respingere ancora più verso mezzogiorno le tribù ribelli, sia promuovendone lo sviluppo edilizio. sia infine concedendole lo ius italicum: in suo onore i Leptitani presero il soprannome di Septimiani. Il secolo III segna pertanto il periodo di maggiore floridezza della città, la cui popolazione, mista di elementi libici, punici, romani e greci, poteva ammontare allora intorno agli 80 mila abitanti; tale floridezza continua nel sec. IV, quando la Tripolitania, con l'ordinamento dioclezianeo, acquista completa autonomia di provincia, e Leptis ne è, secondo ogni verosimiglianza, la città capoluogo, dignità che più tardi sembra passi invece a Tacape.

Sulla fine del sec. IV, fra il 363 e il 366, le ripetute invasioni degli Austuriani cagionano alla provincia e alla città gravissimi danni: a quelli portati dai barbari Leptis ne aggiunge altri dovuti alle mene disoneste del Comes Africae Romano: le campagne sono le prime a risentirne, e l'incipiente abbandono di esse si riflette sull'abitato urbano, contro cui tendono la loro insidia le sabbie e gli apporti alluvionali del fiume. Le condizioni si aggravano per lo scisma donatista (Leptis è dalla fine del secolo II sede di vescovado) e per la conquista vandala, dopo il 455. Dai Vandali la Tripolitania fu pressoché abbandonata a sé stessa, e dell'abbandono si avvantaggiarono le tribù berbere dell'interno, fra le quali primeggiava quella dei Lawatāh. Fra il 527 e il 533 una scorreria di queste popolazioni fece quasi interamente deserta la città.

La riconquista bizantina, iniziata nel 533, segna per Leptis un breve periodo di rifiorimento: Giustiniano ripara i danni subiti nel periodo precedente, restaura i vecchi edifici pubblici e ne costruisce di nuovi, rafforza il giro delle mura, cui dà tuttavia un corso più ristretto, lasciandone fuori quella parte dell'abitato, a mezzogiorno, che le sabbie hanno ormai irreparabilmente sommersa. Leptis diviene ora la sede del dux o comandante militare della regione: come tale essa è teatro nel 534 di una fierissima insurrezione dei Lawatāh, terminata con la ritirata di Sergio, nipote di Solomone.

Dopo Giustiniano la decadenza della città riprende e si fa più rapida. Nel 643 giungono le prime schiere degli Arabi invasori: la vecchia metropoli punico-romana pare sia ridotta ormai a poco più che una modesta cittadina, di cui non si fa nemmeno menzione, ma il suo ricordo, come di un centro abitato e fortificato, ritorna più tardi, sulla fine del sec. VII e nel sec. IX, a proposito delle lotte fra Arabi e Berberi: il suo nome appare già trasformato nella forma viva tuttora, di Lebda. D'altro lato di un vescovo leptitano rimane traccia fino pure al sec. IX.

L'invasione hilāliana del sec. XI pone fine all'esistenza di Leptis, che appare da allora soltanto come un campo di rovine, così grandioso tuttavia da risvegliare nei viaggiatori arabi accenti di ammirazione; la popolazione arabo-berbera ormai scarsissima che rimane nel luogo si sposta verso Occidente, là dove le carte della regione dal sec. XVI in poi segnano il nome di Leggàta o Marsa Leggàta; qui infatti, sul principio del secolo scorso, sorge e si sviluppa la moderna Homs (v.).

La fine di Leptis, prima ancora che dall'abbandono degli uomini, fu determinata, come si è già accennato, dall'invasione delle sabbie e dagli apporti alluvionali del fiume, che, in epoca non ben precisata, ma certo prima della conquista bizantina, ruppe la diga costruita a deviarne il corso, e invase buona parte dell'abitato. Per l'una e per l'altra causa si venne formando nei secoli, al di sopra del piano antico della città, uno strato di materiale, che in qualche punto raggiungeva, prima dell'inizio degli scavi, un'altezza di 10-12 metri.

Le prime notizie descrittive intorno alle rovine di Leptis si hanno alla fine del secolo XVII, quando tra esse si cominciò a frugare per trarne marmi lavorati: un momento particolare del saccheggio di Leptis dobbiamo porre intorno al 1687, quando il console francese a Tripoli, Claudio Lemaire, sfruttò a tal fine una clausola posta nei trattati fra il re di Francia e la reggenza barbaresca, e in poco più di un anno inviò a Parigi oltre 600 colonne da adoperare per le grandi costruzioni di Luigi XIV. Il carteggio del Lemaire con i ministeri francesi è una fonte preziosa di notizie intorno agli scavi che furono da lui compiuti e allo stato delle rovine in quel tempo.

Al principio dell''800 spettano l'accurata descrizione di J.-D. Delaporte, cancelliere del consolato di Francia a Tripoli, e le lettere del capitano inglese H.W. Smith, che per incarico del re d'Inghilterra frugò di nuovo fra le sabbie traendone marmi lavorati e scritti, inviati a Windsor e a Malta. Seguono le descrizioni di P. Della Cella, dei fratelli Beechey, di H. Barth, dell'arciduca Ludovico Salvatore, fino a quelle di H. S. Cowper e di H.-M. de Mathuisieulx. La missione archeologica italiana visitò Leptis nel 1910 e 1911, senza tuttavia potervi fare scavi: né questi poterono essere avviati, per molteplici difficoltà, nei primi anni dell'occupazione italiana della Tripolitania. Essi furono iniziati nel 1920 da P. Romanelli, e continuati da R. Bartoccini e da G. Guidi, che tuttora li dirige: una larga parte della città è stata già dissepolta, rivelando, per estensione di rovine e conservazione di edifici, un insieme monumentale superiore ai più celebrati campi di scavo dell'Africa francese.

La città è situata sulla riva del mare a cavallo del torrente, che reca oggi anch'esso lo stesso nome di Lebda: tenendo conto di quelli che dovevano essere i suoi immediati sobborghi, la sua area misura circa tre km. di lunghezza da oriente a occidente, e 1 km. circa di profondità nel punto di massima estensione dalla spiaggia verso l'interno. Quanto finora conosciamo della città spetta interamente al periodo romano e a quello bizantino; che la città punica si stendesse nello stesso luogo, naturalmente in più ristretta superficie, possiamo ritenerlo per certo. Incerto è invece se la stessa ubicazione abbia avuto anche il primitivo centro fenicio: il promontorio che si protende in mare, a settentrione della foce del fiume, ha tutti i caratteri per potere essere ritenuto sede di un emporio commerciale marittimo, quale doveva essere quello fondato dai Fenici.

Ma il promontorio è probabilmente, almeno in parte, di formazione artificiale; né d'altra parte, mancano sulla costa attigua, soprattutto nel luogo dell'odierna Homs e ad occidente di questa, altri punti egualmente adatti a uno stabilimento del genere: e non è improbabile che nella nuova fondazione della città, operata dai Cartaginesi posteriormente alla cacciata di Dorieo, si fosse cambiata la sua posizione: soltanto le ulteriori ricerche saranno in grado di chiarire questo problema.

La parte più importante della città, con i grandi edifici pubblici, era sulla riva sinistra del fiume, alla cui foce era scavato il porto: ad ovviare ai pericoli che agl'impianti portuali potevano arrecare le piene del fiume, il corso di questo era stato, a monte della città, deviato mediante una poderosa diga e avviato nel letto di un altro torrente, l'uadi er-Rsaf, che sfocia al mare a occidente dell'abitato.

La città fu certamente cinta di mura, fino dal primo secolo dell'impero, meno, naturalmente, che dal lato del mare: un largo tratto di esse, forse tuttavia nel loro restauro bizantino, si cela sotto l'alta duna, perpendicolare al mare, che si leva a occidente del gruppo principale delle rovine; incerto è il loro corso a mezzogiorno, nella parte sulla sinistra del fiume; altri tratti se ne vedono invece sulla destra di questo, dove venivano a cadere sul mare subito a oriente del porto. Della cerchia bizantina, più ristretta, un notevole avanzo, con una porta, è venuto in luce a sud-ovest del Foro vecchio, là dove essa veniva ad appoggiarsi alle poderose mura del Foro imperiale, che era stato, per risparmio di tempo e di lavoro, incorporato nella nuova fortificazione.

Lungo la probabile linea meridionale delle mura si alzava l'arco quadrifronte di Settimio Severo. Un fornice ne era ancora in piedi nel 1911 (v. fig. s. v. arco, IV, p. 111); più tardi esso cadde, e rimase superstite un solo piedritto: l'esplorazione ha tuttavia rivelato non solo la precisa sua pianta, ma ha fatto recuperare, quasi forse nella sua integrità, la decorazione architettonica e scultoria del monumento. Nessun resto si è trovato di epigrafi: ma anche in assenza di queste possiamo essere certi che l'arco era dedicato a Settimio Severo e ai suoi figli: esso va datato probabilmente fra il 203 e il 204.

L'arco, di pianta quasi esattamente quadrata, era leggermente sopraelevato rispetto alle strade che vi s'incrociavano sotto: come la cupola s'impiantasse e si raccordasse con la base quadrata, non sappiamo. Particolarmente importanti sono le sculture, come documento storico e come prodotto d'arte provinciale del principio del secolo III. Rilievi minori, che trovavano posto forse nelle specchiature interne dei pilastri, portano figure di divinità e una scena di assedio di città, in cui si è voluto vedere un' allusione alle campagne orientali di Settimio Severo; grandi composizioni, destinate alle quattro facce esterne, dànno rappresentazioni di carattere storico: il trionfo di Settimio Severo e dei suoi figli, il sacrificio a Giulia Domna, l'assunzione di Geta all'impero.

Poco a oriente dell'arco è un vasto edificio termale. Esso copre, con la palestra antistante, un'area di oltre tre ettari. La pianta si conforma a quella delle maggiori terme imperiali di Roma, pur presentando alcune particolari disposizioni, che rivelan0 nell'architetto genialità di idee. Sull'asse centrale si distribuiscono gli ambienti maggiori: la piscina natatoria, la grande sala del frigidario, quella del calidario; ai lati di essi sono gli ambienti minori: spogliatoi, cortiletti di disimpegno, piscine, sale per bagni tepidi e sudatorî. Sui lati esterni sono gli ambienti accessorî: palestre, latrine, ecc., e sul tergo i forni e le conserve d'acqua. Un notevole complesso di queste, alimentate in parte dalle acque piovane, in parte da un acquedotto proveniente dalle grandi cisterne dell'uadi (v. oltre), si stende a sud e ad oriente delle terme: innanzi a queste, leggermente spostata, è un'ampia palestra a due absidi. L'edificio, che era decorato con straordinaria profusione di marmi e di mosaici, ed era abbellito di un grandissimo numero di sculture, in generale di buona fattura e riproducenti capolavori della plastica greca, fu costruito al tempo di Adriano; successivi restauri ebbe sotto Commodo e Settimio Severo: in età bizantina venne abbandonato, perché era stato invaso dalle sabbie.

Contigua all'abside orientale della palestra è una piazza di forma irregolare, su un lato della quale si leva un ninfeo monumentale, ad abside, sorretto dalla parte dell'uadi da una poderosa costruzione a mattoni e blocchetti (oggi Belvedere Mussolini). Di fianco ad esso una triplice arcata dà accesso a una via colonnata, fiancheggiante il letto dell'uadi, e ornata di oltre duecentocinquanta colonne: ne è in corso lo scavo, al termine del quale la monumentale arteria, che ricorda nelle proporzioni e nelle disposizioni alcune delle grandi vie colonnate di Palmira e di altri centri dell'Oriente, potrà riprendere, per il recupero quasi integrale delle colonne e degli altri elementi architettonici, il suo aspetto primitivo.

A nord-ovest di questa via è il Foro imperiale. Ritenuto dapprima, in base a un'errata interpretazione di un passo di Procopio, un palazzo, lo studio della pianta e poi lo scavo hanno provato in modo indubbio trattarsi di un foro, modellato sul tipo del Foro Traiano di Roma.

Esso constava infatti di una vasta piazza quadrangolare (m. 132 × 87), chiusa sulla fronte da un muro, e circondata all'interno da portici e botteghe; sul lato di sud-ovest si alzava un tempio, il Capitolium probabilmente, su quello opposto si stendeva, parallela, la basilica. Questa misurava m. 92 di lunghezza e 38 di larghezza; era divisa in tre navate, da colonne di granito e pilastri scolpiti a profondo rilievo, e terminava alle due estremità con due absidi, che decorava una complessa architettura di nicchie, colonne su mensole e timpani. Da un'iscrizione ripetuta due volte, sappiamo che la basilica e il foro furono iniziati da Settimio Severo, e terminati da Caracalla nel 216. Nelle iscrizioni del sec. IV il foro è designato con l'appellativo di forum novum severianum.

Al di là della basilica correva una via, chiusa fra il muro esterno di essa, che era pure fiancheggiato da colonne, e un altro muraglione che divideva il Foro severiano dal foro più antico, o Foro vecchio. Di questo è ora in corso lo scavo: frattanto si sono già, circa il mezzo di esso, riportate in luce un'esedra dedicata ai Severi e una basilica cristiana con attiguo cimitero, del sec. V; sul lato nord-occidentale si sta scoprendo un tempio su alto podio, avanti al quale si sono recuperate una bella statua di Claudio e un'iscrizione bilingue a lui dedicata e altre pregevoli sculture; verso sud-est il foro veniva a cadere sulle banchine del porto.

Questo era formato da un vasto bacino di forma poligonale, scavato artificialmente; il suo perimetro misurava circa 1690 m.: tutto all'intorno si stendevano le banchine con ormeggi in pietra; la sua bocca, piuttosto stretta, era rivolta verso levante, ed era chiusa dalla parte di mezzogiorno da un molo, molto ampio, su cui si levano un tempio e una torre; dalla parte di settentrione la proteggeva invece il lungo promontorio, cui si è già accennato, sul quale si alzava il faro.

Nella zona della città a nord-ovest del Foro imperiale si è messo in luce un ampio tratto della rete stradale con il decumanus maximus, sul quale si alzavano due archi, uno dedicato a Tiberio, l'altro, quadrifronte, a Traiano, e si è compiuto lo scavo di un mercato, di forma ottagonale, di età augustea. Da questo fino alla duna che copre le mura, l'unico edificio che si riconosce fra le sabbie è il teatro.

Sulla destra dell'uadi il terreno, anziché dunoso, è stepposo: poche sono le rovine oggi visibili, se se ne eccettuino, sul mare, resti di case e di ville, fra cui una dalla quale furono tratti bei mosaici di stile alessandrino, e, all'estremità proprio della zona monumentale, l'anfiteatro, ancora interrato, e il circo. Questo era lungo m. 450, poco meno cioè del Circo Massimo di Roma; la spina era costituita da cinque larghi bacini per acqua. Andando verso sud, ruderi di mausolei segnano l'area della necropoli, che doveva del resto distendersi tutto intorno alla città, lungo le vie che uscivano da essa: qualche resto di tomba si nota anche a occidente dell'abitato, presso l'uadi Rsaf.

Nel letto dell'uadi Lebda, a monte della città, si debbono inoltre ricordare i due grandi cisternoni, con l'acquedotto che corre innanzi ad essi, congiungendoli e proseguendo poi verso settentrione fino alle adiacenze delle terme. I due serbatoi sembra fossero in origine isolati: ambedue raccoglievano le acque piovane scorrenti sopra il loro terrazzo; quello più a valle riceveva altresì un condotto proveniente dal Cinyps; in un secondo tempo fu costruito dinnanzi a essi l'acquedotto, a muratura piena, che convogliava le acque in città.

A completare il quadro dell'intensa e fiorente vita di questa, cui tuttavia sovrastava, anche nei tempi più felici, la minaccia delle tribù del Mezzogiorno, occorre infine aggiungere sia le numerose rovine di ville signorili, che da oriente e da occidente continuavano l'abitato sul mare (una con bei mosaici fu sterrata presso il cimitero israelitico di Homs),; sia i resti di fattorie con presse per olive, che sono sparsi nella piana retrostante fino alle falde delle vicine colline, sia infine i due forti che sorgono sulle principali di queste colline: il Ras el-Mergheb e il Ras el-Hammam, ultimo anello della catena di difese costituenti il limes tripolitanus, immediata salvaguardia della ricca metropoli dalle cupidigie dei nomadi che, a mezzogiorno della zona conquistata e pacificata dai Romani, continuavano ad agitarsi. (V. tavv. CLI-CLVI).

Bibl.: Per la storia della città e gli scavi fino al 1925, v. P. Romanelli, Leptis Magna, Milano-Roma s. a. (1925); per gli scavi ulteriori: R. Bartoccini, Le Terme di Lepcis (Lepcis Magna), Bergamo 1929; R. Bartoccini, G. Guidi, S. Aurigemma, in Africa Italiana e in Rivista della Tripolitania, passim; v. anche R. Bartoccini, Guida di Lepcis (Leptis Magna), Roma-Milano s. a. (1927), ecc.

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